Testo Guidi Bruscoli - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d

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Testo Guidi Bruscoli - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d
Francesco Guidi Bruscoli
CIRCOLAZIONE DI NOTIZIE E ANDAMENTO DEI MERCATI NEL BASSO
MEDIOEVO
Attorno a metà Trecento, nel suo Libro di buoni costumi, Paolo da Certaldo scriveva: «Se fai
mercatantia e co le tue lettere vengano legate altre lettere, sempre abbi a mente di leggere prima le
tue lettere che dare l’altrui. E se le tue lettere contassoro che tu comperassi o vendessi alcuna
mercatantia per farne tuo utile, subito abbi il sensale, e fa ciò che le tue lettere contano, e poi dà le
lettere che sono venute co le tue. Ma no le dare prima che tu abbi forniti i fatti tuoi, in però che
potrebboro contare quelle lettere cosa che ti sconcerebboro i fatti tuoi, e il servigio ch’avresti fatto
de la lettera a l’amico o vicino o straniero ti tornerebbe in grande danno: e tu non dei servire altrui
per disservire te e’ fatti tuoi».
Questo breve precetto ben sintetizza l’importanza che giustamente veniva attribuita dai
mercanti alle informazioni che arrivavano attraverso la corrispondenza commerciale. Essere pìù
informati, evidentemente, dava enormi vantaggi competitivi. Come, assai più recentemente, ha
sottolineato North, «the name of the game is to raise the cost of transacting to the other party to the
exchange. One makes money by having better information than the adversary». Per questa ragione,
la scarsella fiorentina, cioè quel servizio di posta – su cui ci soffermeremo – organizzato da una
società stipulata tra alcune compagnie nel 1357, consegnava le lettere ai soci 24-48 ore prima di
quanto non le recapitasse agli altri che utilizzavano i suoi servizi; e per lo stesso motivo, alcuni
mercanti – come vedremo – pagavano un «vantaggio» ai fanti per far sì che la propria
corrispondenza giungesse a destinazione prima di quella degli altri.
I mercanti, quindi, “inondavano” le strade d’Europa di corrieri: essi avevano infatti una
grande fame di notizie, evidenziata dai reiterati «informami … dimmi … scrivimi» che
caratterizzavano le loro lettere. Lo scambio delle informazioni ovviamente doveva basarsi sulla
reciprocità. Lo si evince ad esempio da quanto scriveva nel 1395 da Damasco Beltramo Mignanelli
alla compagnia Datini di Barcellona: «Quando mi scrivi, sempre me n’avisa a pieno; e come n’è
costà e che upinione n’ài; e de’ navili si partono di costà per di qua e del carico loro: e così farò io a
te».
Durante la prima fase di sviluppo delle fiere, eventi chiave della rinascita dell’economia
medievale e punti di incontro tra mercanti di luoghi lontani, la diffusione delle informazioni era
portata da coloro che vi partecipavano, e in forma soprattutto orale. Gli operatori vedevano le merci
che compravano e quindi non avevano bisogno se non di poche, generali, notizie. Se si restava nella
propria sede, il flusso informativo non sviava dal percorso da e per le fiere. Ma a partire dal XIII
secolo il mercante “dai piedi polverosi” divenne stanziale: il suo segno distintivo, ora, erano le dita
macchiate d’inchiostro. Nel nuovo modello organizzativo, le grandi compagnie italiane avevano
filiali sparse per l’Europa e con esse dovevano comunicare per prendere decisioni strategiche
relative a operazioni effettuate in località lontane: era quindi importante conoscere prezzi, tassi di
cambio, disponibilità dei diversi prodotti sul mercato e altri dettagli che facilitassero lo svolgimento
di banca e mercatura.
Non vi è dubbio che i mercanti italiani del Medioevo fossero dei grafomani. La necessità di
mandare e ricevere lettere è quindi frequentemente sottolineata nei carteggi di molti mercanti
medievali, così come nei manuali o pratiche di mercatura. Ad esempio, un anonimo operatore
trecentesco sottolineava come «allo scrivere non si può essere tardo, e masimamente per lettere. La
cartta costa pocho, e spesso ne recha buon profitto». Francesco Datini, in una lettera alla moglie del
1397, rimarcava come «non si puote erare a scrivere ispeso, in però che da una ora a un’altra
apaio(n) chose nuove». Nel 1458, anche il raguseo Benedetto Cotrugli, autore del celebre Libro
dell’arte di mercatura, si soffemava sull’utilità di tenere in ordine le proprie scritture, riferendosi
non solo ai libri di conto, ma anche alle lettere, fonte inesauribile di informazioni sia per il presente
che per il futuro: «Et anche vuole essere diligente alla penna, tanto in notare i libri, le facciende sua
quanto nel rispondere alle lectere. Et mai non lassare nulla lectera per trista che sia che non li facci
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risposta, perché ognuna t’aporta qualche cosa, o in stante o in futurum». Luca Pacioli, nella sua
Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità del 1494, il famoso trattato che
per primo – nella sezione intitolata Tractatus de computis – formalizzò l’uso della partita doppia
nella tenuta dei conti, enfatizzava con grande dettaglio i vantaggi derivanti dal catalogare e
riordinare bene le lettere scritte (di cui si facevano copie) e ricevute.
D’altronde, il giovane Lorenzo Strozzi si compiaceva della propria rapidità nello scrivere
lettere, attività cui, subito dopo il proprio arrivo a Valenza nel 1446, dedicava l’intera giornata: «no
mi rincresce a scrivere: sto tutto dì nello scrittoio, e copio il dì dodici lettere: iscrivo tanto presto,
che ve ne maraviglieresti». Più incline alla lamentela era invece Giovanni Morelli che nel 1509, da
poco giunto a Lisbona, stava «tutto el dì e mezza la notte nello ischrittoio a schrivere, sì che si dura
fatica assai». I toscani in particolare mostravano una forte propensione alla scrittura, tanto che
talvolta manifestavano fastidio per il diverso comportamento di altri operatori: «e non sono gente
scrivono al modo nostro, pesa loro la penna!».
