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Lectio Divina
4
Geremia, profeta
Confessioni
a cura della Comunità
dei Padri Barnabiti
di Santa Maria
al Carrobiolo
Monza
www.carrobiolo.it
A modo di introduzione, ecco una ipotesi esegetica per chi desiderasse
approfondire ulteriormente il tema.
L'ipotesi cerca di mettere ordine nei capitoli 11-20 di Geremia (nei quali sono
contenute le confessioni di Geremia di cui assaggeremo qualche passo), dividendoli in
due parti: una prima dal capitolo 11 al capitolo 15 (a sua volta suddivisa); una seconda
dal capitolo 16 al capitolo 20 (a sua volta suddivisa).
Se accettiamo la divisione in due parti, ciascuna ternaria, appare che
il capitolo 16, 1-9 (il profeta segno solitario) è al centro di tutta la sezione e delle
confessioni (le prime due precedono; la terza, la quarta e la quinta seguono), per cui
queste inquadrano la figura di Geremia profeta solitario.
Non intendo approfondire tale ipotesi esegetica che, come tutte le ipotesi, ha le
sue probabilità e le sue difficoltà, ma mi preme sottolineare la parola del
Signore: «non sposarti, non avere né figli né figlie in questo luogo», perché è la
chiave di tutti i dieci capitoli e delle confessioni.
Mi servo di un grafico:
11-15
11
12-13
14-15
capp. 11-20
della sezione
dove 16,1-9è
al centro
16-20
16,19-21
17-18
19-20
delle confessioni
e ha come parole chiave:
il mistero della solitudine
Geremia: un uomo solo
1. In Geremia 25,3, il profeta soffre la solitudine durissima di chi non è ascoltato.
Abbiamo già considerato il testo, però lo rileggiamo dal nuovo punto di vista:
«Dall' anno decimoterzo di Giosia figlio di Amòn, re di Giuda, fino ad oggi sono
ventitré anni che mi è stata rivolta la parola del Signore e io ho parlato a voi
premurosamente e continuamente, ma voi non mi avete ascoltato».
Geremia non è un isolato, vive sempre in mezzo alla gente, parla, e tuttavia non è
capito e per questo sperimenta una dolorosa solitudine.
2. In Geremia 20,8b, leggiamo la solitudine di chi è deriso quasi fosse un illuso:
«Così la parola del Signore è diventata per me
motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno».
3. In Geremia 11, 19 appare un terzo tipo di solitudine, quello di chi è perseguitato:
«Ero come un agnello mansueto che viene portato al macello,
non sapevo che essi tramavano contro di me».
Ci sono giunte, ormai tempo addietro, le testimonianze dei Vescovi dell'Est europeo,
che hanno vissuto sotto il comunismo: uno ha trascorso vent'anni in prigione, un altro
si è messo a fare lo spazzacamino per nascondersi, un altro ancora ha pulito per molto
tempo i vetri dei negozi. Avrebbero voluto annunciare il vangelo, ma al massimo
dovevano farlo in grande segretezza perché la polizia li sorvegliava continuamente. E
un po' questa la solitudine sofferta da Geremia.
4. In Geremia 16,2 appare un' altra dolorosa solitudine: il profeta non ha nemmeno
una vita privata in cui rifugiarsi:
«Non prendere moglie, non avere figli né figlie».
È una forma di solitudine nuova, sconosciuta in Israele.
La privazione degli affetti familiari è però segno della solitudine del popolo: «Perché
dice il Signore riguardo ai figli e alle figlie che nascono in questo luogo e riguardo
alle madri che li partoriscono e ai padri che li generano in questo paese: Moriranno
di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti» (vv. 3-4). Geremia è simbolo
del popolo sofferente e solitario, vive nella sua carne il dramma del popolo e, prima di
curare la solitudine della gente con oracoli di consolazione, deve anzitutto provare la
sofferenza di tante vedove, di tanti giovani, di tanti padri, privati degli affetti più cari.
