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Introduzione L’Homo sapiens è diventato la specie dominante in assoluto sulla Terra. Sfortunatamente, il nostro impatto è devastante e, se continueremo a distruggere l’ambiente come stiamo facendo, la metà delle specie di tutto il mondo si estinguerà presto nel corso del prossimo {xxi} secolo {...}. L’Homo sapiens sta per diventare la prima causa di catastrofi da quando un gigantesco asteroide entrò in collisione con la Terra, 65 milioni di anni fa, spazzando via in un istante geologico la metà delle specie del mondo. Richard Leakey, Roger Levin, The Sixth Extinction, Doubleday, New York 1995, pp. 221, 41 E segavano i rami sui quali stavano seduti, gridandosi l’un l’altro le loro esperienze per segare con più vigore. E crollarono nell’abisso. E quelli che li guardavano scossero la testa e continuarono a segare con forza. Bertolt Brecht, Exil iii, in Gedichte v Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1964, p. 62 Il problema Solo ora si comincia a comprendere l’enorme portata per l’umanità dei problemi che sorgono dall’accelerazione dell’estinzione in massa delle specie e dalla distruzione su scala planetaria degli habitat. Ciononostante, l’importanza fondamentale di quanto rimane della biodiversità della Terra continua a essere sottovalutata e poco studiata. All’alba del xxi secolo, solo una piccola porzione della diversità biologica stimata è stata identificata. Le cifre variano considerevolmente, dalla stima più cauta di circa cinque milioni di specie in tutto il mondo alle più generose, che vanno da circa trenta a cinquanta milioni 1. Dell’1,7 milioni di specie fi11 ecocidio nora catalogate, possiamo dire di conoscere bene solo il 5%, e le relazioni tra molte di queste specie rimangono tuttora un mistero. Quello che sappiamo è che il pianeta Terra sta perdendo specie a un ritmo che non ha precedenti nell’esperienza umana. Nell’epoca della tarda modernità, lo stillicidio del normale tasso di estinzione è diventato un’emorragia zampillante, con la scomparsa quotidiana di cento o più specie. L’attuale ondata di estinzioni è eguagliata soltanto dai grandi episodi di estinzioni in massa provocati da cataclismi naturali nel remoto passato geologico. La prima crisi di estinzione in massa ebbe luogo sulla terra e negli ambienti di acque basse circa 250 milioni di anni fa, segnando la fine del periodo Permiano. Essendo il più antico, questo fenomeno è tuttora scarsamente compreso, e le sue cause rimangono in gran parte sconosciute. I paleontologi ritengono che fu provocato da un lento ma inesorabile mutamento del clima e del livello del mare, che si verificò quando le forze della deriva dei continenti determinarono la lenta fusione di questi ultimi in un unico gigantesco supercontinente. Alla fine, quando i continenti si separarono dal loro abbraccio tettonico, oltre il 90% delle specie terrestri si era estinto. Questa grande estinzione cancellò la maggior parte della vita animale marina e terrestre, ponendo fine a un’evoluzione durata duecento milioni di anni, che i geologi hanno definito era paleozoica. La seconda grande crisi si verificò circa duecento milioni di anni fa, quando gli ecosistemi del pianeta si riorganizzarono in una serie di comunità stabili, sia terrestri che marine. Prima di questa seconda ondata di cataclismi, la fauna terrestre era costituita da una varietà di dinosauri di nuova evoluzione, da grandi animali simili a coccodrilli e da pochi rettili simili ai mammiferi. Quasi tutte queste creature scomparvero dalla Terra, insieme con le barriere coralline e con la maggior parte delle ammoniti a conchiglia. Questa estinzione in massa non fu provocata da un evento unico e repentino, bensì da una serie di catastrofi ambientali che si verificarono in rapida successione nell’arco di centomila anni o meno. Le due cause principali furono, con molta probabilità, la collisione della Terra con un meteorite del diametro calcolato tra uno e cinque miglia, che lasciò un cratere largo settanta miglia nel Québec e provocò l’eruzione di grandi fiumi di lava al di sotto di quelle che oggi sono le giungle della valle del Rio delle Amazzoni. Il clima del pianeta subì un drastico cambiamento. L’insieme di questi fenomeni indusse un’alterazione dell’ambiente sufficiente a provocare questa seconda ondata di 12 introduzione estinzioni in massa. Eppure, la catastrofe aprì la strada ai dinosauri, che ne uscirono come i grandi vincitori. La terza grande estinzione in massa si verificò 65 milioni di anni fa, annientando i dinosauri terrestri e centinaia di migliaia di altre specie terrestri e acquatiche. Come il precedente, anche questo fenomeno fu causato da diversi fattori, tra cui il cambiamento del clima e