Idem - Omero
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DE PARTIBUS ANIMALIUM 648 a,20 – 649 b, 10 Lucrezia Rosano Nel secondo libro del De partibus animalium, e precisamente nel secondo paragrafo, si apre una digressione sul calore, e su come si possa definire la maggiore o minore caldezza di qualcosa rispetto a qualcos’altro, di estrema importanza per la trattazione che lo Stagirita sta compiendo. Definire cosa sia il calore, infatti, sembra essere un compito alquanto complesso, nonostante, come vedremo, il caldo e il freddo «sono per noi tra le cose più manifeste per la sensazione», 648 a, 35. Per questo è necessario soffermarsi con attenzione e analizzare se τό θερμόν si dice in modo semplice o in più sensi. Aristotele inserisce quest’argomentazione all’interno di un discorso più ampio sulla costituzione e funzione del sangue. Il sangue rientra tra le parti omogenee, cioè quelle i cui elementi costitutivi sono simili, a differenza della parti disomogenee che, nel caso di un vivente, possono essere il viso, la mano, etc. Inoltre tra le parti omogenee esso fa parte della specifica categoria di quelle molli e fluide (quindi non secche e dure come ad esempio le ossa) e, ancora, tra quelle che sono tali «fintantoché siano in natura»,e non in senso assoluto, cioè che smettono di avere tali caratteristiche se considerate fuori dalla loro naturale condizione e, in questo caso, se estratte dall’organismo vivente. Proseguendo distingue il sangue a seconda della densità e del calore, precisando che gli animali con sangue più denso e più caldo sono ben disposti rispetto alla forza e al coraggio, mentre quelli con sangue più fine e freddo sono atti all’intellezione. Coloro, invece, che hanno il sangue fine e caldo sono i migliori: questi, infatti, sono sia coraggiosi, sia saggi. Il calore, quindi, ha una notevole importanza, accostato al sangue, nel discernere un certo tipo di temperamento o predisposizione. E queste differenze si possono fare anche per gli animali non sanguigni, ma che presentano qualcosa di analogo al sangue. È proprio da qui che parte il passo che dobbiamo analizzare, che va da 648 a, 20 a 649 b, 10. Aristotele precisa sin da subito la necessità (αναγκαῖον) di avere il sangue o qualcosa di simile, cioè qualcosa che abbia la sua stessa natura (τήν αυτήν φύσιν). Innanzi tutto diciamo due parole su questa necessità. Per Aristotele ciò che è necessario è ciò che non avviene a caso o in modo accidentale; piuttosto è proprio ciò che è secondo natura, perché così è meglio. Questa espressione la riprende spesso e in più parti, come ad esempio nel De generatione animalium, in cui dice: «E tutto questo è combinato ben a ragione dalla natura», 791 a, 24. Bisogna capire cosa sia la natura del sangue; natura (φύσις)come sappiamo dalla Fisica può essere la materia, la forma o il sinolo. Qui per natura Aristotele intende soprattutto la specie, la forma o la funzione. Infatti in Fisica 193 a, 30 dice: «ma in un altro senso essa è definita come la specie che è conforme alla definizione». Insomma essa è ciò che fa sì che quel qualcosa sia ciò che è in senso stretto. Oltre alla natura del sangue Aristotele insiste anche su ciò che ha “la sua stessa natura”. In che senso stessa natura? Lennox nell’edizione inglese di questo testo dice che con “stessa natura” può essere inteso l’eseguire la stessa primaria funzione, ossia la nutrizione. Gli animali, quindi, possono compiere la stessa funzione pur avendo una costituzione interna diversa, cioè pur essendo alcuni sanguigni, altri non sanguigni. Ovviamente la presenza del sangue crea delle grandi differenze interne anche rispetto, ad esempio, alla generazione, all’accoppiamento, etc. Gli animali si comportano, cioè, in modo diverso a seconda di ciò che hanno a disposizione (in questo caso in termini di natura propria), ma questo non vuol dire che non arrivino agli stessi risultati, o che non compiano medesimi processi (anche se le modalità possono essere diverse). In che modo dobbiamo, allora, indagare