Oltre il disagio

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Oltre il disagio
A cura di
Pamela Palomba e Axel Rütten
Oltre il disagio
Percorsi di Arteterapia in Salute Mentale
INDICE
INTRODUZIONE
La cooperativa Di Vittorio e il progetto di Arteterapia nella riabilitazione del paziente psichiatrico di A. Bongianni Premessa: La Riabilitazione e l’Arteterapia di F. Sirianni Introduzione: La Terapia e l’Arteterapia di S. Fissi Il nostro punto di partenza di P. Palomba e A. Rütten A proposito del rapporto tra testi ed immagini nel libro di P. Palomba e A. Rütten p.06
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L’ATELIER DI ARTETERAPIA
Storia dell’atelier di A. Rütten Attività in atelier di A. Rütten Frequentatori come conduttori di A. Rütten Tavole tematiche di A. Rütten Attività fuori dall’atelier di A. Rütten Schede mostre e visite guidate di A. Rütten Il punto di vista dell’educatore, parte I Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d e c/f “L’isola Delle Tartarughe” di Campi Bisenzio
Il punto di vista dell’educatore, parte II
Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d “La Luna Verde” di Sesto Fiorentino
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PERCORSI
(Auto)-Ritratti di P. Palomba e A. Rütten Sculture in argilla di P. Palomba e A. Rütten Atelier di scultura di A. Rütten p.62
p.72
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Introduzione
La Coop Di Vittorio e il progetto di Arteterapia
nella riabilitazione del paziente psichiatrico
Dott.ssa Alessandra Bongianni – referente strutture della salute mentale dell’area nord/ovest
L
a Cooperativa G. Di Vittorio è stata costituita nel
1977 a Massa Carrara come azienda multi servizi
e, a seguito di un accordo con la Cooplat di Firenze, secondo le indicazioni della legge 381 del 1991,
nel 1994 è stata trasformata in Cooperativa Sociale.
Oggi, sia per le dimensioni di fatturato che di occupati, rappresenta una delle più grandi realtà fra le cooperative sociali della Toscana con servizi dislocati in
cinque province (Siena, Firenze, Massa, Livorno, Lucca). La sua attività di progettazione ed erogazione di
servizi, che vanno dai socio-assistenziali agli educativi,
sono diretti ad una tipologia di utenza molto varia:
anziani, psichiatrici, minori e marginalità. Tali servizi
sono erogati sia in forma domiciliare che residenziale
e semi residenziale.
La Cooperativa G. Di Vittorio vuole realizzare servizi sociali, sanitari ed educativi finalizzati all’integrazione sociale ed al miglioramento della qualità della
vita delle persone, contribuendo all’interesse generale della comunità e vuole garantire le risposte che
meglio soddisfino i bisogni degli utenti, attraverso la
personalizzazione degli interventi ed il miglioramento
continuo della qualità dei servizi.
In particolare, nell’ambito della salute mentale, la Co-
operativa ha saputo leggere e interpretare al meglio
tutti i cambiamenti che si sono verificati nel corso
dell’ultimo ventennio, durante il quale, la psichiatria
ha compiuto ”passi da gigante“ in fatto di riabilitazione passando dal semplice intrattenimento alla riabilitazione strutturata.
Dunque, la riabilitazione in psichiatria ha una storia
relativamente recente che però, negli ultimi anni, ha
conosciuto importanti trasformazioni.
E’ una realtà che solo negli anni è riuscita ad imporsi
come momento fondamentale nel recupero, sia pur
relativo, del paziente psichiatrico e per quei soggetti
che appartengono al residuo manicomiale,.
Con la chiusura degli ospedali psichiatrici è stato necessario rivedere il concetto di terapia; in passato si
cercava di isolare “la malattia” e il paziente in manicomio, lontano dalle cause di disturbo e dalle insidie
della vita; oggi si osservano e si curano le persone nella loro realtà storica, sociale, familiare e culturale. Si
passa dalla cura della malattia alla cura della persona
e per questo occorre mettere in campo nuove idee,
nuovi metodi per valutare il paziente. Inoltre la riabilitazione ha dovuto agire anche sul contesto esterno,
con interventi volti alla riduzione dello stigma, ossia
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del pregiudizio che ha reso difficile percorsi realmente
evolutivi per il paziente.
All’interno di questo scenario l’obbiettivo condiviso
da parte di operatori ed educatori è quello di ottenere
la ri-socializzazione del paziente, nel senso più ampio
ve positivo del termine.
Di conseguenza la riabilitazione è rivolta a pazienti
con disturbi gravi e invalidanti e ha come obiettivi
prioritari la riduzione della disabilità e quindi il miglioramento complessivo della qualità della vita del
paziente con l’acquisizione di competenze socio-relazionali e lavorative.
Per ottenere gli obiettivi prefissati la riabilitazione necessita di un approccio terapeutico di tipo integrato,
gestito da un’èquipe multidisciplinare, con erogazione di interventi di tipo farmaco terapico, psicoterapico e psicosociale..
In questo panorama la Cooperativa Di Vittorio ha fatto
una scelta di notevole valenza tecnica e cioè ha scelto
di sostenere un’attività legata alla valenza riabilitativa
sui pazienti e nello specifico di sostenere l’arteterapia
nella persona di Axel Rütten, che si è dimostrato professionista serio e preparato ma anche elemento di
stimolo e di vivacità nel gruppo degli educatori.
Inoltre la cooperativa ha dimostrato di mettere in
campo un altro valore aggiunto ma non meno importante e cioè la flessibilità organizzativa che ha permesso di strutturare l’attività all’interno del contesto
organizzativo e dei costi previsti per la struttura.
Si denota così una capacità da parte della cooperativa, di utilizzare al massimo le risorse orarie destinate
al servizio attivando un percorso che ha portato un
professionista come Axel Rütten da un ruolo di collaboratore esterno al ruolo di professionista, riconosciuto anche come associazione, facente parte di un
equipé multidisciplinare.
La cooperativa, inoltre, con questa pubblicazione ha
voluto valorizzare il percorso di un professionista, che
da alcuni anni si è dedicato e appassionato al suo lavoro con serietà ed impegno, ma ha voluto valorizzare anche, e soprattutto, il percorso di gruppi di
lavoro costituiti non solo da operatori ma anche da
pazienti.
E’ stato, dunque, un lavoro condiviso e apprezzato da
tante persone ed è per questo motivo che abbiamo
deciso di raccogliere tutte le esperienze, le fatiche
e le emozioni che, nel corso di questi anni di collaborazione, ci hanno unito e consolidato con ampia
soddisfazione. La Coop Di Vittorio e il progetto di Arteterapia nella riabilitazione del paziente psichiatrico
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Premessa: La Riabilitazione e l’Arteterapia.
Dott. Franco Sirianni - Resp. MOM 7 SMA e Centro Diurno “La Luna Verde”.
L
e disabilità psicosociali non sono esiti della malattia mentale, ma sintomi che si esprimono a livello
della psicomotricità, della cura di sé e dell’ambiente,
delle capacità relazionali e del comportamento psicosociale. Corrispondono a strategie di adattamento
di un assetto psichico il cui funzionamento è determinato da equilibri nuovi fra le parti del sé, di tipo
psicopatologico. A volte alcune disabilità preesistono
nella personalità premorbosa, correlandosi ai sintomi
base.
Il campo di intervento primario della riabilitazione è
quello della realtà del mondo esterno, proprio dove si
evidenziano sul piano pratico e nel linguaggio concreto le disabilità del paziente. L’intervento riabilitativo
consiste nell’utilizzare delle attività pratiche orientate
a produrre dei cambiamenti nel mondo interno. Esso
si struttura in attività specifiche per i vari tipi di disabilità, che vanno da quelle culturali a quelle artigianalimanuali, artistico-espressive, lavorative, corporee, ludico-ricreative. Le attività riabilitative, oltre ad avere lo
scopo di intervenire sull’aspetto concreto delle varie
disabilità per rifondarne l’esperienza e le rappresentazioni mentali ad essa correlate, hanno soprattutto
quello di incorniciare in settings strutturati la relazione fra operatore e paziente e ciò che accade in essa
in termini di vissuti emotivi, affettivi, esperenziali. La
cornice consente all’operatore di oggettivare gli ac-
cadimenti e dare una prima risposta immediata alle
difficoltà emotive e prassiche del paziente. L’analisi e
l’elaborazione di tali vissuti in un setting differente e
successivo di tipo psicoterapico, consente ai pazienti
di elaborare i contenuti dell’esperienza delle attività e
delle relazioni in esse sviluppate in termini terapeutici.
L’ulteriore analisi ed elaborazione dei contenuti della
relazione che si è sviluppata fra operatore e paziente
nella cornice delle attività in un differito momento di
supervisione degli operatori, consente di formulare,
verificare e riformulare il progetto terapeutico-riabilitativo individuale e di gruppo. E’ proprio il progetto
individuale che consente di tenere insieme le attività riabilitative specifiche in un percorso terapeutico
orientato alle disabilità presenti e finalizzato al raggiungimento delle autonomie personali, relazionali e
psicosociali. Il progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato e gruppale, oltre che nelle attività specifiche, si sostanzia anche in tutti quegli interventi e
pratiche mirate a far accedere il paziente ai percorsi
della normalità, utilizzandoli a proprio vantaggio, e
che hanno come campo d’azione quello della comunità di riferimento.
Fra le svariate attività riabilitative quelle artisticoespressive hanno il merito di mettere il paziente in
maggior contatto con i propri contenuti emotivi e affettivi fornendogli la possibilità di esprimerli e rappre8
sentarli nel qui e ora della relazione con l’operatore.
Le attività artistiche, nella loro dimensione espressiva,
costituiscono infatti lo strumento più immediato di
rappresentazione sia dello stato emotivo del momento che dei contenuti interiori che si affacciano alla coscienza. Le attività artigianali, quelle corporee, quelle
culturali, quelle ludico-ricreative hanno un potenziale
minore di evocazione ed espressione delle angosce
e dei conflitti interiori della persona, ed incontrano
maggiori difficoltà nella possibilità di rappresentarli
mentalmente in forma sublimata. La rappresentazione e la sublimazione sono di per sé dei processi psichici che consentono un primo livello basico di scarico emotivo, definizione, interiorizzazione e autocura.
Questo materiale e quello che accade nella relazione
con gli operatori che guidano e supportano l’attività, deve poi diventare oggetto di elaborazione terapeutica in gruppi dedicati. Il materiale elaborato deve
essere utilizzato come base per la caratterizzazione
dell’intervento globale, che include poi momenti e
pratiche finalizzate alla integrazione nelle relazioni
quotidiane, nella comunità locale e alla costruzione
della cosiddetta cittadinanza attiva.
Questa ispirazione di fondo ha consentito di impostare le attività riabilitative specifiche del Centro Diurno “La Luna Verde” di Sesto Fiorentino proprio sulle
attività artistico-espressive. In questa scelta hanno
contato anche il patrimonio delle formazioni individuali degli operatori: si poteva disporre di un teatroterapeuta, di un operatrice dedita al canto lirico, di
un operatore che suona la chitarra per hobby, di una
danza-movimento-terapista, di un’arteterapeuta. Si è
avviato quello che abbiamo definito “Progetto valorizzazione delle risorse umane”, che ha consistito nel
mettere a frutto le competenze personali degli operatori per definire il menu principale delle attività riabilitative specifiche basato sulle arti espressive. L’insieme
omogeneo delle attività ha consentito di costruire una
precisa e forte identità del Centro Diurno, consolidata
anche da momenti formativi sulle attività, destinati
sia agli operatori che ai pazienti. Un nucleo identitario
così forte e caratterizzato ha consentito di creare in
seguito un’Associazione Culturale autonoma (Fra(m)
menti di Luna Verde), che si è inserita nel circuito teatrale esterno attivando una rete dei rapporti sociali e
comunitari (Circoli, Comuni, Associazioni Teatrali).
Questa base sicura, risultata dal lavoro di elaborazione terapeutica e progettuale di ruoli e relazioni nel
gruppo degli utenti e degli operatori rispettivamente,
va ad alimentare di energie e motivazioni il lavoro per
la realizzazione dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali che, includendo altri strumenti e altre pratiche che si dipanano nell’utilizzo della complessità dei
percorsi della comunità, richiedono il continuo sforzo critico di commisurarsi ai circuiti della normalità
e della realtà sociale ed economica del territorio di
riferimento. Tutto ciò richiede un duro lavoro di attivazione delle reti sociali, sanificazione dell’ambiente comunitario dai fattori di rischio per la malattia
mentale, costruzione dell’accessibilità e utilizzabilità
dei luoghi e delle risorse della comunità, che unisce
operatori e pazienti nella realizzazione dei progetti
terapeutico-riabilitativi. Senza la costruzione di quella
forte identità di partenza non sarebbe stato possibile
sostenere l’impegno ed il dispendio di energie emotive di un lavoro così strutturato.