un’improvvisa alterazione del livello del mare. Ma il culmine di questa estinzione in massa, e il suo elemento di gran lunga più rilevante, si ebbe quando un enorme asteroide o una cometa, del diametro di sei miglia, si abbatté sulla superficie terrestre nei pressi della penisola dello Yucatán. La collisione scatenò un inferno di foreste in fiamme su gran parte della superficie terrestre, accompagnato da gigantesche ondate di marea e da ingenti volumi di gas tossici 2. Ancora più letali furono però i mesi di oscurità che avvolsero il pianeta in seguito all’impatto. Milioni di tonnellate di detriti terrestri ed extraterrestri furono lanciati in alto, oscurando la luce del Sole e provocando una notte ecocida senza fine. Sulla terra, e ancor più negli oceani, le piante morirono, provocando la morte per fame di molte creature che se ne nutrivano. Perì oltre il 50% di tutte le specie della Terra. Nei 65 milioni di anni trascorsi dalla morte dell’ultimo dinosauro, le specie sopravvissute e i loro discendenti si sono moltiplicati, raggiungendo livelli di diversità sconosciuti alle epoche precedenti. Tuttavia, con la comparsa dell’uomo moderno per comportamento, si avviò una nuova grande crisi di estinzioni in massa. Essa si va dispiegando da millenni e, al contrario dell’effetto serra, del surriscaldamento del pianeta o dei buchi nella fascia di ozono, è sotto gli occhi di tutti, senza bisogno di tanta immaginazione o di complicati modelli computerizzati. È concreta e tangibile, e si sta verificando in tutto il pianeta, con la massima evidenza nelle regioni tropicali. Per definire questa più recente crisi dell’estinzione in massa delle specie, ho scelto il termine “ecocidio”. È un termine che rende tutta la terrificante portata e gli effetti cumulativi della crisi di estinzione in massa e della distruzione dell’ambiente indotta dall’uomo. Scopo di questo studio è affinare la nostra comprensione storica e sociologica dell’ecocidio e di esplorare possibili alternative liberatorie. Il mio obiettivo principale è di esaminare i sostrati sociologici di questa brutta situazione planetaria. Adottando un approccio interdisciplinare per analizzare le forze sociali, politiche e ideologiche che portano all’ecocidio, il libro si inserisce nella recente tendenza che cerca di avvicinare le scienze sociali 13 ecocidio e quelle naturali. Questa cornice interdisciplinare contribuisce anche a fornire una comprensione più generale dell’ecocidio; come osserva il paleontologo Stephen Jay Gould, «abbiamo bisogno di una prospettiva ampia su questo disastro ecologico ed evolutivo, il più portentoso di tutti» 3. Da ultimo, questo studio riguarda uno degli aspetti della globalizzazione, e cioè i processi globali che hanno portato alla colonizzazione e alla distruzione dei sistemi che sostengono la vita del nostro pianeta 4. Spero di fornire una critica sociologica dell’ecocidio come configurazione planetaria di straordinaria portata distruttiva, dimostrando che esso è un prodotto storico condizionato dell’agire umano. I paleobiologi (che studiano le conseguenze della morte di singole specie documentate storicamente) distinguono due tipi di estinzione delle specie: l’estinzione di fondo e le estinzioni in massa. La normale estinzione di fondo si verifica di continuo, solitamente dopo un periodo prolungato di “successo” durante il quale né le specie né le loro nicchie ecologiche subiscono mutamenti di rilievo. A differenza della scomparsa casuale delle specie, che avviene “gradualmente” attraverso l’estinzione di fondo, l’estinzione in massa determina mutamenti catastrofici nella distribuzione e nel numero delle specie. Gould sostiene che «l’estinzione in massa deve essere reinterpretata, in base a quattro criteri, come rottura di un continuum, e non come suo punto culminante. Infatti, è più frequente, più rapida, più profonda (per cifre e per habitat eliminati), e ha effetti più diversificati rispetto alle estinzioni che avvengono in tempi normali» 5. L’estinzione è il destino finale di ogni specie: come un individuo nasce, vive il suo tempo sulla Terra e muore, così una specie comincia a esistere, esiste per un certo numero di anni (che solitamente si contano in milioni), poi, alla fine, si estingue. Come la pagina dei necrologi di un quotidiano, la testimonianza dei fossili ricorda le estinzioni di fondo che si sono succedute nel tempo. Il paleontologo David Raup e altri studiosi hanno però dimostrato che queste estinzioni casuali sono avvenute nel corso delle ere geologiche a un ritmo considerevolmente basso. Secondo i calcoli di Raup, il ritmo delle estinzioni di fondo degli ultimi cinquecento milioni di anni è stato di circa una specie ogni cinque anni 6. Per contrasto, Norman Myers, uno