Lezione 19/11/2010

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Lezione 19/11/2010
Linguistica generale
La materia
l’ascoltatore capisce, cioè dal senso di una certa espressione nel contesto
particolare in cui viene usata. Quando diciamo attento al cane!, la parola
cane ha una data sostanza del contenuto se stiamo parlando a un bambino
davanti a un cane sconosciuto che gli ringhia contro, e un’altra e diversa
sostanza del contenuto se lo diciamo a un adulto mentre fa retromarcia in
giardino.
Lo strato della forma del contenuto è costituito dal significato astratto che
ha, in una data lingua, una certa sequenza di fonemi usata come espressione. La parola cane significa tutti i cani dicibili: il contenuto associato all’espressione cane è detto significato del segno. Anche i “sottosignificati”, o
tecnicamente le accezioni, fanno parte della forma del contenuto: una delle accezioni di cane è quella di ‘attore incapace’, che però, per estensione, si
può riferire a chiunque si riveli particolarmente incapace di svolgere un determinato compito. È solo quando la usiamo in concreto che quella parola
ha un senso determinato, di volta in volta diverso: appunto, un cane che
ringhia, o va sotto l’auto, oppure il protagonista di un film (sulla distinzione tra senso e significato cfr. in particolare cap. 8, par. 2.1).
Cadono propriamente fuori dai confini della lingua, e quindi dalla struttura del segno, gli elementi materiali, che purtuttavia del segno costituiscono
un presupposto: la materia dell’espressione e la materia del contenuto.
Per materia dell’espressione intendiamo il supporto fisico attraverso il
quale si realizza un atto comunicativo. La materia dell’espressione linguistica orale sarà quindi tutto ciò che è pronunciabile attraverso l’apparato
fonatorio e udibile attraverso l’apparato uditivo, quella dell’espressione linguistica scritta saranno i tratti delle grafie, quella dell’espressione linguistica segnata sarà il corpo.
Per materia del contenuto intendiamo invece l’insieme delle esperienze,
nozioni, saperi che fanno parte della realtà in cui vivono gli esseri umani.
Questa materia può trovare espressione in una lingua, o in altri sistemi
espressivi che non sono adeguatamente traducibili in una qualsiasi lingua
storica (ad esempio in forme d’arte come la musica o la pittura, o in forme
simboliche complesse, come i linguaggi della matematica superiore o della
fisica subatomica); oppure può restare inesprimibile.
2.2. L’arbitrarietà Il fatto che lingue diverse articolino diversamente la
L’arbitrarietà
del segno
propria espressione e il proprio contenuto costituisce una manifestazione
del principio di arbitrarietà che caratterizza i segni delle lingue storico-naturali.
La nozione di arbitrarietà usata in linguistica discende in buona parte da
quella formulata da Ferdinand de Saussure, ed è stata poi precisata da
vari altri studiosi, tra i quali va ricordato soprattutto Émile Benveniste.
Si possono distinguere vari sensi della nozione di arbitrarietà, osservando
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2. Lingua e segni: alcuni concetti di base
quali entità siano in qualche modo collegate da una relazione di natura
arbitraria.
L’arbitrarietà assoluta, o semplicemente arbitrarietà, è l’assenza di ragioni
naturali, logiche o psicologiche che facciano sì che un dato segno sia così
com’è, cioè che una data espressione sia in relazione con un dato contenuto. L’esistenza di tante e diverse lingue nel mondo è la dimostrazione migliore del principio di arbitrarietà assoluta: se i segni linguistici non fossero
arbitrari, bensì strutturati secondo un qualche legame di necessità tra
espressione e contenuto, non ci sarebbe distinzione tra forma e sostanza
linguistiche: le parole delle diverse lingue sarebbero tutte uguali, il che vale
a dire che non ci sarebbero lingue diverse, ma una sola lingua; e che questa
lingua sarebbe immutabile nel tempo, o meglio muterebbe solo in quanto
mutano gli oggetti e i concetti della realtà.
Inoltre, parole che hanno lo stesso suono in lingue diverse non designano
necessariamente cose o concetti simili. Le letterature e i manuali di linguistica sono ricchi di esempi fondati su questa banale osservazione. La sostanza dell’espressione dell’inglese loop ‘anello, cerchio, àsola’ è quasi identica a quella del rumeno lup ‘lupo’, il rumeno boia ‘paprica’ suona come l’italiano boia, il rumeno mici significa ‘piccoli’ e non ‘gatti’. Nei versi romaneschi riportati qui sotto (di G. G. Belli) un munzù – cioè un ‘monsieur’ –
francese loda la bellezza di due donne:
Arbitrarietà assoluta
«ovì, per diú, sò ttre bbelle e ttre bbonne»:
e cquelle ereno dua co cquattro gamme.
