Genius Loci Genius Aedificii_CV

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ISSN 2025-7982
Genius Loci e Genius Aedificii.
Ovvero sulla comprensione reciproca
Chiara Visentin
Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura
Dipartimento di Ingegneria Civile, dell’Ambiente, del Territorio e Architettura
ABSTRACT: Il breve dialogo immaginario che segue è un estratto di un testo più ampio di prossima pubblicazione. Un irreale
incontro tra due ideali divinità, il genio del Luogo e il genio dell’Architettura, recuperando l’antico strumento del dialogo,
fondamentale per lo scambio delle idee e per la loro verifica. Tale forma di comunicazione, da sempre strumento di comprensione
reciproca, ha antecedenti illustri, dallo stile socratico dei dialoghi platonici, a Heidegger, a Gadamer, fino alla prosa di Eupalinos di Paul
Valery. Chiedo loro venia per essermene appropriata senza poter assurgere alla loro altezza, pensando però di averne condiviso lo
stimolante piacere di questa forma di scrittura delle idee.
TESTO
L’esperienza di verità si dà solo nel dialogo
In quella dialettica di domanda e risposta
che alimenta il movimento circolare della comprensione
Hans Georg Gadamer
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GENIUS ÆDIFICII Guarda! Ma cosa stanno rimirando con tale entusiasmo quelle persone? La
bellezza delle tue colline illuminate dal sole estivo o il gioco materico dei pieni e vuoti nel
lento incedere della mia scalinata di marmo?
GENIUS LOCI Entrambe le cose, mio diletto. Insieme. Ma non essere troppo ingenuo.
GÆ Non capisco. Perché mai?
GL Sono turisti. Passeggeri delle cose del mondo, accanto alla bellezza turistica subentra per
loro, quale scopo del viaggio, anche il prestigio sociale di essere giunti fino a noi, “il nome
della meta del viaggio è appunto come la marca di un profumo”. E ancora più triste quando di
noi si vorranno portare a casa un nostro feticcio: il souvenir, quasi volessero far continuare la
vita dell’esperienza qui fatta.
GÆ Sei severo. Non tutti sono così. Pensa al grande rispetto che ha sempre avuto per entrambi
un grande viaggiatore come Le Corbusier.
GL Viaggiatore, hai detto bene. Non turista.
GÆ Egli diceva sempre più spesso come le sue costruzioni parlassero attraverso il luogo e del
luogo su cui sorgevano. Affermando che l’architettura è “un’eloquente” portavoce del luogo.
“Il luogo è il nutrimento offerto dagli occhi ai nostri sensi, alla nostra intelligenza, al nostro
cuore. Il luogo è alla base della composizione architettonica. L’ho scoperto nel 1911 quando
zaino in spalla ho compiuto un lungo viaggio da Praga fino alla Grecia e all’Asia Minore. Ho
scoperto l’architettura in rapporto al suo luogo naturale. E non solo, l’architettura esprimeva il suo
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luogo. Era l’eloquente linguaggio degli uomini che avevano raggiunto la padronanza dei
luoghi”.
GL Un uomo saggio, non c’è che dire. Ma non sono tutti così. Malauguratamente fa parte di
una illuminata minoranza...
Spesso infatti l’architettura ha portato e porta avanti il principio di Jack Kerouac, lo sai no chi
è? l’Holy Jack dei beatniks, che scriveva colpisci più a fondo possibile! Avete fatto vostra questa
sentenza, innocua in vero contro il diretto bersaglio a cui Holy Jack la indirizzava (la
letteratura) bensì mortale verso la Natura. Poi, per giustificarvi, mi avete raccontato la storia
della modernità “sperimentale”. Il danno ormai era compiuto. Come si può pensare di
precorrere il corso della storia dell’uomo e del suo contesto? L’en avant della modernità spinta
vorrebbe realizzare il futuro nel presente. Ma come è mai possibile? Fate tramandare il futuro
dalla poesia: essa ricorda già ciò che non è stato ancora realizzato.
GÆ È l’architettura però che ha intrecciato con la poesia e la letteratura la memoria di quei
luoghi eccezionali costruiti dall’uomo.
GL Non solamente, non puoi smentirmi. Natura e poesia: è un tema su cui i poeti hanno da
tempi immemorabili cercato inesauribili risposte alle radici emotive del loro vissuto.