dei primi studiosi che hanno evidenziato l’attuale rischio di un’estinzione in massa, ha calcolato che, negli ultimi trentacinque anni, si sono estinte quattro specie al giorno nel solo Brasile. Il biologo di Harvard Edward O. Wilson calcola che, prima dell’avvento della specie umana, il tasso di estinzione delle specie era (molto 14 introduzione approssimativamente) di una su un milione all’anno (0,0001%). Le stime del tasso attuale superano questo valore preumano dalle cento alle diecimila volte, ma la maggior parte oscilla intorno allo 0,1% all’anno (mille volte in più), con una tendenza all’aumento che, con ogni probabilità, sarà molto marcata. Se si considera che le foreste e altri habitat dei 25 punti caldi biologici che rimangono sulla Terra si sono già ridotti a non più del 10% dei livelli preumani, che la maggior parte di essi è a rischio immediato di scomparsa e l’estinzione delle specie è sempre più accelerata dall’inquinamento, dall’alterazione del clima e dalla quantità crescente di specie invasive, queste stime delle estinzioni in massa provocate dalla riduzione dell’habitat sono, «è triste dirlo, minime e modeste» 7. L’Homo sapiens esiste soltanto da poco più di 130.000 anni 8. Eppure, ci vorrebbero all’incirca dai dieci ai venticinque milioni di anni perché il naturale processo di evoluzione delle specie potesse rettificare la devastazione della biodiversità terrestre scatenata negli ultimi millenni dalle società umane, soprattutto dalle generazioni più recenti. I cambiamenti della biosfera del pianeta indotti dall’uomo non hanno precedenti: comprendono lo sconvolgimento a livello mondiale dei cicli biochimici, rapidi cambiamenti del clima, una massiccia erosione del suolo, un’estesa desertificazione e il rilascio incontrollato di tossine di sintesi e di organismi geneticamente modificati. La globalizzazione del degrado ambientale e dell’estinzione in massa richiede una revisione delle tradizioni gerarchiche e delle pratiche sociali umane. Da quando è iniziata l’agricoltura e si è formata una società divisa in classi, la socializzazione (umanizzazione) della natura è stata assoggettata a nuove regole, definite dalle lotte per l’incremento della produzione. Le moderne società industriali, in particolare, si distinguono per la loro capacità senza precedenti di modificare la natura, compresa la capacità, storicamente unica, di distruggere gli habitat delle specie su scala planetaria. Eppure, lo spirito prevalente della tarda modernità sembra distinguersi per una netta negazione, o quanto meno per la dimenticanza, delle conseguenze ecologiche del comportamento umano. Molti scienziati sociali sono stati ampiamente complici di questo progetto, interessandosi a strutture astratte più che ai processi della vita reale. Spesso si sono occupati di collettività astratte invece che di individui interagenti e delle loro concrete condizioni materiali; di giochi dei bussolotti dialettici invece che di comportamenti osservabili in ambienti storici reali e particolari; della manipolazione statistica di dati aggregati 15 ecocidio e schemi invece che dello studio normativo dei processi socio-ecologici in corso 9. Questo studio si propone invece di rivolgere un’attenzione critica all’insieme storico delle relazioni ecologiche e sociali che stanno portando al progressivo ecocidio. Io sostengo che l’apparente successo sociale dell’essere umano nell’eliminare altre specie viventi si sta trasformando in un grave handicap. La tendenza autodistruttiva di circa 480 generazioni che si sono avvicendate dalla rivoluzione neolitica a oggi merita un esame più attento a livello sia sociale, sia ecologico. La tendenza dell’essere umano a eliminare altre specie viventi – talvolta involontariamente o accidentalmente – è un indicatore di come e quanto stiamo trasformando la natura, con un processo che segnerà la nostra sconfitta. L’economia capitalistica globalizzante esaspera questi problemi, rischiando di distruggere l’intera biosfera, infliggendo ferite dolorose e irreparabili a un complesso sistema favorevole alla vita. Ecosistemi complessi sono indeboliti fino al punto di rottura. Le pratiche del pascolo intensivo, della deforestazione e dell’eliminazione del sottobosco aumentano l’estensione dei deserti, un fenomeno ulteriormente accelerato dal cambiamento del clima. Le zone umide costiere vengono prosciugate per renderle coltivabili, riversando in mare sostanze chimiche tossiche che vanno ad aggiungersi agli inquinanti industriali e alle acque di scolo già accumulati. Le società della tarda modernità hanno perso terreno su importanti questioni ambientali, in parte perché hanno lasciato che tali questioni scomparissero dall’orizzonte dell’opinione pubblica. Dopo tutto, gli