È chiaro che il francese très belles ‘molto belle’ è diverso dal romanesco tre
bbelle. L’esistenza di parole che partendo dalla stessa sostanza dell’espressione significano concetti diversi mostra, di nuovo, che non c’è alcun vincolo naturale e necessario tra l’espressione e il contenuto di un segno.
Come conseguenza di quanto appena detto, la nozione di arbitrarietà è anche applicabile alla struttura interna dei piani dell’espressione e del contenuto o, per meglio dire, al rapporto tra le relative forme e le relative sostanze.
L’arbitrarietà del rapporto tra la forma e la sostanza dell’espressione, detta
anche (un po’ ambiguamente) arbitrarietà formale, consiste nel fatto che,
malgrado gli esseri umani dispongano di un medesimo apparato fonatorio
per produrre i suoni linguistici e di un medesimo sistema percettivo per riceverli, i sistemi di suoni delle lingue umane sono diversissimi. La differenza è macroscopica quando troviamo lingue che usano come fonemi dei
suoni che in altre lingue non appartengono neppure alla categoria dei suoni linguistici: per esempio, lo schiocco della lingua con cui cocchieri, fantini e stallieri chiamano il cavallo oppure quello che si fa quando tiriamo un
bacio sono suoni usati come fonemi in varie lingue dell’Africa meridionale.
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Arbitrarietà formale
Linguistica generale
In casi come questi è addirittura la sostanza dell’espressione che risulta diversa.
Molto più frequente, e anzi del tutto normale, è il caso in cui una sostanza
fatta di suoni fisicamente molto simili è formata diversamente (cioè diversamente ritagliata in fonemi) da lingue diverse. Pensiamo alla lunghezza
dei suoni: in italiano, solo per le consonanti – e nemmeno per tutte – la
differenza di lunghezza consente di differenziare da sola due parole, come
per dita vs. ditta, fumo vs. fummo. Al contrario, la differenza tra una vocale
lunga e una breve non può svolgere la medesima funzione: le “i” e le “u” di
dita e fumo sono più lunghe di quelle di ditta e fummo, ma nella nostra lingua ciò è ininfluente, sicché noi nemmeno ce ne accorgiamo. In inglese,
invece, la differenza di lunghezza vocalica distingue parole diverse, come
avviene per beat ‘battere’ vs. bit ‘pezzettino’, fool ‘pazzo’ vs. full ‘pieno’,
mentre la lunghezza consonantica non ha questa capacità. In altre parole,
ci sono “i” e “u” lunghe e brevi sia in inglese sia in italiano dal punto di vista della sostanza, ma solo in inglese dal punto di vista della forma.
Un altro esempio: lo spagnolo ha cinque fonemi vocalici accentati, l’italiano invece ne ha sette, perché distingue “è” aperta da “é” chiusa (pèsca matura, ma canna da pésca), “ò” aperta da “ó” chiusa (bòtte da orbi, ma bótte
di vino). Ma anche in spagnolo esiste una differenza tra “e” ed “o” aperte e
chiuse, solo che questa differenza dipende dai suoni circostanti e non permette di distinguere una parola dall’altra: queste vocali si pronunciano automaticamente aperte se si trovano a contatto con una “r”, sicché spagn.
perro ‘cane’ si pronuncia con “è” aperta, roca ‘roccia’ con “ò” aperta. Detto
altrimenti, ci sono “e” ed “o” aperte e chiuse sia in spagnolo sia in italiano
dal punto di vista della sostanza, ma solo in italiano dal punto di vista della
forma:
Arbitrarietà
semantica
spagnolo
a
italiano
a
e
è
i
é
i
o
ó
u
ò
u
L’arbitrarietà del rapporto tra la forma e la sostanza del contenuto, che
possiamo definire arbitrarietà semantica, consiste nel fatto che ciascuna
lingua ritaglia la materia del contenuto formandola in maniera propria, ed
eventualmente diversa dalle altre. Per esempio, l’italiano e l’inglese distinguono linguisticamente, nella divisione del corpo umano, gli arti superiori
e inferiori dalle loro estremità: braccio e mano, gamba e piede, arm ‘braccio’
e hand ‘mano’, leg ‘gamba’ e foot ‘piede’. Nelle lingue slave, invece, gli arti
sono considerati come un tutt’uno: in russo ruká (ук) indica l’intero arto
superiore, braccio e mano insieme, e nogá (ог) indica l’insieme di gamba
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2. Lingua e segni: alcuni concetti di base
e piede. Il rumeno, che è una lingua neolatina, va con le lingue slave per
l’arto inferiore (picior ‘gamba, piede’), con quelle occidentali per quello superiore (braţ ‘braccio’, mână ‘mano’). Dal punto di vista strutturale, la medesima materia è quindi suddivisa in diverse forme del contenuto:
italiano
gamba
piede
braccio
mano
inglese
leg
foot
arm
hand
braţ
mână
rumeno
picior
russo
nogá
ruká
Le differenze nei rapporti tra forma e sostanza del contenuto si possono
studiare anche dal punto di vista dell’evoluzione linguistica, confrontando
cioè non lingue diverse nello stesso momento (cioè in sincronia; cfr. par.