II suo celibato, pur non essendo per il Regno nel senso neotestamentario, è profetico;
Geremia riassume nella propria esistenza la povertà, il lutto di altri, senza avere
nessuno che lo conforti.
Quale messaggio viene a noi oggi dalla sua solitudine che, in particolare nelle grandi
metropoli, circonda chi in diverso modo prova a vivere il Vangelo? È una domanda
scomoda che interpella ogni discepolo del Signore che cerca risposte che diano senso
alla vita partendo da una forte relazione con Dio.
Cinque confessioni di Geremia
La Sacra Scrittura ci presenta delle pagine difficili e talora siamo tentati di lasciarle da
parte. Ma se il Signore le ha ispirate avrà avuto certamente un buon motivo e siamo
dunque invitati ad affrontarle.
Tra queste pagine ci sono alcuni brani delle «confessioni» di Geremia, cosiddette
perché il profeta parla di sé, presenta una sorta di autobiografia, fa intendere qualcosa
di quanto gli accade nell'esercizio del suo ministero profetico.
Il titolo «Una voce debole» allude all'insieme dei cinque testi che ho scelto; Geremia come abbiamo detto - parte dalla coscienza di aver udito una voce e di essere lui
stesso soltanto una voce. Non fa miracoli, non compie guarigioni, non risuscita i
morti, non ha alcuna potenza per punire coloro che non lo ascoltano, non ha minacce
da esprimere; non ha altro che la voce. È un uomo che parla e basta.
Le cinque confessioni su cui oggi ci fermiamo sono molte note. Purtroppo
presentano un certo disordine testuale. Non hanno cioè una collocazione ordinata,
sono come frammenti posti qua e là, e non si comprende se c'è una progressione
tra i vari passi. Inoltre, se li consideriamo nel loro interno, viene voglia di sistemarli
in un minimo di svolgimento logico; Geremia appare confuso nei suoi pensieri, passa
dallo sdegno alla fiducia per ritornare al lamento, alla quasi disperazione. E i brani
sono difficili anche per il contenuto: tutto appare negativo, inutile; uno psicologo
leggerebbe in queste pagine i tratti di una nevrosi depressiva.
Tuttavia, noi dobbiamo trarne degli insegnamenti precisi per il nostro cammino.
È certamente singolare e inatteso che un profeta - in cui c'è tutta la forza di Dio insista nel descriversi come una persona debole. Geremia è parola, la sua missione è
parola, però una parola debole.
Forse le sue «confessioni» ci attraggono e nello stesso tempo ci spaventano perché
anche noi ci sperimentiamo deboli e perché la Chiesa è debole, non ha potere
economico, non ha capacità di conquistare le masse. Soprattutto nelle grandi città
secolarizzate, i cristiani avvertono di essere soltanto una voce.
C'è di più: Geremia non riesce a dimostrare con eventi straordinari che la sua parola è
vera, e quindi vive una pura fedeltà a quanto il Signore gli fa pronunciare. Nelle
«confessioni» leggiamo la debolezza della voce e leggiamo come tale debolezza non
intacchi per nulla la fedeltà alla Parola.
L'agnello mansueto (Ger 11, 18-23)
«il Signore me lo ha manifestato e io l'ho saputo;
allora ho aperto i miei occhi sui loro intrighi.
Ero come un agnello mansueto che viene portato al macello,
non sapevo che essi tramavano contro di me dicendo:
"Abbattiamo l'albero nel suo rigoglio,
strappiamolo dalla terra dei viventi; il suo nome non sia più ricordato" .
Ora, Signore degli eserciti, giusto giudice, che scruti il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te ho affidato la mia causa.
Perciò dice il Signore riguardo agli uomini di Anatòt che attentano alla mia vita dicendo:
"Non profetare nel nome del Signore, se no morirai per mano nostra"; così dunque dice il
Signore degli eserciti: "Ecco, li punirò; i loro giovani moriranno di spada, i loro figli e le loro
figlie moriranno di fame. Non rimarrà di loro alcun superstite, perché manderò la sventura
contro gli uomini di Anatòt nell'anno del loro castigo"» (Ger 11, 18-23).