GÆ Hai ben ragione, mio caro. Ma tra mille e più ti racconterò ora di un poeta che devi
conoscere per la sua dolcezza nel parlare di me con una tale grazia che solo chi non ha cuore
potrebbe fraintendere. È Diego Valeri e devo citarti almeno in parti sciolte l’invito della sua
Guida sentimentale di Venezia. Credimi ti stupirà ancor più di Calvino, di Brodskij, di Pound, di
Matvejevic.
GL Sono curioso. Racconta dunque.
Fig. 1 contesto e architettura: Venezia
GÆ Quei nostri santi padri che, mille e più anni fa, posero mano alla costruzione di questa macchina
straordinaria dovevano pur avere, insieme con una enorme provvista di testarda volontà, un grano di
generosa pazzia. Pensate: non si trattava soltanto di trasformare in abitabile contrada un pantano vago,
tagliuzzato e slabbrato per ogni verso da errabondi canali, ma di piantarvi sopra tante case e tante
chiese, quante bastassero ai bisogni materiali e spirituali di tutto un popolo chiamato a raccolta dalle
rive del mare e dalle sparse isole della laguna: di fare, insomma, di una desolata palude una vera e
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propria città. Alle antiche città abbandonate non ci pensavano più: erano ormai veneziani, già prima
che Venezia nascesse. Ed eccoli all’opera, palafitticoli in grande e novissimo stile. La città si delinea, si
forma, cresce, con le sue calli, i suoi campi, le sue fondamenta, i suoi ponti, il suo palazzo dogale, il suo
San Marco, la sua piazza. Appare Venezia in acqua sanza mura…
Ora a vederla tal qual s’è fatta in dieci secoli di storia e civiltà sua non v’è chi non resti di stupor
compiuto. Non è questa la città dove, come in una fantasia di Leonardo, si cammina sulle acque? I canali
entrano e girano dappertutto, mobili strade che montano e calano secondo che il mare solleva e abbassa il
suo petto; davanti ad ogni porta di casa è legata la barca “come un animale domestico”, cavalluccio
inquieto o paziente somaro. Dovunque vai, se abbassi gli occhi, vedi una città rovesciata dentro un cielo
più lucido del vero; se li alzi, vedi bagliori e scintillii trascorrere sulle facce dei palazzi, che non son più
di marmo e mattone, ma una materia magica simile a quella onde si formano i sogni e le pitture. Tutto è
pittura, pittorico sogno in questo fisico e metafisico paese; anche la più solida e massiccia architettura,
anche la tua propria persona di carne e d’ossa.
GL Meravigliosa prosa! Ma non hai inteso che parlava mirabilmente di entrambi? Della tua
Architettura come della mia Natura? La grande cultura letteraria capisce sempre, l’uomo basta
che rifletta e agirà nel giusto. Margherite Yourcenar e una vostra contemporanea architetto
iraniana, sono, in fondo, della stessa specie. Sono perciò ottimista: se la prima scrive:
“Le radici affondate nel suolo,
i rami che proteggono i giochi degli scoiattoli,
i rivi e il cinguettio degli uccelli;
l’ombra per gli animali e gli uomini; il capo in pieno cielo.
Conosci un modo di esistere più saggio e foriero di buone azioni?”,
la seconda, con un po’ di saggezza, potrebbe dimenticare di essere una novella Dinocrate. E
fare ritornare i suoi edifici in scala con il contesto.
GÆ È una polemica ambientalista la tua.
GL Ti sbagli. È comprensione.
GÆ Gli edifici servono all’uomo, se diventano essi stessi il paesaggio da abitare.
GL Sei nel giusto. Gli edifici devono ascoltare il paesaggio, innanzi tutto. Non intendo con
questo pervenire a vernacolarità rurale o una mediocre “piccolezza”. Io parlo di
corrispondenze. Di ascolto. Il Partenone, i templi della Magna Grecia, mi hanno ascoltato.
Sebbene enormi! Anzi hanno, per così dire, posto le loro basi in armonia con il sottoscritto. La
loro deità si è rivelata dal mio spirito. Oggi difficilmente sono ascoltato. C’è una eterna lotta.
Arroganza.
GÆ Quale allora deve essere il nostro rapporto? È da tutto il Novecento, e ancor prima, che lo
sto indagando.
