Estratto

Transcript

Estratto
Introduzione
L’Homo sapiens è diventato la specie dominante in assoluto sulla Terra. Sfortunatamente, il nostro impatto è
devastante e, se continueremo a distruggere l’ambiente
come stiamo facendo, la metà delle specie di tutto il
mondo si estinguerà presto nel corso del prossimo
{xxi} secolo {...}. L’Homo sapiens sta per diventare la
prima causa di catastrofi da quando un gigantesco asteroide entrò in collisione con la Terra, 65 milioni di anni
fa, spazzando via in un istante geologico la metà delle
specie del mondo.
Richard Leakey, Roger Levin, The Sixth Extinction,
Doubleday, New York 1995, pp. 221, 41
E segavano i rami sui quali stavano seduti, gridandosi
l’un l’altro le loro esperienze per segare con più vigore.
E crollarono nell’abisso. E quelli che li guardavano
scossero la testa e continuarono a segare con forza.
Bertolt Brecht, Exil iii, in Gedichte v
Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1964, p. 62
Il problema
Solo ora si comincia a comprendere l’enorme portata per l’umanità dei
problemi che sorgono dall’accelerazione dell’estinzione in massa delle
specie e dalla distruzione su scala planetaria degli habitat. Ciononostante, l’importanza fondamentale di quanto rimane della biodiversità della
Terra continua a essere sottovalutata e poco studiata. All’alba del xxi secolo, solo una piccola porzione della diversità biologica stimata è stata
identificata. Le cifre variano considerevolmente, dalla stima più cauta di
circa cinque milioni di specie in tutto il mondo alle più generose, che
vanno da circa trenta a cinquanta milioni 1. Dell’1,7 milioni di specie fi11
ecocidio
nora catalogate, possiamo dire di conoscere bene solo il 5%, e le relazioni tra molte di queste specie rimangono tuttora un mistero.
Quello che sappiamo è che il pianeta Terra sta perdendo specie a un
ritmo che non ha precedenti nell’esperienza umana. Nell’epoca della
tarda modernità, lo stillicidio del normale tasso di estinzione è diventato un’emorragia zampillante, con la scomparsa quotidiana di cento o
più specie. L’attuale ondata di estinzioni è eguagliata soltanto dai grandi
episodi di estinzioni in massa provocati da cataclismi naturali nel remoto passato geologico.
La prima crisi di estinzione in massa ebbe luogo sulla terra e negli
ambienti di acque basse circa 250 milioni di anni fa, segnando la fine del
periodo Permiano. Essendo il più antico, questo fenomeno è tuttora
scarsamente compreso, e le sue cause rimangono in gran parte sconosciute. I paleontologi ritengono che fu provocato da un lento ma inesorabile mutamento del clima e del livello del mare, che si verificò quando
le forze della deriva dei continenti determinarono la lenta fusione di
questi ultimi in un unico gigantesco supercontinente. Alla fine, quando
i continenti si separarono dal loro abbraccio tettonico, oltre il 90% delle
specie terrestri si era estinto. Questa grande estinzione cancellò la maggior parte della vita animale marina e terrestre, ponendo fine a un’evoluzione durata duecento milioni di anni, che i geologi hanno definito
era paleozoica.
La seconda grande crisi si verificò circa duecento milioni di anni fa,
quando gli ecosistemi del pianeta si riorganizzarono in una serie di comunità stabili, sia terrestri che marine. Prima di questa seconda ondata
di cataclismi, la fauna terrestre era costituita da una varietà di dinosauri
di nuova evoluzione, da grandi animali simili a coccodrilli e da pochi
rettili simili ai mammiferi. Quasi tutte queste creature scomparvero dalla Terra, insieme con le barriere coralline e con la maggior parte delle
ammoniti a conchiglia. Questa estinzione in massa non fu provocata da
un evento unico e repentino, bensì da una serie di catastrofi ambientali
che si verificarono in rapida successione nell’arco di centomila anni o
meno. Le due cause principali furono, con molta probabilità, la collisione della Terra con un meteorite del diametro calcolato tra uno e cinque
miglia, che lasciò un cratere largo settanta miglia nel Québec e provocò
l’eruzione di grandi fiumi di lava al di sotto di quelle che oggi sono le
giungle della valle del Rio delle Amazzoni. Il clima del pianeta subì un
drastico cambiamento. L’insieme di questi fenomeni indusse un’alterazione dell’ambiente sufficiente a provocare questa seconda ondata di
12
introduzione
estinzioni in massa. Eppure, la catastrofe aprì la strada ai dinosauri, che
ne uscirono come i grandi vincitori.