In questa prima confessione, Geremia si interpreta in una situazione di persecuzione,
si vede nell'immagine dell' agnello mansueto.
- li Signore stesso gli ha mostrato che sarebbe stato respinto, tradito:
«li Signore me lo ha manifestato e io l'ho saputo; allora ho aperto i miei occhi sui
loro intrighi» (v. 18).
Notiamo la sorpresa di un uomo semplice, ingenuo, che scopre dolorosamente di non
essere capito nemmeno dai suoi vicini, dai suoi amici, dalla gente della sua terra
(Anatòt); anzi scopre che stanno tramando per fargli del male.
Come mai? Gli esegeti hanno delle ipotesi. Probabilmente ad Anatòt, in particolare
nelle famiglie sacerdotali che erano state escluse dal servizio del tempio, si era
contrari alla centralità del tempio proposta dal re Giosìa; Geremia, invece, si era
impegnato per il tempio unico e a un tratto si accorge, con sgomento, da frasi
sussurrate, da gesti un po' strani, di essere malvoluto, di essere oggetto di trame
losche.
Anche noi facciamo l'esperienza di sorprese amare quando scopriamo che là dove
pensavamo di essere sostenuti, di aver trovato amicizia, siamo stati male interpretati, e
ne soffriamo.
- Nasce allora nel profeta la grande esclamazione: «Ero come un agnello mansueto
che viene portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me dicendo:
"Abbattiamo l'albero nel suo rigoglio, strappiamolo dalla terra dei viventi; il suo
nome non sia più ricordato"» (v. 19). Anzitutto sembra chiedersi: Ma che cosa ho
detto? non intendevo far male a nessuno! E poi riferisce le parole durissime
pronunciate contro di lui, parole che ci ricordano quelle con cui i farisei, dopo i primi
miracoli di Gesù, decidono di togliergli la vita.
Attraverso questa confessione, noi contempliamo Gesù perseguitato, che fin dall'inizio
incontra l'ostilità di coloro a cui sta facendo del bene.
Nella volontà di abbattere il profeta nel suo rigoglio c'è indubbiamente dell'invidia, e
nella volontà di farlo morire c'è addirittura dell'odio. La gente si vergognava di
Geremia e intendeva eliminarlo affinché il paese non venisse più infangato dal suo
nome.
- A questo punto nasce la preghiera: «Ora, Signore degli eserciti giusto giudice, che
scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te ho
affidato la mia causa» (v. 20).
Mentre la stupenda esclamazione di affidamento al Signore è comprensibile, perché
esprime amore, fedeltà, certezza in Colui che ha inviato il profeta, ci imbarazza il
gusto di vendetta, che cogliamo come un' altra debolezza di Geremia. È però
necessario interpretare le sue parole di violenza leggendole nello spirito dei salmisti
che mettono la loro causa nelle mani del Signore lasciando a lui la vendetta perché
sanno che solo Dio è giusto.
- Infatti i vv. 21-23 esprimono la giustizia di Colui che difende il suo profeta. Non è
quindi Geremia a vendicarsi.
Della prima confessione sottolineo, oltre la sorpresa di chi non si sente sostenuto dagli
amici, la stupenda auto-interpretazione dell' agnello mansueto, che ci ricorda
immediatamente la pagina del cantico del Servo di Jhwh nel capitolo 53 di Isaia:
«Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (v. 7).
Non sappiamo se Geremia abbia voluto, con questa immagine, riferirsi al profeta
Isaia, e neppure siamo certi che i canti del Servo di Jhwh fossero già stati scritti.
Probabilmente, è l'autore di quei canti che si è ispirato a Geremia facendo una sintesi
teologica della sua esperienza.
In ogni caso, siamo di fronte a due brani fondamentali per il Nuovo Testamento; la
comunità primitiva, nello sforzo di comprendere il mistero dell'inermità e della
debolezza di Gesù, ha trovato una grande luce nell'immagine dell' agnello mansueto
riconoscendo in essa la figura dell' agnello di Dio immolato per i nostri peccati.