Un flusso informativo completo e dettagliato, dunque, era tanto più importante quanto più
lontani erano i mercati con cui ci si trovava a commerciare. Preliminarmente, i mercanti
utilizzavano le Pratiche di mercatura, manuali pieni di dettagli su pratiche commerciali di vari
paesi (o città), pesi e misure, dazi doganali, tassi di cambio, etc. Ma si trattava di notizie “statiche”,
a volte vecchie di anni; se la parte relativa alle unità di misura e ad alcuni altri elementi rimaneva
valida, erano necessarie anche informazioni “fresche” per far capire al mercante la strategia da
scegliere. Ovviamente non si poteva pretendere un’informazione in tempo reale, ma si cercava di
ottenere notizie la cui “età” non superasse il tempo postale.
I mercanti-banchieri italiani furono anche in questo all’avanguardia, ed era noto che essi
potessero fornire notizie aggiornate, di carattere economico ma non solo. Quando, nel 1348, papa
Clemente VI, preoccupato della minaccia portata al Regno di Sicilia (suo vassallo) da Luigi
d’Ungheria, non riusciva ad avere notizie attendibili, si rivolse ai fiorentini Alberti antichi, suoi
banchieri di fiducia, perché si procurassero – e gli comunicassero – tutte le informazioni possibili.
Le reti informative dei mercanti, peraltro, riuscivano anche a carpire notizie che si tentava di
mantenere nascoste. Per quanto riguarda l’espansione portoghese verso l’Asia, ad esempio, alcuni
studiosi lusitani hanno ricollegato la scarsità di documenti del periodo compreso fra il regno di
Giovanni I (1385-1433) e quello di Emanuele I (1495-1521) a una politica di segretezza (sigilo),
perseguita dai sovrani della dinastia Aviz, che avrebbe celato un numero di imprese molto più
cospicuo di quanto sia noto: studi successivi hanno invece sottolineato come la presenza di una così
vasta comunità di mercanti stranieri, in continuo contatto con collaboratori o amici nella patria
d’origine, rendesse quantomeno complicato il problema del mantenimento della segretezza. A
sostegno di quest’ultima tesi vengono ad esempio alcune considerazioni del mercante fiorentino
Guido di Tommaso Detti il quale, trovandosi a Lisbona al ritorno della flotta di Vasco de Gama
(che per prima aveva raggiunto l’India circumnavigando l’Africa), scriveva: «Questo re à fato torre
tutte le charte da navichare sotto pena de la vita e chonfischazione de’ loro beni, coè ttutte quelle
che danno lume di questa chosta perché non si sappi quella gita, overo l’andare a chamino per
quelle bande, accò non vi si meta altra gente. Chredo potrà ben fare ma tuto s’à a sapere».
D’altronde, anche se guardiamo all’altra grande potenza iberica, fautrice dell’espansione europea
verso il continente americano, il panorama può dirsi analogo: «Sono le lettere dei mercanti a
costituire il nucleo più consistente della documentazione sui viaggi colombiani».
Anche i mercanti veneziani contribuivano alla diffusione delle informazioni nella
Serenissima, uno “Stato mercantile” la cui solidità era fondamentale per la prosperità dei mercanti
stessi, i quali dunque si prodigavano in ogni modo per tutelare e favorire la Repubblica. Anche per
questo, Venezia costituì sempre un centro rilevantissimo di informazioni, provenienti da fonti più o
meno ufficiali, come testimoniano ad esempio le raccolte dei Diarii di Sanudo o di Priuli. Per un
periodo successivo (inizio XVI-metà XVII secolo), Giorgio Doria ha sottolineato come i genovesi
vantassero una «netta superiorità» su tutti i concorrenti europei proprio con riguardo alla capacità di
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acquisire notizie, grazie a una fitta rete di «informatori esperti», in grado di fornire «valutazioni con
alto grado di attendibilità sullo svolgimento futuro dei processi economici nelle diverse piazze».
Molto è stato scritto sulla formazione dei mercanti e sulla loro educazione. Non entreremo
qui nel merito di un argomento che rischierebbe di condurci fuori tema; tanto per citare un solo
esempio, basti menzionare la Cronica del Villani, che sottolinea il diffuso livello di istruzione dei
giovani fiorentini, e non solo di quelli destinati a una carriera nel campo della mercatura: «Trovamo
che fanciulli e fanciulle che stavano a leggere del continuo da VIIIM in XM. I garzoni che stavano ad
aprendere l’abbaco e algorisimo in VI scuole da M in MCC. E quelli che stavano ad aprendere
gramatica e loica in IIII grandi scuole da DL in DC». Altre città italiane presentavano gradi di
istruzione relativamente elevati, ma anche all’estero, pur non raggiungendo il livello che essa aveva
in Italia, la formazione dei mercanti presentava degli esempi di tutto rilievo. La formazione,
dunque, era fondamentale; ma – come sottolineato da Braudel – «informarsi conta ancor più che
formarsi e la lettera è anzitutto informazione».
LA TRASMISSIONE DELLE NOTIZIE: TEMPI E COSTI
Un contributo rilevante per la diffusione delle informazioni commerciali era fornito dalle scarselle:
esse erano promosse da consorzi di grandi mercanti, i quali affidavano il servizio di trasporto della
corrispondenza (custodita nelle borse da cui il servizio stesso prende il nome) a privati o ad aziende,
definendo con estrema precisione tutti i dettagli del viaggio, compresi gli itinerari e i premi o le
penalizzazioni in caso di tempi più rapidi o più lenti rispetto a quelli accettati come standard.
Evidenza sparsa di una corrispondenza tra Toscana e fiere della Champagne risale già alla seconda
metà del Duecento, ma la prima scarsella, organizzata da un gruppo di mercanti fiorentini residenti
in parte a Firenze e in parte ad Avignone, è del 1357. Le più famose scarselle erano quella catalana
(che da Barcellona portava lettere verso Bruges e verso Pisa-Firenze), quella fiorentina (Barcellona,
Parigi-Bruges, Milano-Colonia-Bruges), quella lucchese (Bruges) e quella genovese (Barcellona,
Bruges). Si trattava, insomma, di un sistema che può essere considerato precursore di quelle
organizzazioni private ma nate sotto licenza regia (l’esempio più illustre è il servizio creato dai
bergamaschi Tasso, i quali, impegnati nel settore già attorno al 1300, gestirono le comunicazioni
scritte dell’Impero asburgico a partire dalla fine del Quattrocento), a loro volta precorritrici dei
moderni sistemi postali. Esistono altri esempi, anche più precoci, di organizzazioni postali
promosse o quanto meno controllate dal potere pubblico: nel 1305 il governo veneziano aveva
riconosciuto lo statuto di una Compagnia dei corrieri, che era stata appena fondata per radunare tutti
coloro che esercitavano tale mestiere nello Stato, ponendola sotto il controllo dei Proveditori di
Comun; a Milano, a fine Trecento, esisteva un servizio di «corrieri del Signore», organizzato dai
duchi ma aperto anche all’utenza privata.