5), ma l’evoluzione della stessa lingua nel corso del tempo (cioè in diacronia; cfr. par. 5).
Ad esempio, in latino il contenuto ‘zio’ era articolato in due forme, a seconda che si riferisse al fratello del padre (patruus) o a quello della madre
(auunculus). Nell’evoluzione dal latino alle lingue romanze, quella distinzione si è semplificata, e la nozione viene espressa da un’unica forma:
latino
patruus
auunculus
francese italiano spagnolo portoghese catalano
oncle
zio
tío
tio
oncle
rumeno
unchiu
Gli esempi (tratti da un saggio del linguista rumeno Eugenio Coseriu) dimostrano che l’arbitrarietà non consiste nell’accoppiare significanti diversi
ai medesimi concetti, come se questi preesistessero alle diverse lingue. Le
lingue si differenziano tra loro, nel tempo e nello spazio, anche perché la
sostanza del contenuto si organizza in significati in modo arbitrario, e
quindi eventualmente diverso da lingua a lingua.
Tuttavia, a ben vedere, una lingua nella quale il principio di arbitrarietà assoluta vigesse senza alcun contrappeso difficilmente potrebbe funzionare.
In una lingua del genere, le parole sarebbero prive di qualsiasi collegamento tra di loro. I parlanti dovrebbero impararle e ricordarle una per una,
senza alcuna possibilità di raggrupparle secondo somiglianze di suono e di
senso: non ci sarebbe modo di collegare benzinaio con benzina, linguista
con lingua, ventotto con venti, leggono con leggo e così via.
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Impossibilità di una
lingua totalmente
arbitraria
Linguistica generale
Limitazioni
all’arbitrarietà
Motivazione
Trasparenza
Diagrammaticità
Motivazione
ed etimologia
Di ciò era ben consapevole lo stesso Saussure, il quale, dopo aver enunciato
il principio di arbitrarietà, pose tra i compiti della linguistica anche quello,
complementare, di studiare le sue limitazioni (cfr. riquadro 1). Gli esempi
mostrano che nelle lingue esistono dei gradi di arbitrarietà. Vi sono segni
totalmente arbitrari, in quanto totalmente immotivati nel legame tra
espressione e contenuto: il significato di benzina, lingua e venti non può essere in nessun modo intuito a partire dai rispettivi significanti. Ma vi sono,
accanto a questi, segni che chiameremo motivati: se conosco il significato
di benzina e giornale, potrò intuire il significato di benzinaio e giornalaio
anche se sento questa parola per la prima volta. Analogamente, parole italiane come bottiglia o cenere sono totalmente immotivate, mentre apribottiglie o portacenere sono motivate, in quanto il loro significato è almeno
parzialmente ricavabile da quello delle parole che le compongono. Si noti
che la motivazione è perlopiù relativa: in astratto, apribottiglie potrebbe essere un nome di mestiere, ad esempio un sinonimo di cameriere o un dispregiativo di sommelier, e portacenere un sinonimo di carbonaio.
Definiamo quindi motivazione la relazione tra i diversi componenti riconoscibili nell’espressione di un segno e i rispettivi componenti del contenuto. Quanto più forte è questa relazione, tanto più il segno si dice motivato.
Esistono criteri obiettivi per valutare il grado di motivazione: i principali
sono la trasparenza e la diagrammaticità.
Un segno è tanto più trasparente quanto più facile è riconoscere e segmentare i suoi componenti sul piano dell’espressione (trasparenza morfotattica), e quanto più facile è assegnare loro un significato sul piano del contenuto (trasparenza morfosemantica). Così, rispetto all’espressione, è più
trasparente creazione (rispetto a creare) di pressione (rispetto a premere). Rispetto al contenuto, è più trasparente accendisigari di accendino, perché il
suffisso -ino non forma solo nomi di strumento, ma anche altri tipi di
nome (orecchino, gattino, spazzino, trentino).
Un segno, inoltre, è tanto più diagrammatico quanto più è facile mettere
in relazione i componenti della sua espressione coi rispettivi componenti
del contenuto. Ad esempio, un plurale come cani è più diagrammatico di
uno come radio, perché nel primo, ma non nel secondo, si può individuare
quale parte del significante porti il significato di ‘plurale’.