Il torrente infido (Ger 15,10-21)
Dopo il brano del capitolo 11, che nella sua grande intuizione teologica ci ha
permesso di entrare un poco nel mistero dell'umiltà di Gesù e del suo sacrificio,
vediamo una seconda confessione di Geremia.
«Me infelice, madre mia, che mi hai partorito
oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese!
Non ho preso prestiti, non ho prestato a nessuno,
eppure tutti mi maledicono.
Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio,
non mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico,
nel tempo della sventura e nel tempo dell' angoscia?
Potrà forse il ferro spezzare
il ferro del settentrione e il bronzo?
"I tuoi averi e i tuoi tesori
li abbandonerò al saccheggio,
non come pagamento, per tutti i peccati
che hai commessi in tutti i territori.
Ti renderò schiavo dei tuoi nemici
in una terra che non conosci:
perché si è acceso il fuoco della mia ira,
che arderà contro di voi".
"Tu lo sai, Signore, ricordati di me e aiutami,
vèndicati per me dei miei persecutori.
Nella tua clemenza non lasciarmi perire,
sappi che io sopporto insulti per te.
Quando le tue parole mi vennero incontro,
le divorai con avidità;
la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore,
perché io portavo il tuo nome,
Signore, Dio degli eserciti.
Non mi sono seduto per divertirmi
nelle brigate dei buontemponi,
ma spinto dalla tua mano sedevo solitario,
poiché mi avevi riempito di sdegno.
Perché il mio dolore è senza fine
e la mia piaga incurabile non vuol guarire?
Tu sei diventato per me un torrente infido,
dalle acque incostanti.
Ha risposto allora il Signore:
"Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò
e starai alla mia presenza;
se saprai distinguere ciò che è prezioso
da ciò che è vile,
sarai come la mia bocca.
Essi torneranno a te,
mentre tu non dovrai tornare a loro,
ed io, per questo popolo, ti renderò
come un muro durissimo di bronzo;
combatteranno contro di te
ma non potranno prevalere,
perché io sarò con te
per salvarti e per liberarti. Oracolo del Signore.
Ti libererò dalle mani dei malvagi
e ti riscatterò dalle mani dei violenti"» (Ger 15,10-21).
«Torrente infido» è un'espressione molto forte, che giunge quasi a insultare il Signore,
a lamentarsi direttamente di lui. È un momento della vita di Geremia, per il quale si
parla addirittura di crisi di vocazione. A mio giudizio, l'espressione «torrente infido»
dice bene l'esperienza terribile del profeta che si sente ingannato dal suo Signore e
giunge a dubitare di essere stato abbandonato. Sembra di udire il grido di Gesù sulla
croce: Perché, mio Dio, mi hai abbandonato?
- Il lungo brano comincia con un lamento, che chiama in causa la madre: «Me
infelice, madre mia, che mi hai partorito». In queste parole c'è tutto il dolore di chi si
sente perdutamente solo.
- Ed ecco subito la difesa, la testimonianza di Geremia che ha la coscienza di aver
obbedito al Signore, anche se ora pensa di essere maledetto: «Forse, Signore, non ti ho
servito del mio meglio ... ?». Sono stato sempre aperto verso gli altri, non ho fatto
nulla per avere dei nemici: perché questa persecuzione si è scatenata contro di me?
- Da qui la domanda accorata:
«Tu lo sai, Signore,
ricordati di me e aiutami,
vendicati per me dei miei persecutori.
Nella tua clemenza non lasciarmi perire, sappi che io sopporto insulti per te» (v. 15).
In queste parole accorate gli uomini del Nuovo Testamento leggeranno e
comprenderanno le loro persecuzioni.
- E, al v. 16, c'è uno splendido ricordo del passato.
Il profeta ammette, forse per l'unica volta, che le parole di Dio messe sulla sua bocca
non sono state solo motivo di sofferenza, ma gli hanno procurato anche momenti di
grande gioia:
«Quando le tue parole mi vennero incontro,
le divorai con avidità;
la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore,
perché io portavo il tuo nome,
Signore, Dio degli eserciti».
