Oltre il disagio
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Oltre il disagio
A cura di Pamela Palomba e Axel Rütten Oltre il disagio Percorsi di Arteterapia in Salute Mentale INDICE INTRODUZIONE La cooperativa Di Vittorio e il progetto di Arteterapia nella riabilitazione del paziente psichiatrico di A. Bongianni Premessa: La Riabilitazione e l’Arteterapia di F. Sirianni Introduzione: La Terapia e l’Arteterapia di S. Fissi Il nostro punto di partenza di P. Palomba e A. Rütten A proposito del rapporto tra testi ed immagini nel libro di P. Palomba e A. Rütten p.06 p.08 p.10 p.14 p.17 L’ATELIER DI ARTETERAPIA Storia dell’atelier di A. Rütten Attività in atelier di A. Rütten Frequentatori come conduttori di A. Rütten Tavole tematiche di A. Rütten Attività fuori dall’atelier di A. Rütten Schede mostre e visite guidate di A. Rütten Il punto di vista dell’educatore, parte I Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d e c/f “L’isola Delle Tartarughe” di Campi Bisenzio Il punto di vista dell’educatore, parte II Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d “La Luna Verde” di Sesto Fiorentino p.20 p.22 p.23 p.24 p.44 p.46 p.54 p.58 PERCORSI (Auto)-Ritratti di P. Palomba e A. Rütten Sculture in argilla di P. Palomba e A. Rütten Atelier di scultura di A. Rütten p.62 p.72 p.76 Introduzione La Coop Di Vittorio e il progetto di Arteterapia nella riabilitazione del paziente psichiatrico Dott.ssa Alessandra Bongianni – referente strutture della salute mentale dell’area nord/ovest L a Cooperativa G. Di Vittorio è stata costituita nel 1977 a Massa Carrara come azienda multi servizi e, a seguito di un accordo con la Cooplat di Firenze, secondo le indicazioni della legge 381 del 1991, nel 1994 è stata trasformata in Cooperativa Sociale. Oggi, sia per le dimensioni di fatturato che di occupati, rappresenta una delle più grandi realtà fra le cooperative sociali della Toscana con servizi dislocati in cinque province (Siena, Firenze, Massa, Livorno, Lucca). La sua attività di progettazione ed erogazione di servizi, che vanno dai socio-assistenziali agli educativi, sono diretti ad una tipologia di utenza molto varia: anziani, psichiatrici, minori e marginalità. Tali servizi sono erogati sia in forma domiciliare che residenziale e semi residenziale. La Cooperativa G. Di Vittorio vuole realizzare servizi sociali, sanitari ed educativi finalizzati all’integrazione sociale ed al miglioramento della qualità della vita delle persone, contribuendo all’interesse generale della comunità e vuole garantire le risposte che meglio soddisfino i bisogni degli utenti, attraverso la personalizzazione degli interventi ed il miglioramento continuo della qualità dei servizi. In particolare, nell’ambito della salute mentale, la Co- operativa ha saputo leggere e interpretare al meglio tutti i cambiamenti che si sono verificati nel corso dell’ultimo ventennio, durante il quale, la psichiatria ha compiuto ”passi da gigante“ in fatto di riabilitazione passando dal semplice intrattenimento alla riabilitazione strutturata. Dunque, la riabilitazione in psichiatria ha una storia relativamente recente che però, negli ultimi anni, ha conosciuto importanti trasformazioni. E’ una realtà che solo negli anni è riuscita ad imporsi come momento fondamentale nel recupero, sia pur relativo, del paziente psichiatrico e per quei soggetti che appartengono al residuo manicomiale,. Con la chiusura degli ospedali psichiatrici è stato necessario rivedere il concetto di terapia; in passato si cercava di isolare “la malattia” e il paziente in manicomio, lontano dalle cause di disturbo e dalle insidie della vita; oggi si osservano e si curano le persone nella loro realtà storica, sociale, familiare e culturale. Si passa dalla cura della malattia alla cura della persona e per questo occorre mettere in campo nuove idee, nuovi metodi per valutare il paziente. Inoltre la riabilitazione ha dovuto agire anche sul contesto esterno, con interventi volti alla riduzione dello stigma, ossia 6 del pregiudizio che ha reso difficile percorsi realmente evolutivi per il paziente. All’interno di questo scenario l’obbiettivo condiviso da parte di operatori ed educatori è quello di ottenere la ri-socializzazione del paziente, nel senso più ampio ve positivo del termine. Di conseguenza la riabilitazione