Dalla Paga del sabato di Fenoglio alla Ragazza di Bube di Cassola

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Dalla Paga del sabato di Fenoglio alla Ragazza di Bube di Cassola
Associazione degli Italianisti
XIV CONGRESSO NAZIONALE
Genova, 15-18 settembre 2010
LA LETTERATURA DEGLI ITALIANI
ROTTE CONFINI PASSAGGI
A cura di ALBERTO BENISCELLI, QUINTO MARINI, LUIGI SURDICH
Comitato promotore
ALBERTO BENISCELLI, GIORGIO BERTONE, QUINTO MARINI
SIMONA MORANDO, LUIGI SURDICH, FRANCO VAZZOLER, STEFANO VERDINO
SESSIONI PARALLELE
Redazione elettronica e raccolta Atti
Luca Beltrami, Myriam Chiarla, Emanuela Chichiriccò, Cinzia Guglielmucci,
Andrea Lanzola, Simona Morando, Matteo Navone, Veronica Pesce, Giordano Rodda
DIRAS (DIRAAS), Università
degli Studi di Genova, 2012
ISBN 978-88-906601-1-5
Dalla Paga del sabato di Fenoglio alla Ragazza di Bube di Cassola:
due partigiani alla fine della Resistenza
Sara Calì
Nell’Italia desolata del Dopoguerra la vita riprende molto velocemente il suo corso. I reduci, expartigiani, osservano la realtà con sguardo straniato e accettano con difficoltà la memoria corta della
Storia che, nel volgere di poco tempo, ha sovvertito nuovamente le categorie mentali e
comportamentali imposte dalla guerra, a scapito di chiunque non riesca ad attenersi alle rinnovate
regole di vita. Fenoglio e Cassola si muovono sullo stesso discrimine: il momento preciso della fine
della Resistenza, e s’interrogano sul medesimo quesito, in due romanzi diversi ma vicini, vòlti a
fissare il riflesso dei grandi avvenimenti sulle “vicende minute e quotidiane”.
E se nella Paga del sabato, Ettore intuisce subito il cambiamento repentino che lo degrada da eroe a
uomo comune, defraudandolo del prestigio ottenuto in guerra, nella Ragazza di Bube, il
diciannovenne ex-partigiano, Arturo Cappellini, non riuscirà a prendere coscienza del cambiamento
avvenuto, se non dopo essere stato condannato al carcere per aver commesso un omicidio.
I reduci, contrassegnati dai lasciti inconfondibili della guerra, la magrezza, l’abitudine alla violenza,
la confidenza con le armi e l’immancabile sigaretta, si distinguono dalle persone comuni, ingrigite,
ai loro occhi, dall’imbelle quotidianità.
Infastidito e deluso, Ettore guarda con disprezzo gli operai della fabbrica di cioccolato dove il padre
gli aveva trovato un posto come impiegato e, mentre li osserva dal punto di vista alienato di un
orinatoio, ricorda a se stesso, con ostentata fierezza, la libertà e l’esperienza acquisita in guerra:
Io non sarò mai dei vostri […]. Siamo troppo diversi, le donne che amano me non possono amare voi e vicever sa. Io avrò un destino diverso da voi […]. Voi fate con naturalezza dei sacrifici che per me sono enormi, insop portabili, e io so fare a freddo delle cose che solo a pensare a voi, farebbero drizzare i capelli in testa. Impossibi le che io sia dei vostri […]. Ciascuno secondo la propria esperienza. Io ho imparato le armi, a spaventare la gente
con un’occhiata, a star duro come una spranga davanti alla gente in ginocchio con le mani giunte. Ciascuno secondo propria esperienza1.
1 Tutte le citazioni de La paga del sabato sono tratte dall’edizione critica diretta da Maria Corti, BEPPE FENOGLIO,
Opere, a cura di Piera Tomasoni, Torino, Einaudi, 1978. Ivi, pp. 140-141.
Il disagio si estende anche alla vita familiare e sentimentale: sua madre lo tormenta con rabbiosi
silenzi e sfoghi furibondi, gli rimprovera di non avere un lavoro e di gravare economicamente sulla
famiglia, la sua ragazza, Vanda, è rimasta incinta, ed egli, non riuscendo ad adattarsi alla vita
comune, non trova altra alternativa che accettare la proposta di lavorare per Bianco, un eroe della
Resistenza che vive in modo malavitoso, ricattando i fascisti, strenuo cultore della violenza che lo
aveva esaltato in battaglia.