sforzi organizzati di gruppi di interesse costituiti sono sistematicamente mirati a indebolire una difesa critica dell’ambiente da parte dell’opinione pubblica 10. Analogamente, la lentezza dei negoziati sulla globalizzazione del degrado ambientale negli ultimi decenni può essere attribuita a un’opposizione corporativa ampia e ben organizzata. Ma l’ecocidio non è, come dice qualche commentatore, una «morbosa esagerazione», una «tetra invenzione», uno «scenario melodrammatico di accademici allarmisti», «ecochiacchiere degli ambientalisti». In realtà, se i notiziari quotidiani fossero improntati a realismo ecologico, gli spettatori di tutto il mondo sentirebbero, una sera dopo l’altra, annunci di questo tono: Anche oggi si sono estinte non meno di cento specie animali e vegetali; sono scomparsi altri cinquantamila ettari di foreste tropicali; i deserti si sono estesi di altri ventimila ettari; oggi l’economia mondiale ha consumato l’equivalente di 22 milio- 16 introduzione ni di tonnellate di petrolio e di conseguenza, nel corso delle medesime 24 ore, abbiamo collettivamente rilasciato nell’atmosfera altri cento milioni di tonnellate di gas serra... Di fatto, se ne sono già andati per sempre l’elefante, il leone e la tigre europei; l’anatra del Labrador, l’alca gigante e il parrocchetto della Carolina non abbelliranno mai più questo pianeta azzurro; perduti per sempre sono anche il mammut lanoso eurasiatico e il rinoceronte lanoso, il bue muschiato e l’alce gigante dell’era glaciale. Nel Nordamerica sono scomparsi gli enormi mammut e i mastodonti, il bisonte gigante e la tigre dai denti a sciabola, i castori giganti, il bradipo gigante e il grande Arctodus simus, il cammello, il tapiro, il cavallo, l’alce e il leone. Scomparsi l’elefante nano e l’ippopotamo pigmeo di Cipro, di Creta e dell’antico Egitto; il coccodrillo della Nuova Caledonia, l’epiornis del peso di mezza tonnellata, l’ippopotamo nano, l’iguana gigante, la testuggine gigante e il lemure gigante del Madagascar, grande come un gorilla; il bradipo gigante terrestre delle Indie occidentali; l’elefante di Nauman e il cervo gigante del Giappone; il koala gigante, il grande geniornis, simile all’emù, e il vombato gigante dell’Australia; il porcellino d’India gigante del Sudamerica; la giraffa con le corna ramificate dell’Africa primordiale; il mosco eurasiatico; i ralli inetti al volo, gli ibis e una varietà di anatre e oche giganti dall’andatura dondolante delle Hawaii; le tredici o più specie del moa della Nuova Zelanda/Aotearoa, gli scriccioli inetti al volo, le piccole procellarie e il dodo di Mauritius; il formichiere spinoso e il lupo della Tasmania; il colombo migratore, il grande alca e le balene grigie dell’Atlantico dell’America del Nord; le balene franche di Biscaglia e la ritina di Steller. Le generazioni future non potranno mai vedere il condor della California allo stato libero, né la farfalla azzurra di Palos Verde librarsi di fiore in fiore. Abbiamo già dimenticato che solo due secoli fa miriadi di colombi migratori, un tempo la specie ornitologica più numerosa del pianeta, adornavano il paesaggio di quelli che oggi conosciamo come Stati Uniti; che un tempo sessanta milioni di bisonti vagavano per le pianure del Nordamerica. I trichechi si accoppiavano e si riproducevano sulle coste della Nuova Scozia. Un numero compreso fra i trenta e i cinquanta milioni di testuggini giganti, del peso di una tonnellata, prosperava nel mar dei Caraibi. Non più di cento anni fa, l’orso bianco popolava le foreste del New England e le province costiere del Canada; oggi lo chiamiamo orso “polare”, perché è al Polo che ha trovato il suo ultimo rifu17 ecocidio gio. Come le rovine di un castello medioevale, la “natura” contemporanea è mero vestigio di una gloria passata. Questo elenco di imponente megafauna non è che una piccola parte della varietà delle specie che le società umane stanno distruggendo irreversibilmente. Date le prove sempre più numerose del nostro catastrofico curriculum storico, sarebbe tempo di ribattezzare la nostra specie Homo esophagus colossus: la creatura dall’esofago ipertrofico capace di divorare interi ecosistemi 11. Perché agitarsi? Perché gli scienziati sociali dovrebbero interessarsi all’estinzione in massa e alla perdita della biodiversità? Perché agitarsi per dare un’interpretazione sociologica delle radici sociali e storiche dell’ecocidio? Perché spendere tanta energia per salvare le specie? Perché questo argomento dovrebbe essere di interesse collettivo per l’umanità? Le risposte a queste domande possono essere articolate su diverse linee. Una risposta breve porrebbe l’accento sugli interessi e gli imperativi esistenziali collettivi: come per tutte le specie, la nostra esistenza