I intervento 18.11_Gubinelli_Laura

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I intervento 18.11_Gubinelli_Laura
Primo intervento del 18 novembre riguardante “A Portrait of the Artist as a Young Man”. Laura Gubinelli Dorian e Dedalus: due “ritratti” diversi nel romanzo di formazione Ogni opera d’arte ha il suo museo, con i suoi muri, i suoi piedistalli, i basamenti, le cornici… E la letteratura? La letteratura ha le biblioteche, le bancarelle dei rivenditori, le librerie che contengono i libri. Eppure anche la letteratura ha i suoi ritratti, le sue statue, e paesaggi, nature morte, forme astratte. Nella sala ottocentesca e, subito dopo, in quella primo–novecentesca del museo della letteratura inglese incontriamo due volti della modernità: Dorian e Dedalus. Il primo, di Oscar Wilde, è “The picture of Dorian Gray”, il secondo, di James Joyce, è “ A portrait of artist as a young man”. Nella traduzione italiana le parole picture e portrait vengono tradotte come ritratti benché il primo tra i due termini sia più intuitivamente traducibile come pittura, dipinto. Più semplicemente, operando una riduzione ai minimi termini, i titoli di entrambe le opere ci offrono un’immagine e, insieme ad essa, anche qualcosa della natura dei due romanzi. Nel primo caso il picture è un quadro, un oggetto materiale, che diventa parte attiva e che è personaggio principale insieme al protagonista; nel secondo caso, invece, il portrait non è un oggetto, come potrebbe sembrare ma sii tratta di una descrizione che, dal solo si può capire. Questo elemento comune, l’immagine, viene sfruttato in modo diverso anche se con lo stesso scopo: rendere nota la concezione artistica di ciascun autore. Con “Il ritratto di Dorian Gray” siamo di fronte a un romanzo di tipo romantico la cui narrazione si svolge secondo il classico schema di inizio – crisi – svolgimento – soluzione. E’ dunque un’opera circolare. L’azione, infatti, prende avvio da una sostituzione: Dorian, affidandosi a un diabolico desiderio, lascia che la sua anima rimanga intrappolata nel quadro che lo ritrae, permettendo che su questo si formino i segni della sua dissoluzione sia fisica sia morale, e sarà ancora una sostituzione a premettere che l’anima di Dorian torni a lui, pur dandogli la morte. Dunque la forma del romanzo, il gioco di sostituzione sono espressione della concezione poetica di Wilde in quanto riflessione sull’arte, sul rapporto tra questa e l’uomo: l’opera d’arte prende vita tanto da sopraffare l’uomo, ma la sostituzione della vita con l’arte, il tentare di vivere come un’opera d’arte, non è possibile perché è distruttivo. Il finale sanguinolento e le fiamme d’incendio che riducono a nulla Dorian, insieme al ritratto, ce lo dimostrano; ma nonostante ciò la storia ci appare come un gioco. Il ragionamento sulla commistione tra arte e vita ci porta a una semplice conclusione: l’arte è parte dell’uomo ma rimane fine a sé stessa -­‐ come Wilde scrive nella prefazione alla seconda edizione dell’opera, nel 1891, dopo lo scandalo suscitato dal romanzo. Wilde quindi ci mette in guardia: l’arte è semplicemente arte, ne fa una questione morale senza risultare moralista, divertendosi a provocare, a proporre una situazione che sia ragionamento, dissertazione pur facendola apparire come uno splendido e sofisticato oggetto d’arte. La rappresentazione è concentrica, è un picture metaforico in cui gli elementi sono uniti, perfettamente correlati, non c’è nascondimento, bensì sostituzione e la rappresentazione è costruzione. La rivelazione avviene tramite narrazione interna al processo narrativo nel momento in cui deve essere chiusa la metafora. Nel Dedalus, invece, l’immagine che possiamo osservare è una rappresentazione in divenire, è evoluzione: la vita di Stephen dalla sua infanzia fino al momento di lasciare la sua patria dopo aver terminato gli studi. Come nella narrazione, così nella forma, nel tipo di romanzo che Joyce