La terza grande estinzione in massa si verificò 65 milioni di anni fa,
annientando i dinosauri terrestri e centinaia di migliaia di altre specie
terrestri e acquatiche. Come il precedente, anche questo fenomeno fu
causato da diversi fattori, tra cui il cambiamento del clima e un’improvvisa alterazione del livello del mare. Ma il culmine di questa estinzione
in massa, e il suo elemento di gran lunga più rilevante, si ebbe quando
un enorme asteroide o una cometa, del diametro di sei miglia, si abbatté
sulla superficie terrestre nei pressi della penisola dello Yucatán. La collisione scatenò un inferno di foreste in fiamme su gran parte della superficie terrestre, accompagnato da gigantesche ondate di marea e da ingenti volumi di gas tossici 2. Ancora più letali furono però i mesi di
oscurità che avvolsero il pianeta in seguito all’impatto. Milioni di tonnellate di detriti terrestri ed extraterrestri furono lanciati in alto, oscurando la luce del Sole e provocando una notte ecocida senza fine. Sulla
terra, e ancor più negli oceani, le piante morirono, provocando la morte
per fame di molte creature che se ne nutrivano. Perì oltre il 50% di tutte
le specie della Terra.
Nei 65 milioni di anni trascorsi dalla morte dell’ultimo dinosauro,
le specie sopravvissute e i loro discendenti si sono moltiplicati, raggiungendo livelli di diversità sconosciuti alle epoche precedenti. Tuttavia,
con la comparsa dell’uomo moderno per comportamento, si avviò una
nuova grande crisi di estinzioni in massa. Essa si va dispiegando da millenni e, al contrario dell’effetto serra, del surriscaldamento del pianeta o
dei buchi nella fascia di ozono, è sotto gli occhi di tutti, senza bisogno
di tanta immaginazione o di complicati modelli computerizzati. È concreta e tangibile, e si sta verificando in tutto il pianeta, con la massima
evidenza nelle regioni tropicali.
Per definire questa più recente crisi dell’estinzione in massa delle
specie, ho scelto il termine “ecocidio”. È un termine che rende tutta la
terrificante portata e gli effetti cumulativi della crisi di estinzione in
massa e della distruzione dell’ambiente indotta dall’uomo. Scopo di
questo studio è affinare la nostra comprensione storica e sociologica dell’ecocidio e di esplorare possibili alternative liberatorie. Il mio obiettivo
principale è di esaminare i sostrati sociologici di questa brutta situazione
planetaria. Adottando un approccio interdisciplinare per analizzare le
forze sociali, politiche e ideologiche che portano all’ecocidio, il libro si
inserisce nella recente tendenza che cerca di avvicinare le scienze sociali
13
ecocidio
e quelle naturali. Questa cornice interdisciplinare contribuisce anche a
fornire una comprensione più generale dell’ecocidio; come osserva il paleontologo Stephen Jay Gould, «abbiamo bisogno di una prospettiva
ampia su questo disastro ecologico ed evolutivo, il più portentoso di
tutti» 3. Da ultimo, questo studio riguarda uno degli aspetti della globalizzazione, e cioè i processi globali che hanno portato alla colonizzazione
e alla distruzione dei sistemi che sostengono la vita del nostro pianeta 4.
Spero di fornire una critica sociologica dell’ecocidio come configurazione planetaria di straordinaria portata distruttiva, dimostrando che esso è
un prodotto storico condizionato dell’agire umano. I paleobiologi (che
studiano le conseguenze della morte di singole specie documentate storicamente) distinguono due tipi di estinzione delle specie: l’estinzione
di fondo e le estinzioni in massa. La normale estinzione di fondo si verifica di continuo, solitamente dopo un periodo prolungato di “successo”
durante il quale né le specie né le loro nicchie ecologiche subiscono mutamenti di rilievo. A differenza della scomparsa casuale delle specie, che
avviene “gradualmente” attraverso l’estinzione di fondo, l’estinzione in
massa determina mutamenti catastrofici nella distribuzione e nel numero delle specie. Gould sostiene che «l’estinzione in massa deve essere
reinterpretata, in base a quattro criteri, come rottura di un continuum, e
non come suo punto culminante. Infatti, è più frequente, più rapida,
più profonda (per cifre e per habitat eliminati), e ha effetti più diversificati rispetto alle estinzioni che avvengono in tempi normali» 5.
L’estinzione è il destino finale di ogni specie: come un individuo nasce, vive il suo tempo sulla Terra e muore, così una specie comincia a
esistere, esiste per un certo numero di anni (che solitamente si contano
in milioni), poi, alla fine, si estingue. Come la pagina dei necrologi di
un quotidiano, la testimonianza dei fossili ricorda le estinzioni di fondo
che si sono succedute nel tempo. Il paleontologo David Raup e altri studiosi hanno però dimostrato che queste estinzioni casuali sono avvenute
nel corso delle ere geologiche a un ritmo considerevolmente basso. Secondo i calcoli di Raup, il ritmo delle estinzioni di fondo degli ultimi
cinquecento milioni di anni è stato di circa una specie ogni cinque
anni 6. Per contrasto, Norman Myers, uno dei primi studiosi che hanno
evidenziato l’attuale rischio di un’estinzione in massa, ha calcolato che,
negli ultimi trentacinque anni, si sono estinte quattro specie al giorno
nel solo Brasile.
