141_143_dossier_ART08

Transcript

141_143_dossier_ART08
E il nuovo cinema
ritorna alle origini
di Ornella Calvarese
Caduto il Muro, varcata la soglia del continente sconosciuto e
sbriciolato in pochi mesi il cemento effimero dell’unione delle
repubbliche, l’ex-URSS, liberata dai panni grotteschi di cui l’avevano ammantata detrattori ed entusiasti del vecchio regime, è
finalmente apparsa all’Occidente nella sua misera impudicizia.
Paese disarmante e disarmato, all’indomani della sua perestrojka,
della sua tanto decantata “ricostruzione”, la Russia – ormai solo
Russia – torna nuovamente all’origine, alla fonte, alla ricerca del
senso della propria identità. E vi torna attraverso ogni forma
espressiva: dalla letteratura al teatro, dalla musica al cinema, scomodando come sempre il noumeno e il fenomeno, l’essere e il
senso, l’anima e il corpo del proprio destino storico. Già. Perché la
vocazione filosofica della sua letteratura e del suo cinema ci
hanno abituato a coniugare il piacere della lettura o della visione
all’impegno – a tratti faticoso – della ricerca di un senso sempre
ulteriore, di un altrove del segno che stordisce e disorienta quanti
come noi qui, da questo lato della cortina, cercano nella letteratura e nel cinema la pura evasione dal grigiore che ci divora.
Il cinema russo post-perestrojka (parliamo naturalmente di
quello che, scremata la produzione per il mercato interno, arriva
in salsa festivaliera sui nostri schermi), ci ripropone da vent’anni
la ricerca drammatica della propria identità smarrita. Quando, nel
1986, il V Congresso dell’Unione dei Cineasti dell’URSS applicò
in ambito cinematografico quanto sancito dal Comitato centrale
del PCUS, decretando il rinnovamento radicale degli apparati statali della cinematografia, ci fu un’ondata di ottimismo corroborante tra i cineasti fuoriusciti dall’ultimo decennio. Com’era già
successo all’epoca del “disgelo kruscëviano“, si cominciò col recuperare alcune pellicole rimaste ad ammuffire sugli scaffali del
Gosfil’mofond –dalle opere finissime di Kira Muratova
e Aleksej
^
German, a quelle dell’esule Andrej Michalkov Koncalovskij fino
alla chiara luce di alcuni capolavori di Aleksandr Sokurov, al
quale si deve ancora oggi parte della salvezza di una cinematografia allo sbando. Scongelati i monumenti, si cercò di dare
nuovo impulso alle forze giovani, agli autori esordienti che però
tarderanno qualche anno a venire alla luce, a eccezione di Tengiz
Abuladze, il georgiano che ha infiammato le platee russe ed europee con il suo splendido e intenso Pentimento (1986), un filmdenuncia che rappresentò in chiave tragica
l’assurdo gioco del^
l’autoritarismo e, nel 1988, Vasilij Picul, che con La piccola Vera,
ha segnato una svolta radicale nel cinema russo, mostrando per la
Contrasto_Imagechina
Il periodo più oscuro è stato quello immediatamente successivo alla
perestrojka, quando gli avventurieri della pellicola hanno fatto tabula rasa di una grande tradizione. La ripresa inizia con Taxi blues di
Lungin e si consolida con Padre e figlio e Madre e figlio di Sokurov.
Oggi, con Il ritorno di Zvjagincev…
_All’indomani della perestrojka sono state recuperate varie pellicole della cinematografia
precedente, tra cui alcuni capolavori di Aleksandr Sokurov al quale si deve ancora oggi
parte della salvezza di una cinematografia allo sbando
141
Contrasto_Gamma
DOSSIER
_Pavel Lungin trionfa ormai da un decennio
sulla croisette con i suoi film che tanto piacciono ai francesi
142
prima volta sullo schermo tutto lo squallore rimosso di una
società in totale sfacelo.
Tuttavia, la nuova generazione emergente degli anni Ottanta
è stata travolta dalla risacca della profonda crisi economica che ha
investito l’ex-Paese dei soviet all’indomani della rivoluzione gorbacëviana. L’entusiasmo iniziale scaturito dall’apertura incondizionata all’Occidente, si è arenato sulle secche di una crisi economica senza pari nella storia del Paese. Se il decennio precedente
^
aveva visto nel campo cinematografico
la maturazione di maestri
del calibro di El’dar e Georgij Sengelaja, Gleb Panfilov, Elem
Klimov, Nikita Michalkov, gli anni Ottanta non hanno visto
emergere il tanto atteso “nuovo” cinema russo. Il rapido processo
di disgregazione dell’URSS, tra il 1989 e il 1991, e la costituzione
in quell’anno della Federazione russa, hanno determinato anche
per il cinema l’ingresso nel “libero mercato”, interrompendo la
catena produzione-distribuzione che, per quanto lenta, pure consentiva la diffusione capillare della produzione con un bilancio in
positivo. Ne è seguita la pagina forse più oscura del cinema russo:
l’esplosione incontrollata e incontrollabile di decine e decine di
avventurieri della pellicola, di acrobati della cinepresa, di intrepidi
cinematografari e produttori improvvisati, destinati a vivere il
tempo di una sola stagione, sopraffatti dalle grandi istituzioni
ancora tenute in piedi da finanziamenti statali e con in mano il
monopolio della base tecnica nazionale, e destinati a perire per
imperizia, ingenuità e mancanza d’idee. Com’era accaduto all’inizio del secolo scorso, all'alba del cinema russo, quando i finanziamenti esteri – soprattutto francesi – la facevano da padrone
nell’Impero dello zar, è seguito un periodo di coproduzioni non
sempre felici, che però hanno finito per tirar fuori dal pantano
alcuni frutti insperati, come l’arcinoto Pavel Lungin, che trionfa
ormai da un decennio sulla croisette, con i suoi film acchiappafrancesi, non sempre giustamente premiati.