L’attività di arte-terapia, sviluppata assieme al Centro
Diurno “L’Isola delle Tartarughe” di Campi, ha dato
avvio all’esperienza con Axel Rütten, che ci ha consentito di strutturare un gruppo di pazienti e operatori
che provengono da più presidi sia del MOM 7 che del
MOM 6. Essa si configura quindi come un’importante
attività trasversale ai servizi, che permette lo scambio
e il confronto con esperienze diverse sia degli operatori che dei pazienti.
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Introduzione: La Terapia e l’Arteterapia
Dr. Stefano Fissi. - Resp. Casa Famiglia/Centro Diurno “L’Isola delle Tartarughe”.
R
iprendendo la definizione del Registro Professionale Arteterapeuti Italiani :
Per Arti Terapie si intende un insieme di metodiche
finalizzate al benessere individuale e collettivo da
utilizzarsi in ambiti diversi come quello formativo,
riabilitativo, socializzante, preventivo, terapeutico e
della facilitazione delle interazioni culturali e che pur
potendo avere come riferimento teorico aree concettuali diverse come la psicofisiologia, la psicoanalisi,
l’antropologia culturale, le teorie sistemico-relazionali, ecc. prevedano nella loro prassi l’uso sistematico
di tecniche espressive che per consolidata tradizione
culturale definiamo come “artistiche”.
Nell’ambito delle artiterapie si distinguono quattro
approcci che a seconda dell’attività espressiva impiegata si chiamano arteterapia vera e propria (arti
figurative), musicoterapia (musica), danza-movimentoterapia (danza e movimento), teatroterapia (teatro).
Tali ambiti metodologici sono andati delineandosi nel
corso degli anni come un complesso percorso collettivo, prodotto della storia dei metodi di cura della malattia soprattutto mentale, ma non solo, nel mondo
occidentale in questi ultimi decenni. Per ricostruire la
storia di questo processo dobbiamo all’inizio unirlo
artificiosamente con l’ergoterapia, o terapia occupazionale, anche se si tratta di due cose ben distinte. Il
movimento ispiratore che le origina però è unico, e si
può far risalire a Pinel, alla liberazione dalle catene e
al “trattamento morale” degli “alienati”. Infatti tra i
metodi che Pinel propose per ottenere la guarigione
del folle, ovvero il suo recupero all’ordine sociale che
egli ha trasgredito, vi è appunto la terapia col lavoro. Questo atto di Pinel è doppiamente rivoluzionario perché da un lato propone la necessità della cura
e della riabilitazione del malato di mente, dall’altro
riapre in maniera drammatica per la coscienza occidentale la dialettica normalità-follia. Infatti sollecitare
i malati di mente all’attività lavorativa è il primo passo
per un loro recupero nell’area produttiva; e questo
allora apre la via alla rivalutazione dell’attività del folle, tanto più se questa dovesse essere un prodotto
creativo. Peraltro il binomio genio-follia non ha mai
cessato di perseguitare la coscienza occidentale. Chi è
infatti il folle se non colui che ha un accesso più diretto, e perciò stesso sovente problematico, alla propria
immaginazione creativa inconscia?
Vanno inscritti in questa linea di pensiero problematica i lavori di quegli psichiatri che hanno studiato e
valorizzato le produzioni artistiche degli internati in
manicomio. Se Pinel è figlio della Rivoluzione Francese, è col Romanticismo che viene valorizzata la funzione terapeutica e catartica dell’arte, trovandole una
configurazione e una concezione estetica favorevoli.
Per lunghi periodi storici l’attività artistica, soprattutto
in campo figurativo, ha rappresentato un mestiere al
pari di altri. Con il Romanticismo nasce la concezione
dell’artista come individuo particolarmente sensibile, ai limiti della follia, che trova nella realizzazione
dell’opera d’arte la possibilità di esprimere ciò che gli
appare irrimediabilmente perduto o irraggiungibile.
L’opera d’arte in questo contesto rappresenta una
sorta di strumento terapeutico che permette al suo
creatore, talvolta, ma non sempre, di evitare la follia e
di comunicare agli altri il suo mondo fantastico e alienato. Il rapporto tra arte e terapia rimane, in questo
caso, affidato alla sensibilità di persone non comuni e
non costituisce di certo un’esperienza alla portata di
tutti. Un caso emblematico è quello di Carlo Zinelli,
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seguito nel corso della sua vita e della sua produzione
artistica da Vittorino Andreoli all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di San Giacomo a Verona. Ma noi che
siamo fiorentini dobbiamo qui menzionare l’attività
del laboratorio artistico-artigianale “La Tinaia” che,
all’interno dell’Ospedale Psichiatrico V. Chiarugi, ha
rappresentato, ai tempi eroici della deistituzionalizzazione, una punta avanzata del lavoro di reintroduzione della società nel manicomio e del manicomio nella
società.
L’arteterapia ripropone quindi in maniera inquietante
il tema dello “sconfinamento” della follia nella creatività e della creatività nella follia. Occorre quindi
trovare una definizione dell’arteterapia che non sia
confusiva, e questo è il compito più difficile di questo intervento. Dare una definizione di dizionario
dell’arteteapeuta come “quello che fa della terapia
coi mezzi artistici” non è certo esauriente. Non si può
affidare un compito così delicato solo a quelli che
si districano con gli attrezzi artistici. Secondo Edith
Kramer, oltre all’amore per l’uso dei materiali d’arte,
gli arteterapeuti dovrebbero essere capaci, più che di
introdurre degli artisti all’arte, di aprire i loro allievipazienti all’esperienza del difforme, del bizzarro, del
patologico, dell’abortito, dell’anomalo senza perdersi. Quindi il valore del prodotto artistico nell’arteterapia prescinde ovviamente dal suo valore estetico,
ma ne assume uno relazionale. Psicoterapia vuol dire
“cura della psiche mediante la psiche” (Trevi, 2008).
Allora arteterapia vuol dire, sottintendendo psiche –
sarebbe troppo cacofonico artepsicoterapia? – Cura
della mente mediante l’arte? In realtà l’arteterapia individua una struttura triadica, il paziente, il terapeuta
e l’oggetto artistico. È una disciplina che, utilizzando
le tecniche e la decodifica dell’arte grafico-plastica,
ha l’obiettivo di ottenere dall’utente manufatti che
racchiudono pensieri ed emozioni che, messi a fuoco
nel percorso di atelier, diventano simboli comunicabili. L’arteterapia comporta l’utilizzo di diversi materiali con cui il paziente attraversa i nodi problematici
che l’hanno condotto in terapia. Terapeuta e paziente
sono in relazione nel tentativo di comprendere il processo creativo ed il prodotto della seduta. L’oggetto
creato, grazie al suo essere concreto, è una testimonianza del processo creativo e nello stesso tempo
della relazione, perché il transfert che si sviluppa tra
paziente e terapeuta coinvolge anche l’oggetto artistico. Il prodotto artistico funge, così, da mediatore di
relazione tra il terapeuta e il paziente, dà protezione
e contenimento, e, pur rispettando i meccanismi di
difesa, attiva risorse creative, emozioni da elaborare
e capacità residue individuali. Compito dell’arteterapeuta è accompagnare il paziente nella scoperta del
“fare” artistico e nel sostenere con la verbalizzazione,
in un setting adeguato, la consapevolezza di quanto
espresso nella forma artistica. La messa in forma visiva e concreta rende condivisibili le immagini e, grazie
alla strategia di base della terapia artistica, permette
ai pazienti di rendere riconoscibili desideri, traumi, bisogni, aspirazioni, inquietudini e problemi che altrimenti rimarrebbero sopiti e non compresi. Quindi lo
scopo dell’arteterapia non è interessarsi al prodotto
artistico in sé, scoprire talenti e facilitare esposizioni, ma avvicinarsi all’esperienza interiore che questo
prodotto veicola. Il ricorso all’arte e ai rituali del fare
creativo, da sempre specificità degli artisti, è proposto
come codice condiviso che dà agli utenti la possibilità
di un lavoro introspettivo e cognitivo in una relazione
transferale consapevole. Anche se il processo dell’arteterapia è realizzare cose concrete perché apprezzabili percettivamente con i sensi, esso risponde alle
leggi dell’immaginazione creativa inconscia che può
essere messa in relazione alla patologia così come lo
è il sogno. Il processo, simile a quello dell’arte, che
prevede una creazione dal nulla perché il pensiero è
amaterico, porta ad acquisire una dimensione simbolica e/o metaforica. I prodotti in arteterapia quindi
possono essere utilizzati per conoscere meglio chi li
fa e chi li riceve, nel complesso intreccio di meccanismi di difesa ed espressione della modalità relazionale
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centrale del paziente. Questa nella situazione analitica
si esprime nel transfert, ma nell’arteterapia il nucleo
espressivo centrale degli stili relazionali disfunzionali
del paziente è il manufatto artistico. Potremmo dire
che esso è un acting out, in quanto non passa attraverso la parola, ma se si vuol essere precisi allora è un
enactment, una messa in atto nella situazione terapeutica di movimenti affettivi e pulsionali attraverso il
comportamento, e quindi semplicemente una comunicazione non verbale attraverso il sensibile. In questo
senso lo sviluppo delle psicoterapie espressive rientra
in quella tendenza più generale, che coinvolge anche
la psicoanalisi, di riscoperta delle dimensioni non verbali della comunicazione e nel processo terapeutico.
Il trattamento raggiungerebbe risultati attraverso un
processo essenzialmente catartico perché consente
l’espressione inconscia sottraendo gli impulsi alla rimozione e alle altre difese e rendendoli ammissibili
nella rappresentazione d’oggetto, anche se non necessariamente avvertiti dalla coscienza. Appare evidente che l’aspetto terapeutico è strettamente connesso ai processi creativi. L’arteterapia non produce
arte, ma trae un valore terapeutico dalla messa in atto
di un processo creativo che consente di sperimentare una strutturazione delle funzioni dell’Io attraverso
una regressione caotica che ripropone il caos precreativo. Nel prodotto si ricompongono le parti scisse e
si va ad indurre un cambiamento, anche se non consapevole, nel senso di una migliore integrazione del
Sé che può corrispondere al miglioramento sintomatologico. Poiché la sperimentazione del caos creativo
è fenomeno naturale, lo sviluppo di un trattamento
d’arteterapia può essere più intenso e immediato di
un trattamento psicoterapico dinamico, nel senso che
talora il superamento delle difese mediante l’oggetto
artistico è più rapido che non mediante l’interpretazione verbale, anche se poi il prodotto artistico richiede a sua volta un’interpretazione.
Ciò che conta è comunque la relazione. L’artetera-
peuta aiuta ad accogliere, legittimare, rispecchiare,
amplificare i messaggi dell’altro con parole, disegni,
proposte. Ciò avviene cogliendo non solo ciò che è
bello, gradevole allo sguardo, ma ciò che risulta comunicativo, significativo. L’arteterapia va ad utilizzare le potenzialità, che ognuno possiede, di elaborare
il proprio vissuto e di trasmetterlo creativamente ad
altri. Come dunque le artiterapie inducono gradualmente modificazioni positive e benessere? Le tecniche legate all’arteterapia hanno la funzione di facilitare la comunicazione tra soma e psiche. Offrendo al
paziente strumenti di espressione e/o di realizzazione
plastica, il terapeuta facilita in lui l’emergere delle
emozioni, desideri, aggressività, paure così da finalizzarle ad una maggiore integrazione e capacità di padroneggiarle e modularle. Le tecniche non sono mai
per se stesse garanzia di guarigione poiché è innanzitutto la relazione affettiva che si instaura tra utente e
terapeuta che conta ma, se l’operatore nella relazione
di aiuto è competente e sensibile, l’arte può essere
ulteriore e significativo strumento per entrare in quella particolare dimensione comunicativa della persona
dove lo spazio e il tempo sono dilatati e individuali.