I corrieri effettuavano singoli viaggi: compagnie o gruppi di compagnie mercantili-bancarie
li impiegavano direttamente oppure appoggiandosi a maestri di corrieri, alcuni dei quali riuscirono
ad approntare servizi notevolissimi per efficienza e ramificazione. Le grandi compagnie che si
rivolgevano a loro riuscivano spesso a diminuire le spese unendo alla propria corrispondenza quella
di diversi mercanti o di altri. In alternativa, le compagnie potevano servirsi di fanti propri, votati
spesso – ma non solo – alle comunicazioni più urgenti, oppure utilizzare soggetti occasionali,
persone che, interne all’azienda o meno, si recavano nel (o passavano attraverso il) luogo di
destinazione della lettera.
La diffusione del carteggio, dunque, oltre a permettere che le notizie si irradiassero a un
numero di persone che esulava il semplice ambito aziendale, assumeva importanza perché quelle
stesse aziende che organizzavano – dovevano organizzare – il servizio di trasmissione delle
informazioni lo mettevano a disposizione anche di altri. I grandi mercanti-banchieri, cioè, erano in
grado di offrire a una vasta clientela – certamente di rango e con ampie risorse – un servizio
efficiente e puntuale, che pure richiedeva costi elevati.
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I tempi
Per dare un’idea sui tempi che si richiedevano nell’Europa del Quattrocento, presentiamo alcuni
dati tratti da un ricco e dettagliato contributo di Melis: evidenzieremo qui esclusivamente i valori
modali, avvertendo il lettore che la variabilità era comunque enorme e dipendeva da una vasta
gamma di fattori. Se tale valore veniva preso come riferimento, uno scarto nel senso di una maggior
rapidità era ovviamente assai apprezzato. I tempi erano tanto più variabili quanto più dipendevano
da fattori esterni: gli invii per mare – che talvolta erano preferiti a quelli terrestri – subivano più
degli altri l’alea delle condizioni meteorologiche e per questo si tendeva, finché possibile, a
scegliere gli itinerari interni. Comunque, i percorsi erano in alcuni casi esclusivamente terrestri, in
altri esclusivamente marittimi, in altri ancora prevedevano una combinazione delle due vie. Per
avere maggiori garanzie, i mercanti spedivano più copie della stessa lettera attraverso vie diverse; e
spesso inviavano con ogni missiva una copia di quella precedente. Si trattava insomma di
combattere contro quello che Braudel ha efficacemente indicato come il «nemico numero uno»: lo
spazio.
Da Firenze servivano 14 giorni per raggiungere Avignone, 23 per Barcellona, 27 per Bruges
e 30 per Londra; da Bruges 4 per Parigi, 6 per Londra, 10 per Avignone, 23 per Barcellona e 22-28
per le città dell’Italia centro-settentrionale; da Barcellona 8 per Avignone, 17-23 per le destinazioni
italiane del centro-nord, 23 per Bruges, 27 per Londra. La distanza più lunga era Bruges-Tana (Mar
d’Azov), coperta in 72 giorni; nel complesso, però, il Levante non era così lontano, se sia per
Alessandria d’Egitto che per Costantinopoli si impiegavano 38 giorni da Venezia (e,
rispettivamente, 35 e 41 da Barcellona).
La cosa che forse più di ogni altra dovrebbe impressionare il moderno osservatore è il ritmo
delle partenze, che, fin da un’epoca piuttosto precoce, riguardava i collegamenti fra le principali
piazze. A partire da metà XIII secolo l’Arte di Calimala inviava ogni giorno un corriere verso le
fiere di Champagne e con la stessa cadenza quotidiana ne riceveva uno di ritorno.
Alla corrispondenza mercantile si aggiungevano ovviamente documenti di altro tipo, che
pure, laddove divulgati, erano assai utili ai mercanti per delineare la propria strategia. Per quanto
riguarda la corrispondenza diplomatica verso Venezia, attorno al 1500 arrivavano 2-3 corrieri a
settimana da Roma, Milano e Firenze; uno da Napoli, Genova e Innsbruck; uno ogni 15 giorni da
Parigi-Lione, Augusta e Budapest; uno al mese da Palermo, Madrid-Barcellona, Valladolid-BurgosBayonne-Lione, Londra, Costantinopoli e Alessandria.
I costi
Attorno all’anno 1400, il viaggio andata-ritorno di una scarsella tra Barcellona e Genova costava 18
fiorini: per tale cifra, tuttavia, essa portava fino a 30 mazzi di lettere (ovvero 120-150 lettere). Per
servizi effettuati con corrieri speciali tra Firenze e Avignone, il costo poteva anche raggiungere – a
metà Trecento – le cifre, elevatissime, di 10-20 fiorini. Nello stesso periodo, la compagnia di Iacopo
e Bartolomeo degli Alberti spendeva poco più di 30 fiorini annui per le proprie «lettere andate e
venute d’ogni parte»; sullo stesso livello (20-40 fiorini) si ponevano le spese dell’azienda
avignonese di Francesco Datini nell’ultimo ventennio del secolo. È stato calcolato che le grandi
compagnie fiorentine quattrocentesche spendessero ogni anno tra i 50 e i 60 fiorini per spedire la
propria corrispondenza. A prima vista una somma di grande rilievo, pari allo stipendio annuo di un
direttore di filiale, ma in realtà non così esorbitante, considerando quante lettere venivano inviate.
L’archivio Datini, come noto, contiene circa 125.000 lettere commerciali per un arco di tempo di
circa 45 anni: ma oltre 80.000 di queste vennero scritte nel solo decennio 1395-1405, con punte di
11-12.000 documenti annui.