GL Lo so bene. È da sempre che il grado di identificazione tra noi è inseguito. Tra la Natura e
l’Architettura e, ancor prima, tra la Natura e l’Uomo. Chi era dei due, te lo ricordi?
Winckelmann o Schelling che metteva in forte analogia il corpo umano e il paesaggio?
GÆ Entrambi.
GL Ascoltami. La costruzione è la conseguenza logica del luogo. Quasi istintiva, primordiale.
L’Abbè Laugier l’aveva ben capito. Fattelo tornare alla memoria. Più recentemente anche
Giuseppe Pagano lo ha rammentato ai suoi contemporanei: “l’immenso dizionario della logica
costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche, è spiegabile con
evidenti legami col suolo, con il clima, con l’economia, con la tecnica”. Il contesto è un
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deposito inesauribile di segni fisici, dunque, ma anche di valori culturali e sociali. Una lunga
durata che ne ha sedimentato le tracce. Il supporto-suolo (che sono io) e l’artificio (che sei tu)
non hanno fatto altro che instaurare nella storia interessanti sinergie antropogeografiche. Il
paesaggio contiene e manifesta la cultura dell’abitare. Molto parte da me stesso. Capiscimi.
GÆ Ahimè! Ho capito. Tu vuoi un’architettura senza architetti.
GL Non proprio, caro mio. Ma questa tua osservazione ha insita la risposta. A tuo favore,
credimi. Legare l’architettura ai luoghi può dare grandi soddisfazioni. Anche a te. Alcune
“architetture senza architetti”, vernacolari, popolari, anonime, spontanee, che si possono
chiamare anche “primitive”, sono in realtà decisamente audaci, hanno anticipato spesso quella
che voi chiamate tecnologia. Non hanno cercato di sottomettermi, accettando di buon grado le
stravaganze del mio clima e le sfide con i miei molteplici suoli. Lo sai bene, non lo dico solo io.
Bernard Rudofsky l’aveva confermato: “l’architettura vernacolare non segue i cicli della moda.
Essa, in realtà, è quasi immutabile, non perfettibile, poiché risponde allo scopo in modo eccellente”. Ed ecco un esempio pratico. Basta esplorare il fiume Po, le case galleggianti nelle
lanche del fiume o i lunghi ponti di barche che collegavano le due sponde. È interessante
notare il fatto che si trattava di manufatti per così dire ingegneristici, nati da precise esigenze
funzionali, perfettamente calibrati alla necessità che via via si presentava agli utilizzatori.
Tutto sviluppato senza architetti e in spregio a qualsiasi normativa di carattere urbanistico.
…
Ed ancora. Mi voglio spiegare ancor meglio. La trasformazione del paesaggio è ovviamente
opera dell’uomo. Martin Heidegger parlava che il “luogo” dell’abitare non è altro che ove si
compone la “quadratura” che definisce l’essere: stare sulla terra, sotto il cielo, davanti ai
divini, con i mortali. Ma rifletti, caro amico, in questa quadratura nessuno sta al centro.
Nessuno. L’uomo in primis, che si sentirà dasein, letteralmente “in mezzo alle cose” (dasein,
esser-ci). Cadendo in questo modo ogni soggettività forte, è possibile proporre una dialettica
reale di integrazione. In questo, nel caso specifico, intendo l’espressione architettura senza
architetti. Che io specificherei meglio architettura senza architetti protagonisti. Ecco. Con questo
sono convinto che tu mi abbia capito.
GÆ È un problema di ambientamento, pertanto.
GL Anche. E di identificazione. Culturale.
GÆ Comprendo e non comprendo. Tu vorresti, in conclusione, che io persista nelle culture
regionaliste, allora. Ma può diventare davvero imprudente. Rivalutando l’architettura
popolare potremmo incrociare una via di non ritorno verso repertori stilistici del passato. Se il
mio problema è l’inserirmi in un contesto, naturale o urbano che sia, cosa ordunque devo fare?
Ricostruzione fedele (seguendo quale fede poi?!) alla com’ero e dov’ero per intenderci, o
affrancamento? Non voglio essere retorico.