è rivolta a pazienti con disturbi gravi e invalidanti e ha come obiettivi prioritari la riduzione della disabilità e quindi il miglioramento complessivo della qualità della vita del paziente con l’acquisizione di competenze socio-relazionali e lavorative. Per ottenere gli obiettivi prefissati la riabilitazione necessita di un approccio terapeutico di tipo integrato, gestito da un’èquipe multidisciplinare, con erogazione di interventi di tipo farmaco terapico, psicoterapico e psicosociale.. In questo panorama la Cooperativa Di Vittorio ha fatto una scelta di notevole valenza tecnica e cioè ha scelto di sostenere un’attività legata alla valenza riabilitativa sui pazienti e nello specifico di sostenere l’arteterapia nella persona di Axel Rütten, che si è dimostrato professionista serio e preparato ma anche elemento di stimolo e di vivacità nel gruppo degli educatori. Inoltre la cooperativa ha dimostrato di mettere in campo un altro valore aggiunto ma non meno importante e cioè la flessibilità organizzativa che ha permesso di strutturare l’attività all’interno del contesto organizzativo e dei costi previsti per la struttura. Si denota così una capacità da parte della cooperativa, di utilizzare al massimo le risorse orarie destinate al servizio attivando un percorso che ha portato un professionista come Axel Rütten da un ruolo di collaboratore esterno al ruolo di professionista, riconosciuto anche come associazione, facente parte di un equipé multidisciplinare. La cooperativa, inoltre, con questa pubblicazione ha voluto valorizzare il percorso di un professionista, che da alcuni anni si è dedicato e appassionato al suo lavoro con serietà ed impegno, ma ha voluto valorizzare anche, e soprattutto, il percorso di gruppi di lavoro costituiti non solo da operatori ma anche da pazienti. E’ stato, dunque, un lavoro condiviso e apprezzato da tante persone ed è per questo motivo che abbiamo deciso di raccogliere tutte le esperienze, le fatiche e le emozioni che, nel corso di questi anni di collaborazione, ci hanno unito e consolidato con ampia soddisfazione. La Coop Di Vittorio e il progetto di Arteterapia nella riabilitazione del paziente psichiatrico 7 Premessa: La Riabilitazione e l’Arteterapia. Dott. Franco Sirianni - Resp. MOM 7 SMA e Centro Diurno “La Luna Verde”. L e disabilità psicosociali non sono esiti della malattia mentale, ma sintomi che si esprimono a livello della psicomotricità, della cura di sé e dell’ambiente, delle capacità relazionali e del comportamento psicosociale. Corrispondono a strategie di adattamento di un assetto psichico il cui funzionamento è determinato da equilibri nuovi fra le parti del sé, di tipo psicopatologico. A volte alcune disabilità preesistono nella personalità premorbosa, correlandosi ai sintomi base. Il campo di intervento primario della riabilitazione è quello della realtà del mondo esterno, proprio dove si evidenziano sul piano pratico e nel linguaggio concreto le disabilità del paziente. L’intervento riabilitativo consiste nell’utilizzare delle attività pratiche orientate a produrre dei cambiamenti nel mondo interno. Esso si struttura in attività specifiche per i vari tipi di disabilità, che vanno da quelle culturali a quelle artigianalimanuali, artistico-espressive, lavorative, corporee, ludico-ricreative. Le attività riabilitative, oltre ad avere lo scopo di intervenire sull’aspetto concreto delle varie disabilità per rifondarne l’esperienza e le rappresentazioni mentali ad essa correlate, hanno soprattutto quello di incorniciare in settings strutturati la relazione fra operatore e paziente e ciò che accade in essa in termini di vissuti emotivi, affettivi, esperenziali. La cornice consente all’operatore di oggettivare gli ac- cadimenti e dare una prima risposta immediata alle difficoltà emotive e prassiche del paziente. L’analisi e l’elaborazione di tali vissuti in un setting differente e successivo di tipo psicoterapico, consente ai pazienti di elaborare i contenuti dell’esperienza delle attività e delle relazioni in esse sviluppate in termini terapeutici. L’ulteriore analisi ed elaborazione dei contenuti della relazione che si è sviluppata fra operatore e paziente nella cornice delle attività in un differito momento di supervisione degli operatori, consente di formulare, verificare e riformulare