Ovviamente il costo di una singola spedizione era commisurato al tempo impiegato e,
quindi, l’onerosità decresceva parallelamente al decrescere della celerità; in ogni caso, solo pochi
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(governi, grandi mercanti-banchieri, cardinali, alcune corporazioni) potevano permettersi cifre
rilevanti. La velocità, d’altronde si pagava. A inizio Cinquecento, per percorrere i quasi 400
chilometri tra Venezia e Roma, un corriere veniva pagato 40-44 ducati se impiegava 40 ore, 30-40
ducati per 44 ore, 30-34 ducati per 48 ore, 20-24 ducati per 60 ore, 12-16 ducati per 72 ore e 10-12
ducati per 96 ore; per il percorso Venezia-Norimberga, si pagavano 78-80 fiorini di Reno nel caso
di un viaggio durato 4 giorni, 48-50 per 5 giorni e 25-33 per 6 giorni.
Di volta in volta, quindi, si doveva valutare quanto davvero fosse importante la rapidità.
Alcune notizie di carattere politico o militare avevano un particolare carattere di urgenza, che è
naturale e sul quale non vale forse la pena di soffermarsi. Ma anche per un più proficuo svolgimento
dei traffici, il tempestivo arrivo di una notizia poteva a volte essere fondamentale. Nel 1501, ad
esempio, temendo di non trovare sul mercato siriano merci sufficienti a riempire le proprie stive, i
veneziani, che si apprestavano a salpare da Venezia con la muda di Beirut, mandarono in
avanscoperta una piccola nave per avvertire i mercanti arabi che sarebbero arrivate 4 galee ben
fornite: il patrono dell’imbarcazione sarebbe stato pagato 850 ducati se fosse arrivato in 18 giorni,
800 per 20 giorni e così via a scendere, con un’addizionale penalità di 25 ducati al giorno se fosse
arrivato oltre il ventiquattresimo.
In generale poteva essere previsto un «vantaggio», cioè un cifra aggiuntiva, per stimolare
una rapida consegna da parte di corrieri speciali. Tale «vantaggio», tuttavia, si poteva pattuire anche
per la normale corrispondenza, compresa quella portata dalla scarsella: in questo caso i fanti, una
volta giunti a destinazione, consegnavano le lettere per le quali avevano ricevuto il sovrappiù (ben
specificato in base ai tempi di consegna) e tratteneva le altre. Molto chiare in tal senso sono le
indicazioni fornite nel 1393 da due operatori pratesi in Avignone: «Noi siamo d’accordo con questo
fante, ch’à nome Cola da Bisso, e abialli fatto vantaggio f. 3 ½ e chostà [a Genova] dè esser
domenica a dì 9 a vespro; meno termine non à voluto perché sono chattivi tenpi da caminare e
anche noi non abiamo voluta fare maggiore spesa. Se al termine v’è, dateli costì f. due; e abiamo di
patto con lui che non deba rendere veruna lettera se none il mazo vostro e quello di Marchione de’
Marini e tutte altre lettere dèe sopratenere infin a l’altro dì a vespro. Se fa buono servigio lo
contentate bene. Questo vantaggio non aremo preso se none perché voi abiate tenpo di parlare a
Marchione e di seguire quanto in questa vi si dice inanzi per li altri costì si sappia nulla, fate d’esser
con Marchionne sì tosto che ’l fante giugna, ancora se giugnesse di notte».
E tuttavia, dati gli elevati costi di queste operazioni, anche quando si richiedevano tempi
brevi, si potevano porre dei limiti: nel 1394 Tommaso di ser Giovanni, agente della filiale
avignonese del Datini in Milano, scrivendo alla compagnia datiniana di Genova sollecitava un
rapido inoltro di alcune lettere verso Avignone («i’ priegho vi mettete un pocho di solecitudine di
mandare preste queste lettere [...] fate vostra possa»). Allo stesso tempo, tuttavia, chiariva: «non
s’intende ne mandiate però fante propio».
IL CONTENUTO DELLE LETTERE
«Le lettere commerciali raggiungono rapidamente un livello piuttosto elevato, che conserveranno in
seguito, poiché questo livello è la loro stessa ragione d’essere, la giustificazione dello scambio
costoso di una corrispondenza sovrabbondante». L’enorme numero di lettere mercantili giunte fino
a noi presenta ovviamente anche una gamma di argomenti che riusciremo solo in parte a riassumere
in categorie. D’altronde, scopo di questo contributo non è tanto analizzare l’evento in sé, quanto la
notizia dell’evento stesso.
Innanzitutto, cominciando dalle tematiche più strettamente connesse allo svolgersi
dell’attività dell’azienda, il contenuto delle lettere dipende anche dal ruolo ricoperto da chi le scrive
e da chi le riceve. Se vi è un rapporto di subordinazione del destinatario nei confronti del mittente, è
evidente che molto spesso si tratterà di richieste e di istruzioni; a parti invertite, il mittente
subordinato darà risposte a quanto sopra e inoltre cercherà di fornire al maggiore tutti i dati che gli
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permettano di sviluppare la propria strategia economica. Nel caso di rapporti tra corrispondenti,
prevarrano notizie relative a invii di merci, esecuzione di operazioni commerciali o finanziarie,
aggiustamento di conti (accreditamenti e addebitamenti). In entrambe le circostanze – e anche in
altri casi – potranno aggiungersi infine notizie riguardanti i prezzi, i tassi di cambio, gli arrivi o le
partenze di navi, l’andamento dei raccolti.
Già sintomo di una specializzazione – tanto che si distaccavano dalla lettera vera e propria,
anche se a volte viaggiavano ad essa allegate – sono le cosiddette «valute di mercanzia», veri e
propri listini di prezzi, elencati secondo la tipologia merceologica o l’unità di misura: ve ne sono
esempi tardo-trecenteschi nell’Archivio Datini.
Per una gran parte il contenuto di queste lettere aveva un carattere privato, che legava
espressamente mittente e destinatario. Tuttavia, alcuni di questi elementi, con un carattere più
generale (prezzi di riferimento, tassi di cambio, etc.), potevano essere divulgati. E dovevano in
qualche modo avere il carattere della pubblicità anche i «carichi delle galere» veneziani, i quali
riguardavano operazioni promosse e organizzate dallo Stato.