la natura del sangue o di ciò che è analogo? ? In primo luogo (πρωτον) in base a ciò che è distinto secondo caldo e freddo. Quindi si tratta di capire la natura del sangue partendo da quella del calore; in altre parole significa interrogarsi su ciò che il calore propriamente è, su quali sono le caratteristiche che ce lo fanno definire in questo modo. E come si può, nell’ottica aristotelica, cioè nell’ottica della vera scienza, sapere la natura di qualcosa senza indagarne e conoscerne prima di tutto le cause? Bisogna, infatti, - dice- esaminarne le cause. Qui Aristotele non dice che il sangue va analizzato solo tenendo in considerazione questa coppia, ma iniziando da questa. Infatti caldo e freddo sono i principi (αι αρχαί) di molte cose, cioè ciò che sta alla base, che è all’inizio. La natura di molte cose- dice dopo- si ricollega a questi principi e molti discutono di quali siano caldi e quali freddi tra gli animali e le parti. Il calore, infatti, è importantissimo per tante funzioni o caratteristiche negli esseri viventi, e questo lo constatiamo anche da altre opere biologiche. È importante, ad esempio, per la locomozione, come si legge nel De Generatione animalium, 732 a, 16: «La causa di ciò è che gli animali più nobili sono anche per natura più autosufficienti sì che raggiungono una notevole dimensione. Ciò non si ha senza calore animante (un paragrafo molto interessante sul calore animante è presente nel testo di D. Quarantotto Causa finale sostanza essenza in Aristotele), perché ciò che è più grande deve necessariamente essere mosso da una forza più grande e il caldo è fattore di movimento». Oppure è sinonimo di compiutezza, come dice più avanti: «E sono più compiuti gli animali di natura più calda e più fluida e non terrosa». Ancora caldo e freddo producono molte caratteristiche delle parti animate, come durezza, morbidezza, viscosità, friabilità. Nel passo che va dal 736 b, 35 a 737 a, 7 si legge: «Nel seme di tutti gli animali è presente ciò che rende fecondi i semi: ciò che è chiamato caldo. Questo, però, non è fuoco, né una facoltà simile al fuoco, ma il pneuma racchiuso nel seme e nella schiuma e la natura contenuta nel pneuma, che è analoga all’elemento di cui sono costituiti gli astri. Perciò il fuoco non è in grado di generare alcun animale e non risulta che se ne componga alcuno neppure nelle sostanze infuocate, in quelle umide o in quelle secche. Il calore del sole, invece, e quello degli animali, non solo quello agente attraverso lo sperma, ma anche qualsiasi altro residuo della loro natura, possiede un principio vitale. È dunque chiaro da questi argomenti che il calore insito negli animali né è fuoco né dal fuoco trae il suo principio». Il calore, quindi, è anche importante, nella riproduzione, per la cozione del seme; questo, infatti, si raffredda negli animali dotati di testicoli e per essi l’accoppiamento avviene in maniera più lenta rispetto a coloro che ne sono privi. Dopo aver introdotto l’argomento, Aristotele, come è solito fare, prosegue enunciando le opinioni dei fisici suoi predecessori. Vengono enunciati due motivi per cui alcuni animali sono più caldi di altri: cioè 1) la caldezza è maggiore se l’animale è acquatico, per compensare con la freddezza dell’acqua. Infatti abbiamo sottolineato che i 4 elementi sono composti ciascuno da una coppia di principi: l’acqua è composta da umido e freddo. Da questa tesi si ricava che la caldezza dell’animale è inversamente proporzionale alla freddezza del luogo. In questo modo il calore è presente, potremmo dire, in base all’equilibrio con la temperatura dell’ambiente circostante; il motivo della caldezza interna dipende dall’esterno. Questa tesi che sembra essere anonima, in realtà- come sottolinea Carbone- rimanda ad un passo del De respir. (Della giovinezza e della vecchiaia, della vita e della morte, della respirazione) 20, 477 b, 1 sgg., in cui viene attribuita ad Empedocle. Infatti lì si legge: «Non dice bene Empedocle quando afferma che gli animali che hanno in massimo grado calore e fuoco vivono in acqua, fuggendo l’eccesso di calore della loro natura, di modo che, privi come sono di freddo e di umido, si conservino tuttavia in forza del luogo, per la reciproca contrarietà: l’acqua infatti è meno calda dell’aria». 