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E il nuovo cinema ritorna alle origini di Ornella Calvarese Caduto il Muro, varcata la soglia del continente sconosciuto e sbriciolato in pochi mesi il cemento effimero dell’unione delle repubbliche, l’ex-URSS, liberata dai panni grotteschi di cui l’avevano ammantata detrattori ed entusiasti del vecchio regime, è finalmente apparsa all’Occidente nella sua misera impudicizia. Paese disarmante e disarmato, all’indomani della sua perestrojka, della sua tanto decantata “ricostruzione”, la Russia – ormai solo Russia – torna nuovamente all’origine, alla fonte, alla ricerca del senso della propria identità. E vi torna attraverso ogni forma espressiva: dalla letteratura al teatro, dalla musica al cinema, scomodando come sempre il noumeno e il fenomeno, l’essere e il senso, l’anima e il corpo del proprio destino storico. Già. Perché la vocazione filosofica della sua letteratura e del suo cinema ci hanno abituato a coniugare il piacere della lettura o della visione all’impegno – a tratti faticoso – della ricerca di un senso sempre ulteriore, di un altrove del segno che stordisce e disorienta quanti come noi qui, da questo lato della cortina, cercano nella letteratura e nel cinema la pura evasione dal grigiore che ci divora. Il cinema russo post-perestrojka (parliamo naturalmente di quello che, scremata la produzione per il mercato interno, arriva in salsa festivaliera sui nostri schermi), ci ripropone da vent’anni la ricerca drammatica della propria identità smarrita. Quando, nel 1986, il V Congresso dell’Unione dei Cineasti dell’URSS applicò in ambito cinematografico quanto sancito dal Comitato centrale del PCUS, decretando il rinnovamento radicale degli apparati statali della cinematografia, ci fu un’ondata di ottimismo corroborante tra i cineasti fuoriusciti dall’ultimo decennio. Com’era già successo all’epoca del “disgelo kruscëviano“, si cominciò col recuperare alcune pellicole rimaste ad ammuffire sugli scaffali del Gosfil’mofond –dalle opere finissime di Kira Muratova e Aleksej ^ German, a quelle dell’esule Andrej Michalkov Koncalovskij fino alla chiara luce di alcuni capolavori di Aleksandr Sokurov, al quale si deve ancora oggi parte della salvezza di una cinematografia allo sbando. Scongelati i monumenti, si cercò di dare nuovo impulso alle forze giovani, agli autori esordienti che però tarderanno qualche anno a venire alla luce, a eccezione di Tengiz Abuladze, il georgiano che ha infiammato le platee russe ed europee con il suo splendido e intenso Pentimento (1986), un filmdenuncia che rappresentò in chiave tragica l’assurdo gioco del^ l’autoritarismo e, nel 1988, Vasilij Picul, che con La piccola Vera, ha segnato una svolta radicale nel cinema russo, mostrando per la Contrasto_Imagechina Il periodo più oscuro è stato quello immediatamente successivo alla perestrojka, quando gli avventurieri della pellicola hanno fatto tabula rasa di una grande tradizione. La ripresa inizia con Taxi blues di Lungin e si consolida con Padre e figlio e Madre e figlio di Sokurov. Oggi, con Il ritorno di Zvjagincev… _All’indomani della perestrojka sono state recuperate varie pellicole della cinematografia precedente, tra cui alcuni capolavori di Aleksandr Sokurov al quale si deve ancora oggi parte della salvezza di una cinematografia allo sbando 141 Contrasto_Gamma DOSSIER _Pavel Lungin trionfa ormai da un decennio sulla croisette con i suoi film che tanto piacciono ai francesi 142 prima volta sullo schermo tutto lo squallore rimosso di una società in totale sfacelo. Tuttavia, la nuova generazione emergente degli anni Ottanta è stata travolta dalla risacca della profonda crisi economica che ha investito l’ex-Paese dei soviet all’indomani della rivoluzione gorbacëviana. L’entusiasmo iniziale scaturito dall’apertura incondizionata all’Occidente, si è arenato sulle secche di una crisi economica senza pari nella storia del Paese. Se il decennio precedente ^ aveva visto nel campo cinematografico la maturazione di maestri del calibro di El’dar e Georgij Sengelaja, Gleb Panfilov, Elem Klimov, Nikita Michalkov, gli anni Ottanta non hanno visto emergere il tanto atteso “nuovo” cinema russo. Il rapido processo di disgregazione dell’URSS, tra il 1989 e il 1991, e la costituzione in quell’anno della Federazione russa, hanno determinato anche per il cinema l’ingresso nel “libero mercato”, interrompendo la catena produzione-distribuzione che, per quanto lenta, pure consentiva la diffusione capillare della produzione con un bilancio in positivo. Ne è seguita la pagina forse più oscura del cinema russo: l’esplosione incontrollata e incontrollabile di decine e decine di avventurieri della pellicola, di acrobati della cinepresa, di intrepidi cinematografari e produttori improvvisati, destinati a vivere il tempo di una sola stagione, sopraffatti dalle grandi istituzioni ancora tenute in piedi da finanziamenti statali e con in mano il monopolio della base tecnica nazionale, e destinati a perire per imperizia, ingenuità e mancanza d’idee. Com’era accaduto all’inizio del secolo scorso, all'alba del cinema russo, quando i finanziamenti esteri – soprattutto francesi – la facevano da padrone nell’Impero dello zar, è seguito un periodo di coproduzioni non sempre felici, che però hanno finito per tirar fuori dal pantano alcuni frutti insperati, come