collettiva dipende da altre specie. Alcune delle manifestazioni più ovvie di questa dipendenza sono che altre specie producono l’ossigeno che noi respiriamo, assorbono l’anidride carbonica che noi espiriamo, decompongono i nostri liquami, producono il nostro cibo, mantengono la fertilità del nostro suolo, ci forniscono legno e carta. L’uomo non solo fa parte della biodiversità, ma ne dipende profondamente. Un’altra buona ragione è l’irreversibilità delle estinzioni. La perdita delle specie è definitiva: quando un ecosistema è distrutto, ricrearlo è o impossibile o molto difficile. Alcuni problemi ambientali, come le concentrazioni sempre più pesanti di clorofluorocarburi o di anidride carbonica nell’atmosfera, possono essere risolti; una volta scomparso, invece, un elemento della biodiversità diventa letteralmente “morto come un dodo”. Ogni specie e ogni ecosistema contribuisce alla ricchezza e alla bellezza estetica della vita sulla Terra. Ogni specie è unica e ha diritto all’esistenza. Ogni specie è degna di rispetto, indipendentemente dal suo valore economico per l’uomo. Queste dichiarazioni sono riconosciute nella Carta Mondiale per la Natura, adottata dalle Nazioni Unite nel 1982 12; nove anni prima, il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato l’Atto ufficiale sulle specie a rischio, riconoscendo che le specie ani18 introduzione mali e vegetali «hanno un valore estetico, ecologico, educativo, storico, ricreativo e scientifico per la nazione e il suo popolo». Per questo molti naturalisti sostengono che lo sterminio delle specie rappresenta un impoverimento spirituale e intellettuale per l’umanità. Un mondo senza altri compagni di strada sarebbe non solo più pericoloso, ma anche più solitario e desolato. Che cosa sarà dello spirito umano quando le creature animate che per millenni abbiamo invocato nelle nostre tradizioni culturali più illuminate se ne saranno andate? Il potere dei sogni umani, come dice Elias Canetti, è legato alla varietà degli animali: con la scomparsa dei sogni, si inaridiscono anche l’immaginazione e la creatività delle persone 13. In ogni caso, molte delle motivazioni logiche dominanti contro il progressivo ecocidio e la perdita della biodiversità non sono di ordine estetico o sentimentale, ma pratiche e utilitaristiche. Uno degli argomenti razional-utilitaristici è quello dell’interesse collettivo. Oltre agli elementi basilari del cibo e del rifugio, il mondo naturale fornisce innumerevoli benefici terapeutici, agricoli e commerciali. Oltre agli animali e alle piante che utilizziamo per avere cibo, rifugio, materie prime, ornamenti e compagnia, sono migliaia le specie i cui prodotti naturali salvano letteralmente la vita. I prodotti e i processi biologici, per esempio, costituiscono il 45% dell’economia mondiale, e ogni anno i benefici economici e ambientali della biodiversità ammontano a circa trecento miliardi di dollari nei soli Stati Uniti. Nel 1997, un gruppo internazionale di ricercatori dell’Istituto di economia ecologica dell’Università del Maryland pubblicò uno studio fondamentale sull’importanza dei servizi della natura nel sostenere l’economia umana 14, che quantificava per la prima volta il valore economico dei servizi e del capitale naturale dell’ecosistema mondiale. Sintetizzando i risultati di oltre cento studi, i ricercatori calcolarono il valore medio per ettaro di ciascuno dei diciassette servizi forniti dall’ecosistema mondiale; ne conclusero che il valore economico dei servizi dell’ecosistema mondiale si aggira sui 33.000 miliardi di dollari l’anno, superando di 25.000 miliardi di dollari il prodotto nazionale lordo globale 15. Le specie non contribuiscono soltanto al commercio in virtù delle merci potenziali che forniscono, ma offrono anche i cosiddetti “servizi ecologici”, come la purificazione delle acque, il ciclo dei nutrienti, la scomposizione degli inquinanti. Le specie costituiscono il tessuto degli ecosistemi sani – come gli estuari costieri, le praterie erbose e le foreste primordiali – dai quali noi dipendiamo per avere aria e acqua pulite e 19 ecocidio cibo. Quando le specie si trovano in pericolo, è un segnale che la salute di questi ecosistemi vitali comincia a venir meno. Il Fish and Wildlife Service statunitense calcola che dalla perdita di una specie vegetale può derivare la scomparsa di fino a trenta specie di insetti, piante e animali superiori. Le specie si evolvono per riempire particolari nicchie di habitat; per sopravvivere, molte specie dipendono strettamente l’una dall’altra. Questa visione ecologica è illustrata dall’esempio classico dell’estinzione del dodo. Questo uccello inetto al volo, il cui nome è diventato sinonimo di estinzione, viveva sull’isola Mauritius; fu sterminato