2) Gli animali non- sanguigni (τά άναιμα) sarebbero più caldi di quelli sanguigni (των εναίμων), e che le femmine sono più calde dei maschi. Da questa considerazione si ricava che la presenza del sangue è motivo di freddezza corporea: Aristotele, però, - sottolinea Carbone- non è d’accordo giacché sempre in De part. Anim. IV, 5 (679 a, 25) dice che gli animali privi di sangue sono paurosi a causa della loro freddezza. Anche Parmenide, come dice subito dopo, sostiene che le donne siano più calde, ma secondo me, per un’altra ragione rispetto a quella precedente. Per lui la maggior caldezza in esse dipende dall’abbondanza di sangue e per questo motivo si generano i mestrui (mentre Empedocle dice il contrario). Se, infatti, la prima tesi insisteva sulla caldezza che è maggiore in assenza di sangue, questa sottolinea che proprio l’eccesso di sangue, insieme alla caldezza, genera il mestruo nelle donne. Quindi il risultato è lo stesso: le donne sono più calde degli uomini, ma la prima tesi sembra connessa alla prima spiegazione (cioè che la presenza del sangue è motivo di freddezza corporea, così gli animali sanguigni sono più freddi e anche i maschi, perché hanno più sangue, non dovendolo perdere a causa del mestruo. La seconda, al contrario, ha un motivo opposto di giustificazione, e cioè che l’eccesso di sangue, piuttosto, è connesso alla caldezza. Aristotele pensa l’opposto anche su questo punto; nel De generatione animalium 726 b, 33 egli scrive: «Dato poi che necessariamente è più debole chi per natura partecipa al minor calore, e trovandosi la femmina in queste condizioni, come si è detto in precedenza, anche la secrezione sanguigna che si produce nella femmina deve essere un residuo. In siffatto modo si produce l’escrezione dei cosiddetti mestrui». Ancora a 728 a, 19 dice: «La femmina non è in grado, a motivo della sua natura fredda, di operare la cozione del seme», oppure «se è vero che ogni cozione si opera col caldo, gli animali maschi devono essere più caldi delle femmine», 765 b, 15. La terza opinione, infine, riguarda il sangue e la bile: anche qui alcuni dicono che siano caldi, altri che siano freddi. Nella Conclusione di questa prima considerazione egli prende atto che se per queste due cose, il caldo e il freddo, che sono le più manifeste per la sensazione, c’è una tale discussione e opinioni diverse, chissà quanta ce ne sarà per le altre cose. Ma perché, bisogna chiedersi, c’è una tale discussione proprio su caldo e freddo? Sembra che questa cose accadano perché più caldo si dice in molti modi (διά τό πωλλαχως λέγεσθαι τό θερμότερον). Bisogna, allora, che non sfugga, tra le cose che si costituiscono per natura in che modo alcune si dicono calde, altre fredde, e alcune secche e altre umide. Perché è importante? Noi abbiamo visto in 646 a, 15-20 come questi quattro attributi siano la “materia dei corpi composti” e le altre differenze (durezza, pesantezza, leggerezza, etc.) derivano proprio da essi. Viene aggiunto, rispetto a quel passo, che proprio la caldezza, la freddezza, la secchezza e l’umidità sono le cause della morte (θανάτου) e della vita (ζωης), e anche del sonno (ύπνου) e della veglia (εγρηγόρσεως), della giovinezza (ακμης che vuol dire letteralmente il punto più alto, il fiore, il vigore) e della vecchiaia (γήρως), della malattia (νόσου) e della salute (υγιείας). Lennox ci riporta i riferimenti agli altri passi in cui Aristotele esplicita ciò. Per esempio come causa della longevità si legge in Della longevità e brevità della vita, paragrafo 5: «Bisogna ammettere che l’animale è per sua natura umido e caldo e che l’esistenza si fonda su tali condizioni, mentre la vecchiaia è fredda e secca come la morte- appare così dall’esperienza»; oppure come causa del sonno come si legge in Del sonno