Il furto – 1 – Stuzzico, pancia in giù, aspettò che le

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Il furto – 1 – Stuzzico, pancia in giù, aspettò che le
Il furto
–1–
Stuzzico, pancia in giù, aspettò che le due formiche si
fermassero l’una accanto all’altra e poi le schiacciò con
la cicca. Verificò compiaciuto il risultato e si rivoltò sulla
schiena. Gli aghi di abete lo punsero, forando la maglietta, e una radice gli si piantò sotto una scapola. Si scostò in
cerca di una posizione più comoda, ma l’esito del trasloco
fu poco soddisfacente.
“Dove si sono cacciate quelle troie?” domandò. La
frase gli uscì di gola malissimo. Tossì, sputò, rinunciò
alla lotta con la radice e si sedette.
“Guarda quei camion” disse Manfred.
Stuzzico, per un attimo, fu tentato dall’idea di dargli
uno spintone per farlo ruzzolare lungo il pendio.
“Me ne sbatto dei camion” si limitò invece a rispondere. “Sono stufo. Scovami quelle due stronze e torniamo in città.”
Anche Manfred era seduto sugli aghi di abete, le braccia strette attorno alle gambe raccolte. Scosse la testa e
una raffica di goccioline si staccò dai lunghi capelli neri
e arruffati.
Faceva un caldo schifoso e l’aria era piena di insetti
impazziti.
La sensazione di sollievo che Stuzzico aveva provato
quella mattina, quando erano arrivati nel bosco, a quell’altitudine, era stata spazzata via dall’umidità e dalla calura. Un moscerino gli si impantanò in una goccia di sudore, sulla fronte. Si passò rabbiosamente una mano sul
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cranio, se la ritrovò bagnata, unta e sporca di insetti. La
strusciò sul terreno e constatò che era anche più sporca di
prima.
“Madonna madonna madonna non ne posso più!”
disse.
“Ci dev’essere qualcosa di interessante su quei camion” insistette Manfred.
Lo stuzzicadenti fra le labbra di Stuzzico fece cinque
o sei viaggi veloci. Perfino Vroni, a quel punto, si sarebbe azzittita a scanso di schiaffoni. Stuzzico fissò la nuca
di Manfred e calcolò quanto gli sarebbe costato lo sforzo
di sparargli un calcio. Rinunciò: la sola rabbia che gli
stava montando in corpo bastava a farlo sudare di più. Si
rovesciò di nuovo sulla schiena, cercando di rilassarsi, di
non sentire il solletico degli aghi e il pugno della radice.
Trattenne il respiro per costringersi all’immobilità e poi
vuotò i polmoni lentamente. Il risultato fu un attacco di
tosse.
“Questa è l’ultima volta che vengo quassù” scatarrò.
“D’ora in poi veniteci voi, se ci tenete, raccattate tutti i
funghi che vi pare, ficcateveli nel culo, ma lasciate in
pace me.”
Manfred non commentò. Continuava a fissare un punto
sul fianco opposto della stretta valle.
“Si può sapere che cazzo stai guardando?” sbottò Stuzzico.
Silenzio.
“Quei camion” disse Manfred dopo la pausa.
Lo stuzzicadenti passò da un angolo all’altro della
bocca. Stuzzico infilò una mano nel taschino della maglietta e ne prelevò una sigaretta e un accendino viola,
quello che un negro aveva dato a Tina in cambio di duemila lire. Non poteva soffrire i negri che vendevano accendini e non poteva soffrire il colore viola. Neanche lui
sapeva perché, e questo gli rendeva i negri e il viola
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anche più odiosi. Si cacciò la sigaretta nell’angolo sinistro della bocca e l’accese. Per chiunque altro sarebbe
stata un’operazione quasi impossibile. Ma non per lui.
Molti anni prima, un medico che gli stava curando
una bronchite lo aveva convinto a tentare di smettere di
fumare. Per togliersi il vizio, aveva cominciato a masticare stuzzicadenti. Conseguenza dell’esperimento: dopo
tre settimane si era ritrovato anche con il vizio dello stuzzicadenti. Da allora aveva continuato a tenere in bocca
(tutto il giorno) uno stecchino e (quasi tutto il giorno)
anche una sigaretta: insieme. Riusciva, con estrema disinvoltura, a spostare lo stuzzicadenti da sinistra a destra,
per esempio, e a far fare contemporaneamente il viaggio
inverso alla sigaretta. Una ginnastica che richiedeva la
mobilitazione di labbra, denti, lingua e di buona parte
della muscolatura facciale. Chi gliela vedeva fare, la
prima volta arretrava istintivamente di un passo. “Il giorno in cui la smetterò di farmi sbattere per te, potrai andare a esibirti con questo numero in televisione. Diventerai ricco”, gli aveva detto Tina, convinta.