e scomparve nel xvii secolo, molto probabilmente per l’uso delle sue uova, più che per la caccia diretta. Almeno una specie arborea si è estinta in seguito alla scomparsa del dodo, che svolgeva un ruolo ecologico strategico nella distribuzione o nella germinazione dei semi. Alla scomparsa del dodo, sulla scia della colonizzazione europea dell’isola, seguì la distruzione della metà di tutte le specie ornitologiche terrestri e d’acqua dolce di Mauritius. In tutto il mondo, circa il 40% delle formule mediche si basa su composti naturali di specie diverse, o ne è ricavato per sintesi. Oltre a salvare vite, queste specie contribuiscono anche a una florida industria farmaceutica del valore annuo di oltre 40 miliardi di dollari 16. Per esempio, il tasso del Pacifico, un albero a crescita lenta che vive nelle foreste primordiali del Pacifico nordoccidentale, era considerato storicamente privo di valore e, quando veniva abbattuto per ricavare terreno, veniva bruciato. In una sostanza contenuta nella sua corteccia, il taxolo, è stata individuata una delle terapie più promettenti per il cancro del seno e delle ovaie. Più di tre milioni di cardiopatici americani non potrebbero sopravvivere per più di 72 ore senza la digitale, un farmaco estratto dalla Digitalis purpurea. L’Istituto americano di ricerca sul cancro ha identificato tremila piante che contengono principi attivi antitumorali, settanta delle quali sono originarie delle regioni tropicali 17. Oltre la metà di tutti i farmaci oggi in uso può essere ricondotta a organismi selvatici; sostanze chimiche estratte da piante superiori sono l’unico ingrediente di un quarto di tutte le prescrizioni mediche rilasciate ogni anno negli Stati Uniti. Molti dei composti organici oggi usati possono essere ricavati con costi minori dalle loro fonti naturali. Tuttavia, malgrado il loro generoso contributo, solo il 5% delle specie vegetali del mondo è stato studiato nelle sue applicazioni farmaceutiche. Dalla pervinca rosa dei tropici si può estrarre la vincristina, una componente 20 introduzione essenziale dei farmaci per la cura della leucemia pediatrica e del morbo di Hodgkin. La chitina, una sostanza contenuta nel guscio dei granchi e di altri crostacei, è impiegata nella produzione di un materiale da sutura che agevola il processo di guarigione. La dostatina 10, estratta dalla lepre di mare, un mollusco senza guscio delle dimensioni di un pugno, è stata riconosciuta come nuovo farmaco antitumorale. La diversità genetica è di importanza vitale anche nell’agricoltura e nell’allevamento. Ogni specie, al pari degli ecosistemi sani, ha un valore potenziale per l’uomo. Il patrimonio mondiale di geni, di specie, di habitat ed ecosistemi ha un’utilità per i bisogni umani ed è essenziale per la futura sopravvivenza dell’uomo. La perdita di biodiversità nelle specie vegetali alimentari ha implicazioni potenzialmente disastrose per la sicurezza alimentare e per la stabilità economica mondiale. I coltivatori hanno bisogno di varietà diverse per selezionarne di nuove, resistenti a parassiti e malattie in evoluzione. Molte specie coltivate sono state “salvate” con materiale genetico estratto dai loro parenti spontanei o da varietà tradizionali. La biodiversità è una biblioteca vivente di opzioni da adattare ai mutamenti locali e globali. Anche così, per fattori economico-strutturali quali la rapida urbanizzazione, solo una piccola percentuale dell’umanità ha un contatto diretto, quotidiano e attivo con altre specie animali e vegetali nel loro habitat (diverse dalle specie addomesticate o dagli animali da compagnia); pochi si trovano nella condizione di verificare nell’esperienza diretta come l’estinzione in massa delle specie e il progressivo ecocidio vadano contro i loro stessi interessi a lungo termine. E anche tra questi individui che riconoscono il pericolo, solo pochi si trovano nella condizione di tradurre la sensibilità ambientale in azioni significative ed efficaci. Politiche pubbliche mirate a fermare l’ecocidio devono essere collegate a uno sforzo generale di ripensamento dei modelli storici, sociali ed economici che esaltano la cultura in termini prometeici e sminuiscono la natura come “passiva”. Contrariamente al buon senso convenzionale, la maggior parte dei valori e del sostentamento dell’economia mondiale non proviene dall’estrazione di cose dalla natura, ma dal corretto funzionamento dei fiumi, delle foreste e dei campi. L’uomo è soltanto una parte del processo evolutivo; eppure, abbiamo assunto un ruolo di primo piano nel modellarne il corso futuro. Stiamo tagliando le corde della rete di sicurezza della natura, anche se da essa dipendiamo per sostenere una popolazione mondiale in continuo aumento. 