e della veglia, paragrafo 3: «Si è detto, dunque, qual è la causa del sonno: esso consiste nella recessioni in massa compatta dell’elemento corporeo trascinato in alto dal calore naturale verso l’organo sensoriale primario». Vorrei fare una precisazione di traduzione rispetto a quella di Carbone. Egli continua questo passo traducendo: «ma non [ne sono causa- cioè caldo e freddo, secco e umido] della durezza e della levigatezza, né della pesantezza e della leggerezza, né, per così dire, di nessun’altra delle cose siffatte». Questa traduzione, però, oltre a creare una contraddizione contenutistica (giacché all’inizio del paragrado 2 del libro II Aristotele aveva precisato che queste caratteristiche derivano dai quattro principi), stravolge il testo greco, perché scambia per genitivi singolari quelli che sono nominativi plurali. Per questo riposto la traduzione di Vegetti che condivido e che rende ragione all’originale. «Perciò non bisogna trascurare di chiarire in che senso i composti naturali debbano dirsi caldi o freddi, solidi o fluidi, visto che manifestamente queste sembrano essere di fatto le sole cause della morte, etc. […] (non ne sono certo cause la ruvidezza e la levigatezza, né la pesantezza e la leggerezza, e neppure, si può dire, alcun’altra delle qualità di questo genere». Torniamo alla domanda importante: caldo si dice in modo semplice o in più sensi? Bisogna stabilirlo secondo l’ έργον, cioè l’opera, la funzione, l’effetto e se questo sia uno o se ce ne siano più di uno. Bisogna assumere la/e funzione/i di ciò che è più caldo (Aristotele usa il comparativo, perché si tratta di mettere in relazione la caldezza di qualcosa con quella di qualcos’altro, per vedere quale sia maggiore). Aristotele elenca 6 modi per dire che qualcosa sia più caldo: 1. In un modo è detto caldo ciò da cui viene riscaldata la cosa che è toccata (ciò che riscalda qualcos’altro); 2. in un altro modo ciò che maggiormente produce sensazione nel contatto, e questo qualora la sensazione abbia luogo con dolore; questa seconda modalità, però, - dice Aristotele – è talvolta falsa. Infatti ciò che causa dolore è spesso l’abito (έξις), cioè la disposizione soggettiva di ciascuno, mentre il caldo sembra essere qualcosa di inerente e intrinseco agli oggetti. Contro la posizione di Aristotele possiamo citare Colin Strang, il quale sottolinea l’errore nel considerare il calore una caratteristica oggettiva, propria delle c0se. Egli fa tutto un discorso per spiegare come solo attraverso la sensazione le cose ci appaiano calde o fredde e, invece, esse abbiano in sé soltanto una certa temperatura. Il suo discorso regge perché si parte da un punto di vista quantitativo, mentre Aristotele parla del calore come una qualità delle cose, qualcosa che le contraddistingue. Questa precisazione di Aristotele sembra, secondo Lennox, entrare in contrasto con un passo del De Anima, cioè con III, 3, 427 B 12-13: « In effetti la percezione dei sensibili propri è sempre vera ed appartiene a tutti gli animali, mentre si può pensare anche falsamente». Qui- nel De partibus animalium- invece, è proprio un oggetto del tatto, il calore, ad essere falso. Ma si può ovviare al problema, e lo stesso Lennox lo fa, pensando che Aristotele ha espressamente messo in ballo il dolore causato dal calore; il dolore, infatti, non è un sensibile proprio e quindi può viziare il giudizio che ne abbiamo. Tra l’altro nel De Anima Aristotele traccia un profilo strutturale e funzionale degli organi sensori e dei sensibili propri molto preciso e scevro da possibili, e ovvi, limiti che l’esperienza comporta. 3. Ciò che è più atto a fondere o a bruciare; 4. Ciò che è più grande rispetto a ciò che è più piccolo (qui si tratta di una differenza quantitativa, non qualitativa come negli altri casi). 