Il biologo di Harvard Edward O. Wilson calcola che, prima dell’avvento della specie umana, il tasso di estinzione delle specie era (molto
14
introduzione
approssimativamente) di una su un milione all’anno (0,0001%). Le stime del tasso attuale superano questo valore preumano dalle cento alle
diecimila volte, ma la maggior parte oscilla intorno allo 0,1% all’anno
(mille volte in più), con una tendenza all’aumento che, con ogni probabilità, sarà molto marcata. Se si considera che le foreste e altri habitat
dei 25 punti caldi biologici che rimangono sulla Terra si sono già ridotti
a non più del 10% dei livelli preumani, che la maggior parte di essi è a
rischio immediato di scomparsa e l’estinzione delle specie è sempre più
accelerata dall’inquinamento, dall’alterazione del clima e dalla quantità
crescente di specie invasive, queste stime delle estinzioni in massa provocate dalla riduzione dell’habitat sono, «è triste dirlo, minime e modeste» 7.
L’Homo sapiens esiste soltanto da poco più di 130.000 anni 8. Eppure, ci vorrebbero all’incirca dai dieci ai venticinque milioni di anni perché il naturale processo di evoluzione delle specie potesse rettificare la
devastazione della biodiversità terrestre scatenata negli ultimi millenni
dalle società umane, soprattutto dalle generazioni più recenti. I cambiamenti della biosfera del pianeta indotti dall’uomo non hanno precedenti: comprendono lo sconvolgimento a livello mondiale dei cicli biochimici, rapidi cambiamenti del clima, una massiccia erosione del suolo,
un’estesa desertificazione e il rilascio incontrollato di tossine di sintesi e
di organismi geneticamente modificati.
La globalizzazione del degrado ambientale e dell’estinzione in massa
richiede una revisione delle tradizioni gerarchiche e delle pratiche sociali
umane. Da quando è iniziata l’agricoltura e si è formata una società divisa in classi, la socializzazione (umanizzazione) della natura è stata assoggettata a nuove regole, definite dalle lotte per l’incremento della produzione. Le moderne società industriali, in particolare, si distinguono
per la loro capacità senza precedenti di modificare la natura, compresa
la capacità, storicamente unica, di distruggere gli habitat delle specie su
scala planetaria. Eppure, lo spirito prevalente della tarda modernità
sembra distinguersi per una netta negazione, o quanto meno per la dimenticanza, delle conseguenze ecologiche del comportamento umano.
Molti scienziati sociali sono stati ampiamente complici di questo progetto, interessandosi a strutture astratte più che ai processi della vita reale. Spesso si sono occupati di collettività astratte invece che di individui
interagenti e delle loro concrete condizioni materiali; di giochi dei bussolotti dialettici invece che di comportamenti osservabili in ambienti
storici reali e particolari; della manipolazione statistica di dati aggregati
15
ecocidio
e schemi invece che dello studio normativo dei processi socio-ecologici
in corso 9.
Questo studio si propone invece di rivolgere un’attenzione critica
all’insieme storico delle relazioni ecologiche e sociali che stanno portando al progressivo ecocidio. Io sostengo che l’apparente successo sociale dell’essere umano nell’eliminare altre specie viventi si sta trasformando in un grave handicap. La tendenza autodistruttiva di circa 480
generazioni che si sono avvicendate dalla rivoluzione neolitica a oggi
merita un esame più attento a livello sia sociale, sia ecologico. La tendenza dell’essere umano a eliminare altre specie viventi – talvolta involontariamente o accidentalmente – è un indicatore di come e quanto
stiamo trasformando la natura, con un processo che segnerà la nostra
sconfitta. L’economia capitalistica globalizzante esaspera questi problemi, rischiando di distruggere l’intera biosfera, infliggendo ferite dolorose e irreparabili a un complesso sistema favorevole alla vita. Ecosistemi complessi sono indeboliti fino al punto di rottura. Le pratiche del
pascolo intensivo, della deforestazione e dell’eliminazione del sottobosco aumentano l’estensione dei deserti, un fenomeno ulteriormente accelerato dal cambiamento del clima. Le zone umide costiere vengono
prosciugate per renderle coltivabili, riversando in mare sostanze chimiche tossiche che vanno ad aggiungersi agli inquinanti industriali e alle
acque di scolo già accumulati.
