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RASSEGNA STAMPA
martedì 1 luglio 2014
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IL FATTO
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PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Del 01/07/2014, pag. 2
LA PROPOSTA DELL’ARCI
Titolo di soggiorno europeo e canali
d’ingresso
Canali di ingresso umanitari e titolo di soggiorno europeo. È la «ricetta» dell’Arci per
evitare il ripetersi di nuove tragedie del mare. «La risposta dell'Europa - sottolinea l’Arci - è
stata la costituzione di Frontex, cioè di un sistema di controllo aereo-navale volto non ad
assistere ma ad impedire l'arrivo delle imbarcazioni. Eil nostro governo ne chiede il
rafforzamento, sensibile forse ai soliti attacchi scomposti della Lega, che vuole la chiusura
dell'operazione Mare Nostrum. L’Arci è invece convinta che, per evitare altre tragedie, la
via sia quella di aprire canali di ingresso umanitari, affidandone la gestione alle
organizzazioni delle Nazioni Unite che di questo si occupano (in primo luogo l'Unhcr) in
tutto il mondo. Questo non solo garantirebbe la sicurezza dei profughi,ma impedirebbe ai
mercanti di morte di continuare a fare affari sulla loro pelle». L'altra misura sollecitata
dall'associazione «è l'applicazione della direttiva europea sulla protezione temporanea in
caso di afflusso straordinario di persone in cerca di protezione, rilasciando a coloro che
arrivano dalle principali aree di crisi un titolo di soggiorno valido in tutta l'Ue. Adottare
queste due proposte sarebbe il modo migliore per iniziare il semestre di presidenza
italiana dell'Unione europea,dando un segnale chiaro di come l'Europa, fedele ai principi
della sua costituzione».
Da Adn Kronos e
Repubblica.it (Palermo) del 30/06/14
Immigrati: Arci, servono canali umanitari e
permesso di soggiorno europeo
Roma, 30 giu. (Adnkronos) - "Aprire canali di ingresso umanitari e applicare la direttiva
europea sulla protezione temporanea in caso di afflusso straordinario di persone in cerca
di protezione". Sono queste le misure necessarie - secondo l'Arci - per evitare altre
tragedie del mare, dopo la morte di trenta migranti per asfissia su un peschereccio stipato
al punto da impedire ad alcuni degli imbarcati di respirare. "Adottare queste due proposte prosegue l'Arci - sarebbe il modo migliore per iniziare il semestre di presidenza italiana
dell'Unione europea, dando cioè un segnale chiaro di come l'Europa, fedele ai principi
della sua costituzione, debba sempre più qualificarsi come Unione dei diritti e della
solidarietà". Siamo di fronte "all'ennesima tragedia che si consuma nel tratto di mare oggi
diventato la rotta più pericolosa del mondo", commenta l'Arci, ricordando che "dall'inizio
del 2014, con l'operazione Mare Nostrum in corso, sono circa cinquantamila i migranti
giunti dalle coste del Nord Africa nell'Italia Meridionale e in particolare in Sicilia". L'Arci si
dice convinta dunque che "la via sia quella di aprire canali di ingresso umanitari,
affidandone la gestione alle organizzazioni delle Nazioni Unite che di questo si occupano
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(in primo luogo l'Unhcr) in tutto il mondo. Questo non solo garantirebbe la sicurezza dei
profughi, ma impedirebbe ai mercanti di morte di continuare a fare affari sulla loro pelle.
L'altra misura che chiediamo venga presa subito - prosegue l'Arci in una nota - è
l'applicazione della direttiva europea sulla protezione temporanea in caso di afflusso
straordinario di persone in cerca di protezione (Direttiva 2001/55/CE del 20 luglio 2011),
rilasciando a coloro che arrivano dalle principali aree di crisi un titolo di soggiorno valido in
tutta l'Ue".
Da Redattore Sociale del 30/07/14
Sbarchi. Arci: “Basta morti, canali umanitari e
permessi di soggiorno europei”
Secondo l’associazione adottare queste due proposte sarebbe il modo
migliore per iniziare il semestre di presidenza italiana dell’Unione
europea. “Il mediterraneo è diventato la rotta più pericolosa del mondo”
ROMA – Aprire canali umanitari e rilasciare un titolo di soggiorno per permettere a chi
arriva di potersi spostare nel resto dell’Europa. A chiederlo è l’Arci all’indomani
dell’ennesima tragedia del mare, costata la vita a 30 persone, morte per asfissia su un
barcone a largo delle coste siciliane.
“Altre trenta vittime. Questa volta morte per asfissia su un peschereccio stipato al punto
da impedire ad alcuni degli imbarcati di respirare – scrive l’associazione in una nota -.
L’ennesima tragedia che si consuma nel tratto di mare oggi diventato la rotta più
pericolosa del mondo”. Dall'inizio del 2014, con l'operazione Mare Nostrum sono circa
cinquantamila i migranti giunti dalle coste del Nord Africa nell'Italia Meridionale e in
particolare in Sicilia. “Queste persone, che portano il peso di violenze subite sia nei luoghi
da cui fuggono, sia durante il lungo viaggio per raggiungere l’Europa, hanno diritto a
ricevere la protezione che le loro condizioni di vulnerabilità e sofferenza richiedono –
continua l’Arci - Purtroppo non è questo che succede. La risposta dell’Europa è stata la
costituzione di Frontex, cioè di un sistema di controllo aereonavale volto non ad assistere
ma ad impedire l’arrivo delle imbarcazioni. E il nostro governo ne chiede il rafforzamento,
sensibile forse ai soliti attacchi scomposti della Lega, che vuole la chiusura dell’operazione
Mare Nostrum”.
Per evitare altre tragedie, la via da seguire secondo l’Arci è quella di “aprire canali di
ingresso umanitari, affidandone la gestione alle organizzazioni delle Nazioni Unite che di
questo si occupano (in primo luogo l’Unhcr). Questo non solo garantirebbe la sicurezza dei
profughi, ma impedirebbe ai mercanti di morte di continuare a fare affari sulla loro pelle”.
L’altra misura da mettere in campo è l’applicazione della direttiva europea sulla
protezione temporanea in caso di afflusso straordinario di persone in cerca di protezione
(Direttiva 2001/55/CE del 20 luglio 2011), “rilasciando a coloro che arrivano dalle principali
aree di crisi un titolo di soggiorno valido in tutta l’Ue”. “Adottare queste due proposte
sarebbe il modo migliore per iniziare il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea
– conclude la nota -, dando cioè un segnale chiaro di come l’Europa, fedele ai principi
della sua costituzione, debba sempre più qualificarsi come Unione dei diritti e della
solidarietà.
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Da Asca del 30/06/14
Immigrati: Arci, canali umanitari e titolo di
soggiorno europeo
(ASCA) - Roma, 30 giu 2014 - Per evitare altre tragedie nel Mediterraneo, ''la via e' quella
di aprire canali di ingresso umanitari, affidandone la gestione alle organizzazioni delle
Nazioni Unite che di questo si occupano in tutto il mondo''. Un modo questo che
garantirebbe la sicurezza dei profughi, ma impedirebbe ai mercanti di morte di continuare
a fare affari sulla loro pelle. A chiederlo e' l'Arci che suggerisce anche che venga subito
applicata la direttiva europea sulla protezione temporanea in caso di afflusso straordinario
di persone in cerca di protezione (Direttiva 2001/55/CE del 20 luglio 2011), rilasciando a
coloro che arrivano dalle principali aree di crisi un titolo di soggiorno valido in tutta l'Ue.
''Adottare queste due proposte - afferma l'Arci - sarebbe il modo migliore per iniziare il
semestre di presidenza italiana dell'Unione europea, dando cioe' un segnale chiaro di
come l'Europa, fedele ai principi della sua costituzione, debba sempre piu' qualificarsi
come Unione dei diritti e della solidarieta'''.
Da Ansa del 30/06/14
Strage barcone: Miraglia (Arci), semestre Ue
sia svolta
Servono canali ingresso umanitari e flussi straordinari
ROMA
(ANSA) - ROMA, 30 GIU - L'Italia, alla vigilia dell'inizio di presidenza del semestre Ue
deve dare priorità alle politiche di immigrazione con una proposta concreta che preveda
canali di ingresso umanitari e permessi di soggiorno per flussi straordinari. Lo sostiene,
all'indomani dell'ennesima tragedia nel canale di Sicilia, il vice presidente dell'Arci Filippo
Miraglia.
"L'Europa deve prendere atto che queste persone fuggono dalle guerre - spiega Miraglia e dunque consentire l'accoglienza in base ai meccanismi previsti dalle Nazioni Unite.
Permessi di soggiorno temporanei e distribuzione dei rifugiati per quote tra le nazioni".
"La situazione in Siria, ma anche nel Corno d'Africa - aggiunge Miraglia - spinge uomini e
donne a fuggire verso lidi più sicuri ma è anche necessario capire che la maggior parte di
queste persone poi torneranno in patria. Dunque la strategia deve essere quella di
affrontare l'emergenza". Secondo il vice presidente dell'Arci servono quindi "canali di
ingresso umanitari e flussi straordinari per consentire l'ingresso in Europa a chi fugge per
sopravvivere". Miraglia si dice invece contrario al rafforzamento di Frontex: "servirebbe
solo - dice - ad aumentare le difficoltà di chi vuole entrare in Europa, favorendo il traffico di
esseri umani con l'aumento dei prezzi e dei morti"(ANSA).
Da Unita.it del 30/06/14
ARCI | Canali umanitari
e titolo di soggiorno europeo
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"Altre trenta vittime. Questa volta morte per asfissia su un peschereccio stipato al punto da
impedire ad alcuni degli imbarcati di respirare. L’ennesima tragedia che si consuma nel
tratto di mare oggi diventato la rotta più pericolosa del mondo" scrive l'Arci.
"Dall'inizio del 2014, con l'operazione Mare Nostrum in corso, sono circa cinquantamila i
migranti giunti dalle coste del Nord Africa nell'Italia Meridionale e in particolare in Sicilia.
Queste persone, che portano il peso di violenze subite sia nei luoghi da cui fuggono, sia
durante il lungo viaggio per raggiungere l’Europa, hanno diritto a ricevere la protezione
che le loro condizioni di vulnerabilità e sofferenza richiedono.
Purtroppo non è questo che succede. La risposta dell’Europa è stata la costituzione di
Frontex, cioè di un sistema di controllo aereo-navale volto non ad assistere ma ad
impedire l’arrivo delle imbarcazioni. E il nostro governo ne chiede il rafforzamento,
sensibile forse ai soliti attacchi scomposti della Lega, che vuole la chiusura dell’operazione
Mare Nostrum".
"L’Arci è invece convinta che, per evitare altre tragedie, la via sia quella di aprire canali di
ingresso umanitari, affidandone la gestione alle organizzazioni delle Nazioni Unite che di
questo si occupano (in primo luogo l’UNHCR) in tutto il mondo. Questo non solo
garantirebbe la sicurezza dei profughi, ma impedirebbe ai mercanti di morte di continuare
a fare affari sulla loro pelle. L’altra misura che chiediamo venga presa subito è
l’applicazione della direttiva europea sulla protezione temporanea in caso di afflusso
straordinario di persone in cerca di protezione (Direttiva 2001/55/CE del 20 luglio 2011),
rilasciando a coloro che arrivano dalle principali aree di crisi un titolo di soggiorno valido in
tutta l’UE".
"Adottare queste due proposte sarebbe il modo migliore per iniziare il semestre di
presidenza italiana dell’Unione europea, dando cioè un segnale chiaro di come l’Europa,
fedele ai principi della sua costituzione, debba sempre più qualificarsi come Unione dei
diritti e della solidarietà".
del 01/07/14, pag. 3
Alfano avvisa l’Europa: intervenga o
reagiremo con azioni diplomatiche
Polemica politica rovente e nuovo piano del governo. Il ministro dell’Interno, Angelino
Alfano, è stato chiarissimo: «In questo semestre Ue, sull’immigrazione ci giochiamo tutto».
E ha annunciato che giovedì pomeriggio ci sarà un incontro al Quirinale tra il governo
italiano e la Commissione Ue: «Sarebbe un’assenza molto brutta quella del Commissario
Malmström all’incontro di giovedì. Se l’assenza sarà confermata reagiremo, con importanti
azioni anche sul piano diplomatico».
La giornata era iniziata con la durissima accusa di Matteo Salvini, segretario della Lega
Nord, contro il presidente del Consiglio Renzi e Alfano: «Hanno le mani sporche di
sangue», ha dichiarato Salvini a caldo, subito dopo la notizia della tragedia di ieri. Poi
aveva rincarato la dose dopo qualche ora: «Il silenzio di Renzi è vergognoso».
A Palazzo Chigi, nel pomeriggio, sono necessarie due ore di preconsiglio dei ministri per
far fronte all’ennesima emergenza e all’ennesima strage. Presenti oltre a Renzi e al
sottosegretario Delrio, i ministri della Difesa, degli Esteri, Alfano e il ministro dell’Economia
Padoan che ha dovuto affrontare il nodo finanziario.
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Renzi, al termine, afferma: «La giornata naturalmente è stata segnata dal dolore, ma
anche dalla convinzione per il grande lavoro che stiamo facendo: quanti sarebbero i morti
se non avessimo fatto le cose che abbiamo fatto?».
L’idea operativa sarebbe quella di creare degli hub regionali per accogliere i profughi, con
l’ipotesi di estendere ancora l’accoglienza, portandola a 25 mila persone, ma con la Sicilia
sempre impegnata in prima linea. Il costo dovrebbe essere di 40-50 euro a persona,
secondo il piano del Viminale (con una riduzione dei 70- 80 euro procapite che adesso
gravano sui sindaci).
Ma per varare il progetto messo a punto dal governo sarà necessaria quanto meno
un’altra settimana. Il delegato dell’Anci (comuni italiani), Giorgio Pighi, annuncia che la
situazione si sbloccherà dopo un incontro giovedì prossimo al Viminale. «Il piano è
articolato — spiega l’ex sindaco di Modena — non privo di incastri complessi, come ad
esempio il ruolo delle Regioni, che dovranno fare da cerniera per consentire in tempi rapidi
il trasferimento in diverse aree del Paese e concordare l’organizzazione per la creazione di
spazi di accoglienza, evitando quanto più possibile interventi d’urgenza sui Comuni da
parte dei prefetti».
Come segnala il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: «Da noi arrivano mille rifugiati al
giorno, siamo al limite, e il governo non riesce a distribuirli su tutto il territorio».
Secondo il responsabile immigrazione dell’Arci Filippo Miraglia sono settemila i posti già
pronti per essere attivati, ma sono fermi per mancanza di risorse e di copertura finanziaria.
Intanto nel nome dell’emergenza si adottano procedure «straordinarie» fuori dagli
standard della rete Sprar: «Politiche contraddittorie sulla pelle dei richiedenti asilo». Su
una posizione molto simile sembra schierarsi anche Maurizio Gasparri, di Fi, che se la
prende con Letta e Renzi, «colpevoli di aver dato vita a Mare Nostrum», ma anche con i
governi internazionali (Obama, Cameron, Sarkozy) rei di aver «voluto una guerra sbagliata
in Libia». Secondo i deputati dem Salvini «fa lo sciacallo e specula sui morti». In tutta la
sinistra la condanna alle parole di Salvini è netta. Da Ncd, Cicchitto e Quagliariello
bacchettano Salvini, definendolo «irresponsabile». E anche dall’Udc, arriva una dura
replica alle «indecenti speculazioni» della Lega. Dentro Forza Italia il punto centrale
sembra essere la sospensione di Mare Nostrum. Mentre il presidente dei vescovi, Angelo
Bagnasco, riferendosi alla strage , è stato categorico:«Basta con questa vergogna».
Da Radio Articolo 1 del 01/07/14
Oggi in onda
ore 12:00 - Elleradio
Che fine ha fatto lo ius soli?
Intervengono P. Gargiulo, autore di "Le forme della cittadinanza"; F. Miraglia, Arci; P.
Soldini, Cgil; E. Galossi, Ires Cgil; V. Ongini, Ministero dell'Istruzione; C. Piccinini, Inca
Da Repubblica.it del 30/06/14
La frontiera del Sud e l’assenza dell’Europa
Di Carmine Saviano
Il diritto d’asilo europeo. Un canale umanitario sicuro e protetto. Per tutti i migranti che
cercano asilo in Europa. É la soluzione proposta – per l’ennesima volta, purtroppo – da
numerose associazioni che fanno dell’accoglienza ai migranti lo spazio d’esercizio della
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propria finzione civile. Dall’Arci alla Cgil, passando per LasciateCie Entrare e Medici per i
diritti Umani. Riprendiamo qui un appello lanciato da Melting Pot Europa all’indomani della
tragedia di Lampedusa dello scorso ottobre. Una proposta per lavorare al Diritto d’asilo
Europeo. Proposta ancora, maledettamente, attuale.
Ecco il testo:
A cadenza ormai quotidiana la cronaca racconta la tragedia che continua a consumarsi nel
mezzo del confine blu: il Mar Mediterraneo.
Proprio in queste ore arriva la notizia di
centinaia di cadaveri raccolti in mare, ragazzi, donne e bambini rovesciati in acqua dopo
l’incendio scoppiato a bordo di un barcone diretto verso l’Europa.
Si tratta di richiedenti
asilo, donne e uomini in fuga da guerra e persecuzioni, così come gli altri inghiottiti da
mare nel corso di questi decenni: oltre 20.000.
Lo spettacolo della frontiera Sud ci ha abituato a guardare l’incessante susseguirsi di
queste tragedie con gli occhi di chi, impotente, può solo sperare che ogni naufragio sia
l’ultimo. Come se non vi fosse altro modo di guardare a chi fugge dalla guerra che con gli
occhi di chi attende l’approdo di una barca, a volte per soccorrerla, altre per respingerla,
altre ancora per recuperarne il relitto.
Per questo le lacrime e le parole dell’Europa che
piange i morti del confine faticano a non suonare come retoriche.
Perché l’Europa capace di proiettare la sua sovranità fin all’interno del continente africano
per esternalizzare le frontiere, finanziare centri di detenzione, pattugliare e respingere, ha
invece il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far si che chi fugge dalla
morte per raggiungere l’Europa, non trovi la morte nel suo cammino
Si tratta invece oggi di mettere al centro i diritti.
Di mettere al bando la legge Bossi-Fini e aprire invece, a livello europeo, un canale
umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee
senza doversi imbarcare alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei naufragi,
di abbattere le frontiere interne all’Europa per permettere ad ognuno di raggiungere il
luogo che desidera raggiungere.
Nessun appalto dei diritti, nessuna sollevazione di responsabilità ai governi europei,
piuttosto la necessità che l’Europa cambi profondamente la sua politica di controllo delle
frontiere, di gestione delle crisi umanitarie, la sua politica comune in materia di diritto
d’asilo: convertendo le operazioni di pattugliamento in operazioni volte al soccorso delle
imbarcazioni, gestendo in maniera condivisa le domande di protezione superando le
gabbie del regolamento Dublino, aprendo canali umanitari che permettano di presentare le
richieste di protezione direttamente alle istituzioni europee presenti nei Paesi Terzi per
ottenere un permesso di ingresso nell’Unione, dove le domande vengano esaminate con
le medesime garanzie previste dall’attuale normativa europea, senza per questo affievolire
in alcun modo il diritto di accesso diretto al Vecchio continente e gli obblighi degli Stati
Membri.
Alle Istituzioni italiane, ai Presidenti delle Camere, ai Ministri della Repubblica, chiediamo
di farsi immediatamente carico di questa richiesta.
Alle Istituzioni europee di mettersi
immediatamente al lavoro per rendere operativo un canale umanitario verso l’Europa.
Alle
Associazioni tutte, alle organizzazioni umanitarie, ai collettivi ed ai comitati, rivolgiamo
l’invito di mobilitarsi in queste prossime ore ed in futuro per affermare
il diritto d’asilo
europeo.
Qui il sito di Melting Pot Europa con l’elenco completo delle adesioni all’appello. E qui
l’ultimo rapporto annuale dell’Onu sui migranti
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2014/06/30/la-frontiera-del-sud-e-lassenzadelleuropa/
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Da Corriere.it del 01/07/14
Trecento euro al mese per una casa
in cambio di servizi per i vicini
Il progetto del quartiere Ponti e Ca’Granda-Monterotondo: il bando
aperto a giovani tra i 18 e 30 anni
Mini appartamenti a canoni agevolati ai giovani e nuovi servizi di vicinato utili al quartiere.
È questo il duplice obiettivo del progetto «Ospitalità solidale» che entra nella fase
operativa con l’apertura del bando per selezionare, nelle prossime settimane, 24 giovani
tra i 18 e i 30 anni cui assegnare altrettanti alloggi sottosoglia nei quartieri di edilizia
popolare Ponti e Ca’ Granda-Monterotondo.
Dieci ore al mese di volontariato
Lo ha annunciato l’assessore alla Casa e Demanio Daniela Benelli, insieme ad Alessandro
Capelli, delegato del Sindaco alle Politiche giovanili, alle 3 organizzazioni che gestiranno il
progetto, Arci Milano, Dar=Casa e la Cooperativa Sociale Comunità progetto, e alla
presidente del Consiglio di Zona 4 Loredana Bigatti. I giovani assegnatari pagheranno una
retta di 300 euro al mese e potranno usufruire di un percorso di orientamento
all’autonomia abitativa e lavorativa. In cambio si chiederà loro di dedicare almeno 10 ore al
mese come volontari alle attività e agli interventi sociali che verranno realizzati nel
quartiere sotto il coordinamento delle associazioni.
Da Vita.it del 01/07/14
Ospitalità Solidale, giovani protagonisti di
buon vicinato
di Redazione
Bando per 24 monolocali in quartieri di ediliza popolare di Milano. I giovani under 30
cui saranno assegnati con il Progetto Ospitalità Solidale svolgeranno servizi di
vicinato coordinati da Arci Milano, Dar=Casa e Comunità pProgetto
Un bando che ha un doppio obiettivo: permettere ai giovani di abitare in mini appartamenti
a canoni agevolati e facendo questo dar vita a nuovi servizi di vicinato utili al quartiere. A
offrire questa opportunità, presentata oggi dal Comune di Milano, è il progetto Ospitalità
Solidale che selezionerà ventiquattro giovani tra i 18 e i 30 anni cui saranno assegnati
altrettanti alloggi sottosoglia nei quartieri di edilizia popolare Ponti e Ca’ GrandaMonterotondo.
A gestire il progetto sono tre organizzazioni: Arci Milano, Dar=Casa e la Cooperativa
sociale Comunità Progetto. Alla presentazione del progetto anche la presidente di Zona 4
Loredana Bigatti.
Un appello ai giovani lo lancia l’assessore alla Casa e Demanio, Daniela Benelli «affinché
colgano questa opportunità unica. Si tratta di un progetto importante che ci consente di
riqualificare, arredare e assegnare alloggi sottosoglia, troppo piccoli per le graduatorie Erp.
Inoltre, restituendo all’uso spazi comuni inutilizzati, attiverà nuovi servizi per gli abitanti e
favorirà la coesione sociale e il reciproco aiuto. Il progetto, finanziato interamente dallo
Stato, non avrà alcun costo per l’amministrazione ma avrà un grande valore sociale per i
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giovani che vi parteciperanno e per questi quartieri, dove spesso in passato siamo
intervenuti a causa delle occupazioni abusive».
«La difficoltà di trovare casa a condizioni accessibili è tra le sfide più complesse che i
giovani si trovano ad affrontare nella costruzione dei propri percorsi di autonomia», ha
evidenziato Alessandro Capelli, delegato del Sindaco alle politiche giovanili. «Con questo
progetto, non solo si sperimenta una prima concreta risposta a una diffusa domanda di
abitazione, ma si investe anche sull’idea che ragazze e ragazzi siano risorse straordinarie
per migliorare i quartieri dove vivono».
Le tre organizzazioni, che da molti anni lavorano nel campo sociale sottolineano di aver «
accolto la sfida lanciata da questo bando comunale con l’obiettivo di rispondere alla
domanda abitativa dei giovani attraverso un progetto sperimentale. La dimensione del
bisogno di casa si accompagna al tema della socialità, dell’attivazione territoriale e
dell’attenzione alle persone e al contesto. Temi di interesse comune, che affronteremo
attraverso l’integrazione delle nostre competenze e il forte investimento messo in campo
dalle tre organizzazioni». Dar=Casa, Comunità Progetto e Arci Milano annunciano: «Ci
attiveremo affinché i giovani e le giovani coinvolti nel progetto non trovino soltanto una
risposta a un bisogno immediato come quello della casa, ma anche un’opportunità di
valorizzazione e supporto alle risorse territoriali».
Gli alloggi interessati dal bando, in pratica dei monolocali, si trovano in via Del Turchino
18/20/22 (13 appartamenti tra i 23 e i 24 metri quadri circa), via Demonte 8 (6
appartamenti di 23 metri quadri circa) e via Monte Rotondo 10 (5 appartamenti di 26 metri
quadri circa). A questi si aggiungono tre spazi comuni a uso diverso che saranno
fortemente valorizzati per attività di vicinato solidale nell’ottica della socializzazione e del
miglioramento della qualità dell’abitare.