Un riflesso economico lo aveva tuttavia anche un’ulteriore, ampia gamma di notizie. Le
vicende politico-militari, ovviamente, erano valutate con grande attenzione: nel gioco mutevole
delle alleanze, il commerciare con certe aree poteva ad esempio far venir meno privilegi
precedentemente ottenuti in paesi nemici di queste; oppure il commercio con alcune zone poteva
essere reso impossibile da embarghi. In aggiunta, operazioni belliche potevano anche mettere a
repentaglio la sicurezza dei trasporti e rendere quindi le operazioni troppo rischiose. Il carteggio
datiniano, ad esempio, è pieno di riferimenti alla Guerra dei Cent’anni che, fra tregue e
recrudescenze, caratterizzò i rapporti tra Inghilterra e Francia ma influenzò anche i traffici nella
vivace area commerciale del Mare del Nord. Ma, dall’altro lato, una guerra poteva aprire
interessanti prospettive per chi fosse impegnato nel commercio di armi e armature.
Alcune volte le notizie di unioni matrimoniali di alto livello erano molto apprezzate: da un
lato per le conseguenze diplomatiche che esse potevano avere (e si torna al caso precedente),
dall’altro perché nozze fastose implicavano un’accresciuta domanda di prodotti di lusso, di cui i
mercanti italiani erano grandi esportatori. Stessa considerazione può esser fatta relativamente
all’elezione di un pontefice o di un sovrano, o alla visita di uno di questi grandi personaggi.
Molto temute erano invece le notizie di epidemie, che a loro volta ricorrono con
preoccupante continuità tra le migliaia di lettere superstiti. Ad esempio, nel 1425 Matteo Strozzi
scriveva: «di qua per ora si lavora pochissimo e nonn è huomo in San Martino che vadia non che a
comperare, ma a di‹...›dere bioccolo di lana; e sse qui credo ne sia cagone perché ci s’à sospecto
della morìa, im però che continuamente ce ne muore. E ristorando l’uno de l’altro ne viene per dì 3
o 4. Iddio ci ponga rimedio».
Gli eventi climatici venivano monitorati e riferiti per le conseguenze che essi avevano sui
trasporti e sui raccolti. Quello dell’approvvigionamento alimentare era un problema ovviamente
molto sentito – anche al fine di evitare disordini sociali – e quindi grande attenzione veniva
riservata alle notizie realtive agli arrivi di grano, particolarmente via mare, in special modo in
momenti di carestia. Matteo Villani sottolinea come «certezza non si può avere di grano che di
pelago si aspetta» e quindi, per «dare larga speranza al popolo», suggerisce di «aprire i serrati
granai cittadini».
Infine, vi erano notizie di natura personale, dipendenti ovviamente dal legame più o meno
stretto che intercorreva tra mittente e destinatario. Membri di una stessa famiglia si potevano
scambiare informazioni sullo stato di salute, sui viaggi o sui matrimoni di altri parenti, mentre
informazioni su amici e connazionali caratterizzavano le missive tra personaggi che vantavano
comunque un rapporto di consuetudine. Tutto ciò, come vedremo, serviva anche a cementare un
legame che poi avrebbe avuto riflessi positivi sull’affidabilità degli interlocutori e sulla qualità delle
informazioni scambiate.
Oltre che dalle informazioni vere e proprie, una parte del contenuto delle lettere commerciali
era costituito dalle previsioni di chi scriveva, che potevano riguardare ambiti più specifici (arrivi di
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navi, abbondanza di raccolti, etc.) oppure prospettive più generali. Cambiamenti epocali, come ad
esempio fu l’apertura della via marittima verso le Indie, determinavano considerazioni anche molto
enfatiche. Presente a Lisbona al ritorno della flotta di Vasco de Gama, che giunse nella capitale
portoghese con le stive cariche di spezie, il mercante-banchiere fiorentino Girolamo Sernigi non
riuscì a trattenere il proprio entusiasmo: «a mio iudicio stimo che tutta la richeza del mondo sia
trovata et già altro non si possa schoprire».
Tutte queste notizie avevano ovviamente varie ripercussioni: sui prezzi, innanzitutto, con
variazioni che, anche nell’arco di pochi giorni, potevano essere molto rilevanti. I mercanti, quindi,
dovevano percepire con precisione e con sollecitudine la congiuntura di breve periodo, in modo da
agire tempestivamente sul mercato. Come ha notato Sardella nel suo studio sul mercato veneziano,
la variabilità dei prezzi era ancora maggiore nel caso di cattive notizie. Ciò aveva delle ripercussioni
anche sul mercato delle assicurazioni (in particolare marittime), che si presentava estremamente
volatile in tempi di incertezza.
L’INFORMAZIONE COME VANTAGGIO COMPETITIVO
Pur senza dilungarsi su modelli econometrici e teoria dei giochi, è opportuno fare un accenno al
problema dell’asimmetria informativa: un problema, peraltro, toccato dallo stesso Paolo da Certaldo
nel brano citato all’inizio di questo contributo. In un recente articolo, incentrato su un’epoca a noi
più vicina, Alessandro Stanziani ha evidenziato come il tema dell’informazione sia stato spesso
trascurato dagli storici dell’economia e ha individuato la causa del problema nel fatto che le teorie
economiche tradizionali (classica, marxista e neoclassica) partono dal presupposto di un mercato in
concorrenza perfetta, in cui non vi è incertezza e in cui è il prezzo a fornire tutte le informazioni
necessarie a prendere le decisioni strategiche. Le cose cambiano quando vi è asimmetria
informativa: è questo un punto cardine dell’approccio neo-istituzionalista (di cui è rappresentante il
già citato Douglass North), che sottolinea come la circolazione delle informazioni permetta di
ridurre i costi di transazione e come il non ottimale comportamento degli attori economici non
dipenda dal fatto che essi sono irrazionali, ma piuttosto dal fatto che essi non possiedono tutte le
informazioni necessarie. Ci sarebbe peraltro da discutere sul fatto che tutti gli attori diano
veramente la stessa risposta nel momento in cui possiedono la medesima informazione (in altre
parole una cosa è l’acquisizione dell’informazione, altra è l’interpretazione che se ne dà alla luce
dell’esperienza passata o del contesto); inoltre bisognerebbe anche segnalare il fatto che non tutte le
decisioni dell’attore sono determinate da calcoli di convenienza economica (ma magari possono
essere determinate da desiderio di prestigio, di potere, etc.); poi, può anche darsi che l’attore
economico non tenga conto delle informazioni anche se esse sono disponibili; infine, bisogna tener
distinti il processo di apprendimento (in base al quale l’attore può fare un diverso uso della stessa
informazione in tempi diversi) dall’informazione stessa.