In un tempo felice, Geremia ha amato e divorato la Parola che gli è penetrata nel
cuore. Viene alla mente il racconto della cintura di lino, dove Dio ha detto al popolo:
tu sei il mio nome.
- «Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate di buontemponi,
ma spinto dalla tua mano sedevo solitario» (v. 17).
Ricordati, Signore, che sono stato a tal punto fedele da accettare di starmene in
disparte, da non concedermi nemmeno un momento per me, da agire sempre secondo
la tua Parola.
- Al v. 18b, l'espressione più dura:
«Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti»,
non sei un corso d'acqua tranquillo, rassicurante, che continua a scorrere. Siamo al
culmine della tentazione: Signore, ora so che mi hai abbandonato, mi hai lasciato
senza acqua, mentre io contavo su di te e tutto facevo davanti a te.
Non possiamo escludere che Geremia abbia vissuto anni in cui è rimasto muto,
incapace di profetare e di interpretare ciò che avveniva nel popolo. E atroce la
sofferenza di chi, dopo tanto coraggio nell' annuncio, non riesce più a pronunciare
parole, resta attanagliato dall' aridità.
- Ed ecco che, proprio quando è giunto quasi alla disperazione, gli viene
riconfermata la vocazione: «Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò ... » (v. 19). Un
versetto difficile da tradurre, ma che indica bene l'interconnessione tra l'opera
dell'uomo e l'opera di Dio, l'alleanza intesa come collaborazione: se tu fai la tua parte,
io farò la mia, se tu ritorni a me, io ritorno a te. Geremia sa che non può ritornare a
Dio se Dio stesso non lo chiama, e il Signore glielo ricorda dicendogli: guarda che
siamo una cosa sola, che la nostra azione è una.
«Starai alla mia presenza;
se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile,
sarai come la mia bocca»,
riprenderai a parlare di me se purificherai, attraverso questa sofferenza, il tuo
desiderio di parlare senza prima ascoltarmi. Dobbiamo supporre che Geremia,
nell'aridità e nell' amarezza della prova, abbia un poco abbandonato la preghiera,
l'ascolto della Parola. Poi il Signore riprende l'immagine della primitiva vocazione:
«ti renderò come un muro durissimo di bronzo» (v. 20).
Il profeta deve avere assoluta fiducia, qualunque cosa gli succeda deve credere nella
promessa.
Se nella prima confessione si parlava di una persecuzione esteriore, in questo capitolo
15 c'è un' esperienza di sofferenza interiore più acuta, intima, perché viene messa in
causa la fedeltà di Dio.
Perché a me? (Ger 17) 14-18)
La terza confessione si trova al capitolo 17, 14-18, e potremmo intitolarla: Perché a
me? Signore, non darmi questa sorte!
Si tratta infatti di una preghiera accorata che il profeta perseguitato esprime contro i
suoi persecutori:
«Guariscimi, Signore, e io sarò guarito,
salvami e io sarò salvato,
poiché tu sei il mio vanto.
Ecco, essi mi dicono:
"Dov'è la parola del Signore? si compia finalmente!".
Io non ho insistito presso di te nella sventura
né ho desiderato il giorno funesto, tu lo sai.
Ciò che è uscito dalla mia bocca è innanzi a te.
Non essere per me causa di spavento,
tu, mio solo rifugio nel giorno della sventura.
Siano confusi i miei avversari, ma non io,
si spaventino essi, ma non io.
Manda contro di loro il giorno della sventura
distruggili, distruggili per sempre».
Sottolineo solo due parole.
- La prima è quella dei persecutori che dicono:
«Dov'è la parola del Signore?
Si compia finalmente!» (v. 15).
Vi leggiamo la tentazione a cui è sottoposto Gesù sulla croce: Se è Figlio di Dio,
scenda dalla croce, e gli crederemo! Se quanto ci ha detto è vero, perché non avviene
il miracolo? Geremia sente su di sé l’irrisione della gente: tu vai parlando
continuamente della distruzione di Gerusalemme, di castighi, ma come mai non si
verificano? li vogliamo vedere!