21 ecocidio Eziologia dell’ecocidio Il primo passo critico nell’eziologia del disastro in corso fu mosso circa 60.000 anni fa. Il tratto distintivo dell’ecocidio fu lo sviluppo del linguaggio, e un’espansione mai vista prima della capacità culturale dell’uomo: a queste nuove caratteristiche dell’Homo sapiens sapiens si deve la nascita dell’intenzionalità consapevole che l’uomo pone nei suoi progetti. Riflessa in una capacità linguistica notevolmente accresciuta, l’intenzionalità consapevole portò un’esplosione di innovazioni, che si manifesta nella proliferazione dei manufatti nell’ultima fase del Pleistocene, tra i 35.000 e i 50.000 anni fa. Con l’avvento dell’intenzionalità consapevole, l’evoluzione biologica dell’uomo poté espandersi con mezzi culturali – compresa la capacità, specifica della specie, di mutamenti intenzionali, di adattamento o di maladattamento, nell’organizzazione sociale. Entro più o meno il 13.000 pev, questa modalità di sviluppo si tradusse nella colonizzazione umana di tutti i continenti, con la grave conseguenza della distruzione a livello mondiale della maggior parte della megafauna esistente. Il secondo passo critico nell’eziologia dell’ecocidio fu l’avvento dell’agricoltura sedentaria, culminato con la rivoluzione neolitica più o meno diecimila anni fa. L’antropologo Mark Cohen lo interpreta come una conseguenza involontaria dello sterminio della megafauna, un fenomeno in cui l’estinzione in massa, combinata con i mutamenti climatici e demografici, generò la “crisi alimentare della preistoria”. Questa crisi costrinse gli uomini a modificare la loro organizzazione sociale dovunque ve ne fossero le condizioni, quali un clima favorevole e la presenza di acqua, di terreno fertile e di specie che potevano essere addomesticate. Come Jean-Jacques Rousseau osservava già nel 1755, il passaggio all’agricoltura diede origine a quella che da molto tempo è diventata una serie di tesi fatidiche: primo, che la vita umana richiede una rigida gerarchia, divisione del lavoro e disuguaglianza sociale; secondo, che un’organizzazione migliore e l’innovazione tecnologica sono in grado di orientare bisogni e desideri umani; terzo, che l’Homo sapiens sapiens è autorizzato a dominare l’ordine naturale, e questo dominio può essere conquistato senza costi 18. Questi presupposti, scaturiti dai contesti sociali man mano stratificati in classi e dominati dai conflitti delle città-stato sorte in Mesopotamia, Egitto, India, Cina e Mesoamerica, sono tuttora parte integrante della coscienza moderna. 22 introduzione Il terzo passo critico nell’eziologia dell’ecocidio fu la nascita della modernità, caratterizzata da tre elementi collegati tra loro: la crescente divisione del lavoro, la modalità capitalistica della produzione e l’avvento dei moderni stati nazionali. Furono incoraggiate l’impresa individuale e la competizione commerciale, considerate benefici motori del progresso e dell’illuminismo 19. Da un punto di vista ideologico, questa visione nasceva dalla concezione giudaico-cristiana di Dio, che dà la terra all’industrioso e al razionale al fine di migliorare l’umanità. Il “libero mercato” venne esaltato come il veicolo naturale e più efficiente per la coordinazione delle società complesse. Lo stato nazionale razionale-legale fu esaltato come la forma definitiva dell’organizzazione politica. Lo sfruttamento della natura fu universalizzato e mercificato. Alla fine, gli imperativi della tarda modernità hanno prodotto la cornice planetaria in cui le tendenze ecocide hanno avuto una grande accelerazione. La perdita della biodiversità è particolarmente acuta nel Sud del pianeta. Organizzazione dei capitoli I cinque capitoli di questo libro analizzano le principali tappe e i punti di svolta dell’evoluzione umana e dei cambiamenti a essa associati nei rapporti tra società e natura che hanno prodotto la perdita della biodiversità e il progressivo ecocidio. La parte iniziale del libro introduce il lettore nel problema e nell’approccio generale storico e sociologico scelto per spiegare l’eziologia dell’ecocidio e dell’estinzione in massa delle specie. Il capitolo 1, intitolato L’odissea umana: dall’evoluzione biologica all’evoluzione culturale, analizza i punti di svolta dell’evoluzione umana che hanno portato alla nascita della cultura e del linguaggio come tratti distintivi della nostra specie. Si sostiene che, per comprendere come si siano formati l’ecocidio e l’estinzione in massa delle specie, è necessario comprendere come e quando il genere Homo raggiunse lo stadio evolutivo di sapiens. Il primo grande impatto ecologico documentato della specie umana è analizzato in relazione all’estinzione a livello mondiale della megafauna, avvenuta verso la fine del Quaternario. Il capitolo mira a