La creazione artistica è comprensibile per Freud attraverso il meccanismi difensivo della sublimazione
(1908). Questo termine evoca a un tempo l’idea del
sublime, e quindi l’elevatezza del prodotto artistico, e
quella, presa dalla chimica, del passaggio di un corpo direttamente dallo stato solido allo stato gassoso,
come si ha il passaggio diretto dalle pulsioni primarie
alle loro espressioni socialmente accettabili. Ed è infatti quello che succede alla pulsione sessuale nella
creazione artistica: essa viene deviata dalla meta e
rivolta verso attività di grande valore collettivo, che
possono essere anche l’indagine intellettuale, la filantropia, l’impegno sociale, ecc. Quindi l’attività artistica ha a che fare con l’utilizzo delle forze istintuali
di base per scopi socialmente consentiti, ed è strettamente dipendente dalla dimensione narcisistica, di
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modo che si ritroverebbe a livello dell’oggetto perseguito dalle attività sublimate lo stesso carattere di
totalità organica che Freud attribuisce all’Io. L’ipotesi
della sublimazione è stata enunciata da Freud per le
pulsioni sessuali, ma egli ha accennato alla possibilità
di applicarla anche alle pulsioni aggressive, e questa
eventualità è stata sviluppata dopo di lui. Winnicott
comprende il fenomeno creativo nell’area dei fenomeni transizionali, fenomeni di confine tra il Sé e il
non-Sé, che non sono ancora Sé ma servono a svilupparlo (1951). Essi costituiscono un’area intermedia
di esperienza che si colloca tra il mondo interno e la
vita reale, e che permette il passaggio dalla dimensione dell’illusione – ovvero del narcisismo, dell’onnipotenza infantile, del dominio del processo primario
– a quella della realtà, del differimento dell’impulso,
della capacità di tollerare la frustrazione, del processo
secondario. Alla pari della creazione artistica processi
come il gioco, il sogno, il sentimento religioso, ma anche fenomeni psicopatologici, come il feticcio, il rituale ossessivo, la dipendenza dalla droga condividono
come fondamento comune la dimensione del simbolo. Per Winnicott i fenomeni transizionali consentono
al bambino, o all’adulto in terapia, la sperimentazione
di un’area intermedia – l’area dell’informe (1971) – in
cui può prendere confidenza con la creatività primaria
e la dimensione autentica del Sé, da cui sorgono il gesto creativo e l’ispirazione, e questo ha a che fare con
l’idea dell’artista come persona che ha un rapporto
più pieno e diretto con le profondità della vita psichica. La Chasseguet-Smirgel (1971) riprende l’idea
di Melanie Klein (1921-58) della funzione riparatrice
dell’arte, e dell’attività simbolica in generale, come
difesa contro i danni inferti dalla pulsione di morte e
dall’invidia contro l’oggetto buono e il mondo interno; ma per la psicoanalista francese l’attività creativa
è una riparazione del soggetto, e non dell’oggetto, e
solo l’atto creativo, la cui conclusione è la riparazione
del Sé, costituisce una reale sublimazione. In questo
modo l’artista diventa quell’essere libero e autonomo
che è in grado di colmare in modo creativo la ferita
narcisistica della propria storia, attraverso un’esperienza legata all’armonia e al ritmo, capace di compensare aggressività e angoscia.
Per Jung (1922, 1934-54), l’opera d’arte è una produzione che va oltre l’individuo, perché il suo significato
non è rinvenibile nelle condizioni umane che l’hanno
prodotta. La vera opera d’arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dalla
stretta e dall’ostacolo di quanto è personale, attingendo alla ricchezza simbolica dell’inconscio collettivo
e della vita archetipica, dove si ritrovano i precipitati
delle esperienze fondamentali dell’umanità. Quando
la fantasia creatrice si esercita liberamente, si scatenano queste immagini primordiali nelle quali si esprime
la voce dell’umanità. L’artista che le impiega è come
se parlasse con mille voci, che sono le voci dell’evoluzione dell’umanità, al cui sottofondo stratificato nella
psiche egli attinge.
Infine Bateson (1971) inquadra la creazione artistica
tra le “sindromi transcontestuali”, ovvero tra quei fenomeni – assieme al gioco, alla danza, al simbolo, al
sacramento – che creano un loop, un anello ricorsivo tra due livelli logici differenti del pensiero e della
realtà. Nella produzione artistica, avviene certamente una comunicazione tra coscienza e inconscio, ma
il linguaggio dell’inconscio, che è il linguaggio del
processo primario, è intraducibile nei codici della coscienza. Con le parole di Pascal: “il cuore ha le sue
ragioni che la ragione non conosce”. Per questo la
creazione artistica si gioca tutta sulla modulazione
delle ridondanze comunicative: la ridondanza ad un
livello è mantenuta, finché attraverso una “faglia” di
essa si può introdurre un messaggio di un altro livello
logico. L’arte quindi è un gioco di opposizione e di
intreccio di livelli diversi di pensiero, attraverso i quali
affiorano le forme fondamentali e talora paradossali
dell’esperienza umana.
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Il nostro punto di partenza
né dentro né fuori, egli avrà modo di sottrarsi al vortice risucchiante della psicosi che i setting terapeutici,
in genere, contengono.
di Pamela Palomba e Axel Rütten
C
ondurre un atelier di arteterapia non richiede
solamente una solida preparazione in ambito
artistico, in quanto l’arte è il linguaggio principale
del percorso, e nell’ ambito delle scienze umane in
quanto queste ultime aiutano a comprendere alcuni
comportamenti ed azioni dei pazienti, ma anche la
capacità di creare un ambiente nel quale confluiscono aspetti di varia natura. Il setting costituisce il luogo
fisico e metafisico, conscio ed inconscio, luogo materiale e simbolico, reale e illusorio, sacro e consacrato
di relazioni ed interazioni umane.
La progettazione e la realizzazione del setting sono
alla base del lavoro di un professionista in arteterapia. E’ indispensabile che la configurazione del setting sia espressione del progetto dell’arteterapeuta in
ogni suo dettaglio. La manifestazione più evidente di
un setting è la costruzione dello spazio fisico fatto
di pezzi d’arredamento: tavoli, sedie, armadi, scaffali, materiali, finestre, luci. Un setting non può essere vissuto come definitivo e rigido ma modellabile
sulla base delle necessità che si presentano nella vita
dell’ atelier. L’arteterapeuta predispone uno spazio
atto a favorire la comunicazione non-verbale tramite gli strumenti dell’arte. Questo spazio va considerato intimo e protetto e deve essere preservato da
invasioni provenienti dall’esterno. Ciononostante, è
fondamentale che si riesca a mantenere un corretto equilibrio nel rapporto tra il dentro e il fuori. Un
atelier di arteterapia è un luogo di accoglienza e di
comunicazione avente lo scopo di favorire l’incontro
con l’espressione artistica per aiutare a riscoprire il
mondo reinvestendolo senza timore. E’ un luogo di
cambiamento, talvolta profondo, in cui si sperimentano nuove modalità d’esistenza. Non si può, però,
chiedere ad una persona di rimettersi in gioco in un
luogo che funge soltanto parzialmente da contenitore. L’integrità del luogo- contenitore può essere compromessa da un’eccessiva apertura spaziale sia verso
l’esterno che verso l’interno. Il paziente deve poter
usufruire di una visione panoramica che gli consente di passare incessantemente e con una certa agilità
dall’interno dell’atelier all’esterno e viceversa. Soltanto inscrivendo il proprio agire in questa dialettica del
dentro- fuori, in questo spazio transizionale che non è
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certamente da sole non bastano a darci il sostegno e
gli strumenti adeguati per indicare al paziente la via di
ritorno ad una armonia ed equilibrio interiori, si spera
soltanto temporaneamente persi.
Il contesto socio-culturale forma la maggior parte
delle convinzioni ed abitudini che, spesso, non vengono messe in discussione in quanto considerate come
vere a priori pur essendo semplicemente frutto di
un condizionamento causato dal contesto di appartenenza. La cultura produce abitudini e convinzioni
vissute come presunte verità, ma anche possibilità di
profonde riflessioni sui temi vitali: trovare una risposta al senso dell’esistenza dell’uomo è fondamentale
nello svolgimento di attività terapeutiche. La maggior
parte delle volte abbiamo a che fare con esseri sofferenti per varie cause e che cercano sollievo, aiuto
e risposte alle loro difficoltà. L’arte sicuramente è in
grado di arrecare sollievo in quanto i colori, le forme
e l’atto creativo stimolano l’energia vitale dell’uomo
che si scopre artefice e, plasmando la materia plasma
se stesso, ristabilendo e strutturando la sua interiorità
prima di affrontare l’origine del disagio nel percorso
arteterapico.
Nello spazio fisico dell’atelier l’arteterapeuta, da un
lato organizza tutti i materiali e le attrezzature necessarie per svolgere il suo lavoro, dall’altro da un’anima
all’ambiente con le sue metodologie e con la sua personalità.
In ogni interazione con i pazienti, dalla più semplice come dare un pennello fino alle riflessioni verbali
sui lavori eseguiti durante le sedute, l’arteterapeuta
trasmette all’altro tutto il suo essere. Questo suo essere riguarda lo stato in cui si trova in quel momento
come umore, stato fisico, etc. ma anche le sue più
profonde convinzioni. Non parleremo qui del problema delle proiezioni e del transfert che è stato discusso
ampiamente e che deve essere affrontato con serietà
durante la formazione per evitare di compiere danni
grossolani che rendono il rapporto terapeuta- paziente irrisolto e forse anche irrisolvibile. Siamo interessati, tuttavia, a porre l’attenzione sull’atteggiamento
con cui l’arteterapeuta (e vale per tutte le figure che
svolgono attività in questo settore) si pone prima nei
confronti del mondo in generale, ed in seguito, del
paziente, perché non possono verificarsi scissioni, alterazioni del proprio modo di essere a seconda del
ruolo che siamo chiamati a svolgere e della situazione in cui interagiamo. Esiste uno stato di integrità
dell’essere che ci fa rimanere sempre coerenti con
noi stessi, identici a noi stessi seppur in evoluzione
costante, a riconoscerci sempre, a ricondurre sempre
noi a noi stessi di trasformazione in trasformazione.
Ed è a questo stato di integrità, a questo nucleo essenziale che c’è in ognuno di noi, la nostra anima, cui
bisognerebbe fare appello proprio quando quelle che
credevamo essere le nostre “fondamenta” ed, invece,
altro non sono che dei condizionamenti socio-culturali, “scricchiolano” mostrando tutta la loro fragilità e
Arrecare sollievo in un percorso terapeutico è necessario e importante, ma non è sufficiente. Se una
persona ha sofferenze esistenziali che si manifestano
tramite una malattia è necessario possedere strumenti per dare risposte più ampie.
Abbiamo già potuto osservare in decenni di terapie,
riguardanti ogni tipo di disagio, che la forza di cambiare e di migliorare ed eventualmente di guarire,
deve scaturire dall’interno del paziente. Finche si
tratta solamente di una forza dall’esterno, non serve a molto perché una volta tolta (questa forza), il
paziente ricade negli atteggiamenti pregressi come
un elastico teso che ritorna nella posizione iniziale.
Un esempio eclatante è l’alta percentuale di recidivi
in carcere. Il terapeuta è un accompagnatore per il
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paziente. Non ci possono essere costrizioni. Più che
altro bisogna fare leva sulla possibilità che il paziente,
tramite l’aiuto del terapeuta, (ri-)scopre la sua forza
interiore, la sua volontà di vivere, il suo equilibrio, la
sua autostima.
dove porre con attenzione elementi della propria vita
per poterli vedere meglio e per dare valore alle cose
più importanti.
L’arteterapia promuove la bellezza e ciò significa equilibrio nelle forme, nei colori, strutturazione dello spazio, interconnessione e dialogo tra le parti dell’opera.
Non è detto che uno stato di profondo disagio debba
per forza essere espresso secondo modalità caotiche
e disarmoniche. Può esserci una prima fase di “liberazione caotica” in cui il paziente allenta la tensione
interiore imbrattando fogli con colori e segni grafici
senza, però, dare origine a configurazioni simboliche
o narrazione. Il paziente va poi condotto in una fase
in cui si impegna a strutturare il suo mondo interiore attraverso l’utilizzo di regole di composizione ben
precise tendenti a creare armonia ed equilibrio. Il consentire al paziente di incrementare le sue competenze
tecniche ed espressive, significa garantire la creazione
di basi solide sulle quali il terapeuta può intervenire
per affrontare il disagio.