In Bianco egli intravede una scorciatoia, presagendo i lauti guadagni che in breve tempo gli
avrebbero permesso di “emanciparsi2” e di mettersi a lavorare in proprio. Ettore, anche se
intelligente e lucido, non riesce ancora a staccarsi dall’immagine che si era ritagliato in battaglia,
vive immerso in una violenza3 monolitica e inestirpabile, ostentata come segno di virilità anche
quando si rivolge alla ragazza, cui riserva parole dure quanto quelle di un ultimatum:
‒ Tu stai con me e andiamo avanti noi due soli. Stai con me, non importa se per amore o per paura, sono pronto a farti
provare tutt’e due4.
Perfino quando le dichiara il suo amore, non riesce a fare a meno di un linguaggio sordo e
autoritario5: «Io ti amo, cacciati in testa questo […] e non farmelo più dire che ti amo6».
Anche nei confronti di Bianco e del suo sottoposto Palmo, un contadino senza cervello definito
costantemente «cretino7», Ettore nutre un duro sentimento di distacco. Quando i tre minacciano il
vecchio fascista per estorcergli denaro, Fenoglio si sofferma, volutamente, sullo scambio di battute
tra la donna di servizio, loro complice, e Bianco. L’eroe, omicida e ladro, non senza una larvata e
irrazionale premura legalitaria, consiglia alla domestica di lasciare la casa solo dopo aver preteso la
liquidazione dagli eredi del suo padrone, appena morto, giusta ricompensa, evidentemente, per
averne tradito la fiducia:
2 Ivi, p. 152.
3 GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI, in Ritratto di Fenoglio, «Paragone Letteratura», agosto 1963, parla di «violenza
come misura esclusiva del mondo», p. 61.
4 BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, cit., pp. 173-174.
5 Sulla lingua della Paga del sabato si possono leggere alcune riflessioni di GINA LAGORIO in un articolo intitolato
Finalmente “La paga del sabato”, in «Il ponte», 30 giugno-31 luglio 1969, pp. 1059-1065. Per la lingua di Fenoglio,
con particolare riferimento al Partigiano Johnny, si veda il saggio di GIAN LUIGI BECCARIA, La guerra e gli
asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Milano, Serra e Riva, 1984; ID., Il ‘grande stile’ di Beppe
Fenoglio, in Fenoglio a Lecce, Atti dell’Incontro di Studio su Beppe Fenoglio, a cura di Gino Rizzo, Firenze, Olschki,
1984, pp. 167-221 e ID., Fenoglio, un classico del nostro secolo, in Beppe Fenoglio 1922-1997, Atti del convegno di
Alba, 15 marzo 1997, a cura di Pino Menzio, Electa, Milano, 1998, pp. 9-17. Inoltre di GIUSEPPE ZACCARIA, si
veda Tra epos e romanzo: alla ricerca degli archetipi perduti, in Cesare Pavese, percorsi della scrittura e del mito,
Vercelli, Edizioni Mercurio, 2009, pp. 187-202.
6 BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, cit., p. 175.
7 Calvino lo trovava troppo cinematografico e il 2 novembre 1950 scriveva a Fenoglio: «Ha tutto un albero genealogico
di gangsters cretini che gli ha insegnato come deve parlare e come deve muoversi», in BEPPE FENOGLIO, Lettere,
1940-1962, a cura di L. Bufano, Torino, Einaudi, 2002, p. 24.
‒ […] Oh, gli eredi devono darti la liquidazione.
‒ Spero che me la diano.
‒ È tuo diritto ‒ disse Bianco8.
In questo contesto di soprusi e di violenza, è quasi ironico sentir parlare Bianco di “diritto”, con una
tale naturalezza da mostrare i rischi dello sconvolgimento mentale9 operato dall’esperienza bellica.