Le società della tarda modernità hanno perso terreno su importanti
questioni ambientali, in parte perché hanno lasciato che tali questioni
scomparissero dall’orizzonte dell’opinione pubblica. Dopo tutto, gli sforzi organizzati di gruppi di interesse costituiti sono sistematicamente mirati a indebolire una difesa critica dell’ambiente da parte dell’opinione
pubblica 10. Analogamente, la lentezza dei negoziati sulla globalizzazione
del degrado ambientale negli ultimi decenni può essere attribuita a
un’opposizione corporativa ampia e ben organizzata. Ma l’ecocidio non
è, come dice qualche commentatore, una «morbosa esagerazione», una
«tetra invenzione», uno «scenario melodrammatico di accademici allarmisti», «ecochiacchiere degli ambientalisti». In realtà, se i notiziari quotidiani fossero improntati a realismo ecologico, gli spettatori di tutto il
mondo sentirebbero, una sera dopo l’altra, annunci di questo tono:
Anche oggi si sono estinte non meno di cento specie animali e vegetali; sono scomparsi altri cinquantamila ettari di foreste tropicali; i deserti si sono estesi di altri
ventimila ettari; oggi l’economia mondiale ha consumato l’equivalente di 22 milio-
16
introduzione
ni di tonnellate di petrolio e di conseguenza, nel corso delle medesime 24 ore, abbiamo collettivamente rilasciato nell’atmosfera altri cento milioni di tonnellate di
gas serra...
Di fatto, se ne sono già andati per sempre l’elefante, il leone e la tigre
europei; l’anatra del Labrador, l’alca gigante e il parrocchetto della Carolina non abbelliranno mai più questo pianeta azzurro; perduti per
sempre sono anche il mammut lanoso eurasiatico e il rinoceronte lanoso, il bue muschiato e l’alce gigante dell’era glaciale. Nel Nordamerica
sono scomparsi gli enormi mammut e i mastodonti, il bisonte gigante e
la tigre dai denti a sciabola, i castori giganti, il bradipo gigante e il grande Arctodus simus, il cammello, il tapiro, il cavallo, l’alce e il leone.
Scomparsi l’elefante nano e l’ippopotamo pigmeo di Cipro, di Creta e
dell’antico Egitto; il coccodrillo della Nuova Caledonia, l’epiornis del
peso di mezza tonnellata, l’ippopotamo nano, l’iguana gigante, la testuggine gigante e il lemure gigante del Madagascar, grande come un
gorilla; il bradipo gigante terrestre delle Indie occidentali; l’elefante di
Nauman e il cervo gigante del Giappone; il koala gigante, il grande geniornis, simile all’emù, e il vombato gigante dell’Australia; il porcellino
d’India gigante del Sudamerica; la giraffa con le corna ramificate dell’Africa primordiale; il mosco eurasiatico; i ralli inetti al volo, gli ibis e una
varietà di anatre e oche giganti dall’andatura dondolante delle Hawaii;
le tredici o più specie del moa della Nuova Zelanda/Aotearoa, gli scriccioli inetti al volo, le piccole procellarie e il dodo di Mauritius; il formichiere spinoso e il lupo della Tasmania; il colombo migratore, il grande
alca e le balene grigie dell’Atlantico dell’America del Nord; le balene
franche di Biscaglia e la ritina di Steller. Le generazioni future non potranno mai vedere il condor della California allo stato libero, né la farfalla azzurra di Palos Verde librarsi di fiore in fiore.
Abbiamo già dimenticato che solo due secoli fa miriadi di colombi
migratori, un tempo la specie ornitologica più numerosa del pianeta,
adornavano il paesaggio di quelli che oggi conosciamo come Stati Uniti;
che un tempo sessanta milioni di bisonti vagavano per le pianure del
Nordamerica. I trichechi si accoppiavano e si riproducevano sulle coste
della Nuova Scozia. Un numero compreso fra i trenta e i cinquanta milioni di testuggini giganti, del peso di una tonnellata, prosperava nel
mar dei Caraibi. Non più di cento anni fa, l’orso bianco popolava le foreste del New England e le province costiere del Canada; oggi lo chiamiamo orso “polare”, perché è al Polo che ha trovato il suo ultimo rifu17
ecocidio
gio. Come le rovine di un castello medioevale, la “natura” contemporanea è mero vestigio di una gloria passata.
Questo elenco di imponente megafauna non è che una piccola parte
della varietà delle specie che le società umane stanno distruggendo irreversibilmente. Date le prove sempre più numerose del nostro catastrofico curriculum storico, sarebbe tempo di ribattezzare la nostra specie
Homo esophagus colossus: la creatura dall’esofago ipertrofico capace di divorare interi ecosistemi 11.
Perché agitarsi?