Anche rispetto alla motivazione è possibile impostare l’analisi in prospettiva diacronica, cioè evolutiva, e non solo sincronico-descrittiva. Parole
come it. donna, orecchia, teschio o come ingl. lady, lord sono parole di forma semplice, non internamente articolate né analizzabili nella loro struttura: si tratta di segni immotivati e privi di struttura interna. Al contrario, le
rispettive basi etimologiche erano parole complesse, strutturate e perfettamente analizzabili per i parlanti latino o inglese antico. Domina era il femminile di dominus ‘padrone’, auricula era il diminutivo di auris ‘orecchia’,
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2. Lingua e segni: alcuni concetti di base
testulum l’altrettanto regolare diminutivo di testum ‘vaso di terracotta’.
Lady deriva dall’inglese antico hlǣfdige, un composto trasparente che significava letteralmente ‘impasta-pane’; allo stesso modo, alla base della parola
lord c’è un antico hlāf-weard, ‘guarda-pane’. L’evoluzione del significante
ha oscurato quelle motivazioni e opacizzato quei segni, che sono diventati
totalmente arbitrari: recuperare la motivazione originaria dei segni linguistici costituisce lo scopo principale dell’etimologia.
riquadro 1
I limiti all’arbitrarietà
Come abbiamo già accennato, è normale che in uno stesso segno coesistano processi semiotici diversi: simbolici, indessicali e iconici. Gli esempi che abbiamo fatto per i segni non
linguistici si possono applicare anche ai segni linguistici. Poiché i segni linguistici sono perlopiù simboli, la proprietà dell’arbitrarietà li caratterizza in quanto tali. Ma questa proprietà
è limitata in vari casi dalla compresenza all’interno del medesimo segno di processi di altro
tipo, perlopiù iconico e, più raramente, indessicale.
Il caso più generale di iconicità nelle lingue del mondo è costituito dagli ideofoni. Gli ideofoni sono parole che imitano o evocano in modo espressivo eventi più o meno concreti. L’imitazione può riguardare varie caratteristiche del contenuto: l’esempio più noto è quello
del suono (bum ‘botto’, tic-tac ‘ticchettio’), nel qual caso abbiamo a che fare con onomatopee (cfr. infra); ma esistono ideofoni che esprimono altre caratteristiche di un evento, ad
esempio il modo in cui esso si svolge, attraverso procedimenti iconici diffusi universalmente, come il raddoppiamento: ad esempio, giapp. doki doki ‘batticuore’.
Nelle onomatopee l’espressione imita un suono connesso in qualche modo al contenuto.
Nell’italiano bomba, l’espressione richiama lo scoppio che associamo al suo contenuto, e lo
stesso avviene in parole come ticchettìo, sussurrare o belare. Perché ci sia onomatopea non
serve che l’imitazione sia fedele o immediata: molte onomatopee – ad esempio quelle appena citate – sono parole come tutte le altre, nomi e verbi perfettamente integrati all’interno della lingua. Un altro esempio noto di onomatopea è quello delle parole che indicano i
versi degli animali. Il canto del gallo in italiano è reso con chicchirichì, in francese con cocorico, in svedese con kukeliku, in inglese con cock-a-doodle-doo. Il verso dell’anitra è reso
con couin-couin in francese, quak-quak in tedesco, rap-rap in danese, mac-mac in rumeno.
Eppure i galli e le anitre non cambiano verso a seconda che siano italiani, francesi, svedesi,
inglesi, danesi o via dicendo. La diversità di rappresentazione linguistica delle onomatopee
non ne diminuisce tuttavia l’iconicità: per i parlanti lo scopo delle onomatopee resta comunque imitativo, o almeno evocativo, anche se in questa imitazione la fedeltà naturalistica non è particolarmente importante.
Onomatopee e ideofoni sono casi tipici di segni iconici, che una volta formati si inseriscono
nelle rispettive categorie (nomi, verbi ecc.). Esistono anche procedimenti di tipo iconico: un
caso che abbiamo già considerato è quello del raddoppiamento, di cui molte lingue si servono per significare intensificazione o accrescimento del contenuto. Ad esempio, in italiano
si può usare il raddoppiamento per formare il superlativo di alcuni aggettivi: grande grande
‘grandissimo’, piano piano ‘pianissimo’. In napoletano, il raddoppiamento serve a precisare
il contenuto di alcuni avverbi di tempo: mó ‘adesso’, mommó ‘proprio adesso’; tanno ‘allora’,
tanno tanno ‘proprio in quel momento’.
Abbiamo infine i casi di iconicità sintattica, in cui la successione delle proposizioni (o clausole) rispecchia l’ordine in cui si sono svolti gli eventi: il celebre motto di Cesare veni, vidi,
vici ‘venni, vidi, vinsi’ riproduce l’ordine in cui si sono verificati gli eventi narrati. Un esempio importante di iconicità sintattica può essere individuato nella tendenza a mettere al primo posto nell’enunciato ciò a cui vogliamo dare maggior risalto, per cui il primo posto corri-
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