Nessuno può rimanere convinto a lungo di qualcosa
se non sente dentro di sè. Riteniamo sia inutile dire
ad un paziente che la vita è bella mentre sente “l’inferno” dentro, che la vita vale la pena d’essere vissuta
qualunque essa sia. Questo inferno deve essere trasformato gradualmente in qualcos’altro. Metterlo su
carta o realizzarlo in un’opera d’arte è sempre di aiuto
perché lo rende meno minaccioso, tangibile, condivisibile e perciò meno pesante. Questo vale per quasi
tutti gli ambienti dove agisce l’arteterapia. Vale solo
parzialmente per l’ambito psichiatrico perché sappiamo che non serve tanto condividere con un paziente
il suo mondo delirante bensì offrire strumenti per fare
un po’ di ordine nella confusione – mettiamo, a tal
proposito, a disposizione armadi e scaffali simbolici
A proposito del rapporto tra testo ed immagini nel libro
di Pamela Palomba e Axel Rütten
L
e immagini presenti nel libro non sono state utilizzate allo scopo di decorare o creare suggestioni
visive allettanti per il lettore e neanche allo scopo di
amplificare il contenuto del libro; anzi i testi da noi
proposti, al contrario, vogliono essere un accompagnamento alle immagini che, se non sottoposte ad
un processo di decodifica come solitamente avviene
da parte degli addetti ai lavori, potrebbero anche
data la loro potenza comunicativa, indurre nel lettore interpretazioni fuorvianti. Veniamo qui chiamati a
partecipare alla costruzione di un circolo virtuoso in
cui la nostra visione, il nostro punto di vista sulla questione vanno incessantemente dal testo all’immagine
e dall’immagine al testo. Soltanto questa modalità di
strutturazione del nostro punto di vista può metterci
al riparo dal pericolo di attribuire eccessivo potere alla
16
parole che non è la sola ad essere portatrice di significato ed anche all’immagine che qui si fa universo
carico di significati da tenere però a bada attraverso
l’applicazione di adeguate metodologie.
Consapevoli del fatto che la realtà narrata dalle immagini altro non è che copia e/o derivazione di quella
realtà, di quello spazio-tempo, che a sua volta è copia e/o derivazione dell’Idea originaria, viviamo con
gioia la chance di poter essere noi stessi artefici di
realtà attraverso la produzione di immagini e/o parole
che contribuiscono a ristabilire sia dentro che fuori di
noi l’armonia, l’equilibrio, la bellezza atte a ricondurci
verso quello stato di Grazia in cui la sanità , la santità
e la felicità ci appartengono in quanto, come dice il
maestro spirituale Yogi Bhajan, nostre per diritto di
nascita.
17
L’atelier di Arteterapia
18
Storia dell’Atelier
di Axel Rütten
S
e esiste una linearità o un filo rosso che ha condotto la storia di questo atelier dal 2000 al 2009
bisogna cerca i primi segni nel lontano 1993 quando
presso la sede della CoopLat (ai tempi ancora unito
alla Cooperativa Di Vittorio) si è tenuto un ciclo d’incontri con l’arteterapia per gli educatori della cooperativa. A distanza di tanti anni questa piccola traccia
si è trasformata in un atelier che, su suggerimento
degli educatori del centro diurno di Campi Bisenzio,
è stato proposto ai loro pazienti all’interno del centro
stesso. Nel corso degli anni l’attività è stata modulata
sulla base di due modalità: il lavoro individuale da una
parte e il lavoro in gruppo dall’altra.
Il lavoro individuale segue un setting classico dell’arteterapia che trova la sua espressione massima nel
garantire ad ogni partecipante uno spazio esclusivo,
anche se inserito in un gruppo, dove sperimentare
autentiche modalità d’espressione con i mezzi artistici. Per autenticità si intende la ricerca di un linguaggio
che utilizza gli strumenti dell’arte ma che, nel processo
di acquisizione delle tecniche, non diventa esecutore
di belle copie di opere d’arte o di raffigurazioni fedeli
alla realtà, ma che, col tempo, sviluppa una connessione tra tecnica e mondo interiore per mescolare le
due cose in opere che sono in grado di comunicare verso l’esterno questa unicità. In questo senso il
terapeuta è accompagnatore e deve predisporre un
setting protetto che favorisce questo intento e incoraggia il paziente a trovare, attraverso le difficoltà che
incontra nel realizzare opere, un suo autentico incon-
tro con il linguaggio dell’arte e con se stesso.
Le sfide e le insidie all’interno di un setting sono tante
e non si può mai stare abbastanza attenti a considerare e a valutare tutti gli elementi che influiscono
sull’andamento dell’attività. Senz’altro è più facile costruire un setting quando questo luogo è fisso e ad
uso esclusivo. Nel nostro caso abbiamo condiviso lo
spazio con altre attività e la dinamica dell’ “apparecchiare” e “sparecchiare” ogni volta determina un setting più labile perché l’attività deve appropriarsi ogni
volta nuovamente dello spazio, azione per la quale ci
vuole tempo. Gli incontri si svolgevano a ritmo quindicinale, ritmo che alla fine si è rivelato troppo dispersivo, considerando che quando un paziente mancava
ad un incontro, non partecipava all’attività per un
intero mese. E’ difficile creare un legame ed un percorso interiore all’attività con tempi così diluiti. Nello
spazio della casa famiglia è emerso anche un altro
problema:
La vicinanza agli spazi abitativi ha indotto i partecipanti, in momenti di maggiore stanchezza, a ritirarsi
nelle proprie camere invece di partecipare all’attività.
E’ stato così trovato un altro spazio presso una struttura a Capalle che oggi si chiama centro residenziale
“La Mimosa”, ma che a quei tempi non era utilizzata
come residenza. Avevamo a disposizione una stanza piccola per poter lavorare con, al massimo, 5 o
6 pazienti su tavoli piccoli. I pazienti frequentavano
gli incontri con regolarità e lo spostamento da Campi si era rivelato decisione funzionale all’evoluzione
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dell’atelier. A causa della ristrutturazione dell’edificio
di Capalle ci siamo dovuti spostare nuovamente e siamo tornati per un breve periodo al centro diurno ’Isola delle Tartarughe” a Campi Bisenzio, luogo dal quale abbiamo in seguito traslocato a causa di necessità
di spazio da parte della casa famiglia verso il centro
diurno di Sesto F.no, dove siamo rimasti fino al 2008.
Il più consistente passo evolutivo nell’organizzazione
dell’atelier è stato fatto quando l’equipe ha deciso di
fissare incontri con cadenza settimanale. Questo ritmo ha finalmente permesso di mettere a fuoco i percorsi individuali dei frequentatori con maggiore forza.
Il gruppo in questo periodo è cresciuto rapidamente e
siamo arrivati ad avere anche sedici pazienti durante
gli incontri, ed in più almeno un educatore oltre al
conduttore. Lo spazio disponibile nel centro era ampio, ma presentava i suoi limiti dato il gruppo così numeroso. Il setting, infatti, durante questo periodo ha
subito alcune limitazioni. Essendo in tante persone,
ci mancava lo spazio per realizzare disegni o pitture
su formati più grandi e per fare sculture. Entrambe
queste attività, e si può notare facilmente dalla produzione di quel periodo, si svolgevano all’interno dei
limiti imposti dallo spazio: quasi tutte le opere su carta sono di formato A4 o qualche volta anche A3, la
produzione di sculture abbastanza piccola. Abbiamo
tentato di creare due isole nella stanza, dove su un
tavolo si eseguivano disegni e pitture e su un altro
tavolo scultura. Questo tipo d’impostazione ha premesso di non inibire completamente la produzione
di sculture anche se non ha rappresentato una soluzione ideale. Il gruppo in quel periodo aveva raggiunto un’elevata capacità di condividere lo spazio con
gli altri, cosa non facile nell’ambito psichiatrico, ma,
come è stato detto all’inizio, il setting classico è quello individuale che garantisce lo spazio, sia mentale
che fisico, ad ogni partecipante. La regolarità dei frequentatori nell’atelier ha poi spinto l’equipe ad optare per un’altra impostazione con due gruppi separati
al fine di garantire più spazio ad ognuno, decisione
che ha però comportato ad ogni gruppo di ritornare
alla frequenza quindicinale: in quel punto il setting
come spaziosità ha guadagnato, ma i percorsi personali hanno iniziato a soffrire un’altra volta.
La soluzione ideale è stata trovata in seguito unendo le esigenze e le esperienze di buona prassi fatte
in anni d’attività all’interno di un progetto unico:
sono stati formati due gruppi di pazienti con frequenza settimanale e questo è stato il passo più recente che ha consentito all’atelier di entrare a far parte
della categoria di atelier con un’impostazione seria e
efficace, che riesce a garantire un ritmo ed un’intensità che si possono chiamare terapeutici. Sono state
eliminate anche le lunghe pause estive, che all’inizio
sembravano utili per i pazienti, in quanto considerate
un periodo di riposo dalle attività, e che in realtà non
provocavano altro che rallentamenti e dispersione.
Nell’esperienza di tanti anni possiamo affermare che
pause più lunghe di un mese non procurano riposo
ma soltanto difficoltà a ricominciare e recuperare. Le
sane abitudini non dovrebbero conoscere vacanze ed,
in particolar modo, nel mondo psichiatrico dove la regolarità delle attività risulta funzionale per i pazienti.
Di questo ci siamo convinti con il tempo sulla base di
evidenze e, al momento, i gruppi sono carichi di energia trainante. Con l’ampliamento dell’attività previsto
a partire dal settembre 2008, abbiamo cercato spazi
esterni alle strutture per sostenere scelte più consapevoli da parte dei pazienti partecipanti. Sono stati
individuati due spazi idonei alle esigenze dei gruppi:
Il Circolo ARCI di Capalle e la Villa San Lorenzo di
Sesto F.no. Il gruppo del Circolo ARCI di Capalle è
frequentato da utenti provenienti dalla residenza “Le
Mimose”, da “Passaggio Nord-Ovest” e dalla “ Isola
delle Tartarughe” di Campi, mentre il gruppo di Villa
San Lorenzo è composto da utenti di “Luna Verde”
e “Isola delle Tartarughe”. Sono circa venti gli utenti
che frequentano regolarmente gli atelier.
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Attività in atelier
Frequentatori come conduttori
di Axel Rütten
di Axel Rütten
T
utte le attività di arteterapia si modellano intorno
al setting scelto come abbiamo già descritto nella
parte intitolata “Il nostro punto di partenza” seguendo una impostazione classica individuale. Per motivi
vari, come ad esempio la necessità di far comunicare
maggiormente i frequentatori dell’atelier tra loro, per
lavorare sulla dinamica di gruppo, per mettere in risalto
capacità particolari (si veda il ciclo frequentatori come
conduttori) o per porre l’attenzione in alcuni momenti
più verso l’esterno che verso l’interno in modo tale da
evitare una eccessiva fissazione sul proprio mondo, si
possono proporre attività di gruppo. Negli anni abbiamo
inserito cicli a tema condotti dall’arteterapeuta come ad
esempio quello sugli autoritratti, ciclo descritto in modo
più dettagliato nella parte “percorsi”. In seguito alla
visita del Museo della Cittadella i frequentatori hanno
realizzato teste in cartapesta, che sono stati utilizzati in
seguito anche per uno spettacolo teatrale. In un altro
ciclo hanno inventato un’isola la quale condividere con
gli altri, inventandosi il paesaggi con case, vegetazione,
etc e fantasticandosi anche una professione da svolgere
in quell’ambiente. Nel nostro piccolo gruppo abbiamo
creato alcune occasioni di contatto con un pubblico diverso oltrepassando cosi le frontiere della malattia per
incontrare persone del territorio tramite il linguaggio
dell’arte. Il termine “gruppo misto” forse non è dei più
felici perché non fa capire bene al pubblico di che cosa
si tratta e verrebbe da chiedere: misto di che cosa?Ogni
volta che si costituisce un gruppo si tratta di qualcosa
che accomuna i partecipanti: un’attività (sport, studio,
arte, cucina…) o delle caratteristiche come ad esempio l’età (bambini, adolescenti, adulti, anziani), la provenienza geografica, la fede, le convinzioni politiche o
caratteristiche legati allo stato di salute (malati di Alzhei-
mer, disabili, alcolisti, disturbi alimentari, psichiatrici…).