Anche nel Medioevo, ovviamente, si era consapevoli che tra le doti richieste al buon
mercante vi fosse la «discrezione», ovvero la capacità di discernimento, di analisi. Perché se è vero
che il primo passo era quello della raccolta delle informazioni, il secondo doveva essere quello della
loro interpretazione ai fini di un appropriato utilizzo: come sottolineava il già citato anonimo
mercante trecentesco, «ttu no’ debi intendere niuna scrittura per lo testo, ma per la intenzione […] e
allora verrai a cognioscere e intendere di fare chosa secondo che il tenppo e i’ luogho e il grado
richiede». D’altronde, se si prende un qualunque moderno manuale che parli di sistemi informativi
aziendali, si vede come l’uso delle informazioni sia «il processo di conversione di informazioni in
azioni», laddove l’informazione è definita come «un dato che è stato sottoposto a un processo che lo
ha reso significativo per il destinatario, e realmente importante per il suo processo decisionale
presente e futuro».
Non si poteva, insomma, prescindere dalle informazioni. Quando, nel 1402, i rapporti tra
Firenze e Milano divennero molto tesi, Gian Galeazzo Visconti vietò la circolazione delle lettere fra
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operatori delle due città: «niuno fiorentino vi [a Milano] posa scrivere, né eziandio niuno lonbardo
possa scrivere a niuno fiorentino». I fiorentini di stanza a Venezia pensarono allora di mascherare le
proprie lettere come veneziane («soprascrivere di mano e di segnio di viniziano») e riuscirono
nell’intento di continuare le comunicazioni («alle lettere mandate non sentiamo ne sia suto fatto
chatività per questa via di Lonbardia»). Come scriveva Cotrugli, bisognava anche essere al corrente
di ciò che facevano gli altri («dilectati di sapere facti d’ognuno et partiti che vanno atorno, perché
altrimenti se’ inpacciato, et così le nuove d’ogni banda»); e, per dirla con le parole di alcuni
corrispondenti datiniani, i mercanti dovevano essere sempre pronti, «cho gli orechi levati», in modo
tale da essere i primi a carpire ogni informazione ed evitare di «farsi togliere la palla di mano».
L’informazione riservata, che non aveva particolare diffusione, portava evidentemente
maggiori vantaggi, sia dal punto di vista economico che politico. Nel 1478 furono scoperti tre
patrizi veneziani – Giovanni Loredan, Jacopo Trevisan e Daniele Barbaro – che erano riusciti ad
appostarsi sul tetto di Palazzo Ducale e, rimuovendo alcune tegole e un lucernario, avevano potuto
ascoltare la relazione al Senato di Tommaso Malipiero, appena tornato da Costantinopoli con
informazioni di rilevante importanza sia politica che economica. Emblematico è il passo di una
lettera scritta nel 1777 dal mercante francese (installato ad Amsterdam) Louis Greffulhe a un socio
in affari; si esce così dai limiti cronologici del nostro contributo, ma questa considerazione ha certo
portata universale: «ricordatevi che se l’affare si propala, siamo fottuti […] non appena c’è un po’
di concorrenza, non c’è più acqua da bere».
Non si deve però pensare che nel mondo mercantile tardo-medievale fosse portata
all’estremo una tendenza alla segretezza da parte degli operatori economici: già anni orsono, prima
Sapori e poi Melis hanno autorevolmente smitizzato tale concetto. D’altronde, in un ambiente in cui
agenti situati in piazze lontane agivano per conto di più compagnie, in cui il commercio su
commissione era correntemente praticato e in cui singoli mercanti passavano da un’azienda
all’altra, era impensabile che tale segretezza fosse mantenuta. Altrove mi sono soffermato a valutare
il rapporto tra le compagnie – in particolare fiorentine – che si trovavano ad agire sulle stesse piazze
estere: ebbene, in tali casi si possono ravvisare elementi sia di concorrenza che di collaborazione e
in questo senso, dunque, è probabile che le informazioni più generali circolassero tranquillamente
senza che questo pregiudicasse l’azione di ciascuno.
In alcune occasioni, peraltro, le più note fra le lettere dei mercanti venivano declamate
pubblicamente dal destinatario davanti alla sua cerchia di amici e vicini. Un esempio per tutti è
ravvisabile in una missiva inviata da Lorenzo Tornabuoni a Benedetto Dei il 4 novembre 1486: «Io
udi’ istamane, sendo in piazza a cerchio con molti nobili citadini, infra quali era Zanobio Del Nero,
el quale legea una lettera da Portogallo venuta da uno certo suo amico che gli scriveva»
dell’espansione portoghese in Guinea.
Resta il fatto che «la vittoria arride a chi dispone della miglior rete di informazioni, di
relazioni migliori, di comunicazioni più rapide; a chi riesce a sapere prima degli altri – e che, per
qualche giorno o qualche ora, è il solo a sapere – se il domani porterà la guerra o la pace, la carestia
o l’abbondanza». Di conseguenza erano molto ambite le anticipazioni, i rumours, quelle notizie non
confermate – introdotte spesso nelle lettere dall’espressione «si dicie che» – le quali davano, a chi
ne fosse entrato in possesso, un vantaggio non indifferente; certo vi era una componente di rischio,
derivante dall’incertezza.
VOCI, LEGGENDE E FALSE INFORMAZIONI
«Allora, che notizie da Rialto?», chiede Solanio nello shakespeariano Mercante di Venezia. La
risposta di Salerio è significativa: «Mah, c’è una voce, ancora non smentita, che una nave d’Antonio
ben stivata di ricca mercanzia abbia fatto naufragio nello Stretto, nel punto detto, credo, Sabbie
Goodwins: un bassofondo insidioso, fatale, sul quale pare giacciano sepolte le carcasse di molte
grosse navi, se è vero quel che va dicendo attorno quella grande ciarlona di comare ch’è la comune
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voce della gente». Solanio, amico di Antonio, si augura ovviamente che la «comare» sia
«bugiarda». Completamente opposto è l’auspicio di Shylock, che vede nella rovina del rivale il
prospettarsi della propria vendetta. D’altronde Tubal lo rassicura: egli ha infatti «inteso dire a
Genova», da «certi marinai ch’eran proprio scampati dal naufragio» che è «naufragata una sua
ragusina» e che «vari creditori di Antonio» giurano che egli «non ha altra scelta che la bancarotta».