il progetto terapeutico-riabilitativo individuale e di gruppo. E’ proprio il progetto individuale che consente di tenere insieme le attività riabilitative specifiche in un percorso terapeutico orientato alle disabilità presenti e finalizzato al raggiungimento delle autonomie personali, relazionali e psicosociali. Il progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato e gruppale, oltre che nelle attività specifiche, si sostanzia anche in tutti quegli interventi e pratiche mirate a far accedere il paziente ai percorsi della normalità, utilizzandoli a proprio vantaggio, e che hanno come campo d’azione quello della comunità di riferimento. Fra le svariate attività riabilitative quelle artisticoespressive hanno il merito di mettere il paziente in maggior contatto con i propri contenuti emotivi e affettivi fornendogli la possibilità di esprimerli e rappre8 sentarli nel qui e ora della relazione con l’operatore. Le attività artistiche, nella loro dimensione espressiva, costituiscono infatti lo strumento più immediato di rappresentazione sia dello stato emotivo del momento che dei contenuti interiori che si affacciano alla coscienza. Le attività artigianali, quelle corporee, quelle culturali, quelle ludico-ricreative hanno un potenziale minore di evocazione ed espressione delle angosce e dei conflitti interiori della persona, ed incontrano maggiori difficoltà nella possibilità di rappresentarli mentalmente in forma sublimata. La rappresentazione e la sublimazione sono di per sé dei processi psichici che consentono un primo livello basico di scarico emotivo, definizione, interiorizzazione e autocura. Questo materiale e quello che accade nella relazione con gli operatori che guidano e supportano l’attività, deve poi diventare oggetto di elaborazione terapeutica in gruppi dedicati. Il materiale elaborato deve essere utilizzato come base per la caratterizzazione dell’intervento globale, che include poi momenti e pratiche finalizzate alla integrazione nelle relazioni quotidiane, nella comunità locale e alla costruzione della cosiddetta cittadinanza attiva. Questa ispirazione di fondo ha consentito di impostare le attività riabilitative specifiche del Centro Diurno “La Luna Verde” di Sesto Fiorentino proprio sulle attività artistico-espressive. In questa scelta hanno contato anche il patrimonio delle formazioni individuali degli operatori: si poteva disporre di un teatroterapeuta, di un operatrice dedita al canto lirico, di un operatore che suona la chitarra per hobby, di una danza-movimento-terapista, di un’arteterapeuta. Si è avviato quello che abbiamo definito “Progetto valorizzazione delle risorse umane”, che ha consistito nel mettere a frutto le competenze personali degli operatori per definire il menu principale delle attività riabilitative specifiche basato sulle arti espressive. L’insieme omogeneo delle attività ha consentito di costruire una precisa e forte identità del Centro Diurno, consolidata anche da momenti formativi sulle attività, destinati sia agli operatori che ai pazienti. Un nucleo identitario così forte e caratterizzato ha consentito di creare in seguito un’Associazione Culturale autonoma (Fra(m) menti di Luna Verde), che si è inserita nel circuito teatrale esterno attivando una rete dei rapporti sociali e comunitari (Circoli, Comuni, Associazioni Teatrali). Questa base sicura, risultata dal lavoro di elaborazione terapeutica e progettuale di ruoli e relazioni nel gruppo degli utenti e degli operatori rispettivamente, va ad alimentare di energie e motivazioni il lavoro per la realizzazione dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali che, includendo altri strumenti e altre pratiche che si dipanano nell’utilizzo della complessità dei percorsi della comunità, richiedono il continuo sforzo critico di commisurarsi ai circuiti della normalità e della realtà sociale ed economica del territorio di riferimento. Tutto ciò richiede un duro lavoro di attivazione delle reti sociali, sanificazione dell’ambiente comunitario dai fattori di rischio per la malattia mentale, costruzione dell’accessibilità e utilizzabilità dei luoghi e delle risorse della comunità, che unisce operatori e pazienti nella realizzazione dei progetti terapeutico-riabilitativi. Senza la costruzione di quella forte identità di partenza non sarebbe stato possibile sostenere l’impegno ed il dispendio di energie emotive di un lavoro così strutturato. L’attività di arte-terapia, sviluppata assieme al Centro Diurno “L’Isola delle Tartarughe” di Campi, ha dato avvio all’esperienza con Axel Rütten, che ci ha consentito di strutturare un gruppo di pazienti e operatori che provengono da più presidi sia del MOM 7 che del MOM 6. Essa si configura quindi come un’importante attività trasversale ai servizi, che permette lo scambio e il confronto con esperienze diverse sia degli operatori che dei pazienti. 