Ecco qui, che ci possiamo inserire con il “gruppo misto”:
quando gli elementi provenienti da due gruppi differenti s’incontrano per un’attività comune possiamo parlare
di gruppo misto. L’idea di base è di evitare un gruppo
chiuso in se stesso e quindi soggetto ad isolamento ed
ulteriore emarginazione. E’ una lunga tradizione della
psichiatria italiana quella di combattere ogni tipo di stigma ed esclusione sociale: l’antipsichiatria, con la Legge
Basaglia, ha dato vita ad una grande quantità di iniziative al riguardo. L’Europa di oggi guarda con grande interesse e con ammirazione a questo movimento innovativo partito dall’Italia. Le principali iniziative da noi svolte
sono: “I COLORI PER DIRLO”, novembre 2004, ateliers
di pittura nei Servizi Pubblici di Salute Mentale. Nell’invito rivolto alla cittadinanza è stato proposto così: “Le varie forme d’arte applicate alla terapia ed, in particolare,
la pittura costituiscono uno strumento complementare
di cura ormai diffuso nell’ambito dei Servizi di Salute
Mentale. Questa iniziativa si propone di far conoscere
le diverse tipologie operative nei Servizi alla cittadinanza, ai pazienti, familiari, operatori, artisti, amministratori
e a tutti coloro i quali sono interessati all’arte, così da
favorire il dialogo tra i vari approcci al fine di arricchire
le modalità di risposta al disagio mentale. La mattina si
articola in un’esperienza pratica presso i vari Ateliers, nel
pomeriggio i partecipanti si riuniranno nella Sala de’Dugento per una riflessione sul rapporto tra arte e terapia”; “DAL SEGNO ALLA FORMA”, Villa San Lorenzo,
Sesto F.no, giugno 2007. L’iniziativa è stata proposta in
concomitanza ad una festa del comune di Sesto presso
la Villa e ha visto un gran numero di partecipanti, che
hanno disegnato, pitturato, ritagliato, incollato e in fine
discusso insieme le opere prodotte durante l’incontro.
22
L
’idea di questo ciclo d’incontri che ha avuto una durata di otto mesi è il risultato di due esigenze: valorizzare il lavoro individuale e connettere il gruppo. Col tempo è emerso che alcuni partecipanti, all’interno del
setting classico dove lo spazio individuale è fondamentale, rischiavano una forma di isolamento all’interno
del gruppo. La non-curanza del rapporto con gli altri e la tendenza a focalizzare l’attenzione unicamente sui
problemi personali senza guardare mai oltre, sono espressione di questo stato di isolamento. Questo accade
in maniera più esasperata quando il mondo interno è fonte di angosce o deliri.
Guardare oltre ed interessarsi agli altri vuol dire:
rinunciare almeno per un po di tempo all’“autismo” del proprio mondo e delle proprie fantasie
trovare conforto e comprensione nelle produzioni artistiche degli altri
sperimentare empatia e dialogo
sentirsi compresi e comprendere gli altri
Sulla base di queste considerazioni abbiamo iniziato, prima di intraprendere questo ciclo descritto nel capitolo,
ad attuare alla fine di ogni incontro un setting diverso genere: dopo la fase di lavoro individuale si appendono
ad una parete, ogni volta, tutti i lavoro dei partecipanti dell’incontro e ci si siede di fronte per riflettere insieme.
Vengono discussi i temi che emergono al momento. Può essere che ognuno semplicemente presenti il lavoro
che ha eseguito durante l’incontro nella modalità che gli sembra più opportuna. Il conduttore aiuta con domande a focalizzare aspetti che riguardano contenuto ed anche aspetti tecnici. A volte nel gruppo si sviluppa
una discussione su temi che emergono dai lavori.
Partendo da questa esperienza funzionale facente parte di ogni incontro, abbiamo iniziato a proporre ai partecipanti di condurre uno o due incontri a tema. L’idea era che ognuno proponesse o un tema o una tecnica
di suo interesse e caratterizzante il suo percorso personale. In questo modo temi e tecniche acquisite possono
essere condivise con gli altri, il conduttore acquisisce una posizione di “insegnante “ nei confronti del gruppo, ha la responsabilità di preparare l’incontro spiegando al gruppo la sua idea, dà consigli durante l’incontro
e guida la discussione finale dell’incontro. Osservare che tutto il gruppo lavora sul tema proposto, aumenta
l’autostima del conduttore il quale scopre che le sue idee sono interessanti anche per gli altri. Un altro effetto
importante è che il conduttore si accorge che il tema o la tecnica da lui proposti possono essere realizzati in
tanti modi, anche molto diversi da quello che lui stesso utilizza abitualmente. Come si può vedere nei risultati
ottenuti, tutti hanno scelto temi che hanno dato ampio spazio ad interpretazioni artistiche individuali.
23
Attività fuori dall’atelier
di Axel Rütten
U
scite come descritte in questo capitolo servono a
creare connessioni tra il mondo protetto dell’atelier e il mondo esterno nel tentativo di rinforzare in
questo modo anche un dialogo tra questi due mondi.
Un motivo per uscire dall’atelier di arteterapia con un
gruppo di pazienti è, quasi sempre, la vista ad una
mostra di opere d’arte. Frequentare luoghi dove si
possono vedere opere d’arte dal vivo stimola il confronto e la riflessione su opere di altri, ma anche l’immersione e il dialogo interiore, che nelle opere d’arte
può trovare uno specchio. I risultati vengono poi riportati in atelier al fine di essere elaborati.
Abbiamo scelto esclusivamente artisti, rappresentanti
dell’arte moderna o contemporanea in modo da permettere agli utenti di ampliare la propria cultura e da
trovare rinforzi per una via personalizzata di espressione artistica libera dai vincoli dell’arte classica.
La prima visita organizzata ci ha portato al Parco Museo “Quinto Martini” a Seano. Il parco ospita sculture
dell’artista, nato in questo paese, e che sono state
donate da lui stesso in segno di amicizia.
Il parco, aperto e spazioso, invita a camminare tra le
opere ed entrare in un dialogo tra le opere e la natura che le circonda. Nello stesso periodo abbiamo
visitato il Museo della Cartapesta a Viareggio, luogo
suggestivo, che trasmette tutto il piacere ma anche
la fatica della costruzione dei carri allegorici del carnevale locale. La visita al museo della cittadella, una
vera città-laboratorio, è un evento unico. Tramite una
visita guidata ai capannoni, dove gli artisti creano,
abbiamo potuto vedere vari carri allegorici in costruzione e conoscere i loro artefici.
Gelosi dei loro segreti, gli artisti che lavorano tutto
l’anno alla produzione dei loro carri, che poi partecipano alla annuale premiazione e ai cortei, non
raccontano volentieri i dettagli delle tecniche di realizzazione delle loro opere. Alcune di loro arrivano
anche ad altezze vertiginose di 10 o 12 m utilizzando
legno, corde, impalcature, scale, etc. In genere trattano temi politici attraverso caricature e provocazioni
rispetto a temi e personaggi contemporanei. Alcuni,
pochi invece, come il nostro artista Jonatan, trattano
anche temi più legati alla psiche umana e agli stati
emozionali. Il gruppo è rimasto colpito da una parte
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dalle dimensioni delle opere, dai colori brillanti, dalla
passione degli artisti, e dall’altra anche dai temi più
profondi rappresentati dai carri. La terza visita ci porta
al CAMeC di La Spezia con la mostra di Tinguely e
Munari, Visitare mostre di artisti moderni e contemporanei, specialmente quando realizzano anche sculture ed installazioni, dà la possibilità di ampliare la
vista su altre tecniche ed altri modi di interpretare il
mondo. Le figure metalliche, meccaniche, dure, movimentate e nello stesso momento poetiche insieme
ai giochi di luci, trasparenze e leggerezze di Munari
hanno dato molto materiale nuovo al gruppo. La visita guidata nei vari piani del museo ne ha fatto un
evento importante.
La mostra “Moi! Autoritratti del XX secolo”, arrivata
anche a Firenze dopo l’apertura a Parigi, ci ha permesso di poter studiare opere importanti dopo un ciclo d’incontri nell’atelier sul tema dell’autoritratto. In
questo caso abbiamo svolto prima il lavoro in atelier
tramite fotografia, elaborazione di fotocopie, disegni e dipinti sul tema per poi confrontarci con gli stili
dell’arte moderna e contemporanea. Alcuni dei lavori
si trovano nel capitolo sul ritratto e autoritratto.
La visita al museo del Bargello di Firenze nel maggio
del 2006 è stata l’unica occasione nella quale ci siamo
immersi in opere antiche in un’ambientazione rinascimentale. In quel periodo il museo proponeva una
mostra con opere del Giambologna
Nella primavera del 2007 è stata proposta la mostra
del Laboratorio artistico “La Tinaia” di Firenze presso
la casa del popolo di Calenzano. Le opere degli artisti
seguiti dall’associazione, realtà affermata nell’ambito
internazionale dell’ art brut e dell’outsider art, sono di
forte impatto e forse a causa dell’affinità con i partecipanti del nostro gruppo, non c’e stato elaborazione
in seguito.
Nello stesso anno: La più grande mostra e retrospettiva di Daniel Spoeri “Non per caso” al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. I contenuti
della mostra sono stati elaborati in atelier.
La visita al grande maestro del colore del ‘900 Cezanne a Firenze è stato di importante insegnamento per
il gruppo in quanto ha permesso di aggiornare i propri schemi compositivi e rappresentativi nel disegno e
nella pittura.
Nello stesso anno si è visto a Firenze la mostra di Giovanni Fattori: “Fattori e il naturalismo in Toscana”.
Nonostante Fattori sia un classico, ha ugualmente
dato al gruppo alcune informazioni importanti rispetto ad un periodo collocabile tra il classico e il contemporaneo. La pittura dal vero ha mantenuto il suo
fascino.
Nel 2008 il gruppo ha visto esposte le opere di Axel
Rütten presso “Grafio” a Prato. La mostra “Raumgebilde”, ha permesso al gruppo di comprendere la
formazione artistica del conduttore arteterapeuta e la
sua comprensione dell’arte. I contenuti della mostra
sono stati elaborati in luogo.
“Antonio Ligabue è a Pontassieve” e “Genio e follia” a Siena hanno introdotto il 2009 con due mostre
difficili da accettare. Ligabue ha suscitato forti e contrastanti sentimenti, da una parte ammirazione per il
suo stile diretto e “naif” e dall’altra repulsione e rifiuto in quanto vissuto uno dalle caratteristiche “simili”
a quelle dei partecipanti.
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Il punto di vista dell’educatore (prima parte)
Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d e c/f “L’isola Delle Tartarughe” di Campi Bisenzio
G
eneralmente l’educatore svolge sul campo una
funzione di io ausiliare, in tutti gli ambiti che
quotidianamente l’utente frequenta nella sua presa
in carico.
L’utenza che ritroviamo nei servizi di salute mentale
è spesso caratterizzata da una relazione problematica col proprio ambiente per cui, volendo descrivere
per sommi capi la nostra funzione di educatori, ci potremmo definire anche come persone che utilizzano le
proprie capacità di adeguatezza rispetto ai vari eventi della vita per fornire un orientamento agli utenti
al fine di recuperare una maggiore integrazione col
loro mondo (interno ed esterno). Nelle strutture intermedie, quindi, nel tempo si stabilizzano dei gruppi
di persone nei quali noi educatori siamo presenti in
quanto detentori, per definizione, ma anche per forza di cose, del giusto senso della realtà, della misura e
di quant’altro occorra per integrarsi nel mondo, mentre gli utenti sono parte del gruppo proprio perché in
diversa misura deficitari di questi sensi.
Questo particolare rapporto di ruoli però, con le inevitabili frizioni che esso produce in contenitori come le
case famiglia, i centri diurni o le residenze assistite, insieme alla lentezza con cui si verificano cambiamenti
apprezzabili nel decorso delle patologie, favorisce un
processo di cristallizazione nella relazione tra utenti e
operatori.
Può succedere così che l’educatore finisca per confondere i tratti di cronicità di un utente, quelli più resistenti al cambiamento, con l’identità peculiare dello
stesso.
C’è da considerare anche che per molti utenti, la
struttura intermedia è l’unico ambito di socializzazione di gruppo alternativo alla famiglia. Gli inserimenti
lavorativi danno luogo solitamente a relazioni sociali
la cui natura è certamente più professionale, il centro diurno e la casa famiglia così come la comunità
protetta sono terreni fertili per la nascita di relazioni
significative, tra operatori ed utenti la cui natura non
può prescindere da aspetti affettivi.
Noi educatori, quindi, spesso rappresentiamo il mondo quotidiano dell’utente, e anche se esso non è proprio quel luogo verso cui la riforma della legge 180
voleva far tornare la questione del disagio psichico, è
proprio qui che l’utente ha l’occasione di incontrare
l’altro in cui riflettersi, con cui misurarsi, per accedere
per quanto possibile alla consapevolezza di sé. In un
atelier d’arteterapia, a differenza della maggior parte
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degli ambiti quotidiani, si lavora per esprimere tramite forme visive ciò che si è integralmente, anche negli
aspetti di evidente inadeguatezza.
In questo contesto, quindi, abbiamo dovuto parzialmente rinunciare ad essere figure di riferimento e
condividere col gruppo di utenti un lavoro di espressione di sé in cui quello che conta è essere sé stessi,
differenziarsi e comunicare la propria autenticità, la
propria unicità. La funzione di io ausiliare, in questo
caso, si esplica nel coinvolgersi, a fianco degli utenti,
in un gruppo esperienziale.
Può essere successo che un utente abbia utilizzato in
modo particolarmente ripetitivo un tema od una tecnica, ed allora noi siamo stati tentati di intervenire,
come se si fosse trattato di attenuare una fissazione
proponendo un modo di porsi più elastico.. L’arteterapeuta, invece, con pazienza e discrezione, in questi
anni può averci insegnato a rispettare il modo di essere degli utenti, quando esso si tramuta in un fare
artistico.
di esprimere la propria creatività, è stata quella di
poter condividere col gruppo di utenti l’espressione
di quelle stesse dimensioni esistenziali che sono alla
base della necessità della loro presa in carico, ma che
qui diventano icone, figure, colori, interpretazione di
una tecnica, temi nei quali immergersi in contemplazione cercandovi le proprie corrispondenze interiori,
anche quelle che possono inquietare maggiormente.
L’arteterapia in questo senso ha curato la nostra relazione col gruppo degli utenti alleggerendoci dal
compito quotidiano di contenitori, e restituendo agli
utenti, in questa relazione, una nuova capacità propositiva di se stessi, delle loro idee dei loro sentimenti,
della loro visione del mondo. Allo stesso tempo però,
le immagini espresse all’atelier raccontando il mondo interno di chi le frequenta, possono divenire elementi di orientamento, strumenti preziosi per il lavoro
dell’educatore.
La cura ha avuto maggiore efficacia proprio là dove
eravamo più convinti che un utente fosse ciò che pensavamo che fosse, e invece siamo stati stupiti, sorpresi
non dall’evoluzione clinica, che, pur palese, non saremmo stati in grado di misurare o attribuire a questa
o ad un’altra cura, ma dalle forme e dai colori che le
loro (e le nostre) mani e le loro (e le nostre) persone
producono all’atelier.
Un convincimento patologico, infatti, se espresso
attraverso un disegno oppure con un particolare approccio alla tecnica invece che con un comportamento problematico, assume una sua verità condivisibile, permettendo di essere letto come se fosse vero,
esattamente come le opere di artisti che non devono
necessariamente essere connesse direttamente ad
elementi di concretezza per avere un significato.
In Arte chi guarda si assume sempre la responsabilità
del significato che attribuisce a ciò che vede.
Per quanto estremo qualsiasi contenuto espresso in
Arte può essere ritrovato nel mondo interno del fruitore e non c’è disperazione, gioia, ossessione, desiderio o inadeguatezza, per fare alcuni esempi che
non possa essere espressa o riconosciuta dentro ogni
essere umano.
Così l’opportunità di frequentare un’atelier d’artetereapia come educatori, oltre a quella forse più ovvia
Un piccolo toro nero, un busto dallo sguardo vuoto,
un pesce dalle squame lucenti, la sintesi spaziale con
cui è stata reinterpretata una scultura di Moore, gli
occhi dell’autoritratto del giovane Picasso, così somigliante a quelli dell’autore dell’omaggio all’artista,
una “mater” ispirata all’arte precolombiana che sembra emergere da una laboriosità preistorica, l’azzurro
di un fiume costellato di ponti, una “vetrata” di colori
in tecnica mista, un padre “cacciatore” col fucile sulla
spalla, sono queste alcune delle cose preziose e nuove che animano e arricchiscono le nostre relazioni con
gli utenti oggi grazie all’arteterapia.
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Il punto di vista dell’educatore (parte II)
Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d “ La Luna Verde” di Sesto Fiorentino
I
l ruolo dell’educatore nell’ambito dell’attività di Arteterapia è complesso e comprende molteplici aspetti
anche di tipo professionale, come la partecipazione
alla fase progettuale insieme all’equipe del servizio. La
scelta di inserire un laboratorio di Arteterapia tra le proposte riabilitative va collocata in un contesto che vede
privilegiare le attività espressive e le Artiterapie nel loro
complesso (Teatroterapia, Musicoterapia, discipline
corporee e Danzamovimentoterapia, scrittura creativa)
allo scopo di favorire la conoscenza ed espressione di
sé, la scoperta di canali di comunicazione del proprio
mondo interiore, l’ autonomia, lo sviluppo di relazioni
con gli altri, l’allargarsi del campo delle relazioni sociali.
In tal senso sono stati predisposti setting che prevedono la presenza di pazienti di più strutture, incontri a cadenza regolare, momenti di laboratorio aperti alla cittadinanza, luoghi di svolgimento dell’attività collocati il
più possibile nel contesto sociale. I pazienti sono stati
inseriti al laboratorio in base a motivazioni personali e
per aderire al progetto personale di cura.
Per quanto riguarda la parte più specifica dell’intervento riabilitativo dell’Arteterapia è il conduttore dell’Atelier a portarla avanti nel corso degli incontri, confrontandosi con l’equipe nei momenti di verifica.
possibilità di dar voce alla propria creatività e mondo
interiore per mezzo di disegni, pitture sculture, esattamente come gli utenti. Generalmente non fa proposte,
non si sostituisce o sovrappone all’Arteterapeuta, può
al limite far da cassa di risonanza alle sue indicazioni o
avere un atteggiamento di incoraggiamento. Rappresenta un sostegno all’utente, un punto di riferimento
importante.
Il clima all’interno del setting è disteso, vi è libertà di
espressione, non vi è giudizio; c’è chi si concentra sul
suo lavoro, chi preferisce conversare, ognuno segue il
suo percorso personale ed è nello stesso tempo insieme agli altri.
La parte finale dell’incontro è destinata all’osservazione dei lavori realizzati e alla comunicazione verbale del
proprio vissuto l’Arteterapeuta facilita, con i suoi interventi, la verbalizzazione.
Vedere le opere realizzate permette un viaggio nei diversi modi di esprimersi creativamente e offre all’educatore un approccio di conoscenza dei pazienti diverso
dal quotidiano. E’ un mondo di colori, forme, contenuti che spesso stupisce anche dal punto estetico.
L’essere all’interno dell’Atelier ha dato modo all’educatore di arricchire la conoscenza e la relazione con il
paziente. Ha inoltre rappresentato una fonte di consapevolezza e di crescita personale permettendogli di
esprimersi creativamente, di sperimentarsi con varie
modalità artistiche, di lasciare affiorare i propri contenuti interiori e lavorare su di essi.
Per quanto riguarda i risultati oggettivi raggiunti è difficile generalizzare, ogni persona rappresenta un caso
a sé stante. Si può comunque affermare che l’attività è stata seguita nel corso degli anni con continuità
e attenzione da un discreto numero di pazienti e che
in loro si è potuto osservare un progressivo aumento
L’ Atelier è seguito da un educatore in maniera continuativa e da altri che vi partecipano con una certa
regolarità. Vi sono compiti pratici o legati al proprio
ruolo da assolvere: verificare la fornitura dei materiali,
monitorare le presenze, organizzare visite, compilare
schede e relazioni periodiche. L’aspetto più delicato e
interessante è legato a ciò che viene vissuto in prima
persona dall’educatore durante gli incontri. L’educatore partecipa attivamente alle sessioni e quindi ha la
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delle capacità di potersi esprimere con un mezzo artistico e di poter comunicare verbalmente la propria
esperienza.
All’interno delle sessioni è andata ad attenuarsi, fino a
scomparire, l’esigenza di alcuni presenti di allontanarsi
ogni tanto dal setting per motivi personali vissuti come
imprescindibili. Adesso chi partecipa all’incontro è intento quasi senza interruzione al suo lavoro.
L’elasticità con cui è concepito il laboratorio, il non richiedere il silenzio assoluto, e non dare consegne precise su ciò che deve essere fatto, è una situazione ottimale per pazienti che hanno difficoltà ad inserirsi in
setting più strutturati.
Il setting di Arteterapia permette un lavoro su se stessi
e il raggiungimento di una certa introspettività seguendo ritmi che si confanno all’utente, che segue il suo
percorso personale sentendosi accolto per quello che
è. Certo, la libertà di espressione, il non avere indicazioni vincolanti può in centri casi spaventare il foglio
bianco richiama il vuoto e spesso si è sentito domandare e soprattutto domandarsi: “E adesso che cosa disegno?“ Ma con il tempo ognuno sembra aver trovato
la sua strada, sia chi lavora da anni, sia chi si è inserito
da poco.
Persone che in altri contesti “disturbano“ ponendo,
per esigenze di ripetitività della patologia psicotica,
sempre le stesse domande e gli stessi argomenti, all’interno dell’atelier allentano in maniera naturale tali tendenze, conversano con le persone dell’altro centro con
meno ossessività, manifestando curiosità per il disegno
e le sculture altrui, dedicandosi nello stesso tempo al
proprio lavoro.
Per alcuni pazienti l’ Arteterapia è pressoché l’unica attività a cui aderiscono.
Quando l’atelier è stato spostato all’esterno dei locali
del centro diurno, a Villa S. Lorenzo, sede del centro civico importante luogo culturale e punto di riferimento
per la cittadinanza Sestese, gli utenti hanno approfittato dell’occasione per uscire dalle proprie chiusure pato-
logiche. In tal senso può risultare esemplificativo il caso
di un paziente che ha seri problemi a fare qualsiasi cosa
fuori della struttura e che all’inizio aveva difficoltà anche solo a condividere lo spazio della stanza con altre
persone e adesso mostra nuove capacità interrelazionali, evidenti anche fuori dal setting, mentre all’interno
del laboratorio sperimenta tecniche e rappresentazioni
in libertà. Forse il raffinato cromatismo dei suoi collages prodotti in passato (i disegni non venivano generalmente colorati) era quasi un “presagio“ di una
ricchezza emotiva tenuta nascosta!
Chiaramente i cambiamenti riscontrati non sono dovuti ad un unico fattore ma il contributo dell’Arteterapia
appare rilevante.
All’interno dell’Atelier, oltre all’attenzione che ognuno
dedica alla propria produzione artistica, è aumentata
nel tempo, nella parte della condivisione verbale, la
capacità di stare ad ascoltare gli altri e di trovare le parole per spiegare il proprio lavoro. Quello che nei primi
tempi era vissuto con impazienza, non vedendo l’ora
di andare via, probabilmente per il disagio provocato
dalla restituzione di temi interiori scottanti, adesso trova tutto il gruppo interessato a condividere il proprio
vissuto.
Un utente dalle forti difficoltà di verbalizzazione, di cui
è a volte difficile capire il senso dei discorsi, ci ha meravigliato con alcune osservazioni acute sulle opere degli
altri ed è riuscito ad assegnare titoli e a fornire semplici
informazioni sui propri disegni, immagini variegate del
suo mondo interiore. L’ evoluzione positiva delle componenti relazionali, il suo essere maggiormente “presente” sono state notate anche fuori dall’atelier, nei
rapporti con gli altri utenti e con gli operatori.
La frequenza del laboratorio di Arteterapia ha rappresentato per il gruppo e i singoli una fonte di crescita
che ha permesso di conoscere aspetti di sé che sono
stati comunicati agli altri per mezzo della immediatezza visiva delle opere e delle verbalizzazioni, in un contesto adatto all’ampliarsi delle relazioni sociali.
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(Auto) - Ritratto
di Pamela Palomba e Axel Rütten
A
bbiamo iniziato con un ciclo di lavori che possiamo intitolare “Autoritratti”. La nostra scelta di iniziare
con gli autoritratti e non con i ritratti deriva dalla necessità d’essere coerenti con il mondo del disturbo
mentale nel quale il paziente, spesso, è prigioniero del proprio mondo interiore ed è per questo motivo che
pare, dunque, logico focalizzare l’attenzione con gli strumenti dell’arteterapia su questi aspetti, nel senso di
affrontare il conflittuale dialogo tra il dentro e il fuori partendo da un’introspezione che esprime la peculiare
visione che l’autore ha di se stesso. Il lavoro in atelier è stato proposto in varie fasi utilizzando anche tecniche
diverse. All’inizio i partecipanti sono stati invitati ad eseguire autoritratti a dimensione reale sagomando la propria figura su un grande foglio bianco appeso ad una parete. L’interno della sagoma doveva essere riempito
con elementi reali come parti del corpo, vestiti, etc, ma anche con elementi o colori che potevano esprimere
un modo di sentirsi e perciò non corrispondere alla realtà superficiale e visibile dall’esterno.
In una fase successiva abbiamo proposto al gruppo, partendo da ritratti fotografici dove ognuno è stato invitato a farsi scattare tre fotografie raffiguranti tre espressioni del viso diverse: normale, arrabbiata, sorridente.
Le foto sono state scattate dal conduttore all’intero dell’atelier in un setting organizzato. E’ stato molto interessante osservare l’interpretazione che ogni partecipante ha dato dei tre stati d’animo diversi l’uno dall’altro.
Alcuni hanno presentato una mimica facciale molto accentuata mentre altri sembravano non cambiare volto
passando da uno stato all’altro. Questo accadimento potrebbe essere letto semplicemente come una capacità
più o meno accentuata di “fingere” teatralmente un’espressione, che in quel momento forse non corrispondeva tanto al vero, o come una maggiore o minore capacità di entrare in sintonia con stati interiori e trovarne
un’espressione immediata all’esterno. In ogni caso è stato molto interessante e coinvolgente, per alcuni addirittura divertente, per altri invece un motivo di tensione e rifiuto. Una volta stampate le foto, abbiamo invitato
i partecipanti ad elaborare queste foto in diversi modi scegliendo quella preferita tra espressione normale,
arrabbiata, sorridente, nella quale si riconoscevano maggiormente.
I partecipanti, precisamente, hanno sottoposto la foto scelta alla seguente fase d’elaborazione:
colorare una fotocopia in bianco e nero sbiadita del volto scelto con l’uso di mezzi grafico-pittorici
inserire l’autoritratto fotografico in contesti vari con l’uso del collage
completare la propria figura aggiungendo le parti mancanti tramite interventi grafico-pittorici
eseguire un autoritratto con i mezzi grafico-pittorici
62
La figura assomiglia ad un pirata
per il fazzoletto rosso in testa, la
barba un po’ trascurata, un apparire tra il sicuro e l’aggressivo. I colori
scelti per l’opera sono vivaci e solari e, in particolar modo, la figura
del pirata e il sole sono contornati
con grosse pennellate nere che, nel
caso della figura, danno maggiore
risalto ai colori, ma anche una certa
rigidità ed evidenziano le mani che
sono particolarmente grandi.
Al primo impatto si ha l’idea di una
figura che esce fuori da uno sfondo
dello stesso colore della figura stessa che solamente si intensifica in un
corpo piatto per dargli consistenza.
La figura si muove energicamente
verso lo spettatore con uno sguardo diritto però non facilmente decifrabile. La figura richiama l’idea di
un uomo con gli occhiali ed è forse
il rosso intenso utilizzato dall’autore per colorare il viso che lo rende
un po’ inquietante e un po’ extraterrestre.
Melanconia potrebbe essere un’
espressione adeguata per riferirsi
a quest’opera. Lo sguardo pare diretto verso un vuoto o forse rivolto
nello stesso momento verso l’interno della figura femminile, vestita
elegantemente in una posizione
dove le braccia sono legate al corpo
tramite un qualcosa di grigio che
assomiglia a tessuto o che ricorda
le ali di un pipistrello. L’ambiente
che circonda la giovane donna è
trattato con pennellate astratte e
rinforza l’idea del disperdersi in ricordi tristi e solitudine.
Le immagini qui proposte sono accompagnate da descrizioni che noi autori proponiamo per avvicinare il lettore a questo mondo e non da decodifica in quanto applicabile solamente all’interno di un percorso fatto di
un consistente numero di produzioni realizzate dai pazienti.
63
Ritratti
L
Le varie proposte dovevano servire a riflettere sull’idea che ognuno ha su se stesso, tra sogno e realtà. Il lavoro
di inserimento in un ambiente del proprio ritratto è stato percepito e utilizzato come contenitore per esprimere
sogni e desideri: vediamo collage con bellissimi paesaggi di mare, sogni di ricchezza espressi con macchine
costose, barche a motore ecc, campagna, montagna. In collage che contengono più elementi i partecipanti
affrontano situazioni anche più conflittuali, come l’aggressività repressa, stress da prestazione, il rapporto conflittuale con l’altro sesso, conflitti legati al mondo della religione, il corpo e il rapporto con il cibo.
Nella parte successiva dove è stato proposto di completare la figura aggiungendo le parti mancanti (dalle spalle
in giù) si sono manifestati con evidenza il rapporto conflittuale con il proprio corpo: dimensioni e proporzioni
diversi dalla realtà. L’ultima parte poi ha visto la realizzazione di autoritratti in dimensioni ridotti. In seguito a
questo ciclo di lavoro in atelier abbiamo visitato la mostra “Moi – autoritratti del XX secolo” a Firenze.
e opere descritte in questo capitolo non sono il risultato di un ciclo di incontri a tema, ma di lavori realizzati
nei percorsi individuali e quindi da comprendere in questo senso. E’ una raccolta “orizzontale” nella quale
abbiamo unito diversi lavori divisi in diverse categorie di ritratti. Vi troviamo ritratti copiati da libri, ritratti inventati e ritratti dal vero. Per quanto riguarda le prime due tipologie di ritratti, talvolta possiamo parlare di veri e
propri autoritratti, pur trovandoci di fronte a disegni o dipinti che raffigurano una persona diversa dall’autore
o, addirittura, un personaggio inventato nel quale, però, l’autore ci proietta qualcosa di sé, ci ritrova sue caratteristiche, modi di essere e aspetti del suo mondo interiore. Può anche succedere che il paziente scelga di
ritrarre un soggetto che svolge la funzione di alter- ego e che, quindi, gli consente di far riaffiorare in superficie
aspetti di sé tenuti a bada, dormienti. Si può dunque comprendere che la linea di demarcazione che c’è tra la
categoria dei ritratti e quella degli autoritratti può diventare così sottile da rendere talvolta difficile il comprendere se ci troviamo di fronte al tentativo di ritrarre se stessi oppure gli altri. Inoltre, il copiare un’immagine da
un libro può avere un effetto rilassante sull’autore che, pur non dovendo dichiarare l’intenzione di ritrarre se
stesso e non dovendo impegnarsi in una ricostruzione della sua identità, si ritrova davanti forme e colori già
“preconfezionati” nei quali deve solo predisporsi a vedere/ ritrovare se stesso. Anche il titolo (Auto) – ritratti
che abbiamo dato a questa prima parte del capitolo Percorsi lascia intendere che, nell’ambito dell’arteterapia,
un ritratto è sempre potenzialmente un autoritratto.
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65
Ritratti fantastici
Più che al ritratto di una persona, sembra di trovarsi di fronte al ritratto degli organi interni di una
persona o, meglio, di una persona profondamente
identificata con i suoi organi interni. Vediamo disegnato un cuore accanto alla testa di un essere dalle
sembianze vagamente umane. Un essere che sembra composto da tre organi: un ventre rigonfio, un
tubo da cui scendono tre semi rossi ed una testa con
tre punte in cui è ben visibile un volto. Alla sinistra
della figura notiamo un contenitore-ovulo dentro il
quale sta un essere che ricorda un feto.
Ciò che colpisce di quest’immagine intitolata dall’autrice “Il verbo di Dio” è il vortice che esce dalla bocca semiaperta della donna ritratta. E’ come un flusso energetico che si presenta sottoforma di vortice il
quale ha a che fare sia con l’elemento acqua, data la
presenza del colore azzurro e di fiotti che fuoriescono dal vortice stesso, e con l’elemento fuoco considerando il rosso della bocca, dei capelli ed i fiotti
questa volta neri come fumo, che fuoriescono sempre dal vortice. E’ un movimento che dall’interno và
verso l’esterno della donna che rimane immobile,
con lo sguardo un po’ attonito, quasi cristallizzata
per poter sostenere la potenza del processo in corso. Il titolo del resto ci suggerisce che si tratta di un
processo in cui è coinvolto il verbo, la parola di DioCreatore che, sottoforma di vibrazioni energetiche e
sonore, dà inizio ad un processo creativo.
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E’ un uomo dietro le sbarre ma, come potete notare, non completamente. C’è una sbarra accanto
a lui che, non essendo stata completata, provoca
l’effetto di farci vedere questo personaggio contemporaneamente un po’ dentro e un po’ fuori rispetto
alla prigione. La descrizione di questa situazione riguarda la difficoltà vissuta dall’autore nel relazionarsi al mondo esterno con una certa continuità e del
ritrovarsi imprigionato in se stesso pur non volendolo completamente, pur lasciando uno spiraglio,
un’apertura verso l’esterno. I capelli ritti per lo spavento sono di uno colto di sorpresa, l’espressione del
viso invece è di uno abituato a subire da parte di se
stesso questo “scacco” ed anche, però, impegnato
data l’assenza di parte della sbarra a mantenere un
contatto con l’esterno, nonostante tutto.
Siamo di fronte al ritratto di un super-uomo muscoloso con tanto di cintura dai super-poteri e, però,
contemporaneamente bloccato in questa posizione
da una palla al piede della quale non riesce a liberarsi. Il super-uomo sorride come se fosse abituato a
vivere in questa condizione contraddittoria.
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Ritratti copiati
Gli otto ritratti scelti per questo capitolo sono tutti copiati più o meno fedelmente da opere di artisti, modificando qualche volta la tecnica artistica rispetto all’originale e mettendo in risalto aspetti dei ritratti particolarmente interessanti per l’autore come ad esempio sguardo, colori o posizione della figura.
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Queste opere non hanno la pretesa di essere ricopiate in modo accademico dagli originali, ma appartengono alla categoria delle opere recettive, dove il guardare opere artistiche diventa una possibilità di ritrovare
aspetti della propria personalità. La riproduzione e la libera interpretazione dell’opera lasciano spazio per un
confronto più approfondito e per una maggiore identificazione con l’opera.
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Ritratti dal vero
Dedicarsi al volto di un’altra persona richiede attenzione e capacità di osservazione, non soltanto per comprendere l’anatomia del volto, ma per rendere il ritratto un’ interpretazione personale dell’altro.
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La percezione dell’altro e la capacità di rendere visibile in un’opera questi aspetti particolari danno il tocco
artistico all’opera.
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Sculture in argilla
di Pamela Palomba e Axel Rütten
L
’ultimo capitolo di questo libro è dedicato alla scultura in arteterapia e come spesso si usa fare nei libri
alla fine si mettono le cose più care. Non possiamo
nascondere di essere particolarmente legati al lavoro
della scultura e ammettiamo che più tempo le dedichiamo più ci piace.
Il lavoro con la scultura in arteterapia non è ancora
molto popolare e ancora da sviluppare in molti dei suoi
aspetti. Vogliamo dare, attraverso questo capitolo, un
piccolo contributo in modo che esso si possa sviluppare meglio, possa trovare un circuito di appassionati
per raggiungere il suo posto di parità rispetto alle altre
tecniche artistiche utilizzate in arteterapia. Quasi tutte
le persone che parlano d’arteterapia, inclusi gli arteterapeuti stessi, intendono riferirsi, con tale termine, alle
tecniche grafico-pittoriche e quasi mai alla scultura.
Negli ultimi anni l’arteterapia si è sviluppata in diverse
direzioni ampliando da una parte la tipologia di pazienti che tratta e dall’altra parte includendo forme di
espressione artistica prima non considerate come ad
esempio il collage, l’illustrazione, il lavoro con materiali di recupero, la fotografia, writers etc.