Tuttavia la piena presa di coscienza della nuova fase storica avviene in occasione della
commemorazione dei caduti di Valdivilla, in occasione della quale Ettore capisce che la Resistenza
è finita e gli sembra di vederla emblematicamente raffigurata nel cippo funerario chiuso e squadrato
dedicato ai caduti. La sua lucidità si evidenzia ancor più dalla differenza di atteggiamento che nella
stessa occasione assumono Bianco e Palmo, totalmente immersi nell’emozione, per loro ancora
calda, della rievocazione di una sconfitta descritta con l’enfasi di una vittoria, inorgogliti solo
dall’avervi preso parte10:
Palmo […] raccontava a tutti per filo e per segno com’era andato il combattimento di Valdivilla, promettendo di
ripetere la descrizione sul posto e di mostrare il punto preciso dov’era caduto ciascuno dei morti. […] Si voltò
dalla parte di Bianco e Palmo, a quei due sì che aveva fatto effetto ritrovarsi sulle colline, perché si muovevano
con scatti infantili, puntavano il dito dappertutto e avevano gli occhi piccoli e lustri e Ettore poteva leggerci il
barbaro sentimento che quelli erano stati tempi felici e che il destino sarebbe stato ingiusto se non gliene riservava un altro pezzo prima di morire11.
In questo caso il giudizio più critico si appunta sulla figura di Palmo che durante il combattimento
di Valdivilla se l’era «fatta addosso»12, ma era stato ugualmente elevato al rango di combattente,
solo per essere stato presente in quell’occasione con una rivoltella al seguito. Ed è proprio Palmo,
sebbene il confronto possa sembrare degradante, ad avere qualche affinità con Bube, il ragazzo
magrolino e impacciato con le ragazze che si sente forte grazie alla pistola che porta con sé, sebbene
la sua fragilità si evidenzi nella sua incapacità di decidere autonomamente, trascinato ora dai
compagni di partito, ora dalla fidanzata. Ancora tenacemente ancorato al ricordo della Resistenza,
che gli dava forza, direttive e onore, Bube è distratto e sviato da un ideale di sé che non ha più
8 Ivi, p. 161.
9 WALTER MAURO parla di «deformazione mentale» dovuta alle conseguenze dell’esperienza bellica, in Invito alla
lettura di Fenoglio, Milano, Mursia, 1969, p. 107.
10 Tuttavia, nonostante il disgusto espresso da Ettore in questa occasione, GINO RIZZO fa notare che «il personaggio
fenogliano ama raccontare e al racconto, anzi, ambisce», in ID., Su Fenoglio tra filologia e critica, Lecce, Edizioni
Milella, 1976, p. 130.
11 BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, cit., pp. 200-201.
12 «Ti ricordi che cosa seria fu il combattimento di Valdivilla e ti ricordi che te la sei fatta addosso», dice Ettore con
sottile ironia, giocando sul doppio significato di «serio» attribuito alla battaglia, di cui si parlerà in seguito con toni
molto aspri, in B. Fenoglio, La paga del sabato, cit., p. 155.
ragione di esistere, incarnato ancora per poco dalle residue aspettative di quanti lo circondano e lo
inducono, per opportunismo, a persistere nell’errore13:
Be’, a Volterra…non mi ci trovavo più bene. Figurati che l’altra settimana il maresciallo pretendeva di mettermi
in prigione…Poi, s’intende, c’è stata una protesta, e mi ha dovuto rilasciare14.
Egli, però, non ne comprende la vera ragione e nel comportamento della folla crede di trovare
conferma al proprio operato. A poco a poco, sarò proprio il ruolo di “Vendicatore 15 che lo aveva
caratterizzato, guidato ed incoraggiato, ad intrappolarlo, quasi trasformandosi, metaforicamente, nel
carcere a cui sarà condannato per l’omicidio del maresciallo. L’immagine di sé gli impone di
rimanere fedele alle aspettative proiettate su quanti lo circondano e gli suggerisce di malmenare il
prete Ciolfi, mostrando un coraggio che egli, sulle prime, non sente di avere verso il religioso che
tanti anni prima l’aveva anche aiutato. Si pone con lo stesso atteggiamento virile nei confronti di
Mara dicendo di aver fatto cose: «[…] che se non avessi avuto coraggio…Io, per tua regola, del
coraggio ne ho da vendere»16 e raccontandole, con l’orgoglio di chi descrive una prodezza bellica,
di aver ucciso un ragazzo, senza accorgersi che in epoca di pace il suo gesto, peraltro ingiustificato,
è una colpa punibile con il carcere (gli saranno comminati quattordici anni). Rievoca, con enfasi,
prima l'alterco con il sacerdote che non voleva ammettere i partigiani rossi in chiesa, poi l’arrivo del
maresciallo, la lite e, infine, l’uccisione del loro compagno Umberto da parte del militare, a sua
volta ucciso per vendetta da un altro amico, Ivan Ballerini:
Prima abbiamo ammazzato il maresciallo, e poi anche il figliolo […]. L’ho ammazzato io, quello. Era sbucato
non so di dove e vedendo il padre cadavere s’era messo a gridare…Poi, quando s’è accorto che lo prendevo di
mira, se l’è dato a gambe. Ma io non me lo sono lasciato sfuggire. Gli sono corso dietro, e quando stavo per rag giungerlo, lui s’è infilato dentro casa. Io l’ho inseguito su per le scale, e una volta in cima s’è dovuto fermare…e
s’è voltato, perché ormai non aveva più scampo. Gli ho trapassato la testa al primo colpo17.