GL Non è proprio così. Ma i tuoi dubbi sono leciti. E quando c’è il dubbio significa che si è in
un momento di riflessione superiore che spesso porta a una intuizione altrettanto elevata. Il
vostro storico Siegfried Giedion, se non ricordo male, diceva che l’architettura deve mantenere
certe intime connessioni con la tradizione del luogo e con l’ambiente in cui sorge. Già questa
potrebbe essere una risposta. Per non cadere in fraintendimenti bisogna affidarci alla memoria
e ai suoi procedimenti del ricordo. Ad esempio l’analogia e la metafora. E ti dirò di più: alla
poesia. Essa ti aiuta a non dimenticare il giusto. Conosci le ultime parole della poesia di
Giuseppe Ungaretti, In memoria?
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“E forse io solo
So ancora
Che visse”.
Affidarsi alla memoria dunque e alla conoscenza. È la reminescenza delle storie del luogo, e di
ciò che è già stato costruito, che diventa il necessario supporto e strumento al fare. Studio
critico, impegno di verifica. Ma quali sono allora i valori paesaggistici naturali a cui fare
riferimento e ricordare? Si è chiesto recentemente Bernard Lassus. Il più sovente sono
circoscritti a immagini fisse: cartoline, quadri, fotografia e infine film. Questi valori fissi sono
legati alla memoria. Sono luoghi di memoria. Ma la realtà dei contesti è anche la loro
evoluzione, la loro trasformazione. E perciò diventa più complicato di quanto credi.
GÆ Ebbene, così mi dici che si può essere critici con i luoghi dove edificare, con il contesto che
mi trovo di fronte?
GL Certo. Devi. E ti dirò di più, riferendomi alla nostra amata Italia: la vera, tradizionale,
originaria architettura del Bel Paese è chiara, logica, lineare, nell’etica e nelle fattezze molto
vicina al gusto contemporaneo. Quindi puoi usare metafore attuali per leggere la storia del
luogo. Ma anche l’architettura che sarà lì eretta dovrà tornare anch’essa a essere sana, onesta e
funzionale. Ciò si ottiene solo con la conoscenza. Interrogandosi sui contenuti del proprio
sapere. Non è libero arbitrio. O meglio, il libero arbitrio criticamente deve nascere proprio
dalla consapevolezza. Che porta sempre alla sintesi. Quanti ne hanno già parlato! Nel
Novecento Ernesto Nathan Rogers, Christian Norberg-Schulz e Alvaro Siza tra questi...
GÆ Sicché la complessità è bandita? Continua…
GL Ascolta. Dovresti tendere a chiarezza e onestà. In primo luogo. È una necessità etica,
morale. E un fondamento logico dell’architettura. Dell’identità mediterranea. Sempre
gradevole connubio tra natura e storia. Che è bellezza. Chi ha detto “l’abolizione della bellezza
è la fine dell’intelligibilità del mondo”?
GÆ Se non confondo era uno svizzero esoterico, amico di Guénon… Ma dimmi allora, e tutti i
monumenti che mi hanno reso mito? Le basiliche? I palazzi? I fori? Architetture complesse…
GL L’estetica del Rinascimento ad esempio a mia memoria era legata al luogo, o sto ricordando
scorrettamente? E ancor prima, la triade vitruviana tendeva a una concinnitas opposta alla
complessità. Armonia. Lo studio articolato di un edificio mi sembra diverso dalla complessità
architettonica. Non credi?
GÆ Non riuscirò mai, dunque, a farti accettare le nostre grandi imprese, come le innovative
infrastrutture con cui sto segnando il tuo territorio?
GL Ti rispondo con una domanda. Ritieni che la maggior parte di esse siano così strettamente
necessarie al luogo dove sorgono?
GÆ Ebbene no.
GL Ed allora un’altro quesito. Ritieni che il gigantismo che spesso contraddistingue tali opere
sia stato considerato per entrare in armonia con il luogo o pensi che, in verità, sia spesso più
volontà di una sfida con il territorio?
GÆ La seconda…
GL Ecco. Ti sei risposto da solo. Ma voglio toglierti ogni dubbio facendo affiorare dalla tua
memoria tre immagini distinte: il ponte di pietra sulla Drina così magistralmente raccontato da
Ivo Andrić, gli acquedotti romani che costellano il paesaggio d’Europa e i ponti galleggianti
realizzati con barche sul Po. Sono anch’esse infrastrutture (ed estese, per altro!), ma
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necessariamente in scala con i bisogni che le hanno sottese. Quindi, per così dire, seppur
grandi, ritornano in scala con il paesaggio.