Ma prima di ricominciare a vedere lo spiraglio di luce, che –
per quanto opinabili – personaggi come Lungin hanno pur fatto
tornare nella cinematografia nazionale, si è dovuto attendere la
fine della sregolatezza distributiva e del furore produttivo che
hanno investito il cinema russo tra il 1988 e il 1994: invasione
del mercato russo con prodotti americani svenduti a prezzi
imbattibili, iperproduzione di inutili quanto invedibili film russi,
realizzati con i soldi riciclati dei banditi senza scrupolo che si
sono fatti largo nel Paese allo sbando, abbandono delle sale da
parte del pubblico, esplosione-rivelazione della Televisione con la
“t” maiuscola dopo decenni di televisione di Stato.
La salvezza del cinema nazionale, che vanta tra i suoi luminosi
e storici rappresentanti alcuni Padri della cinematografia mondiale, non poteva che venire a questo punto dal capitale occidentale e
dal pubblico europeo, che attendeva di riscoprire un cinema da
tempo silente.
Ed eccoli a noi, questi luminosi esempi di rinnovato splendore.
Nel 1990, Cannes conferisce la Palma d’oro per la miglior regia a
Taxi blues, primo lungometraggio di Pavel Lungin che intreccia
con la Francia relazioni durature, non incrinate neppure dai totali
flop dei suoi film successivi Luna Park (1992) e La vita in rosso
(1996). Taxi blues era effettivamente un film innovativo e originalissimo, pur se già un po’ sopra le righe e troppo arreso ai gusti
Grazia Neri_AFP
Photofest
e alle aspettative del pubblico occidentale. Cinque anni fa, Cannes
premiava invece il cast di Le nozze, in cui Lungin offriva uno
spaccato inedito della provincia russa, costruendo una metafora
toccante e grottesca del proprio paese dagli echi vagamente à la
Kusturica. La storia russa contemporanea è al centro anche dell’ultima fatica del regista cinquantenne Oligarch (2002), un thriller politico che ripercorre gli ultimi quindici anni di cambiamenti
economici e politici della Russia attraverso le vicende di un personaggio emblematico, efficace incarnazione degli aspetti più contraddittori e infimi della Russia odierna, prodotto degli ultimi tre
lustri di stravolgimenti radicali.
Lo stile di Lungin, nervoso e gridato, impetuoso e irriverente,
ispirato più a certo cinema indipendente americano, a Cassavetes o
a Scorsese, che all’estetica dei predecessori russi, fa di lui a pieno
titolo la figura-chiave della perestrojka. D'altro canto, però, la
poesia visiva delle 7 Elegie di Aleksandr Sokurov, la sua trilogia
conturbante sul potere costituita da Moloch (1999), dedicato ad
Adolf Hitler, incentrato sul potere come unione di follia, orrore e
ridicolo, Taurus (2000), dedicato invece a Lenin, e parte di una
riflessione sull’effimera caducità e la vergognosa stoltezza di quello stesso potere e, infine, Sole (2004), in cui si affronta il mistero
del meno indagato tra i potenti della terra della seconda metà del
XX secolo, l'imperatore del Giappone Hiro Hito, ci offrono un
esempio raro di arte cinematografica. A conferma del talento indiscusso di Sokurov, troviamo ancora nella sua filmografia altre
mirabili opere come Madre e figlio (1997), Padre e figlio (1993,
Premio Fipresci a Cannes), due film intensi e profondi in cui si
esprime la poetica originale di questo autore, erede di Andrej
Tarkovskij, ma spinto ancora più avanti sulla ricerca del trascendente. Se in Tarkovskij si stava sul limitare, nella zona di passaggio in cui la materia si trasfigura in spirito, la terra in fango, l’acqua in vapore, con Sokurov siamo già oltre, oltre la materia, oltre
il gravoso fardello della vita e del destino umano, laddove lo
sguardo non coglie altro che parvenze caduche, effimere ombre
evanescenti: quello che di noi resterà dopo la fine della storia. E
altrettanto evanescenti sembrano essere le maschere inafferrabili
di L’arca russa (2002), un film d’indicibile difficoltà tecnica, un
solo, lungo piano-sequenza girato con la macchina a spalle nello
scenario estesissimo del Museo Hermitage, che compone un affresco angosciante della storia russa, caratterizzata dalla convivenza
dei temi opposti dell'Apocalisse e della Rinascita, elementi comuni
alla Storia tutta, misera danza dell’umana vanità.
Infine, e dobbiamo fermarci, ma l’elenco dei registi potrebbe
allungarsi ancora di almeno una decina di nomi, riempie d’ottimismo sul futuro della cinematografia russa (meno sul futuro
della sua democrazia) l’ultima scoperta del Festival di Venezia,
Andrej Zvjagincev, Leone d’Oro 2003 per la miglior regia con la
sua opera prima, Il ritorno, nel quale con mano felice si ripropone
un vecchio tema caro alla letteratura russa, quello del conflitto
tra padri e figli, drammaticamente irrisolto, lasciato dal giovane
regista nella sua forma irriducibile di tragica fatalità, di rottura
insanabile, di frattura dolente, la stessa che ha dilaniato un bel
giorno del 1917 il corpo della società russa per ripetersi ancora,
nel 1986, lasciandosi alle spalle i corpi dei padri indolenti, di cui
non resta altro che far scivolare i cadaveri lungo la corrente.
_In alto una scena dal film Padre e figlio
(1993, Premio Fipresci a Cannes) di Aleksandr Sokurov. Qui sopra un immagine da
Taxi blues, primo lungometraggio di Pavel
Lungin
143