Il racconto di Bube (che s’ispira ad una fatto di cronaca realmente accaduto, i cui protagonisti
furono Renato Ciandri e Nada Giorgi18) nasconde un barlume di premonizione già dal modo
13 FRANCO ANTONICELLI nota che: «gli è rimasta la mano pronta ad impugnare l’arma e di questa sua prontezza
irriflessiva, della sua generosità irresponsabile profittano molti per eccitarlo a loro vantaggio», ID., Un dolente idillio
nella tragedia, in «La stampa», 29 marzo 1960.
14 Tutte le citazioni della Ragazza di Bube sono tratte dall’edizione critica a cura di Alba Andreini, CARLO
CASSOLA, Racconti e romanzi, Milano, Mondadori, 2007. Ivi, p. 685.
15 «Bube si rivela così prigioniero del “nome” assunto da partigiano e inchiodato nel ruolo di “Vendicatore”», così
commenta ROSSANA ESPOSITO in Come leggere “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola, Milano, Mursia, 1978, p. 29.
16 CARLO CASSOLA, La ragazza di Bube, cit., p. 719.
17 Ivi, p. 692.
18 Tutto l’episodio è narrato dallo scrittore in Carlo Cassola: letteratura e disarmo, a cura di Domenico Tarizzo,
affannoso con cui è pronunciato, come se l’espressione di Mara, nell’ascoltarlo, fosse un po’
incerta, riflessiva, sì da pungolare in lui l’affacciarsi della coscienza, acquietata solo dalla certezza
di aver assolto il proprio dovere di “Vendicatore”.
Molto più consapevole, invece, Ettore che prende coscienza pienamente della mutata situazione
storica durante il funerale della madre di Bianco:
Al funerale intervenne una quantità di gente altolocata e per bene, assessori comunali, medici e notai e professori, le associazioni dei combattenti con le bandiere. Ettore guardò tutta questa gente attorno alla vettura dei morti
e si disse: «Va bene»19.
Alla vista del nutrito corteo, egli capisce che la stima di cui gode ancora l’amico, immotivata ed
irrazionale perché dovuta per lo più al timore generato dagli atteggiamenti intimidatori praticati, gli
darà il tempo necessario per assicurarsi un nuovo lavoro, cambiare vita e allontanarsi dalla guerra,
di cui comincia a rifiutare ogni ipotesi di continuità, come aveva già detto di fronte al cippo
funerario dei partigiani morti: «Che sbaglio avete fatto ragazzi. Mi odio, mi darei un pugno in testa
se penso che anch’io mi son messo tante volte nel pericolo di fare il vostro sbaglio20».
Il distacco che lo caratterizza, critico e un po' ironico, è proprio dell’intellettuale quale egli si
sentiva anche in battaglia21, davanti alla fabbrica o quando si era proposto a Bianco che aveva
irretito velocemente, sfoggiando la citazione di un film americano. Certamente autobiografico 22,
quell’«aristocratico io», coinvolto in un «un fenomeno storico collettivo quale la Resistenza» 23,
sottende al romanzo e s’infiltra nei pensieri di Ettore, nella sua magrezza, nel suo “snobismo” 24, nel
suo commento, come disse Contini, «non agiografico della Resistenza» 25.
A Valdivilla la sterile cerimonia di maniera gli aveva già suggerito un solo discorso
commemorativo, quello da rivolgere a se stesso26:
Milano, Mondadori, 1978, pp. 62-66. Ma si veda anche l’accurata ricostruzione di Alba Andreini, in CARLO
CASSOLA, Racconti e Romanzi, cit., pp. 1793-1802.