Quando si parla di scultura bisogna ricordarsi che si
tratta, nel senso originario della parola, solamente di
tecniche che lavorano un blocco di materia riducendone il suo volume come ad esempio la scultura in
pietra o in legno. Tutte le altre tecniche sono conside-
rate scultoree perché operano nella tridimensionalità
e producono oggetti che occupano spazio reale: sculture in metallo, fusioni, sculture in materie plastiche o
terrecotte. Arriviamo a quella piccola parte all’interno
di un vasto mondo (terreno) chiamato sculture che ci
interessa indagare un po’ meglio: la modellazione con
l’argilla tramite la quale si arriva ad ottenere sculture
in terracotta.
Nel caso dell'argilla la scelta è motivata dal suo primato tra i materiali di scultura nell'atelier di arteterapia.
E' la regina dei materiali per le sue qualità terapeutiche intrinseche, e per la varietà di possibilità che propone a livello di modellazione: è malleabile, dinamica,
sempre recuperabile.
Per noi l'argilla è il materiale (scultoreo) più importante nell'atelier di arteterapia. E' custode della storia
dell'umanità e ogni volta che si prende in mano un
pezzo d’argilla, questa storia si rianima attraverso le
mani del modellatore. Materiale prezioso (non per il
suo prezzo commerciale, anzi da questo punto di vista
è piuttosto conveniente) ed efficace nell'impatto, apparentemente inerte e senza forma specifica, duttile,
malleabile, assorbe e cede alla volontà del modellatore senza opporre resistenza. Segue i movimenti e
le forme che il modellatore imprime e tende, in una
prima fase, a sottomettersi completamente alla sua
72
volontà. Sembrerebbe non porre alcuna resistenza e
non possedere né forma né volontà propria.
Quando meno la persona inesperta se lo aspetta, questo materiale si impone con una tale forza e potenza
che l'artefice rimane quasi travolto dal rovesciamento
di ruolo, in un' ondata di emozioni trasmesse dal contatto diretto con le mani. L'argilla “regina” si è impossessata del suo modellatore.
L'argilla va dritta al cuore, sveglia ricordi ed emozioni,
odori e suoni dalle profondità dell’animo umano, dagli angoli remoti della memoria. Le mani che toccano
l'argilla incominciano a ricordare mentre essa diventa
uno specchio nel quale l'immagine si chiarifica come
in uno specchio d'acqua e si manifesta nella scultura
in maniera così reale e diretta da creare stupore.
L'argilla fresca è viva; viva perché contiene acqua che
è la fonte della vita.
Le sculture fresche sembrano vive. Appaiono così vive
che sembra di sentire le loro voci e di scorgerne i movimenti. Non appena finito il lavoro, questi manufatti
hanno ancora le mani dei loro modellatori impresse
sul volto, nei capelli, sul collo, divenendo così espressione di profondi dialoghi interiori.
Troppo, a volte, tutto questo per proporlo in atelier
dove può capitare che i pazienti non vogliano toccare, sporcarsi le mani, entrare in contatto così diretto e
senza mediazione con le proprie emozioni.
E' comprensibile e sappiamo ormai a questo punto
il perché: l'argilla è la potente dea del risveglio delle
emozioni. Proponiamo allora nei nostri percorsi delle
mediazioni che fanno avvicinare lentamente alla modellazione con le mani e al tutto-tondo. Il basso rilievo,
l'incisione su lastre e l'uso di attrezzi, ad esempio, possono aiutare a mediare questo impatto.
Alcuni pazienti arrivano alla modellazione a tutto tondo, altri no, altri ancora non toccheranno mai l'argilla
perché vissuta come sporca o per la paura di sporcarsi.
Si pensi a come l'argilla nel suo stato di mollezza ottenuto attraverso l'aggiunta di acqua possa trasformarsi
in fango e, se la quantità di acqua è maggiore dell'ar-
gilla, addirittura in acquitrino trasmettendo, inevitabilmente, una sensazione di sporco. L'argilla è soggetta
ad un percorso di trasformazione collocabile all'interno di una scala costituita da due polarità, mollezza e
durezza. Siamo noi a decidere, all'interno di questa
scala, quale gradazione scegliere per l'argilla, se renderla molle fino a farla diventare come fango o dura
fino a farla diventare come pietra. Il destino dell'argilla
è quello di rimanere in equilibrio tra più elementi naturali:
1. La terra e l'acqua di cui è composta per sua stessa
natura
2. L'aria che in una prima fase è nemica dell'argilla in
quanto tende a deprivarla dell'acqua così necessaria
alla sua sopravvivenza; mentre in una seconda fase
si rivela sua amica in quanto ne stimola il processo di
essiccazione preparatorio alla cottura
3. Il fuoco che pone fine al processo di trasformazione dell'argilla dandole una forma stabile, definitiva,
sottraendola al pericolo di deterioramento (si pensi a
quanto una scultura in argilla ormai essiccata sia fragile, soggetta a creparsi, a rompersi)
Il fuoco “eternizza” l'argilla donandole così tutta la
dignità tipica dei materiali, anzi, dell'unico materiale,
la pietra, che riescono a sfuggire al logorio del tempo. Tentativo questo condiviso dagli esseri umani in
generale. Interessante è notare che nella cultura occidentale esistono miti inerenti la creazione del primo
uomo come, ad esempio, quello contenuto nell'Antico Testamento dove si racconta che Dio ha usato la
terra dei campi, modellandola, per creare Adamo e
l'aria soffiandola nella narice della sua "scultura" per
animarla.
Ritornando all’aspetto dell'argilla vissuta come sporca,
nel momento in cui questo materiale si trova in uno
stato di equilibrio dei suoi elementi costitutivi, terra e
acqua, il modellatore non dovrebbe provare sensazioni di disagio. Talvolta, però, accade che ugualmente
l'argilla eserciti come una sorta di effetto regressivo,
revocatore di stadi dell'evoluzione psichica dove il sen74
so dell'esistere viene scandito dal fluttuare in liquidi,
dal produrre, trattenere e rilasciare materia organica.
Quando il terapeuta nota che nel paziente c'è un
processo regressivo in corso, è sconsigliabile proporre
l'utilizzo dell'argilla. I bambini piccoli, invece, vivono
l’ aspetto regressivo dell'argilla come una condizione spontanea e naturale che provoca piacere e divertimento. E' sconsigliabile utilizzare l'argilla anche
in atelier con anziani in condizioni psico-fisiche non
ottimali in quanto essa, per via delle sue componenti
terra-acqua-umidità-freddo e terra-assenza di acquasecchezza- friabilità, ricordano lo stato della morte.
Per quanto riguarda gli aspetti terapeutici dell'argilla, occorre parlare a questo punto di quelli ottenuti
tramite la tecnica proposta. Il lavoro chiamato "tuttotondo" è fondamentalmente un lavoro sulla "pelle",
intesa come membrana sensibile tra il dentro e il fuori,
tra la figura e lo spazio che la circonda, tra una densità (materia argilla) ed un'altra (aria) e costituisce, in
tale modo, una chiara definizione degli spazi, delle
espansioni, riduzioni, volumi e relazioni che riguardano direttamente la personalità dell'artefice.
E' importante tenere presente che un lavoro di modellazione non è possibile senza prendere una posizione chiara che definisca confini, volumi, equilibri
che diventano reali e tangibili.
Contenimento è la parola chiave anche per la qualità dei percorsi terapeutici. Modellare l'argilla significa fare un lavoro di contenimento in materia (argilla)
all'interno di limiti (pelle) che crea figura. Questa è
la forza che imprime l'argilla nel suo modellatore, lo
sforzo che richiede, la pressione che esercita su di lui
e, al contempo, la grande possibilità che gli offre.
75
Atelier di Scultura
di Axel Rütten
N
ell’ultimo anno si è creato un gruppo di pazienti
che lavora con particolare intensità l’argilla. Abbiamo potuto osservare, con un certo stupore, questo
diffondersi del lavoro scultoreo. E’ vero che quando
qualcuno inizia, spesso, altri la seguono. Questo è già
successo altre volte ma mai abbiamo visto gruppi lavorare con una tale costanza e passione questa materia
così complessa. Le opere che dimostriamo qui sono
alcuni esempi di lavori realizzati in piccola e media
dimensione. Per ogni opera proponiamo almeno tre
fotografie, da diversi punti di vista, in modo tale da
facilitare al lettore la comprensione dell’insieme delle
forme. Documentare sculture è molto complesso in
quanto il punto di vista che si sceglie per la fotografia
diventa facilmente un’interpretazione dell’opera dando così più valore ad una parte rispetto ad un’altra.
L’utilizzo di un’unica foto, inoltre, non permette di
comprendere la dimensione e l’espansione della scultura nello spazio e tanto meno di comprendere come
le forme sono interconnesse l’una all’altra. Proporre
più foto non risolve di certo il problema, tuttavia amplia le possibilità di lettura e riduce il problema dell’interpretazione. Un’altra domanda che ci siamo posti è
se sia meglio proporre la foto della scultura appena
modellata in stato umido oppure solo quando è cotta
e quindi nel suo stato definitivo ed irreversibile. La
riposta non è facile, perché l’autore ha lavorato con
l’argilla fresca e quindi tende ad attribuire la paternità all’opera che si trova ancora in questo stato della
materia anche se ogni modellatore sa che la sua opera, conclusa la lavorazione, va portata a cuocere per
essere così esposta al processo di trasformazione e
cristallizzazione tramite il fuoco. La scultura poi passa attraverso uno stato che assomiglia a quello della
morte, ciò è quando è secca e friabile ed è il momento
più delicato nel percorso perché, se non trattata con
cautela, si rompe facilmente. L’intervento del fuoco
cambia il colore dell’argilla (nel nostro caso da grigio
a rosso) e rende la scultura molto resistente. L’esperienza di queste numerose trasformazioni è intensa
e non va sottovalutata perché, in ogni cambiamento
di stato (da umido a secco a cotto), si nascondono
insidie e percoli per l’opera. Ogni passo va accompagnato correttamente per garantire processi trasformativi in armonia con gli elementi che intervengono
nei processi. La svuotatura ed, in seguito, la cottura
crea talvolta ansia negli utenti e ricevere una scultura
che si è rotta durante la cottura appartiene alle esperienze meno piacevoli in un atelier. Non eseguire la
cottura a causa di ansie eccessive è però la soluzione
sbagliata perché la scultura rimane bloccata tra due
stati, incompiuta e fragile. Solamente la cottura può
chiudere il ciclo della trasformazione.
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La testa dell’uomo, con i tratti di un viso orientale, è di pura invenzione dell’autore: infatti, appartiene alla categoria “ritratti fantastici”, nelle classificazioni che abbiamo proposto nel capitolo (auto)-ritratti. Il viso ha dei
lineamenti accentuati con uno sguardo profondo che suggerisce un senso di autorevolezza e potere.
Si tratta di un volatile seduto che mostra due lati completamente diversi l’uno dall’altro. Se da un lato vediamo
un uccellino un po’ spennacchiato ma ben strutturato e con uno sguardo tranquillo, possiamo intuire nella
prospettiva frontale un qualcosa di inquietante, una serie di protuberanze che soltanto nella visione laterale
rivelano la loro natura: si ha l’idea di un animale gravemente ferito, senza più la pelle - specchio di una stato
interiore tra integrità e disgregazione.
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La testa di un uomo anziano appartiene alla fantasia dell’autore. L’archivio personale dell’autore, ricco di
personaggi dei fumetti, ha dato sicuramente un contributo, ma modellare un volto è diverso dal disegnare e
diventa più reale. Infatti, si ha la sensazione di poter contattare l’uomo rappresentato anche se gli occhi chiusi
suggeriscono una riservatezza e uno sguardo rivolto verso l’interno, sguardo concentrato e consapevole di
tante sfide affrontate
In questa opera astratta possiamo osservare che cosa significa il punto di vista: ogni lato è differente dall’altro
e rivela un’ idea diversa dell’opera. Non avendo a disposizione uno schema, come ad esempio per la riproduzione di una figura, di un volto o di un altro oggetto di nostra conoscenza, non possiamo immaginarci i
lati, senza vederli. Potrebbero essere anche tre opere diverse. Nella sua semplicità, l’autore riesce ad offrici un
grande quantità di volumi e esperienze spaziali. Questo genere astratto permette, attraverso la negazione del
riconoscimento immediato dell’oggetto, una immersione nelle forme e nei volumi che si susseguono intorno
all’opera.
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realizzazione e stampa:
finito di stampare nel giungo 2009
0,5mm