Perché gli scienziati sociali dovrebbero interessarsi all’estinzione in massa e alla perdita della biodiversità? Perché agitarsi per dare un’interpretazione sociologica delle radici sociali e storiche dell’ecocidio? Perché
spendere tanta energia per salvare le specie? Perché questo argomento
dovrebbe essere di interesse collettivo per l’umanità? Le risposte a queste domande possono essere articolate su diverse linee. Una risposta breve porrebbe l’accento sugli interessi e gli imperativi esistenziali collettivi: come per tutte le specie, la nostra esistenza collettiva dipende da altre
specie. Alcune delle manifestazioni più ovvie di questa dipendenza sono
che altre specie producono l’ossigeno che noi respiriamo, assorbono l’anidride carbonica che noi espiriamo, decompongono i nostri liquami,
producono il nostro cibo, mantengono la fertilità del nostro suolo, ci
forniscono legno e carta. L’uomo non solo fa parte della biodiversità,
ma ne dipende profondamente.
Un’altra buona ragione è l’irreversibilità delle estinzioni. La perdita
delle specie è definitiva: quando un ecosistema è distrutto, ricrearlo è o
impossibile o molto difficile. Alcuni problemi ambientali, come le concentrazioni sempre più pesanti di clorofluorocarburi o di anidride carbonica nell’atmosfera, possono essere risolti; una volta scomparso, invece, un elemento della biodiversità diventa letteralmente “morto come
un dodo”. Ogni specie e ogni ecosistema contribuisce alla ricchezza e
alla bellezza estetica della vita sulla Terra. Ogni specie è unica e ha diritto all’esistenza. Ogni specie è degna di rispetto, indipendentemente dal
suo valore economico per l’uomo. Queste dichiarazioni sono riconosciute nella Carta Mondiale per la Natura, adottata dalle Nazioni Unite
nel 1982 12; nove anni prima, il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato l’Atto ufficiale sulle specie a rischio, riconoscendo che le specie ani18
introduzione
mali e vegetali «hanno un valore estetico, ecologico, educativo, storico,
ricreativo e scientifico per la nazione e il suo popolo».
Per questo molti naturalisti sostengono che lo sterminio delle specie
rappresenta un impoverimento spirituale e intellettuale per l’umanità.
Un mondo senza altri compagni di strada sarebbe non solo più pericoloso, ma anche più solitario e desolato. Che cosa sarà dello spirito umano quando le creature animate che per millenni abbiamo invocato nelle
nostre tradizioni culturali più illuminate se ne saranno andate? Il potere
dei sogni umani, come dice Elias Canetti, è legato alla varietà degli animali: con la scomparsa dei sogni, si inaridiscono anche l’immaginazione
e la creatività delle persone 13.
In ogni caso, molte delle motivazioni logiche dominanti contro il
progressivo ecocidio e la perdita della biodiversità non sono di ordine
estetico o sentimentale, ma pratiche e utilitaristiche. Uno degli argomenti razional-utilitaristici è quello dell’interesse collettivo. Oltre agli
elementi basilari del cibo e del rifugio, il mondo naturale fornisce innumerevoli benefici terapeutici, agricoli e commerciali. Oltre agli animali
e alle piante che utilizziamo per avere cibo, rifugio, materie prime, ornamenti e compagnia, sono migliaia le specie i cui prodotti naturali salvano letteralmente la vita. I prodotti e i processi biologici, per esempio,
costituiscono il 45% dell’economia mondiale, e ogni anno i benefici
economici e ambientali della biodiversità ammontano a circa trecento
miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.
Nel 1997, un gruppo internazionale di ricercatori dell’Istituto di
economia ecologica dell’Università del Maryland pubblicò uno studio
fondamentale sull’importanza dei servizi della natura nel sostenere l’economia umana 14, che quantificava per la prima volta il valore economico dei servizi e del capitale naturale dell’ecosistema mondiale. Sintetizzando i risultati di oltre cento studi, i ricercatori calcolarono il valore
medio per ettaro di ciascuno dei diciassette servizi forniti dall’ecosistema mondiale; ne conclusero che il valore economico dei servizi dell’ecosistema mondiale si aggira sui 33.000 miliardi di dollari l’anno, superando di 25.000 miliardi di dollari il prodotto nazionale lordo globale 15.
Le specie non contribuiscono soltanto al commercio in virtù delle
merci potenziali che forniscono, ma offrono anche i cosiddetti “servizi
ecologici”, come la purificazione delle acque, il ciclo dei nutrienti, la
scomposizione degli inquinanti. Le specie costituiscono il tessuto degli
ecosistemi sani – come gli estuari costieri, le praterie erbose e le foreste
primordiali – dai quali noi dipendiamo per avere aria e acqua pulite e
19
ecocidio
cibo. Quando le specie si trovano in pericolo, è un segnale che la salute
di questi ecosistemi vitali comincia a venir meno. Il Fish and Wildlife
Service statunitense calcola che dalla perdita di una specie vegetale può
derivare la scomparsa di fino a trenta specie di insetti, piante e animali
superiori. Le specie si evolvono per riempire particolari nicchie di habitat; per sopravvivere, molte specie dipendono strettamente l’una dall’altra. Questa visione ecologica è illustrata dall’esempio classico dell’estinzione del dodo. Questo uccello inetto al volo, il cui nome è diventato sinonimo di estinzione, viveva sull’isola Mauritius; fu sterminato e scomparve nel xvii secolo, molto probabilmente per l’uso delle sue uova, più
che per la caccia diretta. Almeno una specie arborea si è estinta in seguito alla scomparsa del dodo, che svolgeva un ruolo ecologico strategico
nella distribuzione o nella germinazione dei semi. Alla scomparsa del
dodo, sulla scia della colonizzazione europea dell’isola, seguì la distruzione della metà di tutte le specie ornitologiche terrestri e d’acqua dolce
di Mauritius.