19 BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, cit., p. 170.
20 Ivi, pp. 201-202.
21 Tuttavia Fenoglio non mancava mai di accennare alla propria esperienza di partigiano quando parlava di sé, come
ben si vede in ELIO FILIPPO ACCROCCA, Ritratti su misura, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 180. Anche
Cassola fu coinvolto personalmente nella Resistenza e nella sua intervista la definiva una delle esperienze più
importanti della sua vita, ivi, p. 123.
22 MARIA CORTI, ne La paga del sabato, cit., p. 145.
23 MARIA NELLA FRASCARELLI GERVASI, Beppe Fenoglio o dell’autenticità, in «Critica letteraria», 1979, p. 742.
24 EDUARDO SACCONE, Conclusioni anticipate su alcuni racconti e romanzi del Novecento, Napoli, Liquori, 1988, p. 187.
25 GIANFRANCO CONTINI, La letteratura italiana, in «Otto-Novecento», Firenze, Sansoni, 1974, p. 408.
26 GIAN LUIGI BECCARIA, in Fenoglio, un classico del nostro secolo, in Beppe Fenoglio 1922-1997, cit., annota:
«C’è sempre qualcosa di solenne nelle piccole cose, nei piccoli atti, come nei grandi», p. 41.
C’è solo una lezione che voglio tenere a mente, e mi odio se penso che l’avevo già imparata bene e poi col tempo
me la sono dimenticata. Non finire sottoterra. Per nessun motivo. Non finire sottoterra. Né in galera 27.
L’avvenuta presa di distanza dal passato è sintetizzata nel rischio di morire, nell’«errore» che ora
sembra sancire l’inutilità degli sforzi dei combattenti e dei sacrifici compiuti in guerra, in nome di
un ideale falso e caduco, naufragato nel disordine istituzionale e nella perdita di una guerra che
aveva dato solo cattivi frutti: il grigiore della vita, lo squallore della sua casa, la grettezza della
madre, la sorda sopportazione del padre, l’alienazione degli operai della fabbrica, il sudiciume del
vicolo e dell’abitazione in cui viveva Vanda (vicinissima, tra l’altro, alla trascuratezza notata da
Mara in casa di Bube).
Cassola, invece, imposta la sua riflessione sull’esperienza resistenziale nell’ambito di un quesito
giuridico, intrecciato al motivo storico. Un’esercitazione, vicina alle antiche controversiae e
suasoriae, che tenta di analizzare un caso giudiziario ponendolo sulla linea di confine tra una fase
storica e l’altra. Anche Montale ne aveva còlto il proposito, chiedendosi: «[Bube è] un assassino?
Sì e no […]. Come può essere mutato il metro di giudizio da un giorno all’altro? 28». Proprio intorno
a questa domanda s’interrogano i due scrittori e la risposta di Cassola sembra affidarsi alla
descrizione della violenza gratuita e sconsiderata che si prolunga in un contesto di normalità,
lasciando trasparire, in filigrana, l’irrazionalità della logica praticata in battaglia.
Tuttavia, La ragazza di Bube suscitò numerose polemiche, ‘colpevole’, secondo Pasolini, di aver
inferto il colpo di grazia al Realismo29 e fu degradata dalla Neoavanguardia con l’accostamento a
Bassani. Lo scrittore in Letteratura e disarmo tentò di difendersi dall’accusa di Sanguineti che lo
aveva chiamato «la Liala ’63. Cioè,» puntualizzava indispettito Cassola, «uno scrittore rosa, uno
scrittore d’evasione30». Salvatore Battaglia nel Realismo elegiaco di Cassola, cercò di inquadrare la
polemica, limitandola al biasimo di parte dovuto alla scelta di parlare di una situazione politica
«quale la lotta antifascista e la polemica di classe, in termini occasionali e subordinati nei confronti
della predominante crisi individuale31». Manacorda parlò di «rinuncia alla storia32», mentre Calvino
su «Mondo operaio» invitò scrittori e critici letterari a valutare il romanzo dal punto di vista storico
e politico, accusandolo, da parte sua, di non aver utilizzato «dialetti e […] gerghi da far lievitare e
impastare nella lingua letteraria33». Lo scrittore si difese nuovamente sottolineando che «scrivere
27 BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, cit., p. 202.
28 EUGENIO MONTALE, in «Corriere della sera», 22 aprile 1960.
29 La ragazza di Bube fu pubblicato il 10 marzo 1960, nei “Supercoralli”, vincitore nello stesso anno (6 luglio) del
Premio Strega, contrassegnato dalla pubblica proclamazione della fine del Realismo nell’orazione in versi In morte del
realismo di Pasolini che ne cantò la morte e il tradimento da parte di colui «ch’era amico» (v. 100).