GÆ Confesso che hai ragione. Hai ricordato il ponte serbo-bosniaco di Visegrad: che bellezza!
È una delle poche volte che l’uomo ha scritto un romanzo dove il protagonista è l’architettura…. Questo non sai quanto sia importante, per rendere merito al nostro valore. Forse anche
Hugo lo ha compiuto, forse anche Marguerite lo ha fatto: anche lì è l’architettura realizzata a
Tivoli a essere la protagonista, più dell’imperatore al quale è intitolata l’opera.
GL Mio caro, stai parlando di sacri luoghi… dove il paesaggio e le architetture si sono
incontrati con grazia. Una biunivoca conseguenza ragionevole di avvicinamento.
GÆ Quant’amor proprio! Stai parlando un po’ troppo bene di te stesso ora…. Hai incluso la
tua presenza nel mio racconto.
GL Non si può non condividere che nei contesti poc’anzi citati il nostro rapporto era per così
dire riconoscibile nella sua sacralità. Abbiamo dialogato in armonia. Si è espressa tutta la mia
forza generatrice, come ha ben sintetizzato Norberg-Schulz, che richiamava a una sacralità
derivante dall’attitudine pagana di definire un luogo in funzione del nume che lo tutela. Tanti
luoghi (per non dire tutti…. ma poi mi accusi di presunzione…) hanno divinità che li
proteggono. Succede molto meno per gli edifici. Non credo di essere di parte. Ora.
GÆ Lasciami dire: sai che penso? Che il concetto di Genius Loci è stato spesso un vincolo per la
progettazione dell’architettura. E per la sua ideazione.
GL Come ti sbagli. I vincoli rivendicati da uno specifico luogo nascono soprattutto in rapporto
alle aspettative di quel luogo nei confronti della sua trasformazione.
Empatia, dunque, non oppressione e limitazione.
GÆ Questo sta a significare che io debba essere sempre in linea, in scala, insomma in armonia,
con “la tua sacralità”?
GL Non necessariamente. L’armonia, l’empatia, la partecipazione possono anche svilupparsi
successivamente. I vasti interventi dei plateaux lapidei a Machu Picchu o i bastioni della città
dei monaci sul Monte Athos in realtà si sono integrati nel tempo, con una sensibilità
particolare e corale, nel loro contesto: la loro armonia nasce dall’essere il risultato voluto da
una comunità, che ha scelto quel luogo e quella costruzione per rendere riconoscibile la sua
pluralità.
GÆ È vero, penso che ci sia stata più comprensione che conflitto, non credi anche tu? Il valore
etico primitivo, più radicale, di quei paesaggi è senza alcun dubbio in linea con ciò che aveva
già pensato Aristotele come “ritratto della terra abitata”, che non è quindi un bene da sottrarre
alla società umana, tutt’altro. L’uomo abita una regione, la coltiva, la costruisce come “sua
città”. Non devi dunque rifiutare i segni umani. Non siamo due universi separati.
GL Non è mai stata questa la mia posizione. Anzi considero il mio suolo come una grande
allegoria della storia della civiltà umana…. Sai bene quanto io sia legato a quell’indispensabile
universo di segni che l’uomo ha impresso sulla mia pelle. Senza le bonifiche io sarei limo
fangoso, senza la griglia della centuriazione io sarei steppa. La mia preoccupazione, e un certo
mio fastidio, è verso un modo maldestro e maleducato di segnare il mondo, verso
un’ignoranza estetica che contraddistingue sia le radicali utopie democratiche che i
totalitarismi monumentali. Ti sei reso conto come negli ultimi cinquant’anni io abbia subìto
trasformazioni violente e velocissime? Con la modificazione non solo della mia forma ma
anche della mia percezione?
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GÆ Ma non si può nemmeno pretendere, oggi come ieri, di trovare contemporaneamente una
natura intatta, selvaggia e sicura. Vivere nel recondito il desiderio di una terra che riposi nel
suo stato primordiale, integra, inesplorata, indifferente al processo dell’uomo e da esso non
attaccabile. Stabile nella sua wilderness. Non può esistere! Il culto della terra deve rinnovarsi
della constatazione della realtà che viviamo!