In tutto il mondo, circa il 40% delle formule mediche si basa su
composti naturali di specie diverse, o ne è ricavato per sintesi. Oltre a
salvare vite, queste specie contribuiscono anche a una florida industria
farmaceutica del valore annuo di oltre 40 miliardi di dollari 16. Per
esempio, il tasso del Pacifico, un albero a crescita lenta che vive nelle foreste primordiali del Pacifico nordoccidentale, era considerato storicamente privo di valore e, quando veniva abbattuto per ricavare terreno,
veniva bruciato. In una sostanza contenuta nella sua corteccia, il taxolo,
è stata individuata una delle terapie più promettenti per il cancro del
seno e delle ovaie. Più di tre milioni di cardiopatici americani non potrebbero sopravvivere per più di 72 ore senza la digitale, un farmaco
estratto dalla Digitalis purpurea. L’Istituto americano di ricerca sul cancro ha identificato tremila piante che contengono principi attivi antitumorali, settanta delle quali sono originarie delle regioni tropicali 17.
Oltre la metà di tutti i farmaci oggi in uso può essere ricondotta a
organismi selvatici; sostanze chimiche estratte da piante superiori sono
l’unico ingrediente di un quarto di tutte le prescrizioni mediche rilasciate ogni anno negli Stati Uniti. Molti dei composti organici oggi usati
possono essere ricavati con costi minori dalle loro fonti naturali. Tuttavia, malgrado il loro generoso contributo, solo il 5% delle specie vegetali
del mondo è stato studiato nelle sue applicazioni farmaceutiche. Dalla
pervinca rosa dei tropici si può estrarre la vincristina, una componente
20
introduzione
essenziale dei farmaci per la cura della leucemia pediatrica e del morbo
di Hodgkin. La chitina, una sostanza contenuta nel guscio dei granchi e
di altri crostacei, è impiegata nella produzione di un materiale da sutura
che agevola il processo di guarigione. La dostatina 10, estratta dalla lepre
di mare, un mollusco senza guscio delle dimensioni di un pugno, è stata
riconosciuta come nuovo farmaco antitumorale.
La diversità genetica è di importanza vitale anche nell’agricoltura e
nell’allevamento. Ogni specie, al pari degli ecosistemi sani, ha un valore
potenziale per l’uomo. Il patrimonio mondiale di geni, di specie, di habitat ed ecosistemi ha un’utilità per i bisogni umani ed è essenziale per
la futura sopravvivenza dell’uomo. La perdita di biodiversità nelle specie
vegetali alimentari ha implicazioni potenzialmente disastrose per la sicurezza alimentare e per la stabilità economica mondiale.
I coltivatori hanno bisogno di varietà diverse per selezionarne di
nuove, resistenti a parassiti e malattie in evoluzione. Molte specie coltivate sono state “salvate” con materiale genetico estratto dai loro parenti
spontanei o da varietà tradizionali. La biodiversità è una biblioteca vivente di opzioni da adattare ai mutamenti locali e globali.
Anche così, per fattori economico-strutturali quali la rapida urbanizzazione, solo una piccola percentuale dell’umanità ha un contatto diretto, quotidiano e attivo con altre specie animali e vegetali nel loro habitat (diverse dalle specie addomesticate o dagli animali da compagnia);
pochi si trovano nella condizione di verificare nell’esperienza diretta
come l’estinzione in massa delle specie e il progressivo ecocidio vadano
contro i loro stessi interessi a lungo termine. E anche tra questi individui che riconoscono il pericolo, solo pochi si trovano nella condizione
di tradurre la sensibilità ambientale in azioni significative ed efficaci.
Politiche pubbliche mirate a fermare l’ecocidio devono essere collegate a uno sforzo generale di ripensamento dei modelli storici, sociali ed
economici che esaltano la cultura in termini prometeici e sminuiscono
la natura come “passiva”. Contrariamente al buon senso convenzionale,
la maggior parte dei valori e del sostentamento dell’economia mondiale
non proviene dall’estrazione di cose dalla natura, ma dal corretto funzionamento dei fiumi, delle foreste e dei campi. L’uomo è soltanto una
parte del processo evolutivo; eppure, abbiamo assunto un ruolo di primo piano nel modellarne il corso futuro. Stiamo tagliando le corde della
rete di sicurezza della natura, anche se da essa dipendiamo per sostenere
una popolazione mondiale in continuo aumento.