5. Ciò che si raffredda più lentamente; 6. Ciò che si riscalda più velocemente. Questa velocità nel riscaldarsi è segnale di una maggiore vicinanza allo stato di calore (in questo senso la frase «poiché uno è contrario, cioè lontano, l’altro simile, e cioè vicino»). Successivamente Aristotele precisa come queste modalità per cui qualcosa è caldo non possono sussistere tutte insieme; cioè la stessa cosa non può essere calda in tutti questi sensi. Per esempio l’acqua bollente riscalda più della fiamma, ma la fiamma brucia e fonde il combustibile, e «Ancora, il sangue al tatto è più caldo di acqua e olio, ma si solidifica più velocemente» (qui il riferimento è a quanto detto all’inizio del paragrafo 2, cioè che il sangue è una parte molle e fluida, ma solo finché è nell’organismo, secondo la sua natura; al tatto, invece- come appare- si solidifica in fretta). È necessario precisare secondo quale rispetto o accezione una cosa si deve considerare più calda di un’altra. Dopo i molteplici sensi per cui qualcosa è detta più calda, un’altra sostanziale differenza viene introdotta e cioè quella tra una “caldezza aliena” e una “caldezza propria”, ossia tra caldo per sé e caldo per accidente. Anche questa differenza non è sufficiente ad individuare una univoca funzione del calore; esso, infatti, si manifesta in forme differenti. Per esempio ciò che è caldo per sé si raffredda più lentamente, ma riscalda di più per la sensazione ciò che è caldo per accidente; poi brucia di più ciò che è caldo per sé (tipo la fiamma più dell’acqua bollente). Quindi in conclusione non è facile capire cosa sia più caldo: perché in un modo è più calda una cosa, in un altro un’altra. Non si può dire in senso assoluto o una volta per tutte se una cosa è calda o fredda, perché a volte il sostrato non è caldo, ma diventa tale combinandosi (come lo è l’acqua bollente): il sangue è caldo in questo modo. Questo significa che a volte in natura una cosa non si trova già calda o semplicemente calda, ma la questione è molto più complessa. Infatti ci sono sostante che diventano calde, non che sono calde dall’inizio. Riguardo al sangue noi siamo spesso abituati a pensarlo caldo, piuttosto che freddo; tuttavia quello che consideriamo è sempre il sangue dentro i vasi sanguigni, cioè proprio nella sua naturale condizione. Se pensassimo, invece, al sangue in se stesso, sapremmo che esso è tutt’altro che caldo e fluido, ma che anzi è denso (coagulato) e fresco. Secondo Carbone il fatto che il sangue abbia bisogno di essere riscaldato, in quanto freddo, rende la funzione del cuore necessaria. Da ciò deriva che, se il sostrato della sostanza spesso non è caldo in assoluto, il freddo non è semplicemente una privazione, ma è una certa natura del sostrato stesso. Riguardo all’essere, il freddo, una privazione, anziché una certa natura, si può leggere ciò in vari punti. Ad esempio in Metaph. XII,4, 1070b 12 «così, ad esempio, per quanto concerne i corpi sensibili, potremmo anche dire che sono forma il caldo e, in un altro senso, il freddo, ossia la privazione»; anche in altri punti, per esempio nel De Gen. Anim. 743 a, 36: «Il raffreddamento è la privazione di calore», ci sono frasi simili e ambigue; tuttavia è lecito pensare che il freddo come privazione sia tale solo rispetto alla processualità della generazione e non in senso assoluto (questo pensa Carbone). Invece Lennox ci dice che ci sono due versioni del manoscritto accettate. L’una traduce come qui traduce Carbone- pur entrando in contrasto con tutti gli altri punti degli scritti aristotelici dove egli dice il contrario ; l’altra invece: “il freddo non è una certa natura, ma una privazione” (è questa la versione che accetta Lennox, secondo il quale tradurre così non entra neanche in contrasto col discorso particolare che si sta facendo). Caldezza o freddezza acquisite sono quelle che sopraggiungono dopo; es. se il fumo è sempre caldo, il carbone spento è freddo e diventa caldo solo in seguito. Aristotele conclude con l’ammissione comunemente accettata che il calore solidifichi e bruci le cose costituite da terra, mentre quelle costituite da acqua le solidifica il freddo. Questa tesi è specificata meglio da altre parti e trae origine dalle considerazioni dei fisici precedenti.