9 Introduzione: La Terapia e l’Arteterapia Dr. Stefano Fissi. - Resp. Casa Famiglia/Centro Diurno “L’Isola delle Tartarughe”. R iprendendo la definizione del Registro Professionale Arteterapeuti Italiani : Per Arti Terapie si intende un insieme di metodiche finalizzate al benessere individuale e collettivo da utilizzarsi in ambiti diversi come quello formativo, riabilitativo, socializzante, preventivo, terapeutico e della facilitazione delle interazioni culturali e che pur potendo avere come riferimento teorico aree concettuali diverse come la psicofisiologia, la psicoanalisi, l’antropologia culturale, le teorie sistemico-relazionali, ecc. prevedano nella loro prassi l’uso sistematico di tecniche espressive che per consolidata tradizione culturale definiamo come “artistiche”. Nell’ambito delle artiterapie si distinguono quattro approcci che a seconda dell’attività espressiva impiegata si chiamano arteterapia vera e propria (arti figurative), musicoterapia (musica), danza-movimentoterapia (danza e movimento), teatroterapia (teatro). Tali ambiti metodologici sono andati delineandosi nel corso degli anni come un complesso percorso collettivo, prodotto della storia dei metodi di cura della malattia soprattutto mentale, ma non solo, nel mondo occidentale in questi ultimi decenni. Per ricostruire la storia di questo processo dobbiamo all’inizio unirlo artificiosamente con l’ergoterapia, o terapia occupazionale, anche se si tratta di due cose ben distinte. Il movimento ispiratore che le origina però è unico, e si può far risalire a Pinel, alla liberazione dalle catene e al “trattamento morale” degli “alienati”. Infatti tra i metodi che Pinel propose per ottenere la guarigione del folle, ovvero il suo recupero all’ordine sociale che egli ha trasgredito, vi è appunto la terapia col lavoro. Questo atto di Pinel è doppiamente rivoluzionario perché da un lato propone la necessità della cura e della riabilitazione del malato di mente, dall’altro riapre in maniera drammatica per la coscienza occidentale la dialettica normalità-follia. Infatti sollecitare i malati di mente all’attività lavorativa è il primo passo per un loro recupero nell’area produttiva; e questo allora apre la via alla rivalutazione dell’attività del folle, tanto più se questa dovesse essere un prodotto creativo. Peraltro il binomio genio-follia non ha mai cessato di perseguitare la coscienza occidentale. Chi è infatti il folle se non colui che ha un accesso più diretto, e perciò stesso sovente problematico, alla propria immaginazione creativa inconscia? Vanno inscritti in questa linea di pensiero problematica i lavori di quegli psichiatri che hanno studiato e valorizzato le produzioni artistiche degli internati in manicomio. Se Pinel è figlio della Rivoluzione Francese, è col Romanticismo che viene valorizzata la funzione terapeutica e catartica dell’arte, trovandole una configurazione e una concezione estetica favorevoli. Per lunghi periodi storici l’attività artistica, soprattutto in campo figurativo, ha rappresentato un mestiere al pari di altri. Con il Romanticismo nasce la concezione dell’artista come individuo particolarmente sensibile, ai limiti della follia, che trova nella realizzazione dell’opera d’arte la possibilità di esprimere ciò che gli appare irrimediabilmente perduto o irraggiungibile. L’opera d’arte in questo contesto rappresenta una sorta di strumento terapeutico che permette al suo creatore, talvolta, ma non sempre, di evitare la follia e di comunicare agli altri il suo mondo fantastico e alienato. Il rapporto tra arte e terapia rimane, in questo caso, affidato alla sensibilità di persone non comuni e non costituisce di certo un’esperienza alla portata di tutti. Un caso emblematico è quello di Carlo Zinelli, 10 