dimostrare che la combinazione unica degli attributi biologici posseduti dalla nostra specie non determina necessariamente il comportamento sociale dell’uomo, se non in quanto forma la base genetica per variazioni praticamente illimitate del comportamento umano. In altre parole, la “natura umana” – la somma 23 ecocidio degli attributi biologici della nostra specie – si distingue analiticamente dal comportamento umano – la somma dei suoi attributi sociali e culturali. Il capitolo 2, intitolato Relazioni problematiche tra società e natura prima dell’età moderna, considera l’impatto delle società premoderne sull’ambiente. La transizione all’agricoltura sedentaria, avvenuta nel Neolitico, circa diecimila anni fa, è presentata come un altro grande punto di svolta e tappa fondamentale nelle relazioni tra la società umana e la natura, e analizzata come conseguenza involontaria dell’estinzione della megafauna e dei cambiamenti climatologici avvenuti durante il tardo Pleistocene. Si discutono le implicazione della produzione alimentare sedentaria e della domesticazione, con un’attenzione particolare ai cicli di rapida espansione economica e di tracollo ecologico – i “gravi errori ecologici” – di alcune società dell’antichità. Sono prese in esame la Cina, la Mesopotamia, la Grecia e la Roma antiche, le civiltà dei Chaco Anasazi, dei Maya e dell’Isola di Pasqua. Lo scopo è analizzare le manifestazioni della depredazione ecologica nelle società premoderne come precorritrici nell’eziologia del moderno ecocidio. Il capitolo 3, intitolato L’assalto moderno alla natura: genesi dell’ecocidio, traccia una panoramica storica e sociologia dell’eziologia dell’ecocidio e dell’estinzione in massa delle specie nella prima età moderna. L’ascesa del capitalismo, la nascita del pensiero scientifico e tecnologico a esso collegata, e il sempre più massiccio assalto alle specie a scopo commerciale sono osservati come fenomeni mondiali. Per illustrare l’impatto ecologico dell’uomo in questo nuovo contesto sociale globale, si analizzano tre casi particolari: lo sfruttamento e la distruzione degli animali da pelliccia a scopo commerciale; il massacro, fin quasi allo sterminio, del bisonte nordamericano; e lo sfruttamento esasperato delle specie marine portato dall’avvento della caccia alla balena su scala industriale. L’accelerazione della perdita della biodiversità nell’età moderna è presentata come un passaggio dallo sfruttamento eccessivo delle specie a fini commerciali all’inizio dell’età moderna, alla distruzione degli habitat su vasta scala in tempi più recenti. Scopo del capitolo è illustrare e spiegare la globalizzazione del degrado ambientale e la genesi dell’ecocidio nella prima età moderna. Il capitolo 4, intitolato Il pianeta come zona sacrificale, analizza i processi che io definisco i “moloc della modernità”, e che riflettono gli sviluppi dell’era industriale. Il capitolo si apre con una discussione delle implicazioni ecologiche e sociali della privatizzazione dei beni comuni 24 introduzione come fenomeno mondiale. In questo nuovo contesto, la natura viene progressivamente ridotta a un assortimento di risorse da sfruttare, tutte negoziabili sul pubblico mercato. Il movimento di privatizzazione globale è analizzato come metafora-guida per la comprensione dei conflitti e delle contraddizioni nate nell’età moderna. La perdita massiccia della biodiversità e l’aggravarsi del degrado ambientale hanno progressivamente trasformato il pianeta in una zona sacrificale delle specie. Il capitolo si concentra in particolar modo sul ruolo svolto dalla moderna economia di guerra industriale e sull’enorme incremento delle popolazioni umane come elementi causali della difficile congiuntura di ecocidio globale. Il capitolo 5, intitolato Ecocidio e globalizzazione, analizza i processi sociali e storici ai quali si deve l’accelerazione dell’estinzione in massa e la natura progressivamente ecocida del periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Un’attenzione speciale è rivolta alle forme neoliberiste di globalizzazione dominate dalle multinazionali, dai programmi di aggiustamenti strutturali e dai meccanismi ideologici e istituzionali mediante i quali le pratiche che ne derivano continuano a essere riprodotte su scala globale. Il capitolo presenta poi alcune correnti che si oppongono alla globalizzazione, in particolare i movimenti per la democrazia ecologica e i tentativi di realizzare beni comuni equi a livello mondiale. Dal mio punto di vista, la creazione di una democrazia ecologica è un imperativo pratico ed etico per un pianeta socialmente giusto ed ecologicamente sostenibile. Il libro si conclude con un’ultima riflessione su cosa significa vivere in un’epoca segnata dall’ecocidio. 25