l’arcinoto Pavel Lungin, che trionfa ormai da un decennio sulla croisette, con i suoi film acchiappafrancesi, non sempre giustamente premiati. Ma prima di ricominciare a vedere lo spiraglio di luce, che – per quanto opinabili – personaggi come Lungin hanno pur fatto tornare nella cinematografia nazionale, si è dovuto attendere la fine della sregolatezza distributiva e del furore produttivo che hanno investito il cinema russo tra il 1988 e il 1994: invasione del mercato russo con prodotti americani svenduti a prezzi imbattibili, iperproduzione di inutili quanto invedibili film russi, realizzati con i soldi riciclati dei banditi senza scrupolo che si sono fatti largo nel Paese allo sbando, abbandono delle sale da parte del pubblico, esplosione-rivelazione della Televisione con la “t” maiuscola dopo decenni di televisione di Stato. La salvezza del cinema nazionale, che vanta tra i suoi luminosi e storici rappresentanti alcuni Padri della cinematografia mondiale, non poteva che venire a questo punto dal capitale occidentale e dal pubblico europeo, che attendeva di riscoprire un cinema da tempo silente. Ed eccoli a noi, questi luminosi esempi di rinnovato splendore. Nel 1990, Cannes conferisce la Palma d’oro per la miglior regia a Taxi blues, primo lungometraggio di Pavel Lungin che intreccia con la Francia relazioni durature, non incrinate neppure dai totali flop dei suoi film successivi Luna Park (1992) e La vita in rosso (1996). Taxi blues era effettivamente un film innovativo e originalissimo, pur se già un po’ sopra le righe e troppo arreso ai gusti Grazia Neri_AFP Photofest e alle aspettative del pubblico occidentale. Cinque anni fa, Cannes premiava invece il cast di Le nozze, in cui Lungin offriva uno spaccato inedito della provincia russa, costruendo una metafora toccante e grottesca del proprio paese dagli echi vagamente à la Kusturica. La storia russa contemporanea è al centro anche dell’ultima fatica del regista cinquantenne Oligarch (2002), un thriller politico che ripercorre gli ultimi quindici anni di cambiamenti economici e politici della Russia attraverso le vicende di un personaggio emblematico, efficace incarnazione degli aspetti più contraddittori e infimi della Russia odierna, prodotto degli ultimi tre lustri di stravolgimenti radicali. Lo stile di Lungin, nervoso e gridato, impetuoso e irriverente, ispirato più a certo cinema indipendente americano, a Cassavetes o a Scorsese, che all’estetica dei predecessori russi, fa di lui a pieno titolo la figura-chiave della perestrojka. D'altro canto, però, la poesia visiva delle 7 Elegie di Aleksandr Sokurov, la sua trilogia conturbante sul potere costituita da Moloch (1999), dedicato ad Adolf Hitler, incentrato sul potere come unione di follia, orrore e ridicolo, Taurus (2000), dedicato invece a Lenin, e parte di una riflessione sull’effimera caducità e la vergognosa stoltezza di quello stesso potere e, infine, Sole (2004), in cui si affronta il mistero del meno indagato tra i potenti della terra della seconda metà del XX secolo, l'imperatore del Giappone Hiro Hito, ci offrono un esempio raro di arte cinematografica. A conferma del talento indiscusso di Sokurov, troviamo ancora nella sua filmografia altre mirabili opere come Madre e figlio (1997), Padre e figlio (1993, Premio Fipresci a Cannes), due film intensi e profondi in cui si esprime la poetica originale di questo autore, erede di Andrej Tarkovskij, ma spinto ancora più avanti sulla ricerca del trascendente. Se in Tarkovskij si stava sul limitare, nella zona di passaggio in cui la materia si trasfigura in spirito, la terra in fango, l’acqua in vapore, con Sokurov siamo già oltre, oltre la materia, oltre il gravoso fardello della vita e del destino umano, laddove lo sguardo non coglie altro che parvenze caduche, effimere ombre evanescenti: quello che di noi resterà dopo la fine della storia. E altrettanto evanescenti sembrano essere le maschere inafferrabili di L’arca russa (2002), un film d’indicibile difficoltà tecnica, un solo, lungo piano-sequenza girato con la macchina a spalle nello scenario estesissimo del Museo Hermitage, che compone un affresco angosciante della storia russa, caratterizzata dalla convivenza dei temi opposti dell'Apocalisse e della Rinascita, elementi comuni alla Storia tutta, misera danza dell’umana vanità. Infine, e dobbiamo fermarci, ma l’elenco dei registi potrebbe allungarsi ancora di almeno una decina di nomi, riempie d’ottimismo sul futuro della cinematografia russa (meno sul futuro della sua democrazia) l’ultima scoperta del Festival di Venezia, Andrej Zvjagincev, Leone d’Oro 2003 per la miglior regia con la sua opera prima, Il ritorno, nel quale con mano felice si ripropone un vecchio tema caro alla letteratura russa, quello del conflitto tra padri e figli, drammaticamente irrisolto, lasciato dal giovane regista nella sua forma irriducibile di tragica fatalità, di rottura insanabile, di frattura dolente, la stessa che ha dilaniato un bel giorno del 1917 il corpo della società russa per ripetersi ancora, nel 1986, lasciandosi alle spalle i corpi dei padri indolenti, di cui non resta altro che far scivolare i cadaveri lungo la corrente. _In alto una scena dal film Padre e figlio (1993, Premio Fipresci a Cannes) di Aleksandr Sokurov. Qui sopra un immagine da Taxi blues, primo lungometraggio di Pavel Lungin 143