Il progetto gode di finanziamenti statali erogati dal Dipartimento della Gioventù della
Presidenza del Consiglio dei Ministri pari a circa 430mila euro; fondi che consentiranno di
effettuare gli interventi di ristrutturazione e di arredamento degli spazi.
Il bando (in allegato) al via oggi e resterà aperto fino al 7 agosto, termine dopo il quale
sarà stilata una graduatoria pubblica e trasparente.
Potranno presentare domanda giovani tra i 18 e i 30 anni, con reddito non superiore ai
1.500 euro.
Saranno quindi ammessi alla graduatoria studenti, ricercatori, studenti-lavoratori, lavoratori
precari (contratti di stage, formazione, apprendistato, a tempo determinato, a progetto,
ritenuta d’acconto occasionale) con la sola esclusione per i giovani assunti a tempo
indeterminato.
La selezione dei giovani sarà fatta da un’apposita commissione (costituita da membri delle
3 organizzazioni) dopo i colloqui personali con i candidati che partiranno dal mese di
settembre.
Secondo il progetto i giovani che risulteranno assegnatari degli appartamenti pagheranno
una retta di 300 euro al mese e potranno usufruire di un percorso di orientamento
all’autonomia abitativa e lavorativa.
In cambio si chiederà loro di dedicare almeno 10 ore al mese come volontari alle attività e
agli interventi sociali che saranno realizzati nel quartiere sotto il coordinamento delle
associazioni. Le attività proposte partiranno dai bisogni della popolazione, interesseranno
bambini, adulti e anziani e potranno essere sia individuali sia di gruppo: dal contrasto alla
solitudine degli anziani soli, al supporto scolastico per i bambini, passando per l’uso
condiviso degli spazi comuni. Interventi che - viene sottolineato in una nota - saranno
aperti alle proposte, ai gruppi ed alle attività già esistenti nei quartieri.
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Da Redattore Sociale del 01/07/14
Ospitalità solidale: 24 appartamenti a giovani
che vogliono fare volontariato
Bando promosso da Comune di Milano insieme ad Arci, Dar=Casa e
Cooperativa sociale comunità progetto. Le case sono tutte sotto soglia
e si trovano nei quartieri di edilizia popolare Ponti e Ca' Granda. Per
presentarsi gli under 30 hanno tempo fino al 7 agosto
MILANO - Ventiquattro alloggi sotto soglia di proprietà del Comune di Milano verranno
assegnati a giovani tre i 18 e i 30 anni, con un canone di 300 euro al mese a cui si
aggiungono al massimo 70 euro di spese condominiali. In cambio, gli inquilini si
presteranno per 10 ore al mese ad attività di volontariato con le associazioni del quartiere.
È quanto previsto dal bando Ospitalità solidale, che riceverà le candidature dei milanesi
interessati fino alle 12 del 7 agosto. I requisiti, oltre alla fascia di età, riguardano il reddito,
che deve essere inferiore ai 1.500 euro al mese. Per partecipare, è necessario spedire il
proprio curriculum con allegato un testo di 60 righe in cui il candidato descrive come si
immagina le attività di volontariato nel quartiere. Per ulteriori informazioni il sito è
arcimilano.it/ospitalitasolidale/. La selezione dei giovani verrà fatta da un’apposita
commissione (costituita da membri delle 3 organizzazioni) a seguito di colloqui personali
con i candidati che partiranno dal mese di settembre.
Il progetto Ospitalità solidale vede collaborare insieme Comune di Milano, Arci Milano,
Dar=Casa, la Cooperativa Sociale Comunità progetto e il Consiglio di Zona4. Gli
appartamenti coinvolti si trovano nei quartieri di edilizia popolare Ponti e Ca' Grande.
Essendo case sotto i 30 metri quadrati non possono più essere assegnate nelle
graduatorie dell'Erp e così il Comune ha deciso di dare loro una nuova vita.
Gli alloggi si trovano in via Del Turchino 18/20/22 (13 appartamenti tra i 23 e i 24 metri
quadri circa), via Demonte 8 (6 appartamenti di 23 metri quadri circa) e via Monte Rotondo
10 (5 appartamenti di 26 metri quadri circa). ?A questi si aggiungono 3 spazi comuni ad
uso diverso che verranno fortemente valorizzati per attività di vicinato solidale nell’ottica
della socializzazione e del miglioramento della qualità dell’abitare. ?Il progetto gode di
finanziamenti statali erogati dal Dipartimento della Gioventù della Presidenza del Consiglio
dei Ministri pari a circa 430 mila euro; fondi che consentiranno di effettuare gli interventi di
ristrutturazione e di arredamento degli spazi.
“Lancio un appello ai giovani – ha dichiarato l’assessore alla Casa Daniela Benelli –
affinché colgano questa opportunità unica. Si tratta di un progetto importante che ci
consente di riqualificare, arredare e assegnare alloggi sottosoglia, troppo piccoli per le
graduatorie Erp. Inoltre, restituendo all’uso spazi comuni inutilizzati, attiverà nuovi servizi
per gli abitanti e favorirà la coesione sociale e il reciproco aiuto. Il progetto, finanziato
interamente dallo Stato, non avrà alcun costo per l’Amministrazione ma avrà un grande
valore sociale per i giovani che vi parteciperanno e per questi quartieri, dove spesso in
passato siamo intervenuti a causa delle occupazioni abusive”. (lb)
Da La Gazzetta del mezzogiorno (gazzettadelmezzogiorno.it) del 01/07/14
#fattiuncampo
Giovani al lavoro nei campi antimafia
CERIGNOLA - #fattiuncampo. Una foto per promuovere i campi antimafia 2014 in Puglia,
promossi da Arci, Cgil, Spi Cgil e FlaiCgil con Libera e in collaborazione con le cooperative
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Pietra di Scarto e AlterEco di Cerignola e con Terre di Puglia – Libera Terra Puglia di
Mesagne. È stata lanciata in rete la campagna digitale per incentivare la partecipazione
all’esperienza di volontariato sui beni confiscati in Puglia.
I campi antimafia sono oramai diventati una realtà in molte regioni d’Italia. Si tratta di beni
confiscati ai mafiosi che vengono affidati a cooperative sociali, che non sempre hanno vita
facile. La loro forza sono i giovani, provenienti da varie parte del Paese, che sacrificano
parte delle loro vacanza per lavorare nei campi, riscoprendo così la fatica del lavoro di una
volta e soprattutto dando coraggio a chi la lotta alla mafia la combatte ogni giorno. A
partecipare sono i ragazzi d’ogni parte d’Italia che, negli anni, hanno animato i campi e le
associazioni, le cooperative sociali, i familiari pugliesi delle vittime innocenti delle mafie,
con tanti cittadini che stanno rispondendo spontaneamente all’appello online.
Tutte le foto sono raccolte attraverso la pagina facebook ufficiale dei campi: «Campi
antimafia e laboratori della legalità in Puglia».
Nella Capitanata ulteriori informazioni si possono chiedere alla cooperativa AlterEco, in via
Benedetto Croce, 7 a Cerignola oppure si possono chiamare i cellulari 340.2437226;
346.8939033, la mail coop-altereco@ yahoo.it e infine la pagina Fb Cooperativa Sociale
AlterEco
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ESTERI
del 01/07/14, pag. 7
“Al Baghdadi è il nuovo califfo”
Chiara Cruciati
Iraq. Guerra aperta con Al Qaeda. Si muove la Russia: arrivati a
Baghdad cinque jet militari, Mosca punta a diventare punto di
riferimento dell'asse sciita
Al Baghdadi è il nuovo califfo, successore del profeta Maometto. O almeno questo è
l’appellativo con cui si è ribattezzato il leader ribelle di Al Qaeda e fondatore del
movimento Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Domenica il gruppo jihadista ha
dichiarato la nascita del califfato tra Siria e Iraq, da Aleppo a Diyala, un lungo corridoio che
inghiotte le province occupate e le pone sotto un unico governo, uno Stato islamico sul
modello dell’impero ottomano, fondato sulla Shari’a e la figura del califfo ne diviene anche
la guida spirituale.
In un video di 34 minuti, titolato “La fine di Sykes-Picot” (l’accordo segreto del 1916 tra
Francia e Gran Bretagna per la spartizione del Medio Oriente) e tradotto in diverse lingue,
il portavoce dell’Isil al-Adnani pone tutti i gruppi jihadisti del mondo sotto il controllo del
nuovo Stato islamico. Un atto di chiara propaganda, che sottende però fattori significativi.
A spaventare non è tanto l’auto-dichiarazione dell’Isil, quanto la possibile adesione di tribù
e comunità sunnite irachene e siriane, spinte dalla volontà di slegarsi ai poteri centrali di
Damasco e Baghdad e, in questo secondo caso, alle discriminazioni subite nel postSaddam. Dall’annuncio esce con prepotenza anche un secondo elemento: l’Isil dichiara
guerra ad Al Qaeda. È ormai palese la faida interna ai gruppi qaedisti ed estremisti, attivi
nella regione.
Abu Bakr Al-Baghdadi gode di una popolarità senza precedenti, a scapito del leader di Al
Qaeda, Zawahiri, mentre la vecchia rete madre assiste alla crescita spropositata di un
movimento con a disposizione un numero sempre più elevato di miliziani (se ne
conterebbero oltre 10mila, ma sarebbero molti di più) e finanziamenti e equipaggiamento
militare che mai Al Qaeda ha posseduto. Soldi e armi arrivati direttamente dal Golfo,
impegnato negli ultimi tre anni a finanziare generosamente ogni gruppo radicale sunnita
anti-Assad.
Una simile struttura potrà diventare punto di riferimento di quei regimi interessati più o
meno palesemente alla spaccatura del fronte sciita e attirare, a scapito di altre realtà e
della stessa Al Qaeda, nuovi adepti (un esempio: sarebbero ben 500 gli aspiranti jihadisti
provenienti dalle città britanniche di Coventry e Cardiff, individuati prima della partenza per
l’Iraq).
Il ciclone che attraversa il Medio Oriente assume dimensioni sempre più globali. Mentre
Washington, costretta tra vecchie alleanze e strategie fallimentari, si limita a far volare
droni sulla capitale e ad inviare 300 consiglieri militari, è Mosca ad agire: domenica in Iraq
sono arrivati i primi cinque jet Sukhoi, un’altra decina giungerà nei prossimi giorni. Lo staff
militare russo sta addestrando i piloti iracheni all’utilizzo dei velivoli che, dice la tv
nazionale, saranno impiegati «per bombardare le postazioni jihadiste».
La Russia non ha mai nascosto interesse per la regione, nella quale è rientrata
prepotentemente ponendosi come la diplomazia in grado di intervenire nella crisi siriana e
perfetto alleato per l’asse sciita Damasco-Teheran. Mosca vuole assicurarsi il controllo del
nuovo esecutivo: il futuro governo dovrà potersi rivolgere alla Russia per
l’equipaggiamento militare e non solo alla tentennante Casa Bianca, che da parte sua
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annuncia l’invio solo in autunno di due F-16 e sei elicotteri Apache. Dall’altro lato, ritarda
ancora i bombardamenti con i droni fino alla creazione di un governo di unità nazionale
iracheno.
Risorse energetiche e territori strategici, un binomio che attrae più di un attore: da Israele
– che ieri si diceva pronto a riconoscere l’indipendenza del Kurdistan (ma soprattutto del
suo greggio) – all’Arabia saudita che continua a manovrare i fili dei gruppi islamisti attivi in
Siria, fino all’Iran che ieri ha reiterato per bocca del vice ministro per gli Affari Arabi
l’intenzione di intervenire più profondamente in Iraq.
Sul campo la battaglia prosegue e terreno di scontro è ancora Tikrit, città natale dell’ex
rais e capitale della provincia di Salah-a-Din, da due settimane in mano all’Isil. Le voci che
giungono sono contrastanti: l’esercito governativo, dopo una serie di bombardamenti e
truppe dispiegate dallo scorso venerdì, ha annunciato di aver ripreso la città, ma testimoni
sul posto parlano di una presenza ingente delle milizie islamiste e delle loro bandiere nere
che sventolano sui tetti dei palazzi governativi. L’esercito di Baghdad controllerebbe, al
contrario, solo la strada che dalla capitale porta a Tikrit e pochi quartieri in periferia.
Sul piano politico, oggi il nuovo parlamento iracheno si riunirà per individuare il nuovo
premier: sabato sera le fazioni sciite di opposizione alla coalizione del premier, Stato di
Legge, si sono incontrate e hanno deciso di presentarsi come blocco unico. Maliki
potrebbe avere le ore contate.
Del 01/07/2014, pag. 1-2
Trovati i corpi dei ragazzi rapiti Israele: “Sarà
la fine di Hamas”
ROSALBA CASTELLETTI
GERUSALEMME
Sono stati uccisi i tre adolescenti israeliani rapiti il 12 giugno scorso in Cisgiordania. Il
primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia subito: «Hamas pagherà». Se Netanyahu
darà l’ordine di attaccare «per lui si apriranno le porte dell’Inferno », ribatte il portavoce del
gruppo radicale palestinese. ERANO uno a fianco all’altro Gilad, Eyal e Naftali. Uniti
indissolubilmente in quel destino che si era già compiuto la sera di giovedì 12 giugno. I
corpi dei tre ragazzi per i quali Israele e buona parte del mondo ha pregato, ha tenuto il
fiato sospeso e ha sperato, per diciotto giorni, sono stati ritrovati ieri da un gruppo di
soldati della Brigata Kfir in una forra in un campo agricolo abbandonato a Halhul, un
villaggio a cinque chilometri da Hebron. Un tratto di strada che si percorre in pochi minuti
dall’incrocio maledetto vicino alla yeshiva dove Gilad, Eyal e Naftali facevano l’autostop
quella sera per andare a festeggiare da amici a Modiin la fine dell’anno scolastico. I tre
seminaristi sarebbero stati uccisi immediatamente dopo il rapimento, quella sera stessa.
Pochi minuti dopo che uno di loro con voce sussurrata aveva telefonato alla polizia ed era
riuscito appena a dire «ci hanno rapiti, ci hanno rapiti... », prima che il telefonino
diventasse muto per sempre. La fenditura del terreno, nota a tutti nella zona come Wadi
Tellem, era stata coperta malamente con degli arbusti per celare i corpi parzialmente
bruciati, ma il team civile delle guide e i ranger della Kfir, si sono fatti guidare dall’istinto
dopo che per tre settimane hanno battuto fattorie, grotte, pozzi, granai, mulini e cisterne
dell’acqua, in cerca della possibile prigione, mentre in città altri militari frugavano in ogni
casa sospetta, magazzino, cantina, negozio o pollaio. Da domenica tutto il circondario di
Hebron era diventato teatro di un’intensificazione delle ricerche da parte delle forze dello
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Stato ebraico. Il dolore di un Paese intero si unisce a quello delle famiglie dei tre
seminaristi assassinati che in questi giorni hanno mostrato coraggio e dignità nella loro
sofferenza, con i giorni che passavano affievolendo le speranze. «Quello che temevamo, è
tragicamente successo», è stato il commento commosso del neopresidente d’Israele
Reuven Rivlin, mentre Shimon Peres ieri sera ha chinato «il capo con inesprimibile
dolore». Immediatamente dopo l’annuncio ufficiale del ritrovamento dei tre corpi il premier
Benjamin Netanyahu, che ha fin da subito puntato il dito contro Hamas come “mente” del
rapimento, ha convocato una riunione d’emergenza del gabinetto di sicurezza. «Sono stati
uccisi da belve umane, Hamas pagherà perché colpiremo senza pietà». E continua la
caccia ai due presunti responsabili del sequestro, Marwan Kawasmeh e Amar Abu Ayash,
entrambi miliziani del braccio armato di Hamas a Hebron e scomparsi nel nulla subito
dopo il rapimento. «Sono colmo di profonda tristezza» ha dichiarato il vice ministro della
Difesa, Danny Danon, invocando il lancio di un’operazione militare su vasta scala per
“sradicare” il gruppo radicale palestinese. Sono molti i ministri del governo che premono
per una escalation immediata contro il movimento islamico, che non ha mai rivendicato il
rapimento, ma ne ha pubblicamente lodato gli autori. Già in nottata si sono mosse truppe
dirette al Nord della Cisgiordania, con lo scopo anche di evitare che gruppi di coloni armati
possano fare giustizia sommaria, in altre zone ci sono state scaramucce fra giovani
palestinesi e esercito. Nelle radio e nei siti web dei coloni sono apparse minacce di
vendetta e la polizia sta presidiando i posti dove si teme dalle parole si passi ai fatti.
Le ombre di una spirale di violenza irrefrenabile si addensano sulla regione. L’operazione
“Brother’s Keeper” ha messo sul campo migliaia di soldati israeliani nella più vasta caccia
all’uomo dai tempi della Seconda Intifada. Le perquisizioni, i check-point, il blocco dei
permessi di lavoro hanno suscitato la reazione della popolazione araba. Da domenica è
poi iniziato il Ramadan – il mese di digiuno e preghiera – sempre già carico di tensioni nei
Territori. In questi 18 giorni sono stati uccisi sei palestinesi e ne sono arrestati più di 500,
molti sono di Hamas e anche alcuni di quelli che erano stati liberati in cambio del rilascio di
Gilad Shalit. Sono state perquisite migliaia di case e smantellate molte istituzioni di
Hamas, in una caccia a tappeto per la quale la comunità internazionale ha più volte
invitato Israele alla moderazione. Ma tutto sembra oggi inutile, i ragazzi erano già stati
assassinati. Ieri anche Abu Mazen ha riunito i collaboratori più stretti per valutare
l’evolvere della crisi. Il presidente palestinese ha subito condannato il rapimento e offerto
la collaborazione dei suoi servizi segreti alle ricerche, ma anche denunciato il modo
«brutale e inaccettabile con cui le operazioni militari israeliane sono state portate avanti».
Una collaborazione, quella di Abu Mazen con gli israeliani, molto mal vista dalla
popolazione palestinese, in grado di innescare proteste che potrebbero travolgere l’Anp
con una Terza Intifada. A Gaza ci si prepara apertamente allo scontro armato, soltanto ieri
15 missili sono stati sparati dalla Striscia contro il Sud di Israele. In serata la replica di
Hamas alle rinnovate accuse sul sequestro e l’assassinio di tre ragazzi. Se il premier
israeliano Benjamin Netanyahu darà l’ordine di attaccare la Striscia di Gaza e di
«scatenare la guerra, per lui si apriranno le porte dell’Inferno», ha ammonito il portavoce
del gruppo radicale palestinese, Sami Abu Zuhri, dalla Striscia. Da settimane nella Striscia
nessun dirigente di Hamas compare in pubblico. In una giornata che si annuncia splendida
e con un sole raggiante, Israele si appresta oggi in un clima di grande commozione
all’ultimo addio a Gilad, Naftali e Eyal. Dolore, rabbia e lacrime. Ma anche la
determinazione di un Paese intero a non voler cedere al terrorismo.
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del 01/07/14, pag. 6
Occupy Central fa tremare il sistema
Simone Pieranni
Cina. Concluso domenica a Hong Kong il referendum per scegliere il
modello elettorale in vista del 2017
Il primo luglio del 1997 si concluse quel percorso politico e diplomatico che avrebbe
riportato Hong Kong alla Cina, attraverso il trasferimento della sovranità da Londra a
Pechino. L’accordo firmato da Thatcher e Deng Xiaoping, riportava sotto l’ala cinese l’ex
colonia britannica, dando vita alla sistemazione politico– amministrativa nota alla storia
come «un paese, due sistemi». Da allora ogni primo luglio a Hong Kong si svolge una
«marcia per la democrazia», che quest’anno ha connotati nuovi: nei mesi precedenti, si è
realizzato un periodo di lunghe proteste, con la nascita del soggetto politico chiamato
Occupy Central (formato da attivisti, professori universitari e alle cui iniziative hanno
partecipato anche volti noti delle manifestazioni cinesi del 1989), c’è stato un referendum
sulla democrazia dell’isola e infine la pubblicazione da parte di Pechino del «Libro Bianco»
su Hong Kong che tanto ha fatto discutere.
La «marcia» è attesa con tale tensione da portare a speciali esercitazioni la polizia
dell’isola e alla minaccia da parte di alcune aziende internazionali di abbandonare l’ecosistema economico di Hong Kong, nel caso in cui le proteste politiche rendano instabile
l’ex colonia britannica.
Secondo gli accordi del 1997, Hong Kong avrebbe mantenuto le proprie consuetudini
«democratiche», ma sarebbe stata da considerarsi territorio cinese; nel 2007 era stato
infine stabilito che l’isola avrebbe ottenuto il suffragio universale nel 2017, la data delle
prossime elezioni. Quasi vent’anni dopo il 1997, infatti, le cose sono progredite e non
poco. La Cina ha compiuto il suo miracolo economico e ha stretto Hong Kong in una
morsa di controllo politico-amministrativo sempre più forte, arrivando a influenzare non
poco i destini politici dell’isola e creando una propria zona economica speciale a
Shanghai, per contrastare l’indipendenza supposta della comunità d’affari dell’ex colonia.
Hong Kong è ancora oggi, però, uno straordinario mix tra est ed ovest, capace di
ammaliare e conquistare, pur nella sua caoticità tipicamente asiatica. Le sue strade, i suoi
palazzi fatiscenti, alcuni quartieri capaci di catturare l’immaginario occidentale, anche
grazie a celebri produzioni cinematografiche come quelle di Wong Kar-wai, hanno
permesso all’ex colonia di diventare un incredibile ibrido urbano, nel quale si mischiano –
fino a non distinguerli più uno dall’altro — l’Oriente e l’Occidente. È inoltre il luogo dove si
possono acquistare i libri proibiti da Pechino, partecipare a manifestazioni e ricordare ogni
anno i fatti del 4 giugno 1989.
L’ex colonia – però — dal 1997 viene governata da politici locali; il chief executive, il primo
ministro di Hong Kong, oggi viene nominato da un comitato di 1.200 membri composto in
gran parte da politici pro-Pechino – quando non direttamente controllati dal Partito
comunista — e persone dal mondo degli affari. Un «sistema» che oggi viene messo in
discussione: in previsione della manifestazione del primo luglio, un gruppo di attivisti di
Occupy Central – il movimento che nei mesi scorsi ha occupato il parlamento di Hong
Kong e che minaccia di bloccare il centro finanziario della città – ha lanciato un
referendum per chiedere che vent’anni dopo l’annessione, alle elezioni del 2017, venga
confermato l’utilizzo del sistema democratico di Hong Kong retto finalmente dal suffragio
universale. Al referendum, che è durato dieci giorni e si è concluso ieri, hanno partecipato
800 mila cittadini su un totale di 3,5 milioni di elettori. I partecipanti hanno potuto scegliere
tra tre diverse proposte di sistema elettorale.
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Secondo il quotidiano cinese Global Times, la versione in inglese dell’ufficiale Quotidiano
del Popolo, nonostante le iniziative di Occupy Central «recenti sondaggi indicano che la
maggioranza dei residenti di Hong Kong sono a favore dell’esistenza di un comitato
elettivo, e questo gruppo è in crescita. Secondo un sondaggio realizzato dal Public
Opinion Program dell’Università di Hong Kong nel mese di aprile, il 51 per cento degli
intervistati è favorevole ad un comitato». In un editoriale dell’edizioni di ieri, il quotidiano
del Partito comunista ha accusato gli organizzatori di non essere «patriottici». «Ci sono
persone — si legge — che in apparenza sembrano civilizzate e razionali ma la loro
paranoia politica non fa che crescere». Un altro quotidiano ufficiale, il China Daily, ha
sostenuto che si è trattato di una «farsa anticostituzionale» realizzata con l’aiuto degli Stati
uniti Il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, nei giorni scorsi ha invece
riportato le critiche al Libro Bianco di Pechino: «Le tensioni politiche a Hong Kong sono
aumentate, Pechino ha anche pubblicato un Libro Bianco, che viene letto come un secco
promemoria per la città, in cui viene affermato senza mezzi termini che essa ha il potere,
suscitando opposizioni feroci nella ex colonia britannica, restituita al controllo cinese nel
1997».
Secondo gli organizzatori del referendum, il sito internet che ospitava le petizioni e i quesiti
referendari, avrebbe ricevuto attacchi informatici senza precedenti. A questo proposito
Robert Chung, il rappresentante di Occupy che ha gestito l’intero processo su internet, ha
rilasciato un comunicato nel quale si affermava che «non ci sono illegalità in quello che
stiamo facendo o nella piattaforma on line che abbiamo costruito. Se questo non è
accettabile, è una sconfitta per Hong Kong».
Del 01/07/2014, pag. 15
Il rogo dell’impiegato martire a Tokyo per la
Costituzione che costruì la pace
Giacca e cravatta, si è dato fuoco nel quartiere dello shopping Per lui
fiori e messaggi: è il simbolo del paese che si ribella al progetto del
premier nazionalista Abe di cancellare le garanzie di non belligeranza
Giappone
RENATA PISU
UN WEEK end di ordinario shopping nel quartiere di Shinjuku a Tokyo. Un uomo sulla
sessantina impeccabilmente vestito in giacca e cravatta dall’alto di in cavalcavia urla in un
megafono accuse contro il governo e contro il primo ministro Shinzo Abe che intende far
approvare una legge per la revisione della Costituzione pacifista del Giappone. La gente
che passa pensa che sia ubriaco, infatti ha con sé bene in vista due bottiglie. O pazzo.