30 Carlo Cassola: letteratura e disarmo, cit., p. 50.
31 SALVATORE BATTAGLIA, ne Il realismo elegiaco di Carlo Cassola, in «Ragioni critiche», settembre 1960, p. 52.
32 GIULIANO MANACORDA, Storia della letteratura italiana contemporanea, Roma, Editori riuniti, 1967, p. 312.
33 CALVINO continua nella Prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, ricordando che «mai si videro formalisti così
non è trascrivere»,34 e rivendicando per sé il faticoso ruolo di scrittore alla ricerca di una lingua
semplice e adatta ai suoi personaggi35.
Di fatto, l’uso di un linguaggio scorrevole e piano, intrecciando la storia della Resistenza con la
vicenda ‘romantica’ di un amore sofferto e contrastato, fu una delle ragioni del successo dell’opera
e finì per proporla come un tipico ‘romanzo consolatorio36’, tanto da giustificare il giudizio negativo
del Gruppo ’63 (ancora nella Postille al Nome della Rosa, Eco dirà di avere mutato il suo giudizio
su Bassani, senza dire nulla, significativamente, a proposito di Cassola). D’altronde non mancano
momenti di sentimentalismo un po’ troppo insistito 37, pur sfacciatamente realistico, come quelli che
vedono Mara trascinare il debole Bube38 nelle schermaglie amorose fino a ridicolizzarlo con i
vezzeggiativi tipici degli innamorati. Da subito egli esibisce, ingenuamente, una fragile maschilità,
si pensi al malcelato sforzo di portare la fidanzata in bicicletta per la lunga curva in salita sulla
strada per Colle39. Molto diverso in questo da Ettore che, invece, conserva sempre la sua dignità di
soldato coraggioso, coerente nella fierezza e nella compostezza maschile.
Nel trattare la vicenda amorosa, Cassola propone i motivi già tipicamente appendicistici della
“colpa” e dell’espiazione, con tanto di “processo riparatore” e diventa legittimo il dubbio che ci si
trovi di fronte ad un romanzo pseudo-problematico, a differenza della meno fortunata Paga del
sabato che respinge ogni facile soluzione di tipo sentimentale40 o consolatorio, insistendo non solo
sulla differenza fra la Resistenza e il periodo successivo, ma anche sulla paralisi e sulle
conflittualità irrisolte che ancora avrebbero segnato il futuro del paese. Anche lo stile, crudo e
scabro, che non concede nulla alla retorica, non era tale da conquistarsi i favori del pubblico,
insieme con le ragioni politiche che, verosimilmente, indussero Vittorini a rifiutare la pubblicazione
dell’opera e a consigliarne lo smembramento in due racconti 41: Ettore va a lavoro e Nove lune,
accaniti come quei contenutisti che eravamo», dimostrandosi già strenuo cultore della forma, in ID., Il sentiero dei nidi
di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 8.
34 CARLO CASSOLA, ne I veleni critici, in «Le ragioni narrative», settembre 1960, aggiunge: «[…] non ho mai preso in
considerazione la possibilità di far parlare e pensare i miei personaggi in dialetto. Mi sono sforzato di farli parlare e pensare
in lingua, e sia pure in una lingua franta, mossa, smozzicata, tale cioè da rendere la psicologia di quella gente», p. 28.
35 Cassola, invece, a dispetto delle polemiche sollevate da Pasolini ricerca una lingua levigata: «una modalità espressiva di
assoluta trasparenza», come sostiene SALVATORE BATTAGLIA ne Il realismo elegiaco di Carlo Cassola, cit., p. 81.
GENO PAMPALONI, parla di una lingua «dimessa e pulita, nei loro dialoghi senza gridi, aristocratici nel loro essere
quotidiani», in Storia della letteratura italiana, IX, Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, p. 849.
36 PIERO DALLAMANO parla della conclusione «in chiave di sentimentalismi, come un melodramma», in «Paese
sera», 15-16 aprile 1960.