intesse. Le tecniche usate da Joyce sono principalmente due: la speculazione di tipo scolastico e l’epifania. La prima delle due viene mutuata da Aristotele e da San Tommaso, letture a cui era dedito lo stesso Stephen. Joyce tende a costruire ragionamenti seguendo rigide regole che gli permettano di raggiungere la verità. L’epifania invece è ancora in fase embrionale, il testo serve appunto a sperimentare quella che poi sarà tecnica fondamentale in Dubliners. Soprattutto nella prima fase del romanzo, dove c’è maggiore necessità di recuperare i ricordi dell’infanzia – che sono più lontani e più vaghi – l’epifania riesce a essere la tecnica più adatta per rendere questi ricordi, mimando quasi il processo mentale di un uomo che torna indietro con la mente: la voce narrante – in terza persona – riporta le vicende infantili di Stephen secondo la cronologia naturale di svolgimento dei fatti della vita del bambino, ma di tanto in tanto, scaturiti da una parola o da un particolare della narrazione, particolare che è laterale alla scena, sorgono nuovi ricordi dell’infanzia, irrelati solo apparentemente, uniti tra loro come in un accavallarsi di onde. Per Joyce il concetto di arte non è ancora definito del tutto è in una fase di ricerca sia espressiva – si veda la sperimentazione sull’epifania – sia di genere. Tuttavia l’immagine non è l’unico elemento in comune tra queste due opere. Entrambi raccontano la vita di due persone, in particolare nel Dedalus si parte direttamente dall’infanzia, mentre nel Picture dall’adolescenza. In ogni caso i due protagonisti seguono un percorso di vita alla ricerca di una evoluzione interiore, una crescita che tocca però anche la loro formazione artistica. Si può dunque parlare di romanzo di formazione? Sì, si può perché entrambi i romanzi hanno tutti gli elementi tipici del genere. C’è da dire poi che il dissidio che si istaura tra l’eroe e il mondo che lo circonda, come pure il dissidio tra l’eroe e il proprio mondo interiore, viene elaborato però in modi diversi, con esiti diversi. Nel Picture possiamo parlare di romanzo di formazione al negativo in quanto Dorian forma sé stesso lasciandosi andare a esperienze negative che lo porteranno al suicidio. Per il Dedalus il discorso è differente perché il finale è aperto: la narrazione non termina con una sistemazione definitiva, non abbiamo a che fare con un David Copperfield che mette su famiglia: Stephen termina gli studi e sceglie l’esilio, rifiuta la famiglia, la patria e la religione. Vuole cercare un nuovo approdo, cerca un’altra strada; dunque la formazione non è finita, ma lo ha portato soltanto a una tappa dalla quale dovrà poi necessariamente ripartire, e dalla quale dovrà fare i conti con nuove domande, nuove esigenze. Questa presa di distanza da tre nuclei fondamentali dell’esistenza umana (famiglia – patria -­‐ religione) è però legata anche all’arte: Stephen vuole che la propria arte sia libera, indipendente dalle costrizioni delle sovrastrutture; Stephen prende le distanze dalla società. Dunque, almeno in modo provvisorio, la formazione è avvenuta: la formazione della concezione dell’arte. Accade lo stesso anche a Dorian: il suo estetismo, l’attaccamento all’oggetto d’arte e il tentativo di sostituzione tra arte e vita lo portano a prendere l’estrema decisione di riportare tutto alla normalità, di negare la possibilità della sostituzione. Dorian è la negazione del poeta vate, non c’è nessun schieramento: il decadentismo rifiuta il rapporto salvifico tra artista e la società dalla quale egli si distacca. Entrambi i romanzi sono, dunque, romanzi di formazione della concezione artistica di due autori: Wilde ripercorre la sua arte, compiendola in un oggetto estetico perfetto e decadente; Joyce lascia aperte le sue possibilità, sa già che la sua sperimentazione non è ancora finita: la formazione è in divenire, il processo di conoscenza non è ancora terminato. E’ già un flusso. Laura Gubinelli