Quando i pompieri gli si avvicinano con una scala, l’uomo si versa il contenuto delle
bottiglie addosso e si dà fuoco. Lo portano in ospedale, forse si salverà. Una scarna
cronaca se non fosse che sul luogo dove vi è stato il rogo una folla anonima ha subito
portato fiori, improvvisati volantini sono stati distribuiti da uomini e donne comuni che si
trovavano lì per caso, in uno dei quartieri più popolosi della capitale. Scrivono che è un
«martire», che si è immolato per una giusta causa. Sono di sinistra, commenta qualcuno.
No, sono di destra, controbattono altri per i quali il suicidio, questo tipo di suicidio per una
causa, è sempre stato di destra, anzi, di estrema destra. Poche ore dopo il fatto, la polizia
ha comunque rimosso fiori e volantini, ripulito il luogo del misfatto, come se non fosse
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successo niente e il sacro shopping potesse continuare. La stampa giapponese ha dato
scarso rilievo a questa protesta estrema che riporta pericolosamente alla mente cosa è
successo in Tibet, in Tunisia, a Saigon quando i monaci buddisti si immolavano col fuoco
negli anni Sessanta. L’uomo per ora non ha un nome né un’appartenenza politica.
Dall’abito che indossava lo si direbbe appartenente alla classe dei sararymen, gli
impiegati, la maggioranza delle formiche che hanno reso prospero il Giappone nel
dopoguerra, un paese che secondo un’opinione diffusa ha potuto prosperare grazie alla
rinuncia e alla denuncia del suo passato guerrafondaio, anche se i rigurgiti nazionalisti non
sono mai mancati. Basti pensare al seppuku rituale del grande Mishima, nel 1970, che
intendeva imporre al paese il ritorno agli antichi valori samuraici. Oggi però il Giappone è
un paese dove la maggioranza della popolazione (il 55 per cento secondo un recente
sondaggio) si oppone alla proposta di revisione costituzionale voluta dal primo ministro
Abe ed è orgogliosa della propria Costituzione che, per il fatto di rinunciare con l’articolo 9
alla guerra e a possedere esercito, marina e aviazione militare, non ha eguali al mondo. È
vero che è stata dettata dagli americani dopo la guerra, ma è anche vero che ormai è
come connaturata allo spirito del nuovo Giappone al punto che un comitato di cittadini
aveva tentato di candidarla al Nobel per la Pace l’anno scorso e quest’anno ha riproposto
la candidatura non più della Costituzione pacifista nipponica ma dell’intero popolo
giapponese che per settanta anni l’ha rispettata e salvaguardata. Per settanta anni le
minacce di revisione costituzionale non sono mai mancate, ma è in questi ultimi tempi, con
il ritorno al potere di Shinzo Abe al suo secondo mandato, che il pericolo si palesa
imminente. Nel 2006 Abe aveva fallito già una volta nel tentativo di revisione
costituzionale, ma ora ha ottenuto un successo riuscendo a far approvare un aumento del
bilancio da destinare alle forze di “autodifesa”, come si definisce il para-esercito che il
Giappone è autorizzato a mantenere. I motivi per cui Abe intende abolire l’articolo 9 della
costituzione sono palesi: la situazione internazionale è mutata, la Cina è emersa come
grande potenza, l’ombrello americano forse non basta più. Il Giappone ha diritto a un
proprio ruolo attivo soprattutto nello scenario del Pacifico. Sono questi i temi che la
propaganda governativa e la stampa più conservatrice si impegnano a fare presenti a
un’opinione pubblica scossa dai tragici avvenimenti seguiti allo tsunami e che si professa
sempre più pacifista. Resta da vedere se questo ennesimo «attentato alla Costituzione»
— come lo definiva l’uomo che a Shinjuku si è dato fuoco rivelando una non sopita
passionalità estremista in un popolo che nell’era moderna ha conosciuto la tragedia dei
kamikaze — avrà successo. Dicono che questa volta è estremismo di sinistra, comunque
si tratta sempre di un segnale che dovrebbe far riflettere i parlamentari chiamati domani a
emendare prima l’articolo 96 che prevede la possibilità di modificare la Carta
costituzionale soltanto a maggioranza qualificata. Questa maggioranza di due terzi Abe la
ha soltanto alla Camera bassa, non nell’altro ramo del Parlamento. Soltanto dopo questo
primo passo si potrà passare all’articolo 9, ma la strada è in salita.
del 01/07/14, pag. 6
Mosca e Kiev: impegno per la tregua. A
Majdan Pravi Sektor è contro
Matteo Tacconi
Ieri Russia e Ucraina si sono formalmente impegnate a lavorare a una tregua bilaterale
che fermi i combattimenti nell’est dell’ex repubblica sovietica. Sono iniziati a metà aprile.
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Finora ci sono state quattrocento vittime. Migliaia gli sfollati, riparati sia nell’ovest del
paese che in Russia. È stato l’Eliseo a riportare la notizia, al termine di un colloquio
telefonico a quattro, seguito a quello di domenica, tra il presidente francese Francois
Hollande, la cancelliera tedesca Angela Merkel e i capi di stato di Ucraina e Russia, Petro
Poroshenko e Vladimir Putin.
L’impressione è che si vada verso un ulteriore prolungamento del cessate il fuoco, che
terminava alle dieci di ieri sera, orario di Kiev. Ma non si può escludere, tuttavia, la fumata
nera.
La tregua era inizialmente entrata in vigore il 20 giugno, promossa nell’ambito del piano di
pace, in quindici punti, presentato da Poroshenko. I ribelli filorussi l’avevano accettata.
Mosca, da parte sua, aveva revocato il decreto con cui a inizio marzo aveva autorizzato le
forze armate a sconfinare in Ucraina. Allo scadere, venerdì scorso, la misura è stata
spostata in avanti di altri tre giorni. Fino alla nuova versione, negoziata ieri. Al momento
non si conosce l’eventuale scadenza.
Si sanno invece i punti su cui gli ucraini e i russi, facendo le veci dei ribelli dell’est,
intendono lavorare. Il principale riguarda il controllo della frontiera. Poroshenko l’aveva
messo in cima alla sua agenda di pace, ribadendo ancora una volta l’idea che dal tratto di
confine gestito dai ribelli transitano armi a volontà in arrivo dalla Russia, che ha però
sempre negato la cosa. Ieri, in ogni caso, s’è deciso di creare un meccanismo di controllo
al confine, monitorato dall’Osce. Si procederà inoltre a uno scambio di prigionieri. Infine, i
separatisti filorussi dovrebbero essere inclusi nei negoziati. Condizione più volte fatta
presente da Mosca.
Tutto, comunque va verificato alla prova dei fatti. Intanto bisogna capire che succederà sul
terreno. Malgrado la tregua, in questi giorni le armi non hanno taciuto. Nelle ultime ore
sono morti cinque soldati ucraini e un operatore tv, Anatoly Klyan, il terzo giornalista russo
a perdere la vita in Ucraina. Assieme a dei colleghi stava visitando il fronte di Donetsk.
L’autobus a bordo del quale viaggiava è finito sotto il fuoco delle forze ucraine. Mosca ha
accusato Kiev di non rispettare la tregua. Kiev ha fatto lo stesso con Mosca e i ribelli, in
relazione alla morte dei suoi cinque militari.
Se il cessate il fuoco dovesse reggere occorrerà vedere, in un secondo tempo, che piega
potrebbero prendere i negoziati tra Kiev, Mosca e i ribelli. Lo snodo critico è il quadro
costituzionale. Il Cremlino vuole l’assetto federale. Ma Poroshenko, che lo vede come una
balcanizzazione, propone invece un forte decentramento. Formula presente nel suo piano
di pace.
La tregua, se tale sarà, passa da altre incognite. Poroshenko, consapevole che il conflitto
è economicamente e politicamente insostenibile, deve fare i conti con le pressioni
provenienti dal campo nazionalista, una cui parte vuole proseguire lo scontro con i filorussi
e ritiene che la recente firma degli Accordi di associazioni con l’Ue non sia affatto una
garanzia sul futuro del paese. Domenica qualche migliaio di persone (nella foto reuters)
s’è radunato nel centro di Kiev, invocando la fine della tregua. Erano presenti diversi
esponenti del battaglione Donbass, uno dei gruppi paramilitari impegnati a fianco delle
truppe regolari sul fronte dell’est.
Sotto certi aspetti anche Putin fronteggia l’imprevedibilità delle teste calde. Alcuni capi
della rivolta dell’est rifiutano infatti la tregua. Il Cremlino guarda all’economia. Mosca stima
che l’economia potrebbe andare in recessione, se colpita selettivamente dalle sanzioni
occidentali. Arriverebbero nel caso in cui la tregua dovesse saltare, ha minacciato Berlino.
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Del 01/07/2014, pag. 8
Salvagente Ue a Cameron contro il rischio
«Brexit»
Dopo avere osteggiato Juncker sino al punto di rimanere clamorosamente solo in Europa
(appoggio ungherese a parte), David Cameron ora dice che con il nuovo presidente della
Commissione Ue «dobbiamo lavorare assieme». Una sostanziale presa d’atto di avere
subito una batosta, anche se quando il leader dell’opposizione Ed Miliband gli rinfaccia di
avere causato al Paese una «palese umiliazione », Cameron lo taccia di «opportunismo ».
L’infuocato scambio di accuse è andato in scena ieri ai Comuni, dove l’inquilino di
Downing Street 10 si è presentato a rendere conto della sua Waterloo politica europea.
Necessità vuole che dopo la rottura, Cameron si attivi immediatamente per salvare il
salvabile, in altre parole per evitare che prendano il sopravvento le tendenze favorevoli
all’abbandono della Ue. Nemmeno Cameron lo vuole, ma con le sue scelte ha aperto
varchi entro cui il fiume dell’euroscetticismo e dell’eurofobia scorre impetuoso e rischia di
travolgere ogni resistenza razionale. Non meno allarmati di lui, i leader europei studiano il
modo in cui riallacciare i rapporti. Domenica c’è stata una telefonata fra Juncker e
Cameron, nella quale, spiega Downing Street, «si è discusso del modo in cui lavorare
assieme per rendere la Ue più competitiva e flessibile» e «Juncker si è detto pienamente
impegnato a trovare soluzioni alle preoccupazioni politiche britanniche ». Con toni
drammatici il ministro delle Finanze del più potente Paese dell’Unione, il tedesco Wolfgang
Schauble, ha evocato lo scenario di una separazione inglese dall’Europa come
«assolutamente inaccettabile» e «inimmaginabile ». Schauble ha garantito che la
Germania farà di tutto per trattenere il Regno Unito nella Ue, perché esso è «storicamente,
politicamente, democraticamente, culturalmente assolutamente indispensabile
all'Europa». Non meno appassionatamente indirizzate a sottolineare i punti di contatto, le
parole pronunciate dal vicepresidente della Commissione, Joaqin Almunia, secondo cui
Juncker «oltre che un convinto europeista è anche una persona pragmatica », mentre la
Gran Bretagna è «un membro importante della Ue», e se dovesse uscirne, sarebbe «una
pessima notizia per l’Europa». Insomma tutti scongiurano il pericolo, ma tutti ne parlano.
Anche perché dai sondaggi non spira aria incoraggiante. Secondo l’istituto YouGov, se si
votasse oggi sulla permanenza nella Ue, direbbe sì il39% dei cittadini d’oltre Manica, a
fronte di poco più del 37% che si pronuncerebbe per il no. Ma c'è un’altra inchiesta in cui
le parti si capovolgono e gli anti-europeisti salirebbero al 47% contro un 39% di opinione
opposta. Assolutamente contrari a staccarsi dall’Europa sono comunque gli imprenditori
inglesi, o almeno la loro maggioranza. John Cridland, direttore della Confindustria locale
(Cbi) afferma con decisione che l’appartenenza alla Ue «rafforza l’occupazione, la crescita
e la competitività» dell’economia britannica. Cridland boccia le ipotesi care agli
euroscettici, corteggiati da Cameron, di una permanenza meno impegnativa per Londra.
Inutile per il direttore della Cbi, andare in cerca di «alternative alla piena appartenenza».
Sono escamotage destinati «semplicemente a non funzionare, e a metterci nella
condizione di essere comunque vincolati alle regole europee senza avere la forza per
influenzarle». La Confindustria britannica, assicura Cridland, «continuerà a premere
affinché il Regno Unito continui a restare all’interno di un’Unione riformata». Da uomo
d’affari, il suo ragionamento va dritto al portafoglio: «La Ue è il più grande mercato per le
nostre esportazioni e resta fondamentale per il nostro futuro economico». Solo due mesi fa
l’Institute for Economic Affairs aveva messo in palio centomila sterline a vantaggio di chi
avesse saputo descrivere in maniera convincente le conseguenze del Brexit, l’uscita (exit)
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della Gran Bretagna dalla Ue. Il vincitore aveva calcolato che il prodotto nazionale lordo
crescerebbe dell’1,1%,ma solo a condizione che Londra sia capace di preservare la sua
capacità di esportare in Europa e convinca la Ue a modificare una serie di norme.
Altrimenti la produzione subirebbe una drastica diminuzione, pari al 2,6%. L’autore della
ricerca, pur sostenendo tiepidamente il Brexit, ne metteva in luce i rischi, che un altro
documento, diffuso dalla Royal Economic Society, illustrava invece in maniera piuttosto
cruda. Riesaminando l’andamento dell’economia nazionale negli ultimi decenni, lo
studioso concludeva che se non fossero mai entrati nella Ue, i cittadini britannici
avrebbero globalmente guadagnato il 20% per cento in meno. Qualche giorno fa, il leader
dell’opposizione laburista Ed Miliband ha calcolato il costo dell’eventuale isolamento:
3,3 milioni di posti di lavoro perduti.
del 01/07/14, pag. 5
Contraccettivi, tegola sull’Obamacare
Giulia D'Agnolo Vallan
Usa. La Corte Suprema: le aziende private non saranno obbligate a
pagare la copertura assicurativa per gli anticoncezionali
«Le corporation sono persone» è una delle tante affermazioni infelici che hanno contribuito
ad affossare le aspirazioni presidenziali di Mitt Romney. E’ anche il ragionamento dietro
all’attesissima sentenza con cui la Corte Suprema, ieri, ha bocciato la porzione della legge
sulla sanità che obbliga le aziende a includere gli anticoncezionali nel pacchetto
assicurativo dei loro dipendenti. Secondo la decisione della Corte, che ha visto i giudici
conservatori nettamente schierati contro i liberal con una maggioranza di cinque contro
quattro, alcune aziende private potranno invocare il diritto alla libertà di religione per
essere esentate dall’obbligo di includere i contraccettivi nel loro piano assicurativo.
La sentenza — che intacca una delle disposizioni importanti di Obamacare — è il risultato
di un’azione legale sporta dalla catena di negozi d’artigianato Hobby Lobby (un’azienda di
circa tredicimila dipendenti, di proprietà di una famiglia di cristiani evangelici) e dai
fabbricanti di mobili in legno Conestoga Wood Specialties (una piccola falegnameria della
Pennsylvania i cui padroni sono cristiani mennoniti). Entrambe le aziende sostengono di
operare «secondo principi religiosi» e, nel parere della maggioranza, firmato da uno dei
giudici più reazionari dalla Corte, Samuel Alito, il governo non ha il diritto di obbligarle a
contraddire tali principi fornendo la copertura per certi tipi di anticoncezionali, come per
esempio la pillola del giorno dopo.
La sentenza è una grossa vittoria per gli oppositori di Obamacare che, venuta meno la
plausibilità di una revoca vera e propria della legge sulla sanità così faticosamente varata
da Barack Obama, stanno aggressivamente lavorando per indebolirla. Apre infatti uno
spiraglio per cui la copertura di altri trattamenti medici (per esempio l’anestesia o la
trasfusione) potrà essere messa in dubbio per questioni di credo religioso.
A pochi mesi di distanza dalla elezioni di mid term, la sentenza è anche benzina sul fuoco
di chi sostiene che l’amministrazione Obama sta sistematicamente limitando le libertà dei
cittadini, al punto di richiedere un intervento del massimo tribunale del Paese.
Ma, come hanno notato tutti i giudici dissenzienti (gruppo di cui fanno parte le tre donne
della Corte) la sentenza va ben aldilà di un nuovo mal di testa per il presidente. Come
espresso nel parere contrario, «apre infatti la strada alla possibilità che una compagnia
possa essere esentata da ogni sorta di doveri legali (ad accezione di quelli fiscali) sulla
base di principi religiosi». L’obbligo alla copertura assicurativa degli anticoncezionali è una
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componente di Obamacare vista con favore dalla maggioranza dell’opinione pubblica Usa,
ma ironicamente anche una di quelle più prese di mira dagli oppositori della legge.
Obama, infatti, aveva già concesso delle esenzioni a Chiese e organizzazioni religiose non
profit. Ma non a delle aziende private.
Questa è la prima volta che la Corte Suprema americana accorda a una corporation il
diritto di dichiarare un credo religioso. Si tratta anche di una decisione che, dal punto di
vista del ragionamento legale, è agghiacciantemente coerente con Citizien United, la
sentenza miliare che, nel 2010, ha liberalizzato quasi del tutto i contributi elettorali delle
corporation sulla base del loro diritto alla libertà di parola.
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INTERNI
Del 01/07/2014, pag. 1-8
Carriere, prescrizioni, falso in bilancio: i 12 punti del governo
“Intercettazioni, decidiamo con i giornalisti cosa pubblicare”
“Riforma in 2 mesi” Così Renzi vuole
cambiare la giustizia
LIANA MILELLA
DODICI punti per la «grande riforma della giustizia». Buttandosi alle spalle 20 anni di
«dispute ideologiche». Chiedendo ai giornali di non pubblicare più intercettazioni «che
riguardano persone estranee alle indagini». Richiamando all’ordine i magistrati e il Csm,
perché sono «i bravi» che devono fare carriera e «non quelli sponsorizzati dalle correnti».
Con la sfida di un processo civile che «dovrà durare un anno e non 900 giorni ». Con
magistrati che «pagano per i loro errori», anche se non di tasca propria. Renzi ruba la
scena al Guardasigilli Orlando sulla riforma della giustizia.
LO CHIAMA «pacifico e doroteo ». Dopo un consiglio dei ministri che dura meno di un’ora
scende in conferenza stampa e gli anticipa la riforma. Annuncia, nel Paese, «un grande
dibattito che durerà fino all’inizio di settembre». Solo allora arriveranno in Parlamento i
provvedimenti, decreti e disegni di legge. Non prima, come invece avrebbe voluto Orlando.
Non è rottura, ma commissariamento sì. Per la giustizia si bissa quello che è già accaduto
per altre riforme, dalla pubblica amministrazione, alla nuova struttura costituzionale. I
contenuti e la dinamica sono quelle decise da palazzo Chigi.
IL VERTICE RENZI-ORLANDO
Un retroscena è d’obbligo in questa giornata, prima ancora di descrive la riforma. Ieri
mattina il premier e il Guardasigilli restano a palazzo Chigi per oltre due ore. Discutono e
si dividono sui 12 punti. Da una parte Andrea Orlando, con una strategia più prudente,
attenta alle consultazioni con la magistratura, dall’Anm alle singole correnti, propenso a
portare i provvedimenti man mano che sono pronti, più alla spicciolata. Dall’altra Renzi che
punta a una «grande riforma» che rompa gli schemi e soprattutto le incrostazioni della
magistratura. Da qui gli interventi sul Csm e sull’azione disciplinare. Alla fine, ovviamente,
vince la linea di Renzi, che illustra alla stampa la sua riforma.
LO SPARTIACQUE DELLE INTERCETTAZIONI
Vale la pena di anticipare subito la questione delle intercettazioni, perché è stata oggetto
di frizione con Orlando, e perché su un tema così delicato le parole di Renzi aprono una
discussione molto forte. Innanzitutto il premier annuncia che non c’è nulla di scritto,
nessuna norma, ma un’intenzione forte quella sì. Con una premessa importante perché «i
magistrati saranno sempre liberi di intercettare e nessuno vuole bloccare la possibilità di
fare intercettazioni ». Il punto è «dove sta il limite alla loro pubblicabilità, se riguardano
vicende personali slegate dalle indagini». Sono le famose intercettazioni dei terzi. Renzi
ne fa una questione di codice deontologico. Ai direttori dei giornali rivolge un appello,
chiede loro di discutere e di stabilire «dove fissare questo limite». S’interroga: «Capisco il
giornalista, da dove sta il confine? Esiste un diritto alla privacy? Sono curioso di sapere
cosa ne pensano i direttori dei giornali. Ma io sono convinto che sarebbe utile tracciare un
limite». Ancora una battuta ironica rivolta ad Orlando, che «era a Porto Alegre con la
sinistra radicale», quasi invitandolo a fare la riforma al più presto. Riforma che dovrà
interrogarsi anche sull’avvocato e sul cancelliere «che pigliano il file e lo passano».
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20 ANNI DI LITI SULLA GIUSTIZIA
Stop «alle liti ideologiche sulla giustizia». Adesso Renzi vuole voltare pagina. Prima
bacchettata ad Orlando, «sono 20 anni che si litiga senza discutere nel merito, vorremmo
iniziare da qui, in modo non ideologico e senza litigare, è la rivoluzione dell’Orlando
pacifico e doroteo...». Per il premier è la giornata giusta, «alla faccia dei gufi», visto che
sulla riforma costituzionale si è cominciato a votare al Senato. Per la giustizia «niente
filosofia», dall’inizio di luglio a fine agosto si parla di fatti. A partire dal più concreto, la
riforma del processo civile.
CLICK TELEMATICO A MEZZANOTTE
Prima sfida, il processo civile, quello che dura oggi in media 900 giorni. «Abbattiamo della
metà l’arretrato di 5.200 cause e puntiamo a un processo che duri solo un anno». Scherza
il premier, nel giorno in cui parte il processo civile telematico con un click storico a
mezzanotte. E lui celia, «potremmo stare qui ad aspettare questo momento». Alle spalle,
in sala stampa, ecco la slide dei 12 punti, Renzi scorre veloce i primi tre, poi punta al Csm.
FANNO CARRIERA I BRAVI
Dirompenti le promesse del premier su palazzo dei Marescialli. Con una premessa,
«siamo in periodo elettorale per il Csm, adesso non si tocca niente perché sarebbe
scorretto». Ma subito il premier dopo mette subito un punto fermo, su un Consiglio
superiore, presieduto dal capo dello Stato, che deve restare «un presidio straordinario, un
punto fermo di garanzia per l’indipendenza della magistratura, un concetto di fronte al
quale ci inchiniamo». Ma se questo è un principio «sacrosanto » altrettanto deve esserlo
un altro, quello che «si fa carriera non perché si è di una corrente, ma perché si è bravo».
È il passaggio in cui il premier insiste ed è più duro. Insiste: «Siamo contrari al principio
che si faccia carriera grazie all’appartenenza a una corrente ».
DISCIPLINARE FUORI DAL CONSIGLIO
L’affermazione è secca: «Chi nomina non giudica, serve una struttura altra, perché chi
nomina non potrà mai dire che chi ha nominato ha sbagliato». È l’annuncio chiarissimo di
una riforma drastica della giustizia disciplinare. L’attuale sezione disciplinare del Csm, di
cui fanno parte componenti che stanno anche nelle altre commissioni, diventerà
autonoma, sarà composta di consiglieri che faranno soltanto i processi disciplinare contro i
colleghi, proprio per garantire la più totale indipendenza.
RESPONSABILITA’ CIVILE EUROPEA
Renzi sgombra subito il campo, niente responsabilità civile diretta per le toghe, «non ci
sarà l’emendamento Pini», non sarà punitiva, ma in caso di dolo o colpa grave, o per
inescusabile negligenza, «è giusto che il magistrato che sbaglia paghi».
FALSO IN BILANCIO E PRESCRIZIONE
Bisognerà aspettare ancora per vedere i testi di queste riforme. Anche per loro la
scadenza è settembre. Ma Renzi le garantisce entrambe. La prima, il falso in bilancio, su
cui il governo è intenzionato a fare una riforma «degna di questo nome». La seconda, la
prescrizione, «una riforma di civiltà»
Del 01/07/2014, pag. 8
IL CASO
E il premier punzecchia il guardasigilli
“doroteo”
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ROMA «Sono vent’anni che sulla giustizia si litiga senza discutere. Vorremo discutere di
giustizia senza litigare. È questa la via di Orlando alla Giustizia. Non l’Orlando furioso, ma
l’Orlando pacioso, l’Orlando doroteo...». È solo uno dei passaggi della conferenza stampa
in cui il premier Matteo Renzi ha tirato in ballo il ministro della Giustizia Andrea Orlando.