GL È giustissimo. E a ben vedere la considerazione di un paesaggio “naturale” come un luogo
incontaminato, romanticamente inteso, è un falso ideologico da voi creato. Non da me. Ora
però il vostro compito è comprendere il limite d’azione. Mantenete viva la vostra relatività e
specificità, ma come condizione etica non di dominio. Indagate sulle questioni importanti, ma
prima di tutto entro un orizzonte di un nuovo umanesimo che legga la città e il paesaggio
come segni integranti della cultura umana. Io penso che, anche se difficile da attuare, possa
essere modernissima una nuova concezione che vede una idea antiurbana di abitare la terra.
Alternativa rispetto alle regole della città. È questo a cui dovreste tendere, senza cercare di
riprodurre, “in verde”, codici nati e stereotipati per i paesaggi urbani. Con grande senso di
responsabilità, per riuscire a leggere correttamente “i segni del nostro senso di responsabilità
rispetto alla sopravvivenza della terra e della sua gente”. Edifici (città) e paesaggio (contesto)
non devono essere in antitesi. Hanno regole insediative assai diverse, costruiscono immagini
(e percezioni) differenti, ma possono comprendersi. E lo sai una cosa? Ambedue hanno la
stessa importanza. A volte uno è ordinatore dell’altro, e viceversa. Come lo descriveva bene
quel siciliano…
GÆ Chi?
GL Elio Vittorini. Ne Le città del mondo narra di un territorio, quello siciliano per l’appunto, sul
quale le città, come in una irreale carta geografica che descrive con poetica narrazione, sono
distribuite senza apparente ordine; sono i campi e gli spazi aperti al contorno che piuttosto
dettano le regole alla costruzione di un paesaggio urbano e naturale che si presenta al
viaggiatore in movimento. Gli spazi aperti, dunque, costituiscono gli elementi ordinatori del
territorio rivelando di volta in volta il rapporto tra città costruita e paesaggio naturale. È molto
diverso quando invece gli elementi ordinatori vengono imposti dalle costruzioni umane.
GÆ Spiegati meglio.
GL Il paesaggio antropizzato è spesso costruito da una serie di segni “atopici”, infrastrutture
viarie, aree industriali, autogrill, realizzando una serie di luoghi che si ripetono identici su
tutto il mio suolo, dalla Sicilia alla Pianura padana, dal vecchio al nuovo continente.
Omologati nel linguaggio, indifferenti sia alle tue tradizioni di identità e costruzione, che
all’appartenenza alla mia cultura locale, codificando con arroganza una spazialità tutta loro di
un paesaggio che invece è di tutti, universale. Nessuna salvaguardia storico-ambientale del
contesto antropizzato, sia del territorio che dell’uomo, spesso in nome di necessità funzionali
sovradimensionate. Ecco. Bisogna riportare un senso a questi luoghi. Ritornare alla cultura del
territorio, alla conoscenza territoriale. Perché il paesaggio è una categoria culturale e un haut
lieu, un posto speciale.
GÆ L’architettura deve allora rendere leggibile il paesaggio?
GL L’architettura deve solamente leggere il paesaggio. Esso è già leggibile da sé. E questa è la
cosa in assoluto più difficile per un’architettura che spesso urla la sua presenza, essa deve fare
silenzio ed ascoltare il contesto. Per comprenderlo. Forse in questo dovrebbe proprio imparare
dall’arte. Non hai notato infatti che le più belle architetture spesso vengono chiamate opere
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d’arte? Un artista che lavora nella natura, tra quelli che voi chiamate Land artist, Robert
Irwine, una volta ha detto che avete quattro possibilità di relazionarvi con interventi
nel/sul/del paesaggio. Ebbene su queste condizioni vale proprio la pena di riflettere:
“pensiamo a un’architettura da inserire nel paesaggio: essa può considerarsi site dominant –
come una scultura che può essere collocata ovunque in modo imperativo; site adjusted – nel
caso che un artista modifichi in relazione al sito la sua scultura; site specific – nel quale ciò che
fai è nel e di quel luogo e non può essere spostato; site generated – quando il luogo genera i
parametri del soggetto di quel sito”. A te la consapevolezza e la scelta di come intervenire. Ma
per una volta dammi retta: guardati intorno e ascolta.
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Fig. 2 la fine di tutto, ritorno alla natura: la tomba di Van Gogh a Auvers-sur-Oise
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