37 Una parte della critica che ha parlato di «vicenda [che] sfiorisce» come sostiene MICHELE RAGO, ne La ragazza
di Bube, in «L’unità», 16 aprile 1960, per aver concesso troppo spazio alla psicologia. «L’ideologia e la stessa azione
rivoluzionaria […] si fanno assorbire dalle ragioni personali e sembrano dissolversi nel flusso mobilissimo della
coscienza» come sostiene, invece, SALVATORE BATTAGLIA, ne Il realismo elegiaco di Carlo Cassola, cit., p. 36.
Gaetano Mariani parla di traduzione in «pathos [di] documenti e cronache», ne La giovane narrativa italiana tra
documento e poesia, Firenze, Le Monnier, 1962, p. 102.
38 LEONE PICCIONI vede in Bube una mancanza di maturazione, ne L’esperienza di Cassola, in «Il Popolo», 6 maggio 1960.
39 CARLO CASSOLA, La ragazza di Bube, cit., p. 702.
40 «Inclini un po’ troppo a una esemplarità un tantino astratta», annota ANNA BANTI in Cassola e Sermonti, in
«Paragone», aprile 1960, p. 115.
41 È interessante, a riguardo, la diatriba e le proposte di datazione che coinvolgono Il partigiano Johnny, si veda il breve
confluiti nei Ventitré giorni della città di Alba. 42
Tuttavia, vale la pena di soffermarsi sulla parte finale del romanzo. Dopo Valdivilla, Ettore ha
accumulato guadagni sufficienti per abbandonare Bianco e iniziare a fare il camionista, vuole far
credere a chi lo conosce di lavorare onestamente, in vista della costruzione di un distributore di
benzina. Un giorno, durante un viaggio in camion, Palmo lo sente canticchiare a bocca chiusa un
motivetto malinconico e gli chiede se è allegro: «Sono allegro sai perché? Perché sono un uomo
finito. Sono come una bilia che è cascata in buca43».
Quando sente di essere rientrato nella normalità, capisce di essere un «uomo finito». Come se la
fine della guerra avesse ucciso anche lui che si era salvato. Come se la vita si fosse consumata nel
breve giro dell’avventura resistenziale, i cui pietosi strascichi avevano portato alla nostalgica
impresa di Bianco, combattente gloriosamente finito in un sanatorio per la tisi. Fine ridicola,
almeno quanto quella cui è destinato Ettore che muore all’improvviso, lasciando l’impressione di
qualcosa di irrisolto, di una conclusione malriuscita e poco meditata ma perfettamente in linea con
la brutale rapidità con cui abitualmente Fenoglio parla della morte, come di un trapasso veloce che
non ripaga degli sforzi compiuti in vita: l’eroe che era sopravvissuto alla guerra e aveva deciso di
allontanarsi da Bianco per non rischiare la vita, l’aveva persa nella calma rassicurante
dell’autorimessa, fonte della propria stabilità economica, per colpa di quel “cretino” di Palmo,
incapace di fare manovra con il camion.
Più interessante ancora quell’«uomo finito», còlto da Eduardo Saccone44 come un riferimento a Un
uomo finito di Papini, cui si affianca la scelta d’intitolare il romanzo La paga del sabato, altro titolo
riassunto della vicenda che fornisce MARIA CORTI in Basteranno dieci anni?, in «Strumenti critici», Anno IV, 1970,
pp. 99-102. La studiosa, presupponendo che Il partigiano Johnny sia antecedente a La paga del sabato, si chiede:
«Come ha potuto Fenoglio dopo il partigiano Johnny scrivere La paga del sabato?», in La duplice storia dei “Ventitré
giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio, Firenze, Sansoni, 1970, p. 387.
42 Per la ricostruzione della vicenda si veda ancora M. Corti, in BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, Torino,
Einaudi, 1969, pp. 143-147 e soprattutto ID., Lettere, 1940-1962, cit., in cui si può seguire l’intero percorso dalla
presentazione del romanzo, di cui si parla nella lettera ad Italo Calvino del 10 novembre 1950, fino alla lettera inviata a
Vittorini il 6 dicembre 1952, in cui si commentano le recensioni ai Ventitré giorni della città di Alba e Fenoglio
annuncia di lavorare già alla Malora. Vittorini e Calvino consigliarono una serie di ritocchi (dovuti, forse, anche a
ragioni ideologiche, come fa notare GIUSEPPE ZACCARIA, ne Le distanze dal ‘neorealismo’: dagli “Appunti” al
“Partigiano”, in Cesare Pavese, percorsi della scrittura e del mito, cit., p. 185), puntualmente eseguiti da Fenoglio.