21
ecocidio
Eziologia dell’ecocidio
Il primo passo critico nell’eziologia del disastro in corso fu mosso circa
60.000 anni fa. Il tratto distintivo dell’ecocidio fu lo sviluppo del linguaggio, e un’espansione mai vista prima della capacità culturale dell’uomo: a queste nuove caratteristiche dell’Homo sapiens sapiens si deve
la nascita dell’intenzionalità consapevole che l’uomo pone nei suoi progetti. Riflessa in una capacità linguistica notevolmente accresciuta, l’intenzionalità consapevole portò un’esplosione di innovazioni, che si manifesta nella proliferazione dei manufatti nell’ultima fase del Pleistocene, tra i 35.000 e i 50.000 anni fa. Con l’avvento dell’intenzionalità consapevole, l’evoluzione biologica dell’uomo poté espandersi con mezzi
culturali – compresa la capacità, specifica della specie, di mutamenti intenzionali, di adattamento o di maladattamento, nell’organizzazione sociale. Entro più o meno il 13.000 pev, questa modalità di sviluppo si tradusse nella colonizzazione umana di tutti i continenti, con la grave conseguenza della distruzione a livello mondiale della maggior parte della
megafauna esistente.
Il secondo passo critico nell’eziologia dell’ecocidio fu l’avvento dell’agricoltura sedentaria, culminato con la rivoluzione neolitica più o
meno diecimila anni fa. L’antropologo Mark Cohen lo interpreta come
una conseguenza involontaria dello sterminio della megafauna, un fenomeno in cui l’estinzione in massa, combinata con i mutamenti climatici e demografici, generò la “crisi alimentare della preistoria”. Questa
crisi costrinse gli uomini a modificare la loro organizzazione sociale dovunque ve ne fossero le condizioni, quali un clima favorevole e la presenza di acqua, di terreno fertile e di specie che potevano essere addomesticate. Come Jean-Jacques Rousseau osservava già nel 1755, il passaggio all’agricoltura diede origine a quella che da molto tempo è diventata una serie di tesi fatidiche: primo, che la vita umana richiede una rigida gerarchia, divisione del lavoro e disuguaglianza sociale; secondo,
che un’organizzazione migliore e l’innovazione tecnologica sono in grado di orientare bisogni e desideri umani; terzo, che l’Homo sapiens sapiens è autorizzato a dominare l’ordine naturale, e questo dominio può
essere conquistato senza costi 18. Questi presupposti, scaturiti dai contesti sociali man mano stratificati in classi e dominati dai conflitti delle
città-stato sorte in Mesopotamia, Egitto, India, Cina e Mesoamerica,
sono tuttora parte integrante della coscienza moderna.
22
introduzione
Il terzo passo critico nell’eziologia dell’ecocidio fu la nascita della
modernità, caratterizzata da tre elementi collegati tra loro: la crescente
divisione del lavoro, la modalità capitalistica della produzione e l’avvento dei moderni stati nazionali. Furono incoraggiate l’impresa individuale e la competizione commerciale, considerate benefici motori del progresso e dell’illuminismo 19. Da un punto di vista ideologico, questa visione nasceva dalla concezione giudaico-cristiana di Dio, che dà la terra
all’industrioso e al razionale al fine di migliorare l’umanità. Il “libero
mercato” venne esaltato come il veicolo naturale e più efficiente per la
coordinazione delle società complesse. Lo stato nazionale razionale-legale fu esaltato come la forma definitiva dell’organizzazione politica. Lo
sfruttamento della natura fu universalizzato e mercificato. Alla fine, gli
imperativi della tarda modernità hanno prodotto la cornice planetaria
in cui le tendenze ecocide hanno avuto una grande accelerazione. La
perdita della biodiversità è particolarmente acuta nel Sud del pianeta.
Organizzazione dei capitoli
I cinque capitoli di questo libro analizzano le principali tappe e i punti
di svolta dell’evoluzione umana e dei cambiamenti a essa associati nei
rapporti tra società e natura che hanno prodotto la perdita della biodiversità e il progressivo ecocidio.
La parte iniziale del libro introduce il lettore nel problema e nell’approccio generale storico e sociologico scelto per spiegare l’eziologia dell’ecocidio e dell’estinzione in massa delle specie. Il capitolo 1, intitolato
L’odissea umana: dall’evoluzione biologica all’evoluzione culturale, analizza i punti di svolta dell’evoluzione umana che hanno portato alla nascita
della cultura e del linguaggio come tratti distintivi della nostra specie. Si
sostiene che, per comprendere come si siano formati l’ecocidio e l’estinzione in massa delle specie, è necessario comprendere come e quando il
genere Homo raggiunse lo stadio evolutivo di sapiens. Il primo grande
impatto ecologico documentato della specie umana è analizzato in relazione all’estinzione a livello mondiale della megafauna, avvenuta verso
la fine del Quaternario. Il capitolo mira a dimostrare che la combinazione unica degli attributi biologici posseduti dalla nostra specie non determina necessariamente il comportamento sociale dell’uomo, se non in
quanto forma la base genetica per variazioni praticamente illimitate del
comportamento umano. In altre parole, la “natura umana” – la somma
23
ecocidio
degli attributi biologici della nostra specie – si distingue analiticamente
dal comportamento umano – la somma dei suoi attributi sociali e culturali.