- La seconda è il lamento del profeta per l'incredulità, lamento che si esprime in
modo commovente e anche un po' ingenuo: «lo non ho insistito presso di te nella
sventura», non sono io che volevo pronunciare queste parole, «né ho desiderato il
giorno funesto, tu lo sai ... » (v. 16) e quindi ti supplico: «non essere per me causa di
spavento ... distruggi i miei avversari, distruggili per sempre» (v. 18). Torna il
desiderio di vendetta che (lo abbiamo già sottolineato), va interpretato come
abbandono di Geremia nelle mani della giustizia di Dio.
Una sofferenza molto grande (Ger 18,18-23)
Consideriamo una quarta confessione: «Ora essi dissero: "Venite e tramiamo insidie
contro Geremia, perché la legge non verrà meno ai sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né
l'oracolo ai profeti. Venite, colpiamolo per la sua lingua e non badiamo a tutte le sue parole".
Prestami ascolto, Signore,
e odi la voce dei miei avversari.
Si rende forse male per bene?
Poiché essi hanno scavato una fossa alla mia vita.
Ricordati quando mi presentavo a te,
per parlare in loro favore,
per stornare da loro la tua ira.
Abbandona perciò i loro figli alla fame,
gettali in potere della spada;
le loro donne restino
senza figli e vedove,
i loro uomini siano colpiti dalla morte
e i loro giovani uccisi dalla spada in battaglia.
Si odano grida dalle loro case,
quando improvvisa tu farai piombare su di loro
una torma di briganti,
poiché hanno scavato una fossa per catturarmi
e hanno teso lacci ai miei piedi.
Ma tu conosci, Signore,
ogni loro progetto di morte contro di me;
non lasciare impunita la loro iniquità
e non cancellare il loro peccato dalla tua presenza.
Inciampino alla tua presenza;
al momento del tuo sdegno agisci contro di essi!».
Mi fermo ai primi due versetti, che contengono l' essenziale di questa confessione:
«Venite e tramiamo insidie contro Geremia, poiché la legge non verrà meno ai
sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né l'oracolo ai profeti ... ».
Qual è il motivo della sofferenza di Geremia in questo brano? Non solo quello di
non essere considerato dai suoi avversari un sacerdote e un dotto (che egli peraltro
non vuol essere), ma nemmeno un profeta. Dicono infatti: se noi lo eliminiamo, non
eliminiamo certo un sacerdote o un dotto o un profeta; egli non ha nessuna di queste
funzioni e non dobbiamo dunque tener conto di ciò che va dicendo. Geremia soffre
moltissimo perché vorrebbe che si tenesse conto della parola di Dio. È la medesima
sofferenza di un predicatore, di un pastore (sacerdote o Vescovo) che si accorge di
non essere preso sul serio; la gente non dà peso alle sue parole, ascolta, ma lascia
perdere, lascia cadere.
Il profeta, che vive solo per la Parola, che si identifica con la Parola, avverte tutta la
drammaticità dell' opposizione dei nemici.
«Mi hai sedotto Signore» (Ger 20, 7-18)
Il testo certamente più crudo, che consideriamo per ultimo, è tratto dal capitolo 20:
«Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno;
ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare: "Violenza! Oppressione!".
Così la parola del Signore è diventata per me
motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno.
Mi dicevo: "Non penserò più a lui,
non parlerò più in suo nome!".
Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.
Sentivo le insinuazioni di molti:
"Terrore all'intorno! Denunciatelo e lo denunceremo".
Tutti i miei amici spiavano la mia caduta:
"Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta".
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori
cadranno e non potranno prevalere;
saranno molto confusi perché non riusciranno,
la loro vergogna sarà eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto
e scruti il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di essi;
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore, lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Maledetto il giorno in cui nacqui;
il giorno in cui mia madre mi diede alla luce
non sia mai benedetto.