Come noto, dopo il tentativo naufragato di pubblicare i Racconti della guerra civile, la Paga del sabato uscì, postumo,
nel 1969. Fu la prima opera del giovane esordiente che Italo Calvino ed Elio Vittorini si trovarono fra le mani sulla
scrivania dell’Einaudi. Dopo la prima redazione del 1950, la stesura, tuttavia, continuava a non convincere del tutto
Vittorini che trovava molto più maturi i racconti, in cui gli consigliò di inserirne uno che salvasse i primi tre capitoli
della Paga del sabato (nella lettera a Italo Calvino del 30 settembre 1951, Fenoglio scrive: «[…] farò un lungo e solido
racconto intitolato Ettore va a lavoro col meglio dei primi tre capitoli de La paga del sabato», in BEPPE FENOGLIO,
Lettere, 1940-1962, cit., p. 35). L’intervento di Vittorini è stato ritenuto troppo invadente, causa, a detta della Corti, «di
molti guadagni, ma anche [di] qualche perdita», in La paga del sabato, Torino, Einaudi, 1969, p. 146. Qualche mese
dopo Fenoglio scrisse ancora a Calvino: «A Vittorini piace Ettore va a lavoro e mi consiglia di ricavare un altro
“barbaro” dalla scena de La paga del sabato in cui Ettore chiede in isposa alla famiglia l’incinta Vanda» (lettera a
Calvino del 14 dicembre 1951, Lettere, 1940-1962, cit. p. 42). Per i tagli e le differenza tra il romanzo ed i racconti
derivati, si veda la veloce ricognizione di M. Corti in BEPPE FENOGLIO, La paga del sabato, cit., pp. 145-146.
43 Ivi, p. 211.
44 EDUARDO SACCONE, Conclusioni anticipate su alcuni racconti e romanzi del Novecento, cit., p. 190.
citato, secondo lo studioso, come allusione ironica all’incontro con il destino, ad un debito da
pagare. Quale? La risposta è lasciata in sospeso, ma, forse, si potrebbe ricercare nelle inaccettabili
soluzioni che sembrava offrire il Dopoguerra, quali il fastidio di lavorare sotto un padrone,
diventare un numero massificato o perdere la propria individualità e il prestigio acquisito in guerra.
E sebbene Francesco De Nicola abbia rilevato l’indubbia vicinanza tra La paga del sabato ed un
racconto di Hemingway45, Soldier’s Home, incentrato sulle difficoltà di reinserimento nella società
del soldato Krebs, avvalorata, peraltro, dall’amore e dalla conoscenza che Fenoglio aveva della
letteratura americana ed anglosassone, la coincidenza dei due possibili riferimenti a Papini lascia
presupporre un’allusione precisa e voluta. Non è superfluo, a tal fine, ricordare che nel 1915, nella
Paga del sabato, lo scrittore aveva inneggiato alla dichiarazione di guerra dell’Italia, auspicando un
riscatto dalla sudditanza, in nome del glorioso passato italico. Fenoglio sembra rispondergli a
distanza, con laconico sarcasmo, sullo sfondo di un’Italia malconcia, e proclamarsi, a differenza di
Papini che aveva ancora «tante cose da dire 46», «un uomo finito», un uomo che canta una melodia
senza parole, senza più nulla da raccontare, cosciente, ormai, che l’eroe ha definitivamente ceduto il
posto al «comune giovanotto di paese47».
Quell'Italia che tanto boriosamente aveva dichiarato guerra, esaltata dalla pomposa retorica fascista,
aveva forse pagato il suo debito, aveva avuto il suo “lauto” compenso nell’umiliazione della
Seconda Guerra Mondiale e nel protrarsi di un’insensata guerra civile.
45 FRANCESCO DE NICOLA, Hemingway e Fenoglio. La questione privata del dopoguerra, in «Misure critiche»,
aprile-giugno 1976, pp. 65-75. Lo ribadisce anche ROBERTO BIGAZZI in Fenoglio: personaggi e narratori, Roma,
Salerno Editrice, 1983, pp. 32 e 33.
46 GIOVANNI PAPINI, Un uomo finito, Firenze, Vallecchi, 1951, p. 310.
47 Lo definisce così GIOVANNI FERRETTI, in «Rinascita», 22 agosto 1969.