Il capitolo 2, intitolato Relazioni problematiche tra società e natura
prima dell’età moderna, considera l’impatto delle società premoderne
sull’ambiente. La transizione all’agricoltura sedentaria, avvenuta nel
Neolitico, circa diecimila anni fa, è presentata come un altro grande
punto di svolta e tappa fondamentale nelle relazioni tra la società umana e la natura, e analizzata come conseguenza involontaria dell’estinzione della megafauna e dei cambiamenti climatologici avvenuti durante il
tardo Pleistocene. Si discutono le implicazione della produzione alimentare sedentaria e della domesticazione, con un’attenzione particolare ai cicli di rapida espansione economica e di tracollo ecologico – i
“gravi errori ecologici” – di alcune società dell’antichità. Sono prese in
esame la Cina, la Mesopotamia, la Grecia e la Roma antiche, le civiltà
dei Chaco Anasazi, dei Maya e dell’Isola di Pasqua. Lo scopo è analizzare le manifestazioni della depredazione ecologica nelle società premoderne come precorritrici nell’eziologia del moderno ecocidio.
Il capitolo 3, intitolato L’assalto moderno alla natura: genesi dell’ecocidio, traccia una panoramica storica e sociologia dell’eziologia dell’ecocidio e dell’estinzione in massa delle specie nella prima età moderna.
L’ascesa del capitalismo, la nascita del pensiero scientifico e tecnologico
a esso collegata, e il sempre più massiccio assalto alle specie a scopo
commerciale sono osservati come fenomeni mondiali. Per illustrare
l’impatto ecologico dell’uomo in questo nuovo contesto sociale globale,
si analizzano tre casi particolari: lo sfruttamento e la distruzione degli
animali da pelliccia a scopo commerciale; il massacro, fin quasi allo sterminio, del bisonte nordamericano; e lo sfruttamento esasperato delle
specie marine portato dall’avvento della caccia alla balena su scala industriale. L’accelerazione della perdita della biodiversità nell’età moderna è
presentata come un passaggio dallo sfruttamento eccessivo delle specie a
fini commerciali all’inizio dell’età moderna, alla distruzione degli habitat su vasta scala in tempi più recenti. Scopo del capitolo è illustrare e
spiegare la globalizzazione del degrado ambientale e la genesi dell’ecocidio nella prima età moderna.
Il capitolo 4, intitolato Il pianeta come zona sacrificale, analizza i
processi che io definisco i “moloc della modernità”, e che riflettono gli
sviluppi dell’era industriale. Il capitolo si apre con una discussione delle
implicazioni ecologiche e sociali della privatizzazione dei beni comuni
24
introduzione
come fenomeno mondiale. In questo nuovo contesto, la natura viene
progressivamente ridotta a un assortimento di risorse da sfruttare, tutte
negoziabili sul pubblico mercato. Il movimento di privatizzazione globale è analizzato come metafora-guida per la comprensione dei conflitti
e delle contraddizioni nate nell’età moderna. La perdita massiccia della
biodiversità e l’aggravarsi del degrado ambientale hanno progressivamente trasformato il pianeta in una zona sacrificale delle specie. Il capitolo si concentra in particolar modo sul ruolo svolto dalla moderna economia di guerra industriale e sull’enorme incremento delle popolazioni
umane come elementi causali della difficile congiuntura di ecocidio
globale.
Il capitolo 5, intitolato Ecocidio e globalizzazione, analizza i processi
sociali e storici ai quali si deve l’accelerazione dell’estinzione in massa e
la natura progressivamente ecocida del periodo successivo alla seconda
guerra mondiale. Un’attenzione speciale è rivolta alle forme neoliberiste
di globalizzazione dominate dalle multinazionali, dai programmi di aggiustamenti strutturali e dai meccanismi ideologici e istituzionali mediante i quali le pratiche che ne derivano continuano a essere riprodotte
su scala globale. Il capitolo presenta poi alcune correnti che si oppongono alla globalizzazione, in particolare i movimenti per la democrazia
ecologica e i tentativi di realizzare beni comuni equi a livello mondiale.
Dal mio punto di vista, la creazione di una democrazia ecologica è un
imperativo pratico ed etico per un pianeta socialmente giusto ed ecologicamente sostenibile. Il libro si conclude con un’ultima riflessione su
cosa significa vivere in un’epoca segnata dall’ecocidio.
25