seguito nel corso della sua vita e della sua produzione artistica da Vittorino Andreoli all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di San Giacomo a Verona. Ma noi che siamo fiorentini dobbiamo qui menzionare l’attività del laboratorio artistico-artigianale “La Tinaia” che, all’interno dell’Ospedale Psichiatrico V. Chiarugi, ha rappresentato, ai tempi eroici della deistituzionalizzazione, una punta avanzata del lavoro di reintroduzione della società nel manicomio e del manicomio nella società. L’arteterapia ripropone quindi in maniera inquietante il tema dello “sconfinamento” della follia nella creatività e della creatività nella follia. Occorre quindi trovare una definizione dell’arteterapia che non sia confusiva, e questo è il compito più difficile di questo intervento. Dare una definizione di dizionario dell’arteteapeuta come “quello che fa della terapia coi mezzi artistici” non è certo esauriente. Non si può affidare un compito così delicato solo a quelli che si districano con gli attrezzi artistici. Secondo Edith Kramer, oltre all’amore per l’uso dei materiali d’arte, gli arteterapeuti dovrebbero essere capaci, più che di introdurre degli artisti all’arte, di aprire i loro allievipazienti all’esperienza del difforme, del bizzarro, del patologico, dell’abortito, dell’anomalo senza perdersi. Quindi il valore del prodotto artistico nell’arteterapia prescinde ovviamente dal suo valore estetico, ma ne assume uno relazionale. Psicoterapia vuol dire “cura della psiche mediante la psiche” (Trevi, 2008). Allora arteterapia vuol dire, sottintendendo psiche – sarebbe troppo cacofonico artepsicoterapia? – Cura della mente mediante l’arte? In realtà l’arteterapia individua una struttura triadica, il paziente, il terapeuta e l’oggetto artistico. È una disciplina che, utilizzando le tecniche e la decodifica dell’arte grafico-plastica, ha l’obiettivo di ottenere dall’utente manufatti che racchiudono pensieri ed emozioni che, messi a fuoco nel percorso di atelier, diventano simboli comunicabili. L’arteterapia comporta l’utilizzo di diversi materiali con cui il paziente attraversa i nodi problematici che l’hanno condotto in terapia. Terapeuta e paziente sono in relazione nel tentativo di comprendere il processo creativo ed il prodotto della seduta. L’oggetto creato, grazie al suo essere concreto, è una testimonianza del processo creativo e nello stesso tempo della relazione, perché il transfert che si sviluppa tra paziente e terapeuta coinvolge anche l’oggetto artistico. Il prodotto artistico funge, così, da mediatore di relazione tra il terapeuta e il paziente, dà protezione e contenimento, e, pur rispettando i meccanismi di difesa, attiva risorse creative, emozioni da elaborare e capacità residue individuali. Compito dell’arteterapeuta è accompagnare il paziente nella scoperta del “fare” artistico e nel sostenere con la verbalizzazione, in un setting adeguato, la consapevolezza di quanto espresso nella forma artistica. La messa in forma visiva e concreta rende condivisibili le immagini e, grazie alla strategia di base della terapia artistica, permette ai pazienti di rendere riconoscibili desideri, traumi, bisogni, aspirazioni, inquietudini e problemi che altrimenti rimarrebbero sopiti e non compresi. Quindi lo scopo dell’arteterapia non è interessarsi al prodotto artistico in sé, scoprire talenti e facilitare esposizioni, ma avvicinarsi all’esperienza interiore che questo prodotto veicola. Il ricorso all’arte e ai rituali del fare creativo, da sempre specificità degli artisti, è proposto come codice condiviso che dà agli utenti la possibilità di un lavoro introspettivo e cognitivo in una relazione transferale consapevole. Anche se il processo dell’arteterapia è realizzare cose concrete perché apprezzabili percettivamente con i sensi, esso risponde alle leggi dell’immaginazione creativa inconscia che può essere messa in relazione alla patologia così come lo è il sogno. Il processo, simile a quello dell’arte, che prevede una creazione dal nulla perché il pensiero è amaterico, porta ad acquisire una dimensione simbolica e/o metaforica. I prodotti in arteterapia quindi possono essere utilizzati per conoscere meglio chi li fa e chi li riceve, nel complesso intreccio di meccanismi di difesa ed espressione della modalità relazionale 11 centrale