Maledetto l'uomo che portò la notizia
a mio padre dicendo:
"Ti è nato un figlio maschio", colmandolo di gioia.
Quell'uomo sia come le città
che il Signore ha demolito senza compassione.
Ascolti grida al mattino
e rumori di guerra a mezzogiorno,
perché non mi fece morire nel grembo materno;
mia madre sarebbe stata la mia tomba
e il suo grembo gravido per sempre.
Perché mai sono uscito dal seno materno
per vedere tormenti e dolore
e per finire i miei giorni nella vergogna?» (vv. 7-18).
Come ho accennato all'inizio della meditazione, non è possibile sapere se questa
confessione sia davvero l'ultima in ordine di tempo; certamente siamo davanti a un
brano che spaventa ed attrae insieme perché esprime lo sgomento di chi ha capito che
il Signore ha anche una mano molto dura e però non si può non avere la massima
fiducia in lui.
- «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza e hai prevalso» (v. 7).
Dio si è comportato con Geremia come un uomo che inganna una donna attraendola
per poi impadronirsi di lei e possederla: mi hai sedotto, mi hai fatto forza, hai prevalso
su di me, e ora io ti accuso. Non volevo profetare e tu mi hai tratto in inganno
facendomi credere una cosa per 1'altra; mi hai costretto a seguirti senza dirmi che cosa
mi aspettava, io mi sono fidato di te e tu mi hai messo in una difficoltà estrema.
Perché, Signore, che cosa ti ho fatto per essere trattato così male? mi ero fidato della
tua parola, della tua promessa, ma non avrei mai immaginato di trovarmi senza una
via d'uscita, senza scampo!
- Le conseguenze di questo inganno sono drammatiche:
«Diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare: "Violenza! Oppressione!"
... Mi dicevo: "Non penserò più a lui,
non parlerò più in suo nome"»,
mi sono pentito di seguirlo, non intendo più dargli retta, non ce la faccio più.
Dobbiamo tuttavia osservare che il lamento è espresso in preghiera, quindi con spirito
di fede, come parlava Giobbe o come si legge in certi salmi. Noi forse non avremmo il
coraggio di ripetere lo sfogo di Geremia, e anzi ci stupiamo che la Bibbia l'abbia
riportato, dal momento che sembra quasi una bestemmia: non ti seguirò più, ho deciso
di dimenticarti. Se però riflettiamo attentamente sul testo, ci accorgiamo che sono
parole di amore, di un amore appassionato e irritato proprio perché il profeta non
riesce a dimenticare Colui che ama. Infatti, continua così:
«Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (vv. 7 b-8).
Stupenda questa massima espressione della forza della Parola in Geremia.
- I vv. 11-13 avviano apparentemente a una soluzione del conflitto:
«Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso ...
Cantate inni al Signore,
lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori».
È un altro caso in cui la composizione del brano lascia un po' a desiderare, dal
momento che al versetto successivo ritorna il dramma in toni ancora più accesi.
- «Maledetto il giorno in cui nacqui;
il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto.
Maledetto l'uomo che portò la notizia a mio padre dicendo:
"Ti è nato un figlio maschio"» (vv. 14-15).
E, ancora, al v. 18:
«Perché mai sono uscito dal seno materno, per vedere tormenti e dolore
e per finire i miei giorni nella vergogna?».
La lamentazione si chiude tragicamente, e per questo gli esegeti vorrebbero mutare
l'ordine del testo mettendo al posto del v. 18 i vv. 11-13, così da finire con il canto e la
lode. Noi però siamo tenuti a conservare l'ordine tramandatoci dalla Sacra Scrittura e
dobbiamo perciò interrogarci.
La Bibbia, infatti, non è soltanto nutrimento piacevole, ma vuole inquietarci,
scuoterci, spingerci a lottare con le pagine, per purificarci. TI litigio con la Parola
tocca il nostro intimo e ci invita continuamente a ripensare il mistero di Dio e ad
andare più a fondo, al di là della banalità religiosa di cui talora preferiamo
accontentarci.