In realtà non è vero, e nel lieto finale si viene a sapere che le navi di Antonio sono rientrate
felicemente in porto.
Questa digressione letteraria mette ben in evidenza quali fossero i problemi derivanti dal
diffondersi di voci incontrollate. Anche Ariosto, nell’Orlando furioso, segnalava come, nel
momento in cui si trasmettevano di bocca in bocca, le notizie diventassero incontrollate. Non a caso
i grandi diaristi veneziani di fine Quattro-inizio Cinquecento riportavano con grande attenzione
l’intera catena che aveva dato adito alle informazioni; e questo era tanto più vero quanto più incerte
erano le notizie, ovvero quando si trattava di voci, piuttosto che di fatti accertati. Nei Diarii sia di
Girolamo Priuli che di Marin Sanudo si nota l’estrema precisione con cui gli autori annotavano
mittente, luogo di origine e data della lettera da cui traevano l’informazione riportata, la quale poi
veniva magari integrata con notizie provenienti da dispacci ufficiali o da altre fonti.
Anch’essi tuttavia, pur in termini dubitativi, rilanciavano a volte informazioni di non provata
veridicità. Nell’agosto del 1499 Priuli, basandosi su lettere provenienti da Alessandria, segnalava
l’arrivo nel porto indiano di Calicut di tre caravelle portoghesi capitanate da Cristoforo Colombo.
Egli esprimeva i propri dubbi: «Questa nova et effecto mi par grandinisimo, se l’he vero; tamen io
non li presto autenticha fede». Effettivamente l’errore c’era – il nome del capitano – ma per il resto
la notizia era vera; quando, successivamente, essa fu confermata, «cadauno rimaxe stupefatto»,
perché questa era «la peggior nova che mai la Repubblica veneta potesse avere abuto dal perdere la
libertà in fuori». Il timore – non certo infondato – era che i portoghesi potessero privare la
Serenissima dell’assai proficuo commercio delle spezie orientali, che Venezia aveva quasi
monopolizzato fino ad allora.
Circolavano insomma notizie incerte, voci che a volte non avrebbero poi trovato riscontri,
che magari venivano divulgate per sentito dire, senza che fossero effettuate le necessarie verifiche;
tuttavia, in molti di questi casi, non vi era intenzionalità nella diffusione della notizia falsa. Diverso
era invece il caso di quelle false informazioni che venivano deliberatamente divulgate – quindi con
dolo – magari per ottenere vantaggi concorrenziali. Lo stesso Machiavelli, d’altronde, non lesinava
ammirazione verso quei principi – come ad esempio papa Alessandro VI – che dissimulavano le
apparenze, che affermavano una cosa e ne facevano un’altra, avendo il fine primario di «mantenere
lo Stato»: «Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che
non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto
integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E
gli uomini, in universali, iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a
sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’». Anche se in
realtà, secondo Guicciardini, questa strategia serviva a poco, in quanto «perché le opinione false
non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni, se in verità non sarete».
Nel 1506, vista la difficoltà in cui versavano i loro affari («a Damasco et per tuta la Soria» si
«fazevanno pochissime fazende, et questo perché non ne chapitava spettie dala Mecha»), i mercanti
arabi pensarono che se avessero diffuso la (falsa) notizia che le caravelle portoghesi, non avendo
trovato spezie a Cochin, erano tornate vuote dall’India, tutti – e in particolare i veneziani – si
sarebbero precipitati a comprarle da loro. Tuttavia tale manovra non funzionò, poiché i mercanti
della Serenissima erano ben al corrente sia della reale situazione che del tentativo attuato dagli
arabi.
D’altronde, un secolo prima, nel 1401, si pensava che proprio i veneziani avessero adottato
una tattica analoga. Si era infatti diffusa la notizia che Tamerlano avesse preso Damasco, ma dalla
filiale genovese di Francesco Datini si esprimevano dubbi sulla sua veridicità: «Ècci da Vinegia
lettera ne’ Ricci e dichono v’era nuove di Candia, per una nave partì a dì 23 di gennaio di là, chome
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v’era venuto una nave da Baruti, partì a dì 18 di dicembre; e contava Tanburlano avia arso
Domascho, tutto, salvo il castello. Non vi si dà, però, piena fede, perché i viniziani fano ciò possono
per far montare le loro spezie». Pochi giorni dopo, tuttavia, una volta ottenuta conferma dell’evento,
i soci del Datini ne valutavano le conseguenze economiche, ovvero l’aumento del prezzo delle
spezie: «Ècci nuove da Vinegia, là era nuove Domascho era suto arso da Tanburlano: il perché le
spezie sono qui ritocche».
Uno dei problemi, dunque, era quello di controllare l’autenticità di una notizia.
Evidentemente, se fonti diverse e indipendenti concordavano, essa era molto probabile. Ma non
sempre gli operatori potevano effettuare tali verifiche: emerge quindi la questione della fiducia
riposta nel corrispondente. Un fattore che ovviamente favoriva tale aspetto era dato dalla
dimestichezza e dalla vicinanza caratterizzanti i rapporti mittente/destinatario. La fiducia poteva
essere accresciuta dallo scambio di informazioni personali, la cui inclusione nelle lettere contribuì
senz’altro a cementare i legami affaristici ma anche sociali e a fornire garanzie sull’affidabilità
dell’interlocutore, minimizzando in questo modo i rischi. Nel mondo mercantile toscano del TreQuattrocento si può cogliere la percezione della comune origine come “garanzia” di affidabilità:
compatrioti erano insomma in grado di trasmettere «nuove cierte», contrariamente ad altri operatori,
come ad esempio i «pechoroni lombardi», i quali raccontavano «mille milioni di novelle e bugie».
Un’altra possibilità era quella di cercare informazioni, magari a titolo confidenziale,
riguardo all’affidabilità di compagnie con le quali si stava per intraprendere un’operazione
commerciale o cambiaria. E in effetti la reputazione contava e poteva avere anche altre
conseguenze: laddove tutte le informazioni circolano e il comportamento disonesto è sanzionato
“socialmente” qualora emerga una reputazione negativa, l’attore economico è stimolato ad agire
onestamente. Nel 1397, ad esempio, dalla compagnia datiniana di Valenza si comunicava alla
corrispondente maiorchina l’inaffidabilità della società Ambrogi-Franceschi di Bruges, un cui
manager, Tedaldo Ambrogi, si dedicava al gioco: «A questi di Deo darò poche fatiche per avanti, se
non frascholine per ritenerli co noi. Pocho mi piaciono loro fatti, poiché i’ vegio el Tedaldo guocha,
che i una notte potrebbe disfare loro e altri».
CONCLUSIONE
Già dopo la metà del Quattrocento vi fu un sostanziale aumento dei flussi informativi che fece
seguito all’istituzione di sedi diplomatiche stabili presso le principali corti italiane ed europee. Gli
ambasciatori non si limitavano a trasmettere le notizie apprese de visu ma inviavano anche notizie
provenienti magari da «lettere de’ merchadanti».
Sempre più, a partire dal tardo Medioevo e poi in età moderna, la scrittura mercantile si
intrecciò a quella diplomatica. Famoso per l’accuratezza delle notizie che diffondeva, tanto da
essere denominato «tromba della verità», fu Benedetto Dei, la cui formazione mercantile fu
certamente utile anche per il suo ruolo di informatore politico a beneficio di molte corti. Addirittura,
nel corso del tempo, si nota un’evoluzione che portò le sue lettere a evolversi «da epistolario
familiare e privato a sistema di informazione pubblica, ormai senza un preciso destinatario».
Ma, con l’arrivo della stampa, le cose sarebbero cambiate in modo ancora più eclatante. Se
fino al tardo Medioevo l’acquisizione delle informazioni richiedeva rapporti e comunicazioni dirette
e personali, dalla prima età moderna la diffusione delle notizie fu enormemente più ampia grazie ai
business newspapers, che caratterizzarono l’economia europea a partire da metà Cinquecento.
Secondo McCusker, si può ipotizzare anche il manifestarsi di un cambiamento di mentalità. E cioè
che nella prima fase i mercanti ritenevano di poter ottenere un vantaggio competitivo dalla
segretezza (anche se, come abbiamo mostrato, la reale dimensione di tale concetto non deve essere
sopravvalutata); successivamente, invece, arrivarono a valutare maggiori i vantaggi derivanti dalla
diffusione (e dalla vendita) dell’informazione. Vi fu forse una fase intermedia, nella quale le
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organizzazioni mercantili – o, meglio, i loro rappresentanti – si riunivano in città o in occasione
delle fiere per condividere le informazioni di base su prezzi, tassi di cambio, etc.
Con i notiziari a stampa l’informazione veniva quindi diffusa in forma anonima. Tuttavia, se
la scomparsa della segnalazione dell’autore fu un chiaro indizio di cambiamento, esso avvenne in
modo assai graduale. Alla lettera, spedita da un mittente preciso a un singolo destinatario, si
sostituiva ora l’avviso destinato a un pubblico non identificato, che pure poteva riportare anche
estratti di lettere private. Nella prima fase, a volte il compilatore si firmava; ma successivamente,
quando tale compito venne preso da veri e propri professionisti dell’informazione, si riteneva più
prudente celare il nome dell’autore.
Per Venezia, la crisi dei viaggi di Stato e l’ingresso sul mercato di Paesi concorrenti dettero
– come abbiamo già visto – una grande scossa alla prassi consolidata fatta di solidarietà ed
esperienza, determinando una crescente incertezza e la conseguente ricerca di maggiori
informazioni: tale passaggio è esemplificato anche dalla pubblicazione, nel 1503, della Tariffa di
pexi e mesure di Bartolomeo di Pasi, prodotta espressamente per la stampa e certamente diversa
dalle Pratiche di mercatura medievali.
La pratica di una diffusione di notizie secondo questi criteri cominciò ad Anversa, ma i
primordi sono forse da ricercare a Venezia, vero crocevia delle informazioni provenienti da Levante
e da Ponente. Si possono fare alcune ipotesi per cercare di spiegare questo cambiamento:
innanzitutto è presumibile che la comunità mercantile locale abbia valutato che tale diffusione di
notizie promuovesse il mercato di Anversa, in quanto pubblicizzava le merci che là venivano
vendute e quindi determinava l’afflusso di un numero sempre maggiore di compratori.
Secondariamente, la produzione di questi bollettini informativi era un’attività remunerativa in sé. In
terzo luogo essi determinavano una maggiore efficienza del sistema, da un lato attraverso la
riduzione rischi (grazie alla maggiore quantità di informazioni disponibili), dall’altro liberando i
corrispondenti dal gravoso compito di informare su dati che venivano ora acquisiti
indipendentemente.
Ciò nonostante, anche in questo periodo, se pure alcune informazioni (prezzi, tassi di
cambio, etc.) venivano diffuse a mezzo stampa, la corrispondenza privata continuò a giocare un
ruolo fondamentale per la trasmissione delle informazioni economiche. Tra l’altro, a partire da fine
Cinquecento, modelli di lettere commerciali iniziarono ad apparire in forma stampata. Una delle
ragioni di questo perdurante successo risiedeva senz’altro nel fatto che, affiancandosi
all’abbondanza di dati quantitativi permessa dai nuovi mezzi di comunicazione, lo scambio
epistolare rimaneva una fonte unica per la possibilità di valutare attitudini e affidabilità di
corrispondenti stanziati in piazze lontane: il contatto diretto era ancora fondamentale. E
l’informazione, penetrando i confini di comunità mercantili diverse, ebbe un ruolo decisivo nella
creazione di reti commerciali inter-culturali. Ma nonostante tutto, in una qualunque epoca, rimane
connaturata all’attività economica una percentuale di imprevedibilità che è impossibile ridurre: di
conseguenza non è infrequente trovare, nelle lettere dei mercanti medievali, espressioni come «che
a Dio piacia», sintomo di un fatalismo religioso che sapeva a volte di rassegnazione, nonostante si
fosse consapevoli dei vantaggi che derivavano dall’enorme sforzo di passare molte ore seduti allo
scrittoio.
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