del paziente. Questa nella situazione analitica si esprime nel transfert, ma nell’arteterapia il nucleo espressivo centrale degli stili relazionali disfunzionali del paziente è il manufatto artistico. Potremmo dire che esso è un acting out, in quanto non passa attraverso la parola, ma se si vuol essere precisi allora è un enactment, una messa in atto nella situazione terapeutica di movimenti affettivi e pulsionali attraverso il comportamento, e quindi semplicemente una comunicazione non verbale attraverso il sensibile. In questo senso lo sviluppo delle psicoterapie espressive rientra in quella tendenza più generale, che coinvolge anche la psicoanalisi, di riscoperta delle dimensioni non verbali della comunicazione e nel processo terapeutico. Il trattamento raggiungerebbe risultati attraverso un processo essenzialmente catartico perché consente l’espressione inconscia sottraendo gli impulsi alla rimozione e alle altre difese e rendendoli ammissibili nella rappresentazione d’oggetto, anche se non necessariamente avvertiti dalla coscienza. Appare evidente che l’aspetto terapeutico è strettamente connesso ai processi creativi. L’arteterapia non produce arte, ma trae un valore terapeutico dalla messa in atto di un processo creativo che consente di sperimentare una strutturazione delle funzioni dell’Io attraverso una regressione caotica che ripropone il caos precreativo. Nel prodotto si ricompongono le parti scisse e si va ad indurre un cambiamento, anche se non consapevole, nel senso di una migliore integrazione del Sé che può corrispondere al miglioramento sintomatologico. Poiché la sperimentazione del caos creativo è fenomeno naturale, lo sviluppo di un trattamento d’arteterapia può essere più intenso e immediato di un trattamento psicoterapico dinamico, nel senso che talora il superamento delle difese mediante l’oggetto artistico è più rapido che non mediante l’interpretazione verbale, anche se poi il prodotto artistico richiede a sua volta un’interpretazione. Ciò che conta è comunque la relazione. L’artetera- peuta aiuta ad accogliere, legittimare, rispecchiare, amplificare i messaggi dell’altro con parole, disegni, proposte. Ciò avviene cogliendo non solo ciò che è bello, gradevole allo sguardo, ma ciò che risulta comunicativo, significativo. L’arteterapia va ad utilizzare le potenzialità, che ognuno possiede, di elaborare il proprio vissuto e di trasmetterlo creativamente ad altri. Come dunque le artiterapie inducono gradualmente modificazioni positive e benessere? Le tecniche legate all’arteterapia hanno la funzione di facilitare la comunicazione tra soma e psiche. Offrendo al paziente strumenti di espressione e/o di realizzazione plastica, il terapeuta facilita in lui l’emergere delle emozioni, desideri, aggressività, paure così da finalizzarle ad una maggiore integrazione e capacità di padroneggiarle e modularle. Le tecniche non sono mai per se stesse garanzia di guarigione poiché è innanzitutto la relazione affettiva che si instaura tra utente e terapeuta che conta ma, se l’operatore nella relazione di aiuto è competente e sensibile, l’arte può essere ulteriore e significativo strumento per entrare in quella particolare dimensione comunicativa della persona dove lo spazio e il tempo sono dilatati e individuali. La creazione artistica è comprensibile per Freud attraverso il meccanismi difensivo della sublimazione (1908). Questo termine evoca a un tempo l’idea del sublime, e quindi l’elevatezza del prodotto artistico, e quella, presa dalla chimica, del passaggio di un corpo direttamente dallo stato solido allo stato gassoso, come si ha il passaggio diretto dalle pulsioni primarie alle loro espressioni socialmente accettabili. Ed è infatti quello che succede alla pulsione sessuale nella creazione artistica: essa viene deviata dalla meta e rivolta verso attività di grande valore collettivo, che possono essere anche l’indagine intellettuale, la filantropia, l’impegno sociale, ecc. Quindi l’attività artistica ha a che fare con l’utilizzo delle forze istintuali di base per scopi socialmente consentiti, ed è strettamente dipendente dalla dimensione narcisistica, di 12 modo che si ritroverebbe a livello dell’oggetto perseguito dalle attività sublimate lo stesso carattere di totalità organica che Freud attribuisce all’Io. L’ipotesi della