Battute e punture di spillo — di fronte ai giornalisti — che il Guardasigilli non sembra però
gradire, diventando anzi rosso in volto e manifestando il disagio con qualche sguardo non
proprio conciliante. E così quando il presidente del Consiglio ipotizza che i magistrati
intercettino qualcuno, «mettiamo che sia Orlando», il ministro lo stoppa abbastanza
bruscamente chiedendo di non essere messo in mezzo, almeno non ipotizzando un suo
scomodo ruolo da indagato. Renzi, però, non si scoraggia. E continua a stuzzicare il
responsabile di via Arenula: «Ci sono due casi in cui le correnti hanno ancora un senso, in
magistratura e all’interno del Pd. Ma una delle due non conta niente, capite voi quale...».
Poi, sorridendo: «Abbiamo abolito anche quella dei renziani». «Eh!», ha replicato
Orlando. Dopo aver concluso il proprio intervento, Renzi ha lasciato la sala perché
impegnato in una riunione del Cipe, mentre Orlando e Angelino Alfano sono rimasti a
confrontarsi con i cronisti.
Del 01/07/2014, pag. 1-25
RIVOLUZIONE VIRTUALE
MASSIMO GIANNINI
PRENDETE un qualunque manuale di diritto. Consultate il capitolo «fonti normative ».
Cercate la voce «linee guida ». Non la troverete. Dunque, dal punto di vista giuridico, al
Consiglio dei ministri non è successo nulla. La sede è ufficiale, la rivoluzione è virtuale. Il
governo «parla» di riforma della giustizia. Non «approva» la riforma della giustizia.
Accenna un «indice» generico. Non licenzia un provvedimento legislativo.
È UNA differenza sostanziale, che lo spin renziano tende a dissimulare. Ma nella giustizia,
come nell’economia, è necessario distinguere con rigore i risultati dagli obiettivi. Nel
metodo, sarebbe troppo facile ricordare le promesse fatte e tradite. Era il 17 febbraio, e
Renzi aveva appena ricevuto l’incarico da Napolitano, quando annunciava il suo famoso
«cronoprogramma » da «una riforma al mese»: legge elettorale e Senato a febbraio,
mercato del lavoro a marzo, Pubblica Amministrazione ad aprile, fisco a maggio, giustizia
e Welfare a giugno. Da allora il premier non ha «arretrato di un millimetro»: «La riforma
della giustizia si fa entro giugno». L’ha giurato e rigiurato: il 30 maggio in conferenza
stampa a Palazzo Chigi, il 31 maggio in un’intervista alla “Stampa”, il 1° giugno al Festival
dell’economia di Trento, il 7 giugno alla “Repubblica delle Idee” di Napoli, il 13 giugno
dopo il Consiglio dei ministri, il 14 giugno all’assemblea del Pd. L’ultima promessa se l’è
intestata Maria Elena Boschi il 20 giugno: «La riforma della giustizia sarà al Consiglio dei
ministri del 30». Il fatidico 30 è arrivato. Com’era prevedibile, la riforma non c’è. Ci sono,
appunto, le «linee guida». Le «dodici palle» buttate in campo dal ministro Orlando, come
le ha definite lo stesso Renzi, tanto per dare più credibilità al progetto. Dove rotoleranno
queste «palle», nei prossimi due mesi di «discussione», nessuno lo può sapere. Ma
questo, più che un grande esercizio di «democrazia partecipata», ha l’aria di essere un
astuto escamotage per comprare tempo e per vendere una merce che non si possiede.
Come accade spesso a Renzi, affezionato a una visione quasi schopenaueriana del
«governo come rappresentazione della volontà ». Un leggero vizio nel dispiegamento della
leadership, se è vero che questo metodo lo ha sempre adottato anche da sindaco a
Firenze. Ma anche un pesante fardello imposto dall’Europa, se è vero che nelle
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«Raccomandazioni all’Italia» approvate dal Consiglio europeo venerdì scorso si legge, al
punto 11 di pagina 9: «La corruzione continua a pesare in modo significativo sul sistema
produttivo... C’è bisogno di rivedere i tempi dell’istituto della prescrizione. Un’effettiva lotta
contro la corruzione richiede il conferimento di poteri adeguati all’Autorità Nazionale Anticorruzione. Persistono inefficienze nella giustizia civile e l’impatto delle misure adottate
avrà bisogno di essere attentamente monitorato». Dunque, nella settimana in cui assume
la presidenza di turno dell’Unione, è chiaro che l’Italia non può presentarsi a mani vuote di
fronte all’Europa, anche sul tema della giustizia. E dunque le «linee guida» sono meglio di
niente. Nel merito, i «titoli» dell’indice renziano sono condivisibili. Dimezzare i 5 milioni di
cause arretrate nel civile è doveroso. Com’è doveroso per il Csm fondare la progressione
di carriera sul merito e non sulle correnti. Inasprire le norme sul falso in bilancio e
l’autoriciclaggio è urgente. Com’è urgente accelerare il processo penale e allungare i
termini della prescrizione. Una forma di responsabilità civile «indiretta» per i magistrati può
essere opportuna. Com’è opportuna una disciplina più stringente sulla pubblicazione delle
intercettazioni. Ed è bene che su una materia così sensibile il governo rinunci a diktat che
riecheggiano le leggi-bavaglio di Berlusconi. Ma a Renzi, che chiede «consigli» ai
giornalisti, basterebbe ricordare quello che scriveva Giuseppe D’Avanzo su questo
giornale, l’11 giugno 2008: «Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da
quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle
indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime
dalle seconde dinanzi a un giudice, alla presenza delle difese e, per impedire la
divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario
estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per
i trasgressori…». Com’è chiaro da queste parole, non è vero che in Italia sulla giustizia
«da 20 anni si litiga senza discutere» come sostiene il premier, affezionato all’idea che dal
1994 in poi si sia combattuto un «derby ideologico» tra fazioni (e non si sia invece
consumata l’aggressione sistematica dell’esecutivo contro il giudiziario, attraverso il
braccio armato e servente del legislativo). Durante il Ventennio berlusconiano molto è
andato distrutto. E per questo molto si è discusso. Ma molto si è anche proposto, per chi si
fosse preso la briga di studiare testi e ricostruire fatti. Fino a pochi giorni fa, disegni di
legge sull’autoriciclaggio e sulla prescrizione lunga erano già in discussione in Parlamento.
Li ha congelati proprio Renzi, rivendicando legittimamente al governo il diritto-dovere di
varare una «riforma organica». Ma proprio per questo, adesso, aspettiamo quella, non le
«dodici palle» di Orlando.
del 01/07/14, pag. 4
«L’Altra Europa ma senza verticismi. La
sinistra non si evoca, si pratica»
Roberto Ciccarelli
Lista Tsipras. I giovani della campagna «Act -Agire, costruire,
trasformare»: «Costruiamo uno spazio pubblico dell'alternativa senza
pulsioni proprietarie, verticistiche e identitarie»
Fuori dall’Edipo che ha ridotto anche la sinistra al balbettìo dello scontro tra padri e figli.
Troppo stretto è anche il vestito dello scontro generazionale tra i vecchi e i giovani di cui
scrisse anche Pirandello. Il problema della lista alle elezioni europee «L’Altra Europa con
Tsipras» è stata la democrazia.
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Nella lunga assemblea all’Angelo Mai di Roma di domenica scorsa, che ha visto la
partecipazione di duecento attivisti della campagna «Act — agire, costruire, trasformare»
che hanno sostenuto le candidature di Alessandra Quarta nel collegio Nord-Ovest (oltre 11
mila le preferenze raccolte) e di Claudio Riccio nel collegio Sud (oltre 20 mila preferenze)
sono state squadernate le contraddizioni di un’esperienza prima dilaniata dalla contrastata
scelta di Barbara Spinelli di accettare il seggio nel parlamento Europeo, dopo avere
annunciato la sua rinuncia a elezioni concluse.
Poi tramortita quando, a conclusione dell’assemblea dei comitati territoriali il 7 giugno a
Roma che aveva espresso l’esigenza di discutere collettivamente, arrivò la decisione
individuale di Spinelli. Quella che ha escluso dall’Europarlamento Marco Furfaro di Sel.
Sono seguite le polemiche sul ruolo dei «garanti» Guido Viale, Marco Revelli, Luciano
Gallino e Spinelli ai quali l’assemblea di Act ha riconosciuto comunque un ruolo
fondamentale nel superare la frammentazione della sinistra dei partiti, proponendo la lista
con il nome del leader di Syriza Alexis Tsipras.
Nel frattempo c’è stata crisi di Sel, l’abbandono dei deputati guidati da Gennaro Migliore
non disponibili a proseguire la strada con Tsipras e la sinistra europea. Un mese più che
turbolento che ha provato gli entusiasmi nascenti dopo un risultato insperato.
In vista dell’assemblea nazionale prevista il 19 luglio, forse a Genova, e in attesa
dell’incontro con i tre deputati eletti, Spinelli, Curzio Maltese e Eleonora Forenza (Prc) a
Bruxelles e a Strasburgo previsto il 5 luglio a Roma, l’assemblea di Act ha cercato di
scuotere le acque. Tra gli altri era presente il coordinatore nazionale di Sel Nicola
Fratoianni che ha garantito l’appoggio al percorso intrapreso.
I giovani di Act hanno chiesto di «mettere da parte tutte le pulsioni proprietarie,
verticistiche e identitarie» che hanno turbato l’ancora breve vita della lista. «Non possiamo
accontentarci di organizzare il recinto della residualità e dei particolarismi o affidare
l’iniziativa politica a chi abbiamo eletto a Strasburgo». L’assemblea ha chiesto alle altre
componenti della lista di «investire in un grande processo di confronto aperto». Per
«praticare», e non solo «evocare» la sinistra, è stata proposta un’agenda di campagne per
il «Semestre dell’Altra Europa» contro il Ttip, il Fiscal Compact, per i beni comuni e i diritti
sociali. La proposta organizzativa è articolata su coordinamenti di scopo, campagne
tematiche e laboratori territoriali basati sul «metodo del consenso».
Più che organigrammi, si vuole costruire uno «spazio politico dell’alternativa» attraverso
coalizioni sociali, reti trasversali e includenti con i movimenti, le associazioni, i singoli, in
forma pubblica e aperta.
Del 01/07/2014, pag. 12
L’apertura di Berlusconi sui diritti degli omosessuali spiazza i cattolici
conservatori, oggi ancora più isolati E la destra si spacca: Lega, Fdi e
Ncd contro Forza Italia. Ma Toti cita papa Francesco
Gay, la svolta di Silvio asfalta i teocon
ALESSANDRA LONGO
ROMA - Dove sono finiti i teocon? Berlusconi apre ai gay ed ecco la vera scoperta: c’è un
mondo che, fino a non molto tempo fa, contava molto, un mondo a lungo raccolto
all’ombra del cardinal Ruini, in grado di imporre alla pubblica opinione e alle forze politiche
l’etica dei precetti, di difendere dagli assalti “nuovisti” la cosiddetta identità
cristianoconservatrice- nazionale. Il mondo delle Binetti, dei Giovanardi, tanto per citarne
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due esponenti, il mondo di Formigoni, di Comunione e Liberazione, dell’Opus Dei, dei
movimenti cattolici artefici delle piazze gremite e rabbiose del Family Day, capaci di
spaventare il Parlamento nel momento delle scelte «sensibili». Ecco: questo mondo oggi
sembra più bisbigliare che rumoreggiare. Deve essere davvero declinante la comunità
degli atei devoti se l’ex presidente del Consiglio ai servizi sociali ha allegramente deciso di
ignorarla (forse su istigazione della giovane Pascale) e buttarsi - anche a costo di far
irritare Alfano, Salvini e la Meloni, com’è successo ieri – nella battaglia per i diritti degli
omosessuali. La vera notizia è quasi questa: qualcosa è davvero cambiato in termini di
rapporti di forza, forse è il vento europeo, forse «le priorità dettate dall’emergenza
economica», come suggerisce Dorina Bianchi, protagonista ai tempi della fecondazione
assistita, forse conta anche l’atteggiamento di Papa Francesco, guarda caso citato proprio
da Giovanni Toti, luce degli occhi berlusconiana: «Sulla questione dei diritti gay i tempi
sono maturi e vi ricordo la frase del Papa: “Chi sono io per giudicare certe situazioni di vita
delle persone? ». I teocon ci sono ma sono sparsi, sembrano disorientati. Berlusconi è
andato a stuzzicarli con quella nota scritta («E’ il momento di dar battaglia sui diritti civili
per i gay») e ieri quel mondo si è debolmente animato uscendo dal sonno. Carlo
Giovanardi, il più robusto, lancia l’allarme: «Stiamo assistendo ad un vero e proprio
tentativo di rivoluzione antropologica ». Di fronte all’idea che possa crearsi un asse
perverso Scalfarotto-Berlusconi, quasi sviene. L’ultima volta che Giovanardi si sentì
mancare fu quando la figlia gli confessò che si era fidanzata con un rasta, nero e gay.
Comprensibile dunque l’attuale stato d’animo, quel senso forse anche di isolamento, visto
che la Chiesa ieri non ha tuonato anatemi. Anche Rocco Buttiglione, che definì
«sbagliata» l’omosessualità («Ho pagato ma lo penso ancora ») non vibra come un tempo:
«Che si possa andare ad una legislazione in materia di diritti ai gay non mi sento di
escluderlo. C’è un problema di difficile soluzione: dare ai gay una nuova comprensione dei
loro particolari problemi (così testuale, ndr) cercando, nel contempo, di non diffondere ed
equiparare il loro stile di vita a quello di una famiglia composta da uomo e donna». Che
Berlusconi faccia sul serio? «Non è mai stato un pilastro della fede. Vediamo quanto dura
questa sua convinzione ». Dorina Bianchi, ora con Alfano, trova «esagerato occuparsi così
tanto del pensiero di Berlusconi». Tuttavia dice la sua: «Vada per un ritocco del codice
civile che assicuri diritti alle coppie omosessuali ma no a matrimoni e adozioni gay che, tra
l’altro, sono un falso problema perché, a volerli, è una ristretta lobby che cerca visibilità».
Un tempo ci sarebbe stato un coro a sostegno di queste tesi. Un tempo, ricorda Eugenia
Roccella, anche lei Ncd, l’apertura ai gay dentro Forza Italia era sostenuta da una
ristrettissima minoranza. E adesso? E adesso persino l’ineffabile Gianfranco Rotondi si
schiera: «Nessun pregiudizio ». Roccella parla di «subalternità culturale nei confronti della
sinistra», di un Berlusconi «politicamente debole a ricasco del politically correct». Però,
intanto, questo è successo. L’ex Cavaliere non ha ritrattato e si è sorbito le isteriche
reazioni di un centrodestra già terremotato. «Attento - gli dice Salvini - una coalizione non
si costruisce con queste sortite». Il fratello d’Italia Alemanno evoca «il rischio fratture» e gli
alfaniani promettono di mettersi di traverso in Parlamento. Però il dubbio ce l’hanno. Ci
saranno abbastanza teocon o i tempi sono cambiati?
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 01/07/2014, pag. 19
La Chiesa contro i boss “Basta padrini nei
battesimi”
“Non sono più guide spirituali”. Da Reggio Calabria la richiesta di una
moratoria di dieci anni contro l’uso strumentale dei sacramenti da parte
dei clan. E il Papa dice: discutiamone
La storia
ATTILIO BOLZONI
SI CHIAMA battesimo anche quello. E pure lì c’è un padrino. Quando si fa entrare
qualcuno in «famiglia » si dice — per l’appunto — che viene battezzato. A loro, solo a loro,
capita due volte: quando nascono e quando diventano uomini d’onore. Privilegi di mafia.
In un caso o nell’altro, il figlioccio di un «don» importante è segnato per tutta la vita.
Battesimi, cresime, matrimoni. Ogni occasione è buona per rinsaldare legami, non ci si
può far sfuggire nessuno quando c’è da stringere amicizie e patti. Se non ci sono vincoli di
sangue, sono loro, i padrini e i compari, che garantiscono fedeltà e continuità alla stirpe. È
come un giuramento solenne. Non saranno evidentemente pratiche così arcaiche —
qualcuno però sospetta il contrario, che non usa più come un tempo — se l’arcivescovo di
Reggio Calabria, Sua Eminenza Giuseppe Fiorini Morosini, abbia proposto a Papa
Francesco di abolire i padrinaggi per i sacramenti del battesimo e della cresima «per
ostacolare l’uso strumentale della Chiesa da parte della ‘ndrangheta». Una sospensione a
tempo e per territorio, valida solo per la diocesi calabrese dove — semmai il Vaticano
dovesse accogliere l’invito del monsignore — entrerebbe in vigore una legge ecclesiale
speciale. Servirebbe davvero a qualcosa? Con l’interruzione decennale si potrebbe
recuperare l’autentico valore del padrinaggio? La questione posta dall’arcivescovo
Morosini a prima vista sembra guardare più al passato che al futuro, ma in molti
assicurano che il problema esiste e resiste anche in quella «mafia liquida» calabrese
(definizione di ‘ndrangheta dell’ex presidente della commissione parlamentare antimafia
Francesco Forgione) che apparentemente ha altro a cui pensare nel momento che lo
Stato — con gran ritardo — si è accorto che c’è. Ci tengono ancora così tanto i boss della
Piana o della Locride a fare da padrini ai figli degli amici? E loro sono davvero ancora così
ricercati per battesimi e cresime? Fino a qualche anno fa in alcune zone dell’Aspromonte il
padrino prescelto, nel giorno del battesimo, baciava il neonato e collocava nella culla un
coltello. Se il piccolo girava il capo verso la lama voleva dire che prometteva bene, se si
voltava dall’altra parte il povero bambino si sarebbe portato addosso per sempre il marchio
di «sbirro». Anche le vicende di mafia e di camorra sono contornate da «parrini» e
«cumparielli» che entrano in scena per le feste comandate. Il padrinaggio
e il comparaggio si trasformano in un rapporto indissolubile per due persone estranee a
unioni sanguigne, a volte quasi più forte di una parentela intima. È la complicità totale, si
trova in un covo ma si cerca anche in una chiesa. Ricordava un vecchio siciliano che ha
studiato le abitudini mafiose: «Confidarsi con un padrino o con un compare è come
confidarsi con se stesso». Chi è stato il padrino del secondo battesimo (quello di Cosa
Nostra) di Giovanni Brusca? Totò Riina, il migliore amico del vecchio Bernardo, il padre
del boia di Capaci. Quale nome non ha mai fatto al giudice Falcone il pentito Tommaso
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Buscetta nel 1984? Quello di suo compare Gioacchino Pennino senior. Sulla carta fare il
padrino mette al riparo da tutto. Il legame è inviolabile, almeno secondo quelle leggi non
scritte. Compari erano Michele Greco — il «papa» della mafia» e Giovanni Prestifilippo, il
cui figlio Mario Giovanni detto «la iena di Ciaculli» era stato tenuto a battesimo da don
Michele. Lui però non mosse un dito quando i Corleonesi decisero di assassinarlo.
Compari erano anche Luciano Liggio e Gaetano Badalamenti al tempo del «triumvirato»,
quando alla fine degli anni ‘60 erano insieme in un governo provvisorio di Cosa Nostra.
Qualche tempo dopo i sicari di Liggio — nonostante Lucianeddu fosse il padrino di uno dei
figli di don Tano — sterminarono tutti i parenti del boss di Cinisi.
Un’ultima osservazione sulla proposta di Sua Eminenza Morosini. I mafiosi si sposano fra
di loro, non prendono solitamente moglie fuori dalle famiglie, promettono in sposa una
sorella o una cugina solo a chi è nell’ambiente. E avviene così anche per i padrinaggi.
Testimonianza di Margherita Petralia, moglie del boss di Paceco Gaspare Sugamiele:
«L’invito a fare da padrino o da madrina non può essere rivolto che a persone interne
all’organizzazione ». E tutti gli altri? Se dovesse passare mai l’idea dell’arcivescovo di
Reggio, perché gli altri bambini calabresi non dovrebbero avere un padrino per il loro
battesimo o la loro cresima?
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 01/07/2014, pag. 4
“Tentavano di uscire, gli hanno chiuso la
botola in faccia”
FRANCESCO VIVIANO
ALESSANDRA ZINITI
IL RACCONTO
POZZALLO C’è una foto che racconta l’orrore della morte nella stiva di quel barcone
carico come mai nessuno ne aveva mai visti. Corpi ammassati gli uni sugli altri, alcuni
mezzi nudi, altri vestiti, un groviglio di braccia e di gambe spasmodicamente tese verso
quell’unica via di salvezza che altri compagni di viaggio, dall’alto, gli hanno ferocemente
negato condannandoli ad una morte atroce, quasi certamente per asfissia ed esalazioni
tossiche che provenivano dal motore. Tutti uomini giovani, poco più che ragazzi, tutti “neri
neri” per distinguerli dai “neri” che, in una disperata lotta per la sopravvivenza, li hanno
ricacciati giù chiudendogli sul capo la botola che portava fuori, all’aria, per evitare che
movimenti pericolosi potessero far rovesciare quel peschereccio che già beccheggiava
paurosamente, con la gente che viaggiava quasi fuori bordo, a pelo d’acqua, tenendosi
forte ai corrimani, con i genitori che stringevano a sé i tantissimi bambini a bordo, alcuni
neonati di pochi mesi. «Sembrava una fosse comune di Auschwitz, credo che sia
un’immagine che racconta tutto», dice il dirigente della squadra mobile di Ragusa Nino
Ciavola mentre, sul molo di Pozzallo, con i suoi uomini raccoglie le prime testimonianze
dei superstiti e cerca di individuare gli scafisti che, come sempre, tentano di mimetizzarsi
tra i profughi magari prendendo in braccio un bimbo altrui per fingersi il padre in fuga con il
figlio. «Gridavano, chiedevano aiuto, imploravano di farli uscire fuori, di fagli respirare un
po’ d’aria, cercavano di arrampicarsi gli uni sugli altri per uscire da quel buco
dove li avevano stipati come animali da macello. Ma la barca cominciava a muoversi
troppo, altri che erano sopra sul ponte hanno avuto paura e allora gli hanno richiuso la
botola in faccia e si sono seduti sopra», racconta in lacrime uno dei superstiti, un giovane
siriano in viaggio con la moglie e due bambine piccole. In tanti a bordo non si sono resi
conto di quello che succedeva, in tanti non sapevano neanche al momento dello sbarco
che c’erano almeno una trentina di morti, ma c’è anche chi ha visto e racconta una terribile
guerra tra poveri, che “puzza” di razzismo persino tra gente con la pelle dello stesso
colore, solo con una sfumatura più chiara, tra “poveri” e “morti di fame”. Perché quelli che
gli scafisti hanno piazzato in quel gavone di prua, accanto al vano motore, senza neanche
una scaletta per salire su, sono quelli che non avevano i soldi per pagarsi “un posto al
sole”, né un tozzo di pane, né acqua. A bordo era già scoppiata una rissa, alcuni africani
avevano insidiato donne siriane, si erano presi a colpi di cintura, poi un siriano è stato
gettato in acqua e fortunosamente recuperato dai suoi amici. «I morti sono tutti “neri-neri”
e ad ucciderli sono stati altri neri — racconta Ebrima Singhetedi, 20 anni, del Gambia, un
“nero-nero” sopravvissuto alla mattanza — Io ero fuori, vicino a quella botola che
immetteva nella stiva. Quando siamo partiti dalla Libia, alcuni giorni fa, era rimasta per
qualche tempo aperta. Poi, quando il mare ha cominciato ad agitarsi ed il peschereccio
ondeggiava di qua e di la, quelli di sotto si sono spaventati e hanno provato ad uscire.
Avevano paura che la nave si rovesciasse, la barca navigava lentamente perché era
stracarica, c’era gente dappertutto, sopra, sotto, ai bordi del peschereccio e
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nessuno di noi aveva un salvagente. E quando quelli là sotto hanno cominciato ad agitarsi
per tentare di uscire dalla stiva la nave ondeggiava ancora di più. È stato allora che quelli
di sopra gli hanno chiuso la botola in faccia. Loro gridavano e gli altri sopra tenevano
chiuso il coperchio. Abbiamo sentito le loro urla per ore, ma non potevamo fare nulla,
avevamo paura di essere buttati in mare. Poi, poco prima che si avvicinasse un altro
peschereccio e le navi della Marina Italiana, i lamenti sono cessati. Ho capito che erano
tutti morti. Tra loro c’era anche un mio cugino ed altri amici del mio villaggio».
Quanti siano con esattezza i morti si saprà solo oggi pomeriggio quando il peschereccio
trainato dalla nave Grecale entrerà nel porto di Pozzallo. I medici della Marina che si sono
affacciati dalla botola hanno stimato sommariamente una trentina di cadaveri, sembra tutti
di uomini. I trenta “neri-neri” morti, secondo il racconto di Ebrima Singhetedi, sarebbero
tutti originari del Gambia come lui, mentre quelli che li avrebbero fatti morire sarebbero
senegalesi come uno dei presunti scafisti che in serata è stata individuato e fermato dagli
uomini della squadra mobile di Ragusa. «A noi, che avevamo pagato di meno il viaggio, ci
hanno dato i posti peggiori ed i più sfortunati sono stati proprio quelli che sono saliti per
primi e sono stati infilati dentro quella stiva del peschereccio che ora dopo ora si riempiva
sempre di più. Qualcuno non voleva andare ma c’era “il capitano” ed altri suoi uomini che li
spingevano a forza dentro quel pozzo. Io ed altri miei connazionali siamo stati più fortunati
perché ci hanno sistemati in un’altra parte del barcone però all’aria».
Ad assistere impotenti a quel massacro decine e decine di siriani, tutti con mogli e figli,
molti ancora piccolissimi. «Si sono ammazzati tra di loro — dice uno di loro — tutto è
accaduto dopo un giorno di navigazione, qualcuno ogni tanto gli tirava giù qualche bottiglia
d’acqua, poi improvvisamente è scoppiato il finimondo».
Del 01/07/2014, pag. 1-25
IL DIRITTO DI RESPIRARE
GAD LERNER
IL GROVIGLIO di corpi accatastati nei barconi fino a provocare la morte per soffocamento
di chi sta sotto, è la diretta conseguenza del monopolio sul trasporto marittimo dei migranti
che noi europei abbiamo concesso alle organizzazioni criminali. Stiamo uccidendo migliaia
di innocenti e stiamo arricchendo le nuove mafie transnazionali.
NOI che ci indigneremmo se in simili condizioni venissero stipati gli animali destinati al
macello, accettiamo che degli umani vengano caricati sui battelli a cinghiate come
bestiame.
Quello che i sopravvissuti tra di loro chiamano pudicamente “il viaggio”, ma solo in pochi
avranno il coraggio di rievocarlo, è la cruna dell’ago del mondo contemporaneo. Chi lo
intraprende sa cosa rischia: ormai depredato di tutto, imbarcandosi è come se entrasse
per sua volontà in stive le cui pareti metalliche possono trasformarsi in camere a gas,
fatale ultimo azzardo dopo un’infinità di torture subite. Uomini, donne e bambini muoiono
sotto i nostri occhi in uno stretto braccio di mare per disidratazione, per affogamento e ora
anche per mancanza d’aria. È grottesco pensare di disincentivarli inasprendo i controlli o
negando loro accoglienza. Le sofferenze che li hanno sospinti a partire e le violenze già
subite lungo il tragitto, sono incommensurabili col nostro potenziale dissuasivo.
Meritano il nostro rispetto le unità della Marina militare che con scarsità di mezzi si
prodigano nei salvataggi, riscattando il disonore dei giorni in cui eseguirono l’ordine dei
respingimenti. Ma è evidente che Mare Nostrum è solo un palliativo, là dove andrebbe
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creato subito un corridoio umanitario, ovvero un servizio civile di traghetti e voli charter per
smistare razionalmente i migranti in varie destinazioni europee.
Nel recente Consiglio dell’Ue è stato ancora una volta eluso l’imperativo di un “mutuo
riconoscimento” delle decisioni di asilo. Si perpetua l’assurdità per cui tale diritto di asilo
viene riconosciuto solo nello Stato membro che l’ha concesso. Ne deriva una prassi
ipocrita: le autorità italiane evitano tacitamente di procedere all’identificazione dei migranti
approdati sulle nostre coste ma desiderosi di farsi riconoscere lo status di rifugiati in
nazioni più accoglienti. Così, per favorire la loro ripartenza, dopo quello degli scafisti
incrementiamo pure il trasporto illegale via terra dei passeur. Siamo apprendisti stregoni,
favoriamo il riciclo di enormi profitti spesso destinati all’acquisto di armi con cui verremo
minacciati e poi forse aggrediti. Sappiamo bene che la tragedia storica delle migrazioni
dalla sponda sud del Mediterraneo divide lo nostre coscienze. Il leader del principale
partito di opposizione si è dichiarato contrario a aiutare i migranti perché altrimenti
«finiremmo con percentuali di voto da prefisso telefonico ». L’estrema destra impersonata
da Salvini resuscita la fandonia dell’«aiutiamoli a casa loro» dopo che per anni i governi
che appoggiava hanno tagliato i fondi della cooperazione, favorito l’esportazione di armi,
sostenuto gli aguzzini di quei popoli.
Lo stesso disimpegno europeo, che Juncker non rimedierà certo con la nomina di un
commissario ad hoc , rischia di far solo da foglia di fico perché maschera inadempienze
tutte italiane. Come non riconoscere un segno plateale del declino che ci affligge nel
nostro essere contemporaneamente un paese sempre più vecchio e un paese restio a
aggiornare le sue normative per l’integrazione dei flussi migratori. Matteo Renzi, un
maestro nella conquista del consenso popolare, ha una spiccata tendenza a eludere le
questioni che dividono l’opinione pubblica. Lo testimonia il dirottamento a Strasburgo di
Cécile Kyenge, forse la principale novità del governo precedente. E lo conferma la messa
in sordina della cittadinanza per i bambini stranieri residenti in Italia.
Eppure il cataclisma euromediterraneo in cui si trova immerso il nostro paese, per quanto
difficile da gestire, ne rappresenta anche l’unica prospettiva futura di rinnovamento.
Viviamo in un’epoca che ha visto schizzare a 51,2 milioni nel 2013, secondo l’ultimo
rapporto Global trends dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi, il numero
dei migranti forzati. Molti di loro sono sfollati interni che aspirano a fare ritorno non appena
possibile alle proprie case. Ma i fuggiaschi sono aumentati di ben 6 milioni nel giro di un
solo anno. La Siria, la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan si aggiungono all’Eritrea,
alla Somalia e in parte al Maghreb come luoghi in cui vivere è quasi impossibile. Gli apolidi
sono circa 10 milioni, di cui solo un terzo effettivamente censiti. Di fronte a un tale
sommovimento neanche se lo volesse l’Europa potrebbe trasformarsi in una fortezza. Del
resto, nella prima metà del secolo scorso, furono gli europei a emigrare in decine di milioni
verso le Americhe e l’Australia. Ora al vecchio continente tocca gestire un flusso inverso,
riconoscendo a noi prossima l’umanità dei miserabili in cammino. L’osmosi è un destino
ineluttabile, da programmare con lungimiranza. Tanto per cominciare, abbiamo gli
strumenti civili, tecnologici e militari per debellare le organizzazioni criminali che lucrano
sul commercio di vite umane. La Libia, anche per nostra colpa, è caduta nelle mani di
signori della guerra cui va sottratto il potere territoriale di smistamento dei migranti. Creare
delle enclaves per il soccorso, l’identificazione e il trasporto sicuro è meno pericoloso che
subire il loro predominio. Il semestre europeo dell’Italia ci assegna un compito strategico,
da assolvere con pietà e efficienza. Traghetti subito. Mutuo riconoscimento delle domande
d’asilo. Monitoraggio comune e equo smistamento. Affinché nessuno muoia più soffocato
dal corpo di un padre o di un fratello.
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del 01/07/14, pag. 5
Oltre 61 mila persone sbarcate da inizio anno
Nove milioni e mezzo al mese per i salvataggi
Alessandra Arachi
È una bara gigantesca il nostro Mediterraneo. Una bara senza confini, senza certezze.
Non si possono contare con precisione le persone che sono annegate durante le
traversate. Si possono stimare. Diecimiladuecentocinquanta, solo negli ultimi sette anni,
hanno calcolato alla Comunità di Sant’Egidio. Anime smarrite: volevano raggiungere
l’Italia, la Grecia, la Spagna. Ora dormono sotto quel mare color metallo.
Un mare che non smette di essere solcato da imbarcazioni che abbiamo imparato a
chiamare «carrette». Cosa è successo negli ultimi sette anni? Per raggiungere l’Italia via
mare sono montati a bordo di quelle «carrette» più di 230 mila immigrati (231.314, per la
precisione) .
Il record
Non era mai successo che arrivassero tanti migranti tutti insieme come quest’anno: 61
mila 500 nei primi sei mesi. Un record inquietante: nello stesso periodo del 2013 erano
stati infatti 7 mila 916. Un record che non ha paragoni con l’anno che fino ad ora aveva
superato ogni picco, visto che nel 2011 erano arrivati in (quasi) 63 mila. Nel 2014 siamo
sul passo del raddoppio netto.
«C’è un flusso notevole di pressione di immigrati sulle nostre coste, ma la verità è che poi
quelli che vogliono rimanere in Italia sono una percentuale minima» garantisce Carlotta
Sami, portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Poi
precisa: «Per fare un esempio e farmi capire basta prendere i Siriani: tra quelli che
quest’anno sono arrivati in Italia, soltanto il 4 per cento ha fatto richie sta di asilo politico» .
Rifugiati
Scappano dalle guerre, dai regimi, dalle carestie gli immigrati che toccano terra in Italia
dopo aver attraversato deserti, montagne e pianure prima di imbarcarsi su quel mare che,
all’improvviso, può diventare il peggiore dei nemici. Cinquemilasettecentosettanta in sette
anni sono stati i morti soltanto nelle acque del Mediterraneo che circondano le nostre
coste.
Mare Nostrum
Ecco il perché di Mare Nostrum. Dall’ottobre dello scorso anno il governo ha varato questa
operazione militare: è interamente dedicata al salvataggio dei migranti. Dalla nascita Mare
Nostrum è stata accompagnata dalle polemiche per i costi. Costi che continuano a
lievitare.
Al suo battesimo, in ottobre appunto, venne infatti dichiarato che l’operazione sarebbe
costata un milione e mezzo di euro al mese. Adesso dal Viminale non esitano ad
ammettere una cifra sette volte superiore, ovvero nove milioni e mezzo al mese. Del resto
non potrebbe essere altrimenti visto lo schieramento di forze messo in campo.
Millecinquecento militari, aerei infrarossi, navi, motovedette, fregate e persino i droni radar.
In campo, poi, è stata fatta scendere anche la nave anfibia San Marco, per l’occasione
trasformata in ospedale, con 165 uomini di equipaggio e un costo stimato di 45 mila euro
al giorno, quindicimila euro in meno della fregata Maestrale, tre volte di più dei
pattugliatori. Non manca il lavoro alla squadra di Mare Nostrum, anche se è un lavoro che
non può avere alcuna organizzazione.
Imprevedibile
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Già, è un flusso che non può essere previsto nè controllato quello degli immigrati che
sbarcano quasi quotidianamente sulle nostre coste. Nel 2010, ad esempio, arrivarono in
tutto 4 mila 406 profughi/immigrati e l’anno precedente erano stati appena poco più del
doppio: come si poteva immaginare l’invasione improvvisa che sarebbe arrivata nel 2011?
«Non voglio parlare di invasione quando discutiamo di sbarchi degli immigrati, non è una
parola che mi piace». Da due settimane il prefetto Mario Morcone è tornato al Viminale, a
dirigere il dipartimento dell’Immigrazione. Ieri era a Bruxelles a parlare proprio del
problema italiano degli sbarchi con il tedesco Mathias Reute, il numero uno in Europa per
la questione dell’immigrazione. Fatichiamo sempre molto con l’Europa per farci aiutare ad
affrontare un problema che, come si è visto dai numeri, non è certo soltanto nostro.
Dice il prefetto Morcone: «L’Italia è un Paese con 60 milioni di abitanti e 8 mila 100
comuni. Per questo non mi piace parlare di invasione. Abbiamo posto per ospitare queste
persone che sono per la grande maggioranza profughi in fuga dalle guerre e dalle
difficoltà. Guardiamo i numeri dei flussi: arrivano dalla Siria, dall’Eritrea, dal Sudan, dalla
Libia. Ecco perché ci stiamo organizzando sempre meglio per l’accoglienza».
5 mila posti in più
Mario Morcone ci fa sapere che proprio da oggi saranno a disposizione 5 mila posti in più
nei centri Sprar, quelli dedicati agli immigrati rifugiati. «Fino ad oggi erano 15 mila, ora
saranno 20 mila», dice il prefetto Morcone, prima di annunciare il lancio degli «hub», un
progetto di collaborazione dello Stato con le Regioni che — garantisce — dovrebbe essere
varato a giorni.
«Gli «hub» sono, come dice la parola inglese, degli snodi, dei posti di transito dove
verranno portati gli immigrati per essere smistati: i profughi e i richiedenti asilo diretti nei
centri di assistenza degli Sprar; gli altri, quelli arrivati clandestini per motivi economici
saranno invece rimpatriati, o volontariamente o forzatamente. Gli «hub» dovrebbero
essere dei luoghi per evitare che, alla fine, gli immigrati sbarcati finiscano nei Cie (Centri di
identificazione ed espulsione) senza che prima si sia capito se sono rifugiati o, appunto,
clandestini .
I Cie
In linea teorica i Cie in Italia sono tredici. Ma la verità è che ad oggi ad essere attivi sono
soltanto cinque e ospitano circa 600 immigrati clandestini. Introdotti nel 1998 con la legge
sull’immigrazione firmata anche dall’attuale presidente della Repubblica, la TurcoNapolitano, i Cie sono da sempre bersaglio di polemiche, da tutti i fronti politici e umanitari.
Frontex
Non è facile trovare strutture di accoglienza per così tante persone. «Siamo in attesa che
l’Europa ci metta a disposizione i cosidetti fondi Fami, ovvero 300 milioni di euro per il
periodo che va dal 2014 al 2020», spiega ancora il prefetto Mario Morcone che ieri a
Bruxelles è andato a discutere anche di questi soldi, dei progetti che bisogna fare per
poterli finalmente ottenere. Ma è andato anche per discutere di come poter finalmente
sostituire la nostra operazione Mare Nostrum con Frontex, il progetto europeo di
cooperazione internazionale .
del 01/07/14, pag. 9
I CENTRI · Sovraffollato il Cara di Mineo. In
Calabria il più grande
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I centri di accoglienza sono affollati, impreparati all’arrivo dei migranti, come se ogni estate
il fenomeno cogliesse di sorpresa l’Italia. Il centro più affollato è quello di Mineo (Catania),
dove ci sono cinquemila persone. In Puglia, a Taranto, l’operazione «Mare Nostrum» ha
portato quattromila persone nell’ultimo mese, e 1.171 sono arrivate nelle ultime ore:
profughi siriani, palestinesi, e dell'Africa sub sahariana. Tra loro 174 minorenni. In Calabria
è attivo il centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto (Crotone), tra i più grandi d'Europa: il
centro ha una capienza massima di 900 persone. Il Molise ospita circa 400 profughi, ma
altri 800 migranti dovrebbero arrivare a breve, e la Basilicata ne ha altri 262. In Sardegna il
Cpsa-Cara di Elmas (Cagliari) accoglie 254 migranti: quasi tutti hanno fatto richiesta di
asilo politico. La Campania ha circa mille profughi tra Napoli e Salerno. A Roma i migranti
sono ospitati al Cie di Ponte Galeria e al Cara di Castelnuovo di Porto: avrebbe una
capienza da 650 persone, ma oggi ha ben 720 ospiti. A Perugia ci sono alcune centinaia
di ospiti, nelle Marche da aprile ci sono circa 600 migranti, e, secondo la circolare
ministeriale, sono in arrivo altri 290 immigrati che saranno ospitati in alberghi,
appartamenti gestiti da Caritas e altre associazioni. In Toscana i profughi sono 1.074,
raddoppiati nell’ultimo mese e mezzo. L'Emilia Romagna ha circa 650 immigrati. Al Nord, il
Friuli Venezia Giulia ha accolto da inizio anno circa 200 profughi, ospitati in alberghi, in
Veneto sono arrivati 797 immigrati. La Provincia autonoma di Trento accoglie a Rovereto
120 richiedenti asilo. In Lombardia, solo a Milano dal 13 maggio sono stati accolti 2.343
eritrei, ma oltre 10mila siriani sono transitati dal mese di settembre. Il Piemonte accoglie
circa 800 profughi in tutte le province.
del 01/07/14, pag. 2
Le 20 mila vittime della ‘Fortezza Europa’
IN 25 ANNI UNA STRAGE CONTINUA. E IL CANALE DI SICILIA È LA
FOSSE COMUNE PIÙ GRANDE DEL MEDITERRANEO
di Mario Marcis
Se ci si limitasse a guardare i numeri lo si dovrebbe chiamare “Mare monstrum”, non
“Mare nostrum”, secondo la dicitura latina. In 26 anni, dal 1988, il Mar Mediterraneo ha
inghiottito 19.812 esseri umani. Il dato viene da Fortress Europe, blog di Gabriele Del
Grande, che per anni ha viaggiato nei paesi affacciati sul Mediterraneo alla ricerca di
storie. Ma le storie, i volti, senza i numeri valgono poco, soprattutto quando si parla di
morti. In quella che Del Grande definisce “una grande fossa comune” i numeri che si
possono estrapolare dalla cifra totale sono tanti. Il 2011 è stato l’annus horribilis delle
migrazioni. Ben 2.352 migranti hanno perso la vita in quell’anno. Sono 590 i morti nel 2012
e 801 nel 2013. Il Canale di Sicilia, nella grande fossa comune, è la buca più profonda.
Le vittime sono state 7.314, di cui 5.360 sono stati i dispersi. Cercavano di espugnare la
‘fortezza Europa’, attraverso il tratto più breve, quello che collega Tunisia e Libia a Malta,
ma soprattutto alla Sicilia. Tra Lampedusa e la Libia ci sono solo 355 chilometri. Un’altra
tratta ‘calda’ – che non è nel Mediterraneo, ma è comunque una porta per il Vecchio
continente – è quella che attraverso l’Atlantico porta alla Spagna continentale o alle
Canarie. 4.910 persone di cui 2.466 disperse, sono morte nelle navi salpate da Mauritania,
Senegal, Algeria e Marocco. Il Mar Egeo ha fagocitato meno vittime, ma 1.577 morti, tra i
quali 857 dispersi, non sono pochi. C’è chi sui barconi neanche ci arriva. Il mare è solo
l’ultimo ostacolo da affrontare per molti di loro.
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PER CHI FUGGE dalla Siria o dal Corno d’Africa il Sahara è una tappa obbligata. Nei
viaggi di fortuna sui camion o sui tir, dal 1996 a oggi sono morte almeno 1.790 persone,
secondo i dati di Fortress Europe, ma si tratta di un dato sottostimato. Poi ci sono i governi
dei paesi del Maghreb: Tripoli, Algeri e Rabat non sono mai stati teneri verso profughi e
migranti. Nel 2000 a Zawiyah, in Libia, furono sterminate 560 persone nel corso di
sommosse razziste. Viaggiando nascosti nei tir hanno perso la vita per incidenti stradali,
per soffocamento o schiacciati dal peso delle merci 373 persone. Circa 416 esseri umani
sono annegati attraversando i fiumi frontalieri: la maggior parte nell'Evros tra Turchia e
Grecia. Alla fine si arriva alla frontiera e non sempre ci sono le Fregate militari e Frontex
ad accogliere. Soprattutto in passato sono state le armi spianate a ricevere i migranti. La
polizia di frontiera spagnola, al confine tra Ceuta e Melilla, le enclavi spagnole in territorio
africano, ha ucciso negli anni a colpi di fucile almeno 53 persone.
del 01/07/14, pag. 8
Fallisce la politica emergenziale, per non dire
dell’accoglienza
Giovanna Vaccaro
Operazione Mare Nostrum. I più «fortunati» finiscono negli Sprar, per gli
altri il futuro è incerto, fino all’orrore dei Cie, anche per i richiedenti
asilo
Da mesi, ormai, assistiamo quasi quotidianamente ai salvataggi di migliaia di migranti da
parte delle navi militari dell’Operazione Mare Nostrum. Ma cosa succede dopo? Come
viene gestita l’accoglienza? Dove finiscono le persone tratte in salvo dalle navi militari?
La premessa è sempre la stessa: nonostante l’Italia sia interessata da oltre 20 anni ai
flussi immigratori, continua a perseguire una gestione emergenziale del fenomeno e,
poiché nell’emergenza l’eccezione è regola, accade tutto ciò che non dovrebbe accadere.
La presenza delle navi della marina militare impegnate nella cosiddetta operazione
umanitaria Mare Nostrum, nata all’indomani dei tragici naufragi di ottobre con lo scopo di
garantire la salvaguardia della vita in mare e contrastare il traffico illegale di esseri umani,
ha in realtà provocato la destagionalizzazione degli arrivi, l’incentivazione delle partenze e
quindi della tratta di esseri umani, l’utilizzo di imbarcazioni ancora più precarie per il
viaggio, la decentralizzazione delle frontiere con le identificazioni a bordo e il collasso
definitivo del sistema di accoglienza. E così, dall’inizio dell’operazione gli arrivi sono
quadruplicati rispetto all’anno passato, ci sono stati numerosi sbarchi anche in pieno
inverno, decine di richiedenti asilo hanno toccato terra avendo già un decreto di
espulsione a carico e l’accoglienza è caratterizzata più che mai dalla violazione dei diritti di
chi arriva.
Le navi di Mare Nostrum raggiungono terra solo una volta aver fatto il carico massimo dei
migranti. Questo è il motivo per cui assistiamo a sbarchi che superano anche il migliaio di
persone. E così i profughi di guerra e dittature, dopo aver trascorso anche fino a 5 giorni
sul ponte della nave militare, sotto il sole del giorno e nel freddo della notte (durante i quali
non vengono informati in nessun modo rispetto a quello che sta succedendo e accadrà),
una volta giunti sulla terraferma vengono suddivisi in gruppi di partenza verso diversi tipi di
centri disseminati in tutti Italia. Ai più fortunati riuscirà essere accolti in uno dei centri del
sistema di accoglienza integrata Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e
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rifugiati), mentre agli altri toccherà entrare nello scandaloso circuito della prima
accoglienza.
C’è chi finirà in uno dei centri di primo soccorso e accoglienza, allestiti in strutture di varia
natura, palestre comunali, tendopoli, palazzetti dello sport, le quali, troppo spesso,
divengono il luogo dove i richiedenti asilo sono condannati a vivere per numerose
settimane o mesi, a dispetto del limite massimo di permanenza previsto di 72 ore, ovvero il
tempo necessario per l’identificazione e l’individuazione di centri di accoglienza.
C’è chi sarà invece direttamente trasferito in uno dei numerosi Centri di accoglienza
straordinaria attivati dal ministero dell’Interno in diverse provincie di Italia per un totale di
9.000 posti, sulla base di accordi tra le Prefetture territoriali e gli enti gestori. Si tratta per lo
più di alberghi, B&B, case private, appartamenti affittati ad hoc, il cui gestore che ha
stipulato una convenzione con la prefettura locale, si impegna a erogare un servizio di
accoglienza, a fronte di un compenso di 30 euro quotidiane per ciascun migrante.
L’accoglienza fornita dai Cas, troppo spesso all’insegna della più totale impreparazione, è
riconducibile al principale requisito essenziale richiesto, ovvero quello della disponibilità di
posti. Poco conta che chi si occuperà dell’accoglienza non abbia alcun tipo di esperienza o
inclinazione particolare in questo ambito e che probabilmente tarerà il servizio di ricezione
di accoglienza dei migranti esclusivamente in base alle ragioni del profitto.
Del resto la priorità delle ragioni economiche si ritrova in tutto il business della prima
accoglienza.
A questa mancanza di condizioni preliminari va aggiunta anche quella di un sistema di
controllo sull’attività di questi centri, i quali, nonostante siano in via teorica centri di
emergenza, divengono i luoghi in cui i richiedenti asilo finiscono per passare l’intera durata
della loro permanenza fino all’audizione con la commissione territoriale, senza che siano a
essi garantiti servizi fondamentali, come ad esempio l’assistenza legale, l’insegnamento
della lingua italiana o l’assistenza socio-psicologica.
Ad altri richiedenti asilo toccherà invece l’accoglienza in uno dei Cara (centri di
accoglienza per richiedenti asilo) governativi, i quali, nel quadro di questo ulteriore e grave
sovraffollamento, mostrano ancora più chiaramente la loro inadeguatezza dal punto di
vista strutturale e organizzativo. Anche qui viene da sempre rilevata la mancanza di servizi
essenziali, in ragione del maggior profitto dell’ente gestore. Neppure sull’attività di questi
centri governativi è previsto un sistema di controllo strutturato e le organizzazioni
umanitarie possono avervi accesso solo previa autorizzazione del ministero dell’Interno
che limita quasi sempre la visita negli spazi comuni, impedendo l’ingresso negli spazi di
intimità, ovvero in quelli in cui sono rilevabili le gravi condizioni strutturale e igieniche.
Infine, poiché al peggio non c’è mai fine, c’è chi, in mancanza di posti finisce direttamente
in un Cie per diversi mesi. I centri di identificazione ed espulsione, i luoghi della
detenzione amministrativa e arbitraria previsti per gli immigrati clandestini irregolari,
divengono ora i luoghi di detenzione anche per i richiedenti asilo.
Ecco cosa sta succedendo dall’inizio dell’operazione Mare Nostrum, ecco quali sono le
condizioni dell’accoglienza in questa logica dell’emergenza nell’emergenza.
È più che mai evidente la necessità di perseguire una strada diversa che garantisca
realmente il diritto d’asilo e un sistema di accoglienza che accolga e non contenga, che
integri e non ghettizzi, che sostenga l’autodeterminazione e non il mero assistenzialismo,
che protegga e non punisca. Sul sito di Melting Pot Europa è possibile sottoscrivere
l’appello ai ministri della Repubblica, istituzioni europee e organizzazioni internazionali per
l’apertura di un canale umanitario fino all’Europa per chi sfugge dalle persecuzioni, il diritto
di scegliere dove arrivare e un’accoglienza che riconosca il titolo di soggiorno e percorsi di
inserimento nel territorio.
* Redazione Borderline-Sicilia
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Del 01/07/2014, pag. 7
LA GIORNATA
Il ministro: “Se la Malmstrom diserterà l’incontro al Quirinale gravi
conseguenze”
Alfano: “Ue, sui profughi ora la svolta”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES I trenta cadaveri recuperati dalla Marina italiana su una barca in mezzo al
Mediterraneo danno una brusca svolta al semestre di presidenza della Ue che il nostro
governo assumerà a partire da oggi. «Sulla gestione dell’immigrazione concentreremo gli
sforzi del semestre, ci giochiamo tutto per cambiare faccia all’Europa», ha dichiarato ieri il
responsabile degli Interni, Angelino Alfano, al termine della riunione del Consiglio dei
ministri. L’incontro era stato preceduto da un lungo vertice indetto da Renzi con il ministro
dell’Interno, degli Esteri e della Difesa proprio sull’emergenza migranti. «Naturalmente la
giornata è stata segnata dal dibattito sull’immigrazione e dal dolore per ciò che accade nel
nostro mare, ma anche dalla convinzione per il grande lavoro che stiamo facendo. Quanti
sarebbero i morti se non avessimo fatto le cose che abbiamo fatto?», ha dichiarato il
presidente del Consiglio al termine della riunione. Anche la responsabile degli Esteri,
Federica Mogherini, in predicato per diventare Alto rappresentante della Ue per la politica
estera, ha confermato che lo sforzo per ottenere un diverso e maggiore impegno
dell’Europa sul fronte dell’immigrazione sarà al centro dei lavori della presidenza. La
questione «sarà una delle nostre priorità, la seconda dopo la crescita e l’occupazione.
L’imperativo di tutti, morale prima che politico, è quello di salvare vite umane: un lavoro
che l’Italia finora ha fatto quasi in solitudine». Ma la determinazione italiana si scontra con
una decisa reticenza di molti Paesi a trasformare la gestione dei flussi migratori in una
competenza comunitaria. Anche nel corso dell’ultimo vertice, il documento dei capi di
governo sulla questione dei richiedenti asilo è stato molto ridimensionato rispetto alle
richieste dell’Italia. E ieri, poche ore dopo la tragedia in mare, sulla questione è intervenuta
la responsabile europea per gli affari interni e l’immigrazione, Cecilia Malmstrom, con un
comunicato a dir poco prudente. «Stiamo rendendo disponibili 4 milioni nell’ambito
dell’assistenza all’emergenza per l’Italia e stiamo cercando le strade per contribuire ancora
di più, nell’ambito delle risorse disponibili, per finanziare gli sforzi italiani di ospitare i
migranti e i rifugiati nel loro territorio », ha dichiarato la Commissaria. Insomma: la Ue farà
quel (poco) che può. Ma senza fare ricorso a misure eccezionali nonostante la gravità
della situazione. Il comunicato di Bruxelles non deve essere piaciuto al ministro Alfano,
che aveva incontrato la Malmstrom giovedì scorso. A farlo infuriare ancora di più, è stata
la notizia che la commissaria svedese intende disertare il tradizionale incontro di apertura
del semestre tra la presidenza di turno e la Commissione. «Giovedì pomeriggio ci sarà un
incontro al Quirinale tra il governo italiano e la Commissione europea per l’avvio del
semestre. Sarebbe grave l’assenza del commissario Malmstrom e, se sarà confermata, il
premier e il governo si riservano importanti azioni anche sul piano diplomatico». Ma la
Malmstron, ormai, è in uscita. E comunque, senza il consenso degli altri Stati membri, può
fare ben poco oltre a quello che è stato fatto. L’unica notizia consolante da Bruxelles è
filtrata ieri dall’entourage del presidente incaricato della Commissione, Jean-Claude
Juncker. Secondo queste informazioni Juncker, che il 16 luglio prossimo dovrebbe
ricevere l’investitura del Parlamento europeo, starebbe studiando la possibilità di istituire
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nella prossima Commissione un portafoglio specifico per affrontare i problemi
dell’immigrazione e della mobilità interna alla Ue. Segno che, almeno lui, è consapevole
della delicatezza e dell’urgenza di affrontare il problema.
del 01/07/14, pag. 9
Juncker tra promesse e super Frontex
Anna Maria Merlo
Altri morti nel Mediterraneo e, di nuovo, lo scaricabarile europeo. Jean-Claude Juncker,
presidente designato della nuova Commissione (che deve essere confermato
dall’Europarlamento il prossimo 16 luglio) ha affermato ieri che potrebbe nominare un
commissario ad hoc alle questioni di immigrazione, ora gestite dagli Affari interni.
La commissaria agli Affari interni, la svedese liberale Cecilia Malmström ieri ha
«deplorato» le nuove morti e chiesto «nuove azioni europee», riprendendo più o meno gli
stessi termini dell’intervento dell’ottobre 2013, quando al largo di Lampedusa ci furono 360
morti e tutti ripeterono indignati «mai più».
La Ue, spiega Malmström, cerca il modo per «contribuire maggiormente» allo «sforzo
significativo» dell’Italia — ha detto ricordando il salvataggio di circa 5mila persone negli
ultimi giorni — ma «nell’ambito delle risorse esistenti». In pratica, Bruxelles potrebbe
accelerare lo sblocco di 4 milioni di euro, destinati all’assistenza dell’«emergenza» in Italia,
per «ospitare migranti e rifugiati». All’ultimo Consiglio europeo, la scorsa settimana, è
stato di nuovo fatto riferimento a Frontex e invocato un suo «rafforzamento», già in corso
dal 2012 con il dispositivo Eurosur. L’Italia chiede maggiore partecipazione ai partner, i
quali rispondono che anche loro prendono la loro parte del «fardello» (la Germania è il
primo paese al mondo per richieste d’asilo, nel 2013 ne ha ricevute 109.600, in aumento
del 70% rispetto all’anno precedente, la Francia 60.200, cioè una cifra comparabile alle
60mila persone sbarcate in Italia quest’anno). Ma l’approccio resta esclusivamente
«securitario», ancora di più dopo il voto all’estrema destra delle ultime europee: Malström
ha parlato ieri di «aumentare gli sforzi» per combattere i trafficanti di essere umani.
Secondo gli ultimi dati dell’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu è a causa della
«moltiplicazione di nuove crisi» e per «la persistenza di vecchie crisi che non sembrano
mai morire» che il 2013 è stato un anno record per il numero di rifugiati nel mondo, 51,2
milioni, una cifra che non era mai stata così alta, comparabile ai dati della seconda guerra
mondiale. Nel 2013 ci sono stati 6 milioni di rifugiati in più rispetto al 2012 (va ricordato
che l’86% dei rifugiati nel mondo sono nei paesi in via di sviluppo).
Una strada, certo difficile, sarebbe trovare una soluzione a queste crisi, dice l’Onu. Invece,
si chiama in causa Frontex, l’agenzia europea delle frontiere, nata nel 2004, con comando
a Varsavia. La missione di Frontex è la sorveglianza del Mediterraneo, con lo scopo
specifico di impedire ai barconi di migranti di accostare le coste europee e organizzare
«operazioni di ritorno congiunto», i charter della vergogna. Uno stato membro della Ue
può chiedere l’intervento di Frontex, che coordina l’azione e mobilita le guardie delle
frontiere composte dai diversi corpi di polizia nazionali. La Francia ha proposto di creare
un corpo europeo specifico di guardie alle frontiere. Secondo l’associazione Migreurope,
Frontex usa «mezzi quasi militari» per intercettare i migranti. Nel 2011, in seguito a varie
accuse di ricorso alla violenza nei respingimenti, Frontex ha adottato un nuovo
regolamento e creato una nuova funzione, quella di incaricato dei diritti fondamentali, che
dovrebbe controllare che non ci siano violazioni dei diritti umani. Ma addirittura alla
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Commissione, la direzione generale degli affari interni preferisce non assumersi nessuna
responsabilità e definisce Frontex «una zona grigia».
Frontex si sta trasformando nel «braccio armato» dell’Europa nel controllo delle frontiere,
denuncia Claire Rodier, autrice del libro Xénophobie business. Lo svizzero Jean Ziegler
l’ha battezzata «organizzazione militare quasi clandestina». Frontex è ben foraggiata: per
il periodo 2007–2013 ha ricevuto un finanziamento di 285 milioni di euro per il programma
di «solidarietà e gestione dei flussi migratori». La sua attività riguarda anche la
conclusione di accordi con stati extracomunitari per «esternalizzare» il controllo dei
migranti (dai Balcani al Nord Africa, passando anche per la Russia) e di ordinare
armamenti sofisticati all’industria bellica mondiale.
Del 01/07/2014, pag. 8
Mondiali razzisti
Vietato tifare Algeria in Francia
Nizza mette al bando l’esposizione «ostentata» di bandiere straniere per
la durata di Brasile 2014
Marine Le Pen contro gli immigrati algerini: «Mettere fine alla doppia
nazionalità»
I francesi, specialmente di destra, non hanno gradito veder sventolare sotto l’Arco di
Trionfo il bandierone mezzo verde e mezzo bianco con la mezzaluna rossa e la stella
dell’Algeria. Dopo i caroselli di auto che hanno intasato la tangenziale parigina la sera di
giovedì scorso e le altre manifestazioni di tifo sconfinate anche in vandalismi e scontri con
la polizia a Lille, Marsiglia,Lione e nella periferia della capitale in occasione della
qualificazione per gli ottavi di finale della nazionale algerina, c’è stato un fuoco di fila. Ha
iniziato a testa bassa Marine Le Pen, in una intervista del giorno dopo a iTélé. La
presidente del Front National ha detto che la Francia deve abolire la doppia nazionalità, ha
sostenuto che o si è patrioti algerini o francesi, «o una cosa o l’altra», aggiungendo come
motivazione che «lo Stato deve ritrovare la sua autorità ». Una confusione tra Stato, patria
e nazionale di calcio che è stata ripetuta con le stesse parole dal sindaco di Nizza ieri.
Christian Estrosi, che non è del Fronte ma dell’Ump, con queste stesse motivazioni, e cioè
che «bisogna mettere fine a questi eccessi» perché «ne va dell’autorità dello Stato», è
arrivato a proibire «l’utilizzo ostentato di bandiere straniere» nel centro cittadino. Niente
più sbandieramenti molesti dalle ore 18 alle 4 del mattino, fino alla conclusione dei
Mondiali, domenica 13 luglio. Èfin troppo chiaro che sia Le Pen sia il sindaco gollista ce
l’hanno essenzialmente con i tifosi dei «Fennecs», che proprio ieri se la vedevano con i
tedeschi a qualche ora di distanza dalla partita in cui i «Bleus» affrontavano la Nigeria, con
la prospettiva di vedere poi le due squadre confrontarsi in un derby ipernazionale. Ma non
è calcio, è politica. Marine Le Pen infatti ha anche detto che «bisogna arginare
l’immigrazione» e che «l’unico Paese con cui abbiamo questo tipo di problemi è l’Algeria»
perché «è gente che ha un’ostilità» anzi «uno spirito di rivalsa», intendendo
evidentemente il passato coloniale e le atrocità commesse dall’esercito francese nella
guerra d’Algeria. Come ha notato il deputato radicale Yves Jego fino a questa intervista la
bionda Marine non si era mai spinta tanto oltre sul terreno «dell’odio e del razzismo, ormai
una consuetudine di famiglia per i Le Pen». Jego ha parlato di un discorso «caricaturale»
e «provocatorio» e l’associazione Sos Racisme ha invitato la Francia democratica ad
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alzare la vigilanza «a difesa degli ideali della Repubblica ». Ma l’asticella sembra già
andata in frantumi. A usare per primi la locuzione «utilizzo ostentato di bandiere» sono
stati due esponenti della destra dell’Ump, Lionel Luca e Thierry Marani, quest’ultimo
rappresentante dei francesi all’estero nell’Assemblea Nazionale. E un sondaggio
pubblicato ieri anche dal quotidiano di sinistra Libération dice che i francesi, pur
mantenendo la libertée l’égualité, insieme alla famiglia, tra i valori più cari, considerano il
peggio del peggio l’Islam (l’84% del campione lo ritiene l’aspetto più negativo) e
l’immigrazione (69%). Anche se per i beurs, gli immigrati algerini di seconda generazione, i
«Fennecs» altro non sono che la seconda squadra nazionale in Francia, per il quotidiano
reazionario LeFigaro - come ha scritto in un editoriale parlando dei pieds noir, gli algerini
naturalizzati francesi - «se i nonni volevano l’Algeria francese oggi i nipoti vogliono la
Francia algerizzata». Vorrebbero dunque «la rivincita». È questa paura che fa proseliti,
non certo le poche auto e i pochi cassonetti bruciati dai tifosi dopo la vittoria con la Russia.
Anche se il coro più gridato era un pacifico «One, two, three Vive l’Algerie ». Anche se la
stragrande maggioranza degli algerini di Francia lavora, in particolare le donne, e anche
se nonostante la cattiva integrazione non ci sono più i roghi e la guerriglia di strada nelle
banlieues. Quanti sono poi? Secondo il professor Mohamed Saib Musette, il più
importante ricercatore sulla migrazione algerina, attualmente 1 milione e 300mila è la
popolazione algerina emigrata all’estero in anni recenti. Si calcola che l’85% degli
immigrati algerini, irregolari compresi, risieda in Francia. Considerando le persone con più
di 15 anni, il 64 per cento è naturalizzato francese. Ha perciò la doppia cittadinanza in
base agli accordi del 1962 sulla decolonizzazione. Pare difficile se non insormontabile
rivedere quei trattati. E neanche conveniente, considerando che l’Algeria, grazie al suo
gas, sta crescendo quest’anno ad un ritmo del 4,5 per cento.
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SOCIETA’
del 01/07/14, pag. 21
Più numerose e (un po’) più potenti
Per le donne qualcosa è cambiato
di Maria Silvia Sacchi
Il monopolio dei posti di potere maschili si è rotto. Ma il cambiamento è ancora fragile.
Era il gennaio del 2008. In quelle settimane in Norvegia si stava dibattendo della volontà
del governo di chiudere (nel senso proprio di non permettere più loro di operare) un
centinaio di società che non rispettavano la quota del 40% riservata per legge nei consigli
di amministrazione al genere meno rappresentato, le donne. Una decisione molto drastica.
Ci si domandò allora in Italia cosa sarebbe successo alla nostra Borsa se si fossero
applicati gli stessi criteri. Verdetto senza scampo: non una delle società avrebbe potuto
restare in vita.
D’altra parte, il tetto del 40% era assolutamente «lunare» anche per le società più
avanzate o per quelle che avevano donne nella famiglia proprietaria: le aziende quotate in
Borsa viaggiavano in quell’anno su una media di donne che superava di un soffio il 5% e
più della metà dei consigli di amministrazione esistenti era composto esclusivamente da
uomini.
Pensare di avvicinare un nome femminile a società centrali nella vita economica e del
potere italiano come Fiat, come Eni, come Telecom o Mediobanca o come le grandi
banche era solo un esercizio di fantasia. Figurarsi la presidenza di un’autorità come la
Consob, che controlla la Borsa. La presidenza di Confindustria, nel 2008, era stata il primo
passo, rimasta a lungo una eccezione.
Terreno troppo ostico, l’economia e la finanza? La politica, che dovrebbe essere più vicina
alle persone e, dunque, anche alle donne, non esprimeva un sentimento tanto diverso.
Anzi. A fronte di una popolazione composta per metà da donne, nel 2008 le parlamentari
italiane erano solo poco più di del 20% (con punte del 5% espresse dal Friuli o dell’11 e
rotti di Sicilia e Calabria) mentre le parlamentari italiane in Europa avevano raggiunto
quota 25% nel 2009 dopo aver galleggiato per diversi lustri tra il 10 e il 15%. Persino la
scuola, terreno ad altissimo tasso di femminilizzazione, trovava una brusca caduta quando
si arrivava all’università non riuscendo a superare la soglia del 20% dei professori ordinari
donna.
Era solo sei anni fa.
«Bisogna prendere coscienza del fatto che siamo entrati in una fase nuova, che va
consolidata ed estesa dove ancora ci sono resistenze — dice Linda Laura Sabbadini,
direttrice del dipartimento Statistiche sociali dell’Istat —. Le donne stanno contando di più,
soprattutto nella politica, da cui è venuta una forte accelerazione nel periodo più recente
grazie a forme di regolamentazione o di autoregolamentazione che hanno portato non solo
più donne ma anche a un ringiovanimento dei parlamentari».
Oggi le società quotate vedono la soglia del 20%, il Parlamento è per un terzo composto di
deputate e senatrici, le italiane elette nel parlamento europeo sono a un passo dal 40%, il
governo ha 8 ministre su 16 e nelle università ci sono 5 rettrici su 79, poche in percentuale
ma ci sono. Quando alla Consob, è stata designata la prima presidente donna (Anna
Genovese). Così come all’Agenzia delle entrate (Rossella Orlandi).
Una vera svolta, riconosce Monica Parrella, coordinatrice dell’ufficio per gli interventi in
materia di parità e pari opportunità della Presidenza del consiglio. Ma una svolta ancora
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fragile. Perché la presenza femminile cresce prevalentemente là dove è stata forzata. Non
a caso è nel 2009 che sono arrivati in Parlamento i progetti di legge da cui è nata la GolfoMosca che nel 2011 ha introdotto in Italia le quote di genere. Poi la doppia preferenza per
le europee e le amministrative e in alcuni partiti.
«La presenza femminile non cresce in tutte le amministrazioni pubbliche, anzi in alcuni
casi sta diminuendo — scrive Sabbadini nella presentazione del Rapporto sul benessere
in Italia 2014, diffuso nei giorni scorsi —, a conferma di quanto sia importante garantire la
presenza di meccanismi che condizionino il raggiungimento di certe soglie. Quanto più
azioni e risultati innovativi, significativi e concreti corrisponderanno a questi evidenti
sommovimenti, tanto più questa evoluzione potrà incidere sui valori di fiducia nelle
istituzioni e negli altri, traducendosi in una forte spinta al rinnovamento per il Paese».
Attenzione, insomma, a non tornare indietro. In passato è già successo.
«Si è fatto molto — riconosce Maria Cristina Bombelli, fondatrice di della società di
consulenza Wise Growth e grande esperta di carriere femminili — ma la diversità non è
ancora entrata nella routine delle aziende. Stiamo facendo una ricerca sulla motivazione e
sono convinta che emergerà che c’è un orgoglio da top manager di dover lavorare e di
perseguire determinati risultati con modalità che non sono quelle femminili». Il «problema»
sta nei modelli organizzativi: totalizzanti nel tempo e «che non lasciano possibilità di
comportamenti diversi. Molte donne arrivate a un certo punto si domandano “Ma chi me lo
fa fare?”. E non parlo solo di quando arriva un figlio, che acuisce sì le questioni, ma che
rappresenta un periodo sempre più breve in una vita che si allunga. Sono le modalità di
lavoro che non corrispondono tra uomini e donne. Tra l’altro, se avessimo un Pil elevato si
potrebbe capire, ma siccome non è così forse bisogna usare leve diverse».
Proprio perché la sfera culturale è quella che poi, in definitiva, domina tutto, Maurizio
Ferrera, professore ordinario di Scienza politica a Milano, sottolinea come negativo il fatto
che mentre i numeri mostrano un progresso evidente in tema di presenza di genere, si
senta la mancanza della presenza femminile nella cultura «importante per il potere
ideologico che può esprimere».
Ferrera, che nel 2008 ha dato alle stampe quello che è una sorta di manifesto del lavoro
femminile (Fattore D – Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia) incalza le attuali
ministre: «Mi stupisce che in questa nuova congiuntura politica, che sarebbe più
favorevole alla politica per le donne, non se ne parli nemmeno. In Germania — ricorda —
il riorientamento è stato frutto dell’alleanza di due politiche come Ursula von der Leyden,
della Cdu, e come Renate Schmidt, socialdemocratica, spalleggiate dalla cancelliera
Merkel».
L’obiettivo di questi sei anni? Non certo la sostituzione di un nome femminile a uno
maschile, di un monopolio all’altro, ma l’uso di tutti i talenti. Non è un caso che
l’accelerazione sia avvenuta proprio negli anni della crisi economica peggiore. Vertici con
una varietà di punti di vista e di età dovrebbero aiutare a modificare le organizzazioni. E
finalmente rompere quello che è il vero grande problema italiano: il tasso di occupazione
femminile. Sempre inchiodato al 46 e virgola. Eppure, conclude Ferrera, è una cosa ormai
così scontata che più donne al lavoro produce un aumento del Pil, che si studia nei primi
anni di università.
del 01/07/14, pag. 13
Neet, più tristi e depressi
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Paolo Ferrario
Depressione e senso di disagio, oltre a un pessimismo cronico, sono i mali che colpiscono
i Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in
alcun percorso di formazione. In Italia, stando agli ultimi dati Eurostat, sono 2,4 milioni,
pari al 26% della popolazione di riferimento. Per loro si prospetta un futuro infelice, stando
alle nuove evidenze del Rapporto Giovani, la grande ricerca sociale curata dall'Istituto
Toniolo in collaborazione con Ipsos e il sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo.
Condotta tra la fine del 2013el'inizio del 2014 su un campione di 2.350 persone tra i 19 e i
29 anni, la ricerca vuole fare luce su quanto la condizione di Neet modifica il rapporto con
le altre persone e le istituzioni. Alla domanda su quanto si ritengano «abbastanza o molto
felici», i maschi non Neet rispondono affermativamente per il 76,8% contro fi 56,3% dei
Neet Più contenuto, ma comunque importante, anche il divario tra le femmine non Neet
(abbastanza o molto felici nel 75,5% dei casi) contro il 62,2% delle Neet Lo stesso
discorso vale per l'affermazione «gran parte delle persone è degna di fiducia». Mentre il
40,8% dei maschi non Neet si riconosce in questo giudizio, tra i Neet la fiducia negli altri
scende al 36%. Identico divario tra le donne: il 30,4% delle non Neet si fida del prossimo
contro il 25% delle Neet. L'essere o meno un Neet influenza anche il rapporto con le
persone più vicine, tra cui i familiari. L' 1,4% dei maschi non Neet si dice «abbastanza o
molto soddisfatto» delle proprie relazioni amicali o familiari contro il 70,7% dei maschi
Neet. Idem per le donne: il 78,1% delle non Neet è soddisfatto rispetto ai 67,7% delle
Neet. Da ultimo, al campione è stato chiesto un giudizio sulle istituzioni, il dato sulla fiducia
è molto basso tra tutti i giovani, ma anche qui, con una sensibile differenza tra Neet e non
Neet. Su una scala da 1 a 10 è stato chiesto ai giovani di esprimere un voto di tipo
scolastico: le istituzioni politiche "ottengono" 2 dai Neet e 2,8 dal gruppo non Neet; 2,9 e
3,5 comuni e regioni; 3,1 e 4,1 l'Europa; 4 e 4,8 scuola e università; 4,8 e 5 le Forze
dell'ordine. «In Italia non solo si sta allargando la condizione di Neet- osserva il demografo
dell'Università Cattolica, Alessandro Rosina, tra i curatori dell'indagine - ma anche le
famiglie si trovano sempre più in difficoltà a svolgere il ruolo di ammortizzatore sociale nei
confronti dei giovani. Nel perdurare della crisi economica, questo segmento della
popolazione rischia di allargarsi e di scivolare sempre più giù».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 01/07/14, pag. 5
Arrivano le armi chimiche siriane
Calabria. Domani il trasbordo, ma l’operazione sta facendo acqua da
tutte le parti
Silvio Messinetti
Non c’è Stato a queste latitudini. «Sarà la più grande operazione navale della storia della
Repubblica» aveva annunciato in pompa magna l’ex titolare degli Esteri, Emma Bonino.
Peccato che la ministra che ha preso il suo posto alla Farnesina con il governo Renzi,
Federica Mogherini, non sarà a Gioia Tauro il 2 luglio per il trasbordo delle armi chimiche
siriane. Lo stesso giorno sarà infatti a Strasburgo per presentare il semestre di presidenza
italiana dell’Unione europea. «Avevo assicurato che sarei stata presente sia per assistere
alle operazioni di trasbordo sia per rassicurare sulla totale sicurezza dell’operazione, ma la
coincidenza dei due eventi lo rende impossibile», ha precisato Mogherini.
L’operazione sta facendo acqua da tutte le parti. E rischia di essere un boomerang per
tutto il governo. Piani di evacuazione ancora ignoti, specie ai lavoratori del porto,
popolazione disinformata e impaurita, ospedali e strutture sanitarie inadeguate. Il
trasbordo è l’operazione che più preoccupa. Le due navi, la statunitense Cape Ray e il
cargo danese Ark Futura proveniente dalla Siria con il suo carico di 60 container carichi di
570 tonnellate di agenti chimici con “priorità 1″ (iprite e precursori del sarin), verranno
attraccate in un tratto di banchina a sud del porto. I container saranno spostati da una
trentina di portuali dipendenti della Mct. Le due navi sono di tipo Ro/Ro, imbarcazioni che
utilizzano la tecnica roll on — roll off di movimentazione orizzontale del carico, dotate cioè
di un portellone davanti alla prua che consente l’accesso a mezzi gommati. Per ogni
container trasbordato dovrà essere attuata la procedura di segnalazione alla sala
operativa relativa alla tipologia di sostanze contenenti all’interno. I container verranno
scaricati da gru per le quali è stata anche prevista l’istallazione di un generatore in caso di
mancanza di energia elettrica. Lungo il tratto di banchina dove si svolgeranno le
operazioni saranno istallate delle barriere e delle zone assorbenti in caso di incidente o
perdite di sostanze chimiche sul terreno.
Ma, denunciano i lavoratori del Sul e dell’Usb, «manca un piano di evacuazione sanitaria,
gli impianti di decontaminazione non sono stati testati e non abbiamo un kit di pronto
intervento per ‘autosalvarci’ in caso di contaminazione. Ci stanno mandando al massacro
per fare bella figura a livello internazionale».
Per fronteggiare un’emergenza iprite occorrerebbero dosi massicce di atropina. Ma gli
ospedali ad oggi non hanno ancora ricevuto nulla da Roma. «Noi chiediamo di essere
presenti nella cabina di regia per capire tutte le operazioni, ma non ne vogliono sapere»,
sbottano i portuali.
Anche la popolazione locale è in fermento. Il coordinamento Sos Mediterraneo ha
promosso all’Arena dello Stretto di Reggio un flash mob contro il trasbordo. La
manifestazione segue un’analoga iniziativa fatta a Creta, a largo delle cui acque verrà
effettuata la distruzione delle bombe mediante idrolisi. «Lo scopo — spiegano — è quello
di compattare un fronte di azioni comuni fra Grecia e Italia».
La rabbia della popolazione è dura a sbollire. Qui si sentono sopraffatti e cittadini di serie
B. Abbandonati e in balia degli eventi. La piana di Gioia Tauro è, infatti, un coacervo di
infrastrutture dannose, tutte riunite nel giro di pochi chilometri. Proprio qui è presente
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l’unico inceneritore della Calabria, in avanzata fase di raddoppio. C’è una centrale a turbo
gas nei dintorni. C’è ancora un elettrodotto che collega Rizziconi fino a Laino Borgo. Un
megadepuratore che riunisce 20–30 comuni della Piana. Si prospetta fra non molto il più
grande rigassificatore d’Europa che verrà sistemato su quattro faglie sismogenetiche
attive. E da una di queste è nato il terremoto del 1783 che ha distrutto mezza Calabria.
Se c’era un territorio inadatto per operazioni di tal genere era proprio questo.
del 01/07/14
Rete idrica colabrodo: perso il 40 %
dell’acqua
Roma. Gli acquedotti in Italia perdono quasi il 40% dell'acqua. Uno spreco pari a 100mila
litri al secondo. Una situazione che in generale riguarda tutto il Paese, con punte di criticità
nelle ìsole e al sud. L'Istat, parlando di «dispersioni che continuano ad essere persistenti e
gravose», certifica nel suo nuovo rapporto "Censimento delle acque per uso civile",
l'allarme che già da tempo gli addetti ai lavori hanno lanciato chiedendo investimenti nelle
infrastrutture idriche. Il report dell'Istat si concentra anche sulla depurazione: nella cartina
degli impianti che "ripuliscono" l'acqua se ne contano oltre 18mila, con il nord che vince la
maglia rosa per numero e il nord-ovest quella per capacità depurativa. Per la precisione
nel 2012 il 37,4% dell'acqua immessa nella rete non è arrivata a destinazione, cioè non è
uscita dai rubinetti, perdendosi nei tubi con un peggioramento del 5,3% rispetto al 2008
(con le dispersioni che erano al 32,1%}. L'acqua immessa nelle reti comunali di
distribuzione è pari a 8,4 miliardi di metri cubi, 385 litri al giorno per abitante. Ma, tenendo
presente che quella prelevata per uso potabile è stata di 9,5 miliardi di metri cubi, quella
erogata è di 5,2 miliardi di metri cubi che corrisponde ad un consumo giornaliero di acqua
pari a 241 litri per abitante (meno 12 litri al giorno rispetto al 2008). Nel complesso le
dispersioni di rete ammontano a 3,1 miliardi di metri cubi: 8,6 milioni di metri cubi persi al
giorno, ovvero poco meno di 100mila litri al secondo, pari a 144 litri al giorno oltre quanto
effettivamente consumato per ogni persona residente. Questo calcolando che il consumo
medio quotidiano di acqua corrisponde a circa 240 litri a testa. Il capitolo depurazione
parla di 18.876 impianti per le acque reflue urbane, di cui 18.162 in esercizio, 545 non in
esercizio e 79 in corso di realizzazione o ristrutturazione (32 al sud). AI nord si concentra il
maggior numero » di impianti in esercizio (il 35,2% nel nord-ovest, pari a 6.393, dove si
registra anche la maggior capacità depurativa; in Sicilia e Friuli-Venezia Giulia la
peggiore). Gli impianti in esercizio diminuiscono man mano che ci si sposta verso sud.
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CULTURA E SCUOLA
del 01/07/14, pag. 7
Scuola e annunci
È il primo luglio e non succede niente
NON C’È TRACCIA DEI “3,5 MILIARDI” PER RISTRUTTURARE GLI
EDIFICI. LE REGIONI: “I SOLDI NON SONO ARRIVATI”
Valeria Pacelli
Dovevano essere erogati 3 miliardi e mezzo, ma per adesso i soldi che il governo ha
approvato da destinare alle scuole sono solo 784 milioni di euro. C’era anche una data:
primo luglio, giorno in cui operai e addetti ai lavori avrebbero dovuto iniziare il piano di
ristrutturazione e messa a nuovo degli edifici scolastici. Ma non in tutte le regioni questo
processo è stato avviato. Il Fatto si è occupato più volte dei fondi destinati alla scuola,
anche il primo giugno scorso dopo che un rapporto del Censis (il Centro Studi Investimenti
Sociali) aveva pubblicato preoccupanti dati sullo stato delle scuole in Italia: tanto amianto,
edifici fatiscenti e intonaci che cadevano. Allora fu ribadito che il governo sarebbe
intervenuto con i 3 miliardi e mezzo. E così quel primo giugno, il sottosegretario
all’Istruzione Roberto Reggi aveva anche assicurato che “gli interventi inizieranno da
luglio” spiegando puntualmente dove sarebbero stati presi i soldi. Mancava solo un mese
e nello scetticismo generale ci si chiedeva come e quando sarebbero state approvate le
delibere. A trenta giorni di distanza i soldi approvati sono 784 milioni di euro: “244 milioni –
spiega Reggi sentito di nuovo da Il Fatto – nel biennio 2014-2015 sbloccati con un decreto
del presidente del Consiglio del 15 giugno scorso che permette ai Comuni di sganciarsi dal
patto di stabilità; altri 400 milioni sono stati riprogrammati nelle graduatorie del decreto del
fare con una delibera Cipe approvata oggi pomeriggio (ieri per chi legge). Entro il 1 ottobre
dovranno essere aggiudicati con procedure rapide. E nella stessa delibera Cipe
aggiungiamo altri 140 milioni per il recupero di sette mila edifici scolastici”. Mancano un po’
di soldi rispetto ai 3 miliardi e mezzo annunciati. Parola agli assessori:
“Non abbiamo visto un euro”
Il Fatto per verificare lo stato dei lavori nelle scuole delle diverse regioni italiane ha provato
a contattare funzionari e assessori all’Edilizia scolastica e alle Infrastrutture. Molti
amministratori non sapevano neanche di cosa si trattasse, altri rinviavano a funzionari che
avevano lasciato l’ufficio alle quattro del pomeriggio di un qualsiasi lunedì. Con altrettanti
invece siamo riusciti a parlare e da Nord a Sud si presentano situazioni simili. In
Campania, un collaboratore dell’assessore all’Istruzione e Edilizia Scolastica Caterina
Miraglia, è molto chiaro: “Non sono arrivati ai Comuni neanche i soldi dell decreto del fare
di settembre. Qui abbiamo partecipato alle graduatorie che però sono bloccate a causa di
alcuni ricorsi amministrativi. Altre Regioni hanno gli stessi problemi: graduatorie bloccate,
soldi che non arrivano e lavori che non partono”. Non diversa la situazione del Piemonte ,
dove l’assessore regionale all’Istruzione Giovanna Pentenero afferma che “al momento i
lavori nelle scuole non sono ancora partiti. Aspettiamo la norma che allenta l’impatto del
piano di stabilità sui Comuni”. In Toscana , dall’ufficio dell’assessore Emmanuele Bobbio ci
spiegano che “da parte dei Comuni non abbiamo alcuna notizia, in queste erogazioni le
Regioni sono state bypassate. So però che in alcune scuole i lavori sono iniziati e stanno
andando avanti, anche se i fondi non sono ancora arrivati”. In Lombardia, la dottoressa
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Claudia Moneta, dirigente della struttura che si occupa dell’edilizia scolastica, ci spiega
che “le regioni hanno fatto solo un’attività istruttoria nel decreto del fare. In quel caso
abbiamo fatto una graduatoria e ci erano stati assegnati circa 15 milioni di euro”. Quei
soldi non sono arrivati ma “i lavori nelle scuole sono comunque andando avanti,
soprattutto per la bonifica dell’amianto”. Altri 14 milioni erano stati assegnati a settembre
anche alla Regione Lazio. Mentre alla Liguria dovevano arrivare 4 milioni. “Con il decreto
del fare - spiega Giovanni Boitano, assessore ligure - siamo partiti con 30 progetti. In
totale erano 74. Una parte dei soldi è arrivata, ma non tutti”.
Il sottosegretario Reggi: ”Si deve attendere il 2015”
Il primo giugno scorso, il Fatto chiese al sottosegretario Roberto Reggi dove sarebbero
stati presi i soldi promessi da Renzi. “Ci sono 450 milioni - spiegò Reggi - destinati alla
piccola manutenzione. Abbiamo recuperato 300 milioni di euro con l’aggiudicazione di una
gara sul servizio di pulizia”. I 400 milioni per la manutenzione straordinaria sarebbero stati
recuperiamo da fondi europei inutilizzati. E per i grandi interventi sarebbero stati stanziati 1
miliardo e 300 milioni giacenti nelle casse dei Comuni attraverso l’allentamento del patto di
stabilità. “A questi - concluse Reggi - si aggiungono 900 milioni che arriveranno a gennaio
2015 da mutui con la banca europea. E altri fondi europei per un valore ancora da
stabilire, ma che può essere intorno ai 3 miliardi”. Risentiamo Reggi a distanza di un mese
che ci spiega che “è normale che i soldi stanziati a settembre non siano arrivati a tutti: la
graduatoria si è chiusa ad aprile. Però un processo partito a settembre e chiuso con
l’aggiudicazione degli appalti entro aprile non era mai successo”. Ma i soldi in totale non
dovevano essere 3 miliardi e mezzo? “Eh, ma entro fine 2015”. In molte città oltre a non
esserci i soldi, non sono neanche iniziati i lavori. “Sono loro a doverli fare partire, non noi”.
del 01/07/14, pag. 13
Gli intermittenti rilanciano, il governo invita al
dialogo
Cristina Piccino
Francia. A rischio l'inaugurazione del Festival di Avignon prevista per il
4, con la proclamazione di un nuovo sciopero. Ieri in un intervento
pubblico, la ministra della cultura Filippetti, ha chiesto una tregua
I segnali sono più che minacciosi. All’inaugurazione del Festival teatrale di Avignon,
l’appuntamento dell’estate più importante in Francia per lo spettacolo «dal vivo» mancano
tre giorni, e il segretario generale della CGT (il sindacato) spettacolo, Denis Gravouil, ha
rilanciato per quella data l’invito a uno sciopero di massa. Pronta l’adesione degli
intermittenti dello spettacolo che, domenica scorsa, hanno occupato il teatro Châtelet di
Parigi votando per un coordinamento nazionale da tenersi (domani e giovedì) proprio nella
città dei Papi. Il festival, da quest’anno diretto da Olivier Py, è divenuto insomma il banco
di prova della protesta. «Siamo sicuri che non avrà luogo. O meglio che si svolgerà
secondo le modalità decise dai lavoratori dello spettacolo» ha detto Gravouil.
Un messaggio più che esplicito: visto che la CGT ha deposto un avviso di sciopero per
tutto il mese, anche a Avignon, come è già accaduto in altre manifestazioni il mese scorso,
il cartellone avrà un andamento «intermittente» con la cancellazione o il rinvio di alcuni
spettacoli decisi di volta in volta.
Py ha ribadito domenica scorsa in un’intervista le sue perplessità: «Sacrificare il Festival
non servirà a nulla».
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Ieri è finalmente intervenuta la ministra della cultura Aurélie Filippetti, invitando i precari
dello spettacolo a «accettare la mano tesa dal governo. «I Festival devono avere la
possibilità di svolgersi regolarmente, gli artisti di esprimersi sul palcoscenico insieme ai
tecnici … Le discussioni sono le benvenute senza che questo significhi però annullare le
manifestazioni previste». Forse però è un po’ tardi per questo, specie di fronte al fatto che
l’accordo contestatissimo è stato ormai ratificato.
La «mano tesa» a cui si riferisce la ministra è la mediazione proposta dal governo per
rivedere alcuni punti della riforma al ribasso del sussidio di disoccupazione, e in particolare
quelli più contestati. Per questo sono stati chiamati Jean-Patrick Gille, deputato socialista,
Jean Denis Combrexelle e la precedente codirettrice di Avignon Hortense Archambault,
che hanno già avviato i lavori con l’obiettivo di arrivare alla conclusione entro la fine
dell’anno.
«Oggi abbiamo finalmente l’occasione di realizzare la grande riforma attesa da tanto
tempo — ha detto ancora Aurélie Filippetti — Dal 2003 stiamo vivendo un progressivo
impoverimento e una precarizzazione molto più vasta degli artisti e dei tecnici dello
spettacolo. Il dialogo è possibile, anzi è accessibile, e così le condizioni perché i festival
possano avere luogo regolarmente. Ogni rinuncia sarebbe una sconfitta in un momento
che ci offre l’opportunità di ricostruire per tutti gli intermittenti, regole più giuste e più adatte
alla situazione attuale».
Domani, alla fine dell’assemblea dei lavoratori, sapremo se se Avignon si aprirà con Il
Principe di Homburg messo in scena da Barberio Corsetti la sera del 4 luglio.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 01/07/2014, pag. 13
LA GIORNATA
A giugno l’inflazione scende allo 0,3% e molti prodotti sono già in
deflazione. Prima giornata con obbligo di Pos Istat più pessimista sul
Pil: la crescita del secondo trimestre potrebbe essere negativa o ancora
molto bassa
Prezzi quasi fermi, giù gli alimentari
LUISA GRION
ROMA A due passi dallo stallo: i prezzi al consumo di giugno, stima l’Istat, sono
aumentata dello 0,3 per cento appena rispetto ad allo stesso mese dell’anno scorso. Una
quota inferiore alla inflazione media dell’Eurozona (0,5) che ci riporta indietro al 2009 e
che preoccupa soprattutto per la composizione del dato.
Trasporti e scuola a parte, infatti, sono diverse le voci del paniere già precedute dal segno
meno: rispetto ad un anno fa i prezzi dei servizi di comunicazione sono diminuiti dell’8,6
per cento, quello degli alimentari e delle bevande dello 0,6. La verdura, segnala Coldiretti,
ha visto scendere i listini a picco (meno 12,1 per cento) e la tendenza alla flessione si sta
allargando anche ai servizi sanitari (meno 0,1 per cento fra maggio e giugno).
Il pericolo deflazione - la spirale negativa fra bassi prezzi e bassa domanda - resta dietro
l’angolo: lo ammette l’Istat («non emergono segni di allontanamento dal rischio» scrive) e
lo rilevano a gran voce sindacati e commercianti. La categoria è già sul piede di guerra per
l’obbligo scattato oggi di munirsi di Pos e di accettare il pagamento via card per importi dai
30 euro in su (anche se il decreto che lo introduce non prevede sanzioni). I dati
sull’inflazione hanno peggiorato il malumore: Confcommercio chiede interventi fiscali per
rilanciare i consumi, Confesercenti parla di «pericolo fatale», Federdistribuzione fa notare
come le vendite dei primi quattro mesi dell’anno siano ancora in calo. La letture dei dati
Istat non è confortante, tanto più che l’istituto di statistica segnala anche i rischi di un
risultato negativo sul Pil del secondo trimestre dell’anno. Le previsioni congiunturali fanno
ricadere il dato fra il meno 0,1 e il più 0,3 per cento, la seconda parte dell’anno potrebbe
non andare meglio. «La variazione nella media del 2014 - conclude l’Istat - risulterebbe
debolmente positiva», anche per via della persistente incertezza e «delle condizioni
ancora difficili sul mercato del credito». L’unica buon notizia per l’immediato futuro arriva
dal Centro studi della Confindustria. La produzione industriale, stima, è in ripresa: in
giugno è data in crescita dello 0,4 per cento su maggio (mentre fra maggio e aprile era
dello 0,1) e del 2,2 per cento rispetto ad un anno fa. Positive anche le previsioni sul
secondo semestre (sempre 0,4 per cento) e in aumento pure la fiducia degli imprenditori
manifatturieri: l’indice è salito al massimo degli ultimi tre anni.
Del 01/07/2014, pag. 13
Costa cara l’inflazione zero 17 miliardi in più
all’anno per stabilizzare il debito
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FEDERICO FUBINI
QUEI 129 minuti dicono qualcosa dell’Italia oggi. Alle undici esatte di ieri mattina è uscito
sugli schermi degli operatori il dato dell’inflazione. L’Istat fa sapere che è scesa allo 0,3%
annuo, mai così giù da quando nel 2009 l’economia globale era paralizzata dallo shock di
Lehman. In quel momento il principale indice di Piazza Affari stava salendo da circa
mezz’ora ma ha subito invertito la rotta perdendo lo 0,8%. È stata una lunga caduta fino
alle 13.09: anche la Borsa ha paura della gelata sui prezzi. Mai prima in questa lunga crisi
i mercati avevano reagito tanto ai numeri d’inflazione, né mai lo avevano fatto così. Che
succeda ora, segnala che questa è la storia che seguono e la fonte dei loro timori. Perchè
più si riduce l’inflazione, più cresce il peso reale dei debiti pubblici e privati. Quando
l’inflazione scende a zero, schiaccia i debitori che non l’avevano messo in conto quando
hanno assunto i loro oneri. Solo negli ultimi quattro anni il governo italiano ha emesso titoli
per oltre 1.500 miliardi di euro, offrendo tassi d’interesse che davano per scontato un
carovita ben più alto di quelli di oggi. I due aspetti, tassi e prezzi dei beni al supermarket,
sono legati. Poiché l’inflazione deprezza il potere d’acquisto del denaro, riduce
il valore reale di un debito quando questo va rimborsato a scadenza. Il carovita erode
anche il tasso d’interesse reale che un debitore paga ogni anno. E dà una mano al
governo anche in un terzo modo, determinante ai fini del Fiscal Compact e delle regole
europee di finanza pubblica: dato che inflazione aumenta il prodotto interno lordo espresso
in numero di euro — benché non in valore reale — aiuta anche a limare la proporzione fra
debito e Pil. Tutto questo spiega la sterzata della Borsa di ieri alle 11, perché con gli
aumenti dei prezzi vicini a zero i debiti in Italia stanno diventando più pesanti rispetto alla
taglia dell’economia. Non doveva andare così. Come gli altri Paesi europei, l’Italia si è
impegnata nel Fiscal Compact alla riduzione del rapporto debito- Pil sulla base di uno
scenario del tutto diverso. L’obiettivo dell’area euro che la Bce si è assegnata sarebbe
un’inflazione «vicina ma sotto al 2%». In giugno invece ha viaggiato allo 0,3% in Italia e
allo 0,5% in zona euro e per ora è difficile che cambi molto: giorni fa Unicredit ha definito
le recenti misure prese dell’Eurotower per sospingere
i prezzi «di aiuto ma non tali da fare la differenza». Osservare le regole europee sul debito
in queste condizioni comporta uno sforzo completamente diverso dal farlo nel caso in cui
anche l’obiettivo d’inflazione fosse rispettato. Ora è difficile e le manovre dovrebbero
essere più pesanti. Paolo Manasse dell’Università di Bologna ha fatto i conti, sulla base
delle proiezioni di crescita del Fondo monetario. Con questa inflazione, solo per
stabilizzare il debito al 135% del Pil l’Italia dovrebbe arrivare a un surplus di bilancio di
oltre il 3% prima di pagare gli interessi. Ciò comporta una manovra di più tasse o tagli per
circa 17 miliardi in più sul 2015 e poi nessun allentamento del rigore negli anni seguenti. In
altri termini, con l’inflazione quasi zero il rispetto del Fiscal Compact richiede sacrifici che
gli elettori ormai rifiutano. C’è una sola via d’uscita, indicata da Mario Draghi. Il presidente
della Bce non esclude in futuro di creare moneta, immetterla con massicci interventi sui
mercati e generare così un po’ inflazione. Per farlo l’Eurotower dovrebbe comprare anche
titoli di Stato italiani, ma c’è una difficoltà: va convinta la Bundesbank che investire in Btp
non è pericoloso perché verranno rimborsati senza default. Ma se Roma continua a dare
l’impressione che non vuole rispettare i vincoli di bilancio Ue, o se il vicepremier Graziano
Del Rio non esclude più scenari greci o argentini, la strada si fa in salita. Più il governo
protesta in Europa, più paralizza le mosse di Mario Draghi: il solo che poteva aiutarlo a
gestire il terzo debito più grande del mondo.
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Del 01/07/2014, pag. 10
Grande incertezza sulla ripresa
Stime Istat: il secondo trimestre più debole delle attese
Il Pil atteso tra -0,1 e +0,3%
Il 2014 solo «debolmente positivo»
Difficile centrare gli obiettivi di bilancio
La ripresa non si vede. Almeno per ora. L'evoluzione dell`economia nel corso del 2014
resta condizionata dagli «alti livelli di incertezza» e dalle «condizioni ancora difficili sul
mercato del credito, giudicato solo in lieve miglioramento ». Parola di Istat. L’istituto di
statistica ha diffuso ieri la nota mensile sull’andamento dell’economia, e le prospettive
non sembrano affatto rosee. «Tenuto conto del dato del primo trimestre e dei valori
centrali degli intervalli sui vari passi di previsione - si legge nella nota - la variazione del
prodotto lordo nella media del 2014 risulterebbe debolmente positiva». Tenendo conto
delle informazioni più recenti, prosegue l'Istituto, nel secondo trimestre «l`attività
produttiva dell`industria (al netto delle costruzioni) potrebbe risultare stazionaria. Nello
stesso periodo, la variazione congiunturale del Pil è prevista ricadere in un intervallo
compreso tra -0,1% e +0,3%. Vi contribuirebbero positivamente, tra le componenti
interne di domanda, la spesa privata per consumi mentre l`apporto delle esportazioni
nette è stimato essere lievemente negativo. Il Pil è previsto evolvere intorno a ritmi
sostanzialmente analoghi anche nella seconda metà dell`anno in corso ». Parole come
pietre, che allontanano sempre di più l’obiettivo fissato dal governo di una crescita allo
0,8%. Obiettivo già rivisto al ribasso rispetto all’1,1% stimato dall’esecutivo Letta. Già era
arrivata la gelata del primo trimestre, tornato in territorio negativo (-0,1%): se il segno
meno dovesse confermarsi anche nel secondo trimestre saremmo tornati anche
tecnicamente in recessione. «Il recupero dei ritmi di attività economica - si legge ancora
nel documento Istat - dovrebbe risultare più graduale di quanto atteso all`inizio
dell`anno». Anche se resta una speranza residua. La spesa in beni capitali, infatti, «il
principale driver per la ripresa - scrivono ancora gli esperti - potrebbe essere favorita sia
dalle più favorevoli condizioni di liquidità delle imprese, sia dalle operazioni di
rifinanziamento a tasso agevolato annunciate dal consiglio direttivo della Bce di inizio
giugno ». Il mercato del lavoro avrebbe segnalato «primi segnali favorevoli» che tuttavia
«non delineano una chiara inversione di tendenza». A giugno le attese di occupazione
sono risultate positive in tutti i settori, a parte la manifattura. «In aprile tuttavia - si legge
ancora nella nota - si è registrata una nuova diminuzione dell’occupazione (-0,3%)
mentre il tasso di disoccupazione è risultato invariato rispetto a marzo a quota 12,6%
(11,7% nell’area euro)». Ancora peggio il dato sui prezzi, su cui gli statistici non temono
di utilizzare la parola- chiave «deflazione». «In prospettiva l'inflazione dovrebbe
mantenersi intorno agli attuali ritmi fino all'autunno, evidenziando una moderata risalita
nella parte finale dell'anno - continua la nota - Gli operatori economici segnalano per i
prossimi mesi sviluppi estremamente contenuti per i prezzi. Non sembrano, quindi,
ancora emergere chiari segnali di allontanamento dal rischio di deflazione». Il quadro
che si prospetta è molto lontano da quello tratteggiato nel Def. Per questo si rafforzano i
timori di una manovra da varare in autunno. Anche se - va detto - proprio le regole del
Patto di stabilità dovrebbero concedere più margini in caso di una crisi ancora profonda.
I numeri con cui dovrà vedersela l’Italia non sono affatto «facili». Si dovrà operare una
correzione del deficit di mezzo punto percentuale, pari a circa 9 miliardi. Si dovranno
stabilizzare gli 80 euro in busta paga, se non ampliarli, come più volte promesso
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dall’esecutivo. Altri 10 miliardi. Considerando le altre voci obbligatorie, si arriverebbe a
circa 25 miliardi. Per reperire queste risorse finora si punta alla Spending Review di Carlo
Cottarelli, che ha annunciato un possibile taglio di spesa di 17 miliardi. Cifra altissima
per i ritmi italiani. Anche perché ritagliare la spesa improduttiva è molto difficile. Nel 2013
il contenimento della spesa ha comportato una riduzione reale dei consumi pubblici dello
0,8% del Pil, quasi 12 miliardi. Che vuol dire meno investimenti e anche minore spesa
per redditi da lavoro. Una rasoiata alle condizioni di vita delle famiglie. Il risultato è stata
solo la recessione, che perdura fino a oggi.
Del 01/07/2014, pag. 12
I soldi per assumere nella Pa? 45 milioni tolti
ai precari
I fondi per finanziare la mobilità dei dipendenti pubblici - obbligatoria entro 50 chilometri pezzo forte della riforma del governo? Arriveranno riducendo quelli già stanziati per
stabilizzare i precari della Pubblica amministrazione e quello per nuove assunzioni per gli
enti che hanno il permesso di farlo. Ètutto messo nero su bianco nell’articolo 4 del decreto
legge. Si tratta di 15 milioni nel 2014 che diventeranno il doppio - 30milioni - dal 2015. Nel
dettaglio si alimenta per 6 milioni nel 2014 e 9 nel 2015 attraverso la corrispondente
riduzione degli stanziamenti della finanziaria del 2008 - governo Prodi - , denominato
proprio “Fondo per stabilizzazione precari della Pubblica amministrazione”. Alcomma 14
invece il fondo si alimenta per 9 milioni a decorrere dal 2014 con la corrispondente
riduzione degli stanziamenti decisi nel 2006 del “Fondo per il personale del ministero
dell’Economia e delle Finanze per incentivi alla mobilità e programma di assunzioni”.
Infine, il fondo si alimenta per 12 milioni di euro a decorrere dal 2015 mediante
corrispondente riduzione degli stanziamenti decisi nel 2006, il cosiddetto “Fondo per le
assunzioni”. Una vera beffa e un vero controsenso. Che si va ad aggiungere a quello
emerso nei giorni scorsi. Nella relazione tecnica allegata al decreto, la tanto decantata
norma che abroga lo strumento del trattenimento in servizio - personale che potrebbe già
essere in pensione - e che porterebbe dunque alle assunzioni - secondo il governo - di
15mila persone, viene fortemente ridotta. A pagina 32 lo stesso governo infatti mette nero
su bianco che «risultano in corso di trattenimento in servizio circa 1.200 soggetti di cui
circa 660 relativi al comparto magistratura». E visto che per la magistratura la norma è
stata congelata, le posizioni da sostituire sarebbero solo 540. Molto critica su tutta la
riforma e sulle ultime «scoperte» è la Fp Cgil. «Quando eravamo noi a sostenere che
l’abrogazione del trattenimento in servizio avrebbe portato poche centinaia di assunzioni, il
governo ci ha fatto passare per disfattisti. E ora si scopre che lo stesso governo ci dà
ragione», attacca il segretario Rossana Dettori. «Per non parlare della beffa perpetrata ai
danni dei precari: si prendono soldi dai fondi decisi da Prodi e Patroni Griffi, legati a
programmi di stabilizzazione del personale, il tutto per imporre una mobilità forzosa ai
dipenditi pubblici», continua. Se le cifre dei tagli sono ufficiali, molti interrogativi
rimangono. «Sulla mobilità non sappiamo nè il numero di dipendenti coinvolti né i criteri
con cui verrà decisa. Il quadro che esce da questi provvedimenti è insopportabile: non è
una riforma per i cittadini, ma una riforma del lavoro pubblico contro i dipendenti - tuona
Dettori - . Al di là degli spot, speriamo che ci sia qualcosa nel disegno di legge che ancora
non è noto». I sindacati intanto si preparano alla mobilitazione. La prima sarà il 7 luglio
sotto tutte le Prefetture. «Iniziamo da lì perché la riforma entra in conflitto con decreto il
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Delrio che fissava una cabina di regia affidata alle Regioni per decidere come riallocare il
personale delle Prefetture e Province, legandolo alle funzioni che prima i lavoratori
seguivano. Con il decreto legge tutto questo è spazzato via. C’è il rischio che anche per
questo personale ci sia una mobilità forzosa», chiude Dettori.
Del 01/07/2014, pag. 12
Amianto all’Olivetti: emergono altri 30 casi
Mentre prosegue l’inchiesta della Procura di Ivrea sui 21 operai morti
per mesotelioma, Fiom-Cgil ha raccolto le testimonianze su altri decessi
Trentasei patologie riscontrate, trenta delle quali hanno colpito lavoratori ex Olivetti. Sedici
i casi di mesotelioma. Di questi, 14 hanno afflitto ex operai della storica fabbrica di Ivrea.
Mentre vanno avanti le indagini della procura piemontese sui 21 fra morti e ammalati
all’Olivetti, riemergono dal passato nuove storie di lavoratori vittime di sostanze killer. Le
ha raccolte lo «sportello d’ascolto» aperto nel comune piemontese dalla Fiom-Cgil nel
novembre del 2013, poco dopo la notizia dell’indagine sull’amianto all’Olivetti e l’iscrizione
tra gli oltre venti indagati di Carlo De Benedetti, Corrado Passera e di altri ex manager
della fabbrica che un tempo rappresentava l’hi-tech italiano. I dati sono stati presentati la
settimana scorsa durante un’iniziativa pubblica sulla salute nei luoghi di lavoro. Titolo: «Il
caso Olivetti e non solo ». Storie di mesoteliomi, neoplasie polmonari e di altre malattie
raccontate dai diretti interessati o dai loro parenti e raccolte dal sindacato. Non
«rappresentano un campione statistico - precisa Giuseppe Capella, che coordina il lavoro
dello sportello d’ascolto per le tute blu -ma sono dati comunque significativi». Una
fotografia parziale, che potrebbe acquistare nitidezza col passare del tempo. «Durante
l’iniziativa di venerdì - racconta Federico Bellono, segretario della Fiom di Torino - si sono
avvicinate delle persone che erano interessate perché da poco hanno perso dei parenti
che hanno lavorato all’Olivetti». Gli anni di riferimento delle storie raccolte vanno dalla fine
dei Sessanta agli Ottanta, in qualche caso anche oltre. Dai racconti è emerso che
all’Olivetti «le patologie amianto correlate» sarebbero state localizzate «laddove si usava il
talco industriale (contenente tremolite), come nei montaggi (per rendere scorrevoli le parti
in gomma quali rulli e rullini) e dove si assemblavano cavi elettrici e quindi occorreva
rendere scorrevoli i fili da infilare nelle guaine». E ancora, «nelle attività di manutenzione
di impianti termici e condutture di calore in cui l’isolante termico era amianto, dove
esistevano forni e controsoffittature o strutture contenenti amianto».
ALTRE DENUNCE Certo non c’è solo la storica fabbrica nata con le macchine per
scrivere nelle testimonianze raccolte dallo sportello d’ascolto. Sempre con riferimento alla
presenza o all’uso dell’amianto nei luoghi di lavoro, il sindacato ha registrato un caso di
mesotelioma che ha colpito un ex operaio Enel e quello di un altro lavoratore. Fonti
qualificate, poi, parlano anche di nuove segnalazioni arrivate in procura: denunce che
riguardano lavoratori non Olivetti che si sono ammalati e che potrebbero confluire in nuovi
filoni d’indagine. Intanto l’inchiesta aperta dal pm Lorenzo Boscagli va avanti. L’avviso di
chiusura indagini potrebbe arrivare entro la fine dell’estate. La procura ha ipotizzato i reati
di omicidio colposo e lesioni colpose. Il sospetto è che all’Olivetti, tra gli anni Settanta e i
Novanta, non venissero adottate le contromisure necessarie per evitare che gli operai si
trovassero esposti alle fibre di amianto. CarloDe Benedetti, presidente dell’Olivetti dal
1978 al 1996, e Corrado Passera, co-amministratore delegato tra il 1992 e il 1996, si sono
sempre detti estranei alle accuse e fiduciosi nel lavoro della magistratura. «Nel rispetto
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degli operai e delle loro famiglie - aveva detto il patron del Gruppo Espresso, appresa la
notizia del suo coinvolgimento - attendo fiducioso l’esito delle indagini». Sul fronte
sindacale, invece, la Fiom proseguirà con il lavoro dello sportello d’ascolto, che rimane
aperto almeno una volta alla settimana - il martedì. «L’obiettivo - riprende Capella - è
quello di fotografare la situazione delle malattie professionali, creando un coordinamento
nella raccolta dati da parte dei diversi enti e delle istituzioni interessate. Vogliamoandare
oltre l’assistenza ai lavoratori ammalati o ai loro parenti. Il fine deve essere la
prevenzione».
del 01/07/14, pag. 1/15
Le contraddizioni del referendum
Gaetano Azzariti
Vorrei avanzare alcune perplessità in merito al referendum sull’equilibrio di bilancio. Viene
presentato – anche da questo giornale — come un modo per opporsi al Fiscal compact. A
me non sembra. Si vogliono infatti abrogare solo le disposizioni contenute nella legge 243
del 2012 che dettano ulteriori limitazioni rispetto a quelle definite in sede europea e
recepite nel nostro ordinamento “a livello costituzionale”. Non tocca (ne potrebbe mediante
lo strumento de referendum) i principi introdotti nel 2012 in costituzione.
Né le altre parti della legge di attuazione che definiscono il sistema dei vincoli per il
conseguimento dell’equilibrio. Scopo del referendum è, in effetti, quello di continuare a
rispettare gli obblighi europei in materia di bilancio pubblico, ma si richiede che ciò
avvenga in modo corretto, senza eccessive rigidità. In linea con la battaglia del Governo in
Europa, la proposta è quella di una maggiore moderazione nell’applicazione di misure che
– nel rispetto dei trattati e degli accordi europei di rientro del debito – permettano un’
“austerità flessibile”.
Vi è un argomento che potrebbe farsi valere per smentire – almeno in parte – la
prospettiva moderata che ho richiamato. L’istituto del referendum contiene in sé un
“plusvalore di senso” che tende a trascendere il significato letterale del quesito su cui si è
chiamati a votare. Così è stato per il nucleare ovvero per l’acqua. Se la portata
dell’abrogazione in fondo era assai limitata e riguardava solo una normativa di contorno,
l’esito positivo del responso popolare ha assunto una portata generale: contro ogni politica
filonucleare (per l’acqua la vicenda post referendum è più complicata).
Ciò è vero, ma è anche da tener presente che allora era chiara la posta in gioco e univoco
lo spirito dei proponenti. Nel nostro caso non è così. Tra gli stessi promotori operano più
che legittimamente e con il massimo della coerenza esponenti che si ripromettono di far
valere semplicemente un equilibrio flessibile entro le compatibilità date in sede europea.
Una eventuale vittoria referendaria sarà legittimamente figlia di un liberalismo dal volto
umano, rischiando di fornire una definitiva legittimazione democratica alle attuali politiche
europee. Forse un aiuto a Francia e Italia nella dialettica con la Germania, ma nulla di più.
È questo ciò che si vuole?
Per senso di realismo (meglio poco che niente) può anche accettarsi una simile
prospettiva, ma deve essere chiaro che in tal modo si rinuncia a cambiare l’orizzonte delle
compatibilità economiche e politiche. Un’altra Europa e un’altra Italia – se vogliamo dare
un senso profondo alle parole –possono nascere solo se si è in grado di ridiscutere i
trattati e i vincoli economici, solo se si è in grado di proporre una strategia in cui si affermi
la centralità dei diritti delle persone, solo se – in Italia – si riesce ad modificare il principio
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di equilibrio imposto nel 2012 da un superficiale e irruento legislatore che ha distorto gli
equilibri costituzionali con la modifica dell’articolo 81.
Si comprende la sensibilità della sinistra radicale al referendum. È tramite questo
strumento di partecipazione che si sono ottenute la più significative vittorie politiche e
costituzionali. Il referendum del 2006 che ha sconfitto il tentativo di riscrivere in senso
autoritario la nostra costituzione; quello del 2011 che ha visto affermarsi un’altra idea di
sviluppo con la vittoria dell’acqua bene comune. Ma non credo che questo possa indurre a
sostenere ogni richiesta al di là del merito. Anche perché temo che il rischio di deludere le
aspettative sia più vicino di quanto non possa sembrare.
Ritengo infatti che i quesiti proposti siano ad alto rischio di inammissibilità. Temo cioè che
non possano passare il vaglio della Consulta. Sono diverse le ragioni che mi inducono a
formulare questa previsione. Alla luce della giurisprudenza costituzionale ritengo che si sia
correttamente provveduto a disinnescare il rischio di una pronuncia di inammissibilità per
violazione di un obbligo europeo (ed in effetti i quesiti non pongono in discussione alcun
vincolo comunitario), più difficile convincere la Corte costituzionale che le norme che si
vogliono abrogare non rientrino tra quelle tributarie e di bilancio che sono espressamente
escluse dal referendum (soprattutto dopo l’allargamento concettuale definito con la
sentenza n. 2 del 1994) ovvero che la legge 234 del 2012 che si sottopone a referendum
non rientri tra quelle escluse dal referendum perché “a forza passiva peculiare”. In
quest’ultimo caso la giurisprudenza costituzionale (secondo quanto deciso – in modo un
po’ generico, in verità — dalla sentenza 16 del 1978) sembrerebbe voler escludere tutte
quelle leggi approvate con un procedimento speciale. E la legge di attuazione dell’articolo
81 deve essere approvata con maggioranza qualificata.
Bisogna allora arrendersi al Fiscal compact? Non credo. Ci sono altri strumenti di
partecipazione previsti dal nostro ordinamento costituzionale. L’iniziativa legislativa
popolare è uno di questi. Essa potrebbe anche affiancarsi al referendum richiesto per
segnalare una rotta diversa in grado di imprimere un reale cambiamento nelle politiche
economiche e di rispetto dei diritti costituzionali. È possibile anche immaginare la
presentazione di una legge costituzionale assieme ad una ordinaria d’iniziativa popolare
che riescano l’una ad “aggredire” il principio dell’equilibrio finanziario posto in costituzione
l’altra a interpretare in modo conforme al sistema costituzionale (all’obbligo costituzionale
di assicurare i diritti fondamentali) i vincoli di bilancio “di natura permanente” che l’Europa
ci impone. C’è dunque la possibilità di proporre un cambiamento anziché subire o cercare
di arginare quello che proviene dalle attuali culture dominanti.
L’iniziativa popolare è uno strumento debole? Può ben essere, ma qui si entra nel campo
della politica: se non si ha la forza di far sentire la propria voce e la capacità di utilizzare
questi strumenti per mobilitare il popolo di sinistra su obiettivi largamente condivisi non c’è
tecnicalità che possa supplire al vuoto.
del 01/07/14, pag. 5
Interessi su interessi, lo scaricabarile
del regalo alle banche
ANCHE LA MINISTRA GUIDI DISCONOSCE LA MISURA CHE
REINTRODUCE L’ ”ANATOCISMO ”. IL PD: LA CANCELLEREMO
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di Carlo Di Foggia
È proprio orfano l'ultimo grande regalo alle banche. Anche il ministro dello Sviluppo
Federica Guidi fa melina sull'anatocismo. La contestatissima norma che reintroduce gli
interessi sugli interessi a debito dei correntisti in rosso è di nuovo legge, ma non ha un
padre. È stata inserita nel decreto “competitività”, materia di competenza del ministero
della Guidi. Ma “la genesi” – assicura lei – non è sua: “Quella parte del decreto è opera del
Tesoro”, ha spiegato in un'intervista a Repubblica. “Una polpetta avvelenata della
burocrazia” secondo il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco
Boccia (Pd), che promette di farla saltare in Parlamento. Chi l'ha voluta? “So che sembra
incredibile, ma non è chiaro - spiega una fonte autorevole del ministero dell'Economia Sono decreti mostruosi, dove viene infilato di tutto”. Nessun accordo politico? “Di sicuro la
norma viene da Bankitalia e dipartimento del Tesoro, un favore clamoroso su pressione
delle banche”.
NEI CORRIDOI di via XX settembre si parla di un interessamento del viceministro Enrico
Morando (Pd), e c'è anche chi ipotizza un maldestro tentativo di compensare la “stan gata” voluta da Matteo Renzi per coprire parte dal bonus Irpef: l'aumento della tassazione
sulle plusvalenze miliardarie incassate dagli istituti di credito grazie alla rivalutazione delle
quote di Bankitalia (regalo targato Letta-Saccomanni): 1,8 miliardi (su 7,5 di benefici
contabili). L'anatocismo è finito nel testo dove il governo ha fatto confluire le norme
stralciate dal decreto sulla Pa per ordine del Quirinale, perché “troppo eterogenee”. Un
testo “omni - bus” dov’è finito di tutto. Ai tempi di Renzi, nessuno ha il pieno controllo
politico della scrittura delle norme, e così lobbisti e professionisti hanno maggiori
possibilità di far passare questo o quell'altro comma. Anche senza padri politici, però, il
pasticcio è fatto. Eppure è stata la battaglia più sentita dalle associazioni dei consumatori,
in particolare dall'Adusbef. Una pratica che risale addirittura a un regio decreto del 1942,
andata avanti per decenni e appoggiata da tutti i governi, a cominciare dal quello di
Massimo D'Alema, che nel 1999 l'ha inserita nel Testo unico bancario. La si credeva morta
e sepolta sotto il peso delle pronunce a raffica di tribunali, Cassazione e addirittura una
storica sentenza della Corte costituzionale arrivata nel 2000. Fino ad allora, se si chiedeva
un prestito, gli interessi sulla somma ottenuta venivano a loro volta sommati ogni tre mesi
per calcolare i nuovi interessi. In questo modo i soldi da restituire aumentavano in modo
esponenziale. Tutto finito nel 2000? Non proprio. I tentativi sono continuati, soprattutto per
evitare alle banche di dover restituire i soldi. Già nel 2011 il ministro del Tesoro Giulio
Tremonti inserì nel consueto “milleproroghe” di fine anno una norma che in pratica sanava
tutto il pregresso, bloccando i rimborsi richiesti dai clienti. Una “prescrizione breve” in
barba a una sentenza della Cassazione arrivata solo pochi giorni prima e puntualmente
bocciata dalla Consulta nel 2012. L'anno dopo, il divieto di ricorrere a questa pratica è
stato inserito nella legge di stabilità. Un testo, in verità, che per stessa ammissione del Mef
era poco chiaro, e di fatto lasciava aperta la possibilità a un ripensamento. Come infatti è
avvenuto. Ora si riparte da capo, e poco importa che - come recita l'articolo 31 del decreto
“competitività” - il calcolo non avverrà più ogni tre mesi, ma solo ogni anno. L'Adusbef
(protestano anche le altre associazioni consumatori) ha già annunciato ricorso contro
“l'ennesimo regalo alle banche”, che oggi incassano l'obbligo di usare il pos per saldare i
professionisti, voluto dal governo Monti, che pagheranno fino a 1200 euro l'anno solo di
commissioni.
MA LA BEFFA peggiore è per i correntisti: oltre all'anatocismo (senza interventi, scatterà
da agosto), sempre da oggi sale dal 20 al 26 per cento la tassa sugli interessi maturati sui
conti correnti. Per chi finisce in rosso, invece, si paga la “Commissione di istruttoria
veloce”: fino a 70 euro per un solo giorno di sforamento.
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del 01/07/14, pag. 3
Paradosso Expo 2015: pioggia di fondi, poco
lavoro precario e volontario
Grandi eventi. Nel rapporto Ambrosianeum 2014 emerge «l’assenza di
progetti credibili per la formazione dei giovani e l’eccessivo ricorso al
lavoro volontario e non retribuito». Mirco Rota (Fiom-Cgil): «I sindacati
hanno firmato l’accordo sui volontari per essere legittimati dalla
controparte e dai grandi interessi a Milano e Lombardia»
Roberto Ciccarelli
L’Expo 2015 porterà a Milano poco lavoro e precario, mentre le imprese milanesi sono
sfiduciate rispetto alle sue ricadute economiche. È alto il rischio che il grande evento sia
«un’occasione mancata», anche se la situazione è in fieri e potrà, forse, portare a risultati
diversi. Sono le conclusioni del rapporto annuale della fondazione culturale cattolica
Ambrosianeum dedicato quest’anno all’«Expo, laboratorio metropolitano, cantiere per un
mondo nuovo», pubblicato da Franco Angeli, curato da Rosangela Lodigiani e presentato
ieri a Milano.
Negli ultimi due anni 1672 imprese hanno assunto 4075 persone nelle attività legate
all’indotto Expo. Si tratta di un aumento notevole rispetto alla norma, il rapporto parla infatti
di una crescita del 222,7%. Le stime della Camera di Commercio di Milano e della società
Expo 2015 per il 2012–2020 parlano di 102 mila posti di lavoro complessivi, attivati a
Milano e provincia, 27 mila nel resto della Lombardia, su un totale nazionale di 191 mila. Il
settore che assorbirà più forza-lavoro sarà quello delle costruzioni, dell’impiantistica e
delle infrastrutture. I settori del turismo, dei servizi all’impresa e alla persona, oltre che
industria del «Made in Italy», dovrebbero occupare una quota di lavoratori durante lo
svolgimento dell’evento.
Sia pur sottostimati, questi dati evidenziano come la scommessa Expo non abbia prodotto
i risultati attesi. Senza contare, e qui veniamo ad una delle principali caratteristiche delle
bolle occupazionali prodotte dai «grandi eventi» espositivi, sportivi o culturali, che si tratta
di assunzioni a tempo determinato. Le assunzioni con contratti di lavoro a tempo
determinato rappresentano da soli quasi il 49% di tutti gli avviamenti registrati ad oggi da
Expo 2015.
Nei primi mesi del 2013 sono cessati più del 23%. Una quota rilevante di quelli esistenti
sono legati ad attività a termine nei cantieri e negli appalti. Le previsioni non sono rosee
per il settore alberghiero, la ristorazione e il commercio. Tra il 2012 e il 2013 il primo ha
prodotto il 10,7% dell’occupazione, il secondo il 6,9%. I valori provinciali corrispondenti
sono pari, rispettivamente, al 15,5% e all’8,9%. Una recente rilevazione condotta dall’Ipsos
per la Camera di Commercio di Milano, condotta su 500 aziende milanesi, ha rivelato che
solo il 3% del campione è impegnato direttamente nell’Expo dedicato al tema «Nutrire il
pianeta», mentre un altro 3% sta cercando di inserirsi. Solo il 14% si aspetta un aumento
di fatturato. Il 12% ritiene che verranno create relazioni economiche con partner esteri.
L’Expo rischia di mancare l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei residenti. Segnali
in questo senso vengono dal sistema di deroghe ai controlli per il contrasto delle
infiltrazioni mafiose, dagli scandali dalla scarsa capacità di coordinamento tra gli atenei
milanesi e «dalla caduta degli impieghi creati con la loro forte precarizzazione, l’assenza di
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progetti credibili per la formazione dei giovani e l’eccessivo ricorso al lavoro volontario e
non retribuito» scrive la ricercatrice Giuliana Costa.
Un’affermazione significativa in un rapporto che valorizza la nomina di Raffaele Cantone a
presidente dell’Autorità Anticorruzione dopo gli scandali della «cupola» degli appalti, e il
ruolo del terzo settore della società civile e del mondo cattolico. Cgil, Cisl e Uil hanno
firmato l’accordo suo 18500 volontari con Expo spa. Dal luglio 2013 le polemiche non sono
mai cessate. Prima i movimenti No Expo, poi la Fiom-Cgil, hanno criticato l’intesa che
legittima il lavoro gratuito travestito da volontariato.
«È una situazione che deve far riflettere sul ruolo del sindacato – afferma il segretario
generale Fiom Cgil Lombardia Mirco Rota – Gli investimenti portano solo lavoro precario e
addirittura volontario senza remunerazione. È assurdo: quando non c’è lavoro i lavoratori
restano disoccupati. Quando invece ci sono investimenti, la loro massima aspirazione è
restare precari e lavorare per qualche mese. Questo accordo fotografa questa situazione e
non tenta di incidere minimamente su una situazione pericolosa».
Perché allora i sindacati hanno scelto di firmarlo? «Per essere legittimati dalla controparte
e dai grandi interessi a Milano e Lombardia – risponde — C’è un atteggiamento
rinunciatario al conflitto e alla conquista di qualche diritto. Il paradosso per la Cgil è
criticare Renzi per il Jobs Act e poi peggiorarlo in Lombardia dove si parla di apprendistato
in somministrazione e si prevede la derioga delle mansioni. Quello che chiede
Confindustria nei suoi documenti».
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