“Ma di che camion stai blaterando?” domandò Stuzzico, sospirando rumorosamente. Il soprannome gli era
stato dato proprio a causa dello stecchino. In realtà lui si
chiamava Ettore Terzi, anche se quasi nessuno lo sapeva.
I pochi che gli scrivevano, indirizzavano le cartoline a
‘Stuzzico’. Glielo avevano scritto perfino sul certificato
penale: ‘Cognome: Terzi. Nome: Ettore Maria. Soprannome: Stuzzico’. In giro non si sapeva nemmeno che lui
si chiamava anche Maria. Ogni volta che gli veniva in
mente, avrebbe voluto strangolare suo padre che, a sentire sua madre, aveva avuto la stronzissima idea. Senonché
suo padre, quando lui aveva solo cinque anni, era uscito
un giorno di casa dicendo: “Vado a bere un goccio”. E
non si era più fatto rivedere.
“Sono camion militari, credo” spiegò Manfred.
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Stuzzico tornò a sedersi e guardò verso valle. Lungo
la strada che assecondava a mezza costa la montagna
notò un autocarro che scendeva, seguito da due motociclette. Un altro camion risaliva la strada in senso inverso, anche quello scortato da due motociclisti.
“Beh?” s’informò.
Ci fu di nuovo un lungo silenzio prima che Manfred
dicesse, con quel tono paziente, da pecora, che faceva
imbestialire Stuzzico: “Continuano ad andare su e giù,
coi motociclisti dietro”.
“Come fai a dire che sono militari?”
“Dalle targhe non si direbbe. Neanche dal colore. Ma
tu hai mai visto dei camion civili scortati da motociclisti?”
“E allora?”
“E allora si potrebbe andare a vedere che cosa trasportano.”
“Fa troppo caldo” dichiarò Stuzzico. Però un campanello gli si era messo a suonare in una qualche parte del
cervello. Si impose di ignorarlo e di pensare alla vasca da
bagno che lo aspettava a casa. Per orgoglio, se non altro.
Certe idee dovevano venire a lui, il maestro, non all’allievo.
L’alzata d’ingegno era stata di Vroni, la cicciona infame. E poi ci era messa anche Tina: “È l’unica cosa che
sai fare, oltre al pappa. Insegnagli a rubare. Lui vuole solo
imparare. La roba la lascerà a te”. Così Stuzzico era diventato maestro di furto.
“Secondo te, che cosa ci farebbero dei militari da queste parti?” domandò, giusto per darsi un minimo di contegno.
Manfred continuava a fissare la strada e, come sempre, attese un bel po’ prima di rispondere: “Ci deve essere una base, vicino a Naz, credo”.
Stuzzico si spostò in avanti, per vedere meglio. La
stradina che seguiva le sinuosità del monte, per lunghi
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tratti seminascosta dagli alberi, era deserta. “Ecco, non ci
sono più” constatò.
Manfred staccò le braccia dalle ginocchia. Consultò
l’orologio grattandosi contemporaneamente e furiosamente la barba che dava un po’ di apparente sostanza al
suo volto affilato. “Passeranno di nuovo fra sette minuti”, annunciò. “Uno in su e l’altro in giù.”
“Ma che cazzo dici?”
“È da un po’ che li osservo. Da quando Tina e Vroni
sono andate nel bosco. Ogni dieci minuti esatti un camion sale e l’altro scende.”
Stuzzico cercò un’altra formica su cui sfogare l’irritazione che gli si era accumulata in corpo durante la giornata. “Dovevo rimanere a casa” pensò, “disteso nella
vasca da bagno. Con le lattine di birra e le sigarette a portata di mano. E il televisore piazzato sulla lavatrice. Altro
che aria fresca di montagna!”
Non trovò formiche, ma un ragno. Gli sembrò di sentirlo friggere quando gli appoggiò la punta incandescente del mozzicone sul dorso.
“Tutti con le motociclette?” chiese.
Manfred finì di districare un rametto secco dalla barba
prima di rispondere: “Sì”.
“E allora come pensi di poter andare a vedere che
cosa c’è su?” Il tono di Stuzzico fu sprezzante, ma non
troppo. Ormai sapeva che Manfred non parlava mai a vanvera. Sembrava un bambino barbuto e ritardato, ma non
lo era.
Dopo il solito silenzio, l’apprendista ladro spiegò:
“C’è un punto, proprio qui sotto, dove le moto si fermano. Prima di quello slargo”. Puntò la barba in direzione
di un tratto della strada e, per effetto del movimento, una
goccia di sudore cominciò a corrergli sulla schiena ossuta e lentigginosa.
“Sudi anche tu, eh?” constatò Stuzzico. “Credevo che
tu avessi fatto un corso anche per imparare a non sudare.”
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