sublimazione è stata enunciata da Freud per le pulsioni sessuali, ma egli ha accennato alla possibilità di applicarla anche alle pulsioni aggressive, e questa eventualità è stata sviluppata dopo di lui. Winnicott comprende il fenomeno creativo nell’area dei fenomeni transizionali, fenomeni di confine tra il Sé e il non-Sé, che non sono ancora Sé ma servono a svilupparlo (1951). Essi costituiscono un’area intermedia di esperienza che si colloca tra il mondo interno e la vita reale, e che permette il passaggio dalla dimensione dell’illusione – ovvero del narcisismo, dell’onnipotenza infantile, del dominio del processo primario – a quella della realtà, del differimento dell’impulso, della capacità di tollerare la frustrazione, del processo secondario. Alla pari della creazione artistica processi come il gioco, il sogno, il sentimento religioso, ma anche fenomeni psicopatologici, come il feticcio, il rituale ossessivo, la dipendenza dalla droga condividono come fondamento comune la dimensione del simbolo. Per Winnicott i fenomeni transizionali consentono al bambino, o all’adulto in terapia, la sperimentazione di un’area intermedia – l’area dell’informe (1971) – in cui può prendere confidenza con la creatività primaria e la dimensione autentica del Sé, da cui sorgono il gesto creativo e l’ispirazione, e questo ha a che fare con l’idea dell’artista come persona che ha un rapporto più pieno e diretto con le profondità della vita psichica. La Chasseguet-Smirgel (1971) riprende l’idea di Melanie Klein (1921-58) della funzione riparatrice dell’arte, e dell’attività simbolica in generale, come difesa contro i danni inferti dalla pulsione di morte e dall’invidia contro l’oggetto buono e il mondo interno; ma per la psicoanalista francese l’attività creativa è una riparazione del soggetto, e non dell’oggetto, e solo l’atto creativo, la cui conclusione è la riparazione del Sé, costituisce una reale sublimazione. In questo modo l’artista diventa quell’essere libero e autonomo che è in grado di colmare in modo creativo la ferita narcisistica della propria storia, attraverso un’esperienza legata all’armonia e al ritmo, capace di compensare aggressività e angoscia. Per Jung (1922, 1934-54), l’opera d’arte è una produzione che va oltre l’individuo, perché il suo significato non è rinvenibile nelle condizioni umane che l’hanno prodotta. La vera opera d’arte trae il suo significato particolare dal fatto che è riuscita a liberarsi dalla stretta e dall’ostacolo di quanto è personale, attingendo alla ricchezza simbolica dell’inconscio collettivo e della vita archetipica, dove si ritrovano i precipitati delle esperienze fondamentali dell’umanità. Quando la fantasia creatrice si esercita liberamente, si scatenano queste immagini primordiali nelle quali si esprime la voce dell’umanità. L’artista che le impiega è come se parlasse con mille voci, che sono le voci dell’evoluzione dell’umanità, al cui sottofondo stratificato nella psiche egli attinge. Infine Bateson (1971) inquadra la creazione artistica tra le “sindromi transcontestuali”, ovvero tra quei fenomeni – assieme al gioco, alla danza, al simbolo, al sacramento – che creano un loop, un anello ricorsivo tra due livelli logici differenti del pensiero e della realtà. Nella produzione artistica, avviene certamente una comunicazione tra coscienza e inconscio, ma il linguaggio dell’inconscio, che è il linguaggio del processo primario, è intraducibile nei codici della coscienza. Con le parole di Pascal: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Per questo la creazione artistica si gioca tutta sulla modulazione delle ridondanze comunicative: la ridondanza ad un livello è mantenuta, finché attraverso una “faglia” di essa si può introdurre un messaggio di un altro livello logico. L’arte quindi è un gioco di opposizione e di intreccio di livelli diversi di pensiero, attraverso i quali affiorano le forme fondamentali e talora paradossali dell’esperienza umana. 13 Il nostro punto di partenza né dentro né fuori, egli avrà modo di sottrarsi al vortice risucchiante della psicosi che i setting terapeutici, in genere, contengono. di Pamela Palomba e Axel Rütten C ondurre un atelier di arteterapia non richiede solamente una solida preparazione in ambito artistico, in quanto l’arte è il linguaggio principale del percorso, e nell’ ambito delle scienze umane in quanto queste ultime aiutano a comprendere alcuni comportamenti ed azioni dei pazienti, ma anche la capacità di creare un ambiente nel quale confluiscono aspetti di varia natura. Il setting costituisce il luogo fisico e metafisico, conscio ed inconscio, luogo materiale e simbolico, reale e illusorio, sacro e consacrato di relazioni ed interazioni umane. La progettazione e la realizzazione del setting sono alla base del lavoro di un professionista in arteterapia. E’ indispensabile che la configurazione del setting sia espressione del progetto dell’arteterapeuta in ogni suo dettaglio. La manifestazione più evidente di un setting è la costruzione dello spazio fisico fatto di pezzi d’arredamento: tavoli, sedie, armadi, scaffali, materiali, finestre, luci. Un setting non può essere vissuto come definitivo e rigido ma modellabile sulla base delle necessità che si presentano nella vita dell’ atelier. L’arteterapeuta predispone uno spazio atto a favorire la comunicazione non-verbale tramite gli strumenti dell’arte. Questo spazio va considerato intimo e protetto e deve essere preservato da invasioni provenienti dall’esterno. Ciononostante, è fondamentale che si riesca a mantenere un corretto equilibrio nel rapporto tra il dentro e il fuori. Un atelier di arteterapia è un luogo di accoglienza e di comunicazione avente lo scopo di favorire l’incontro con l’espressione artistica per aiutare a riscoprire il mondo reinvestendolo senza timore. E’ un luogo di cambiamento, talvolta profondo, in cui si sperimentano nuove modalità d’esistenza. Non si può, però, chiedere ad una persona di rimettersi in gioco in un luogo che funge soltanto parzialmente da contenitore. L’integrità del luogo- contenitore può essere compromessa da un’eccessiva apertura spaziale sia verso l’esterno che verso l’interno. Il paziente deve poter usufruire di una visione panoramica che gli consente di passare incessantemente e con una certa agilità dall’interno dell’atelier all’esterno e viceversa. Soltanto inscrivendo il proprio agire in questa dialettica del dentro- fuori, in questo spazio transizionale che non è 14 certamente da sole non bastano a darci il sostegno e gli strumenti adeguati per indicare al paziente la via di ritorno ad una armonia ed equilibrio interiori, si spera soltanto temporaneamente persi. Il contesto socio-culturale forma la maggior parte delle convinzioni ed abitudini che, spesso, non vengono messe in discussione in quanto considerate come vere a priori pur essendo semplicemente frutto di un condizionamento causato dal contesto di appartenenza. La cultura produce abitudini e convinzioni vissute come presunte verità, ma anche possibilità di profonde riflessioni sui temi vitali: trovare una risposta al senso dell’esistenza dell’uomo è fondamentale nello svolgimento di attività terapeutiche. La maggior parte delle volte abbiamo a che fare con esseri sofferenti per varie cause e che cercano sollievo, aiuto e risposte alle loro difficoltà. L’arte sicuramente è in grado di arrecare sollievo in quanto i colori, le forme e l’atto creativo stimolano l’energia vitale dell’uomo che si scopre artefice e, plasmando la materia plasma se stesso, ristabilendo e strutturando la sua interiorità prima di affrontare l’origine del disagio nel percorso arteterapico. Nello spazio fisico dell’atelier l’arteterapeuta, da un lato organizza tutti i materiali e le attrezzature necessarie per svolgere il suo lavoro, dall’altro da un’anima all’ambiente con le sue metodologie e con la sua personalità. In ogni interazione con i pazienti, dalla più semplice come dare un pennello fino alle riflessioni verbali sui lavori eseguiti durante le sedute, l’arteterapeuta trasmette all’altro tutto il suo essere. Questo suo essere riguarda lo stato in cui si trova in quel momento come umore, stato fisico, etc. ma anche le sue più profonde convinzioni. Non parleremo qui del problema delle proiezioni e del transfert che è stato discusso ampiamente e che deve essere affrontato con serietà durante la formazione per evitare di compiere danni grossolani che rendono il rapporto terapeuta- paziente irrisolto e forse anche irrisolvibile. Siamo interessati, tuttavia, a porre l’attenzione sull’atteggiamento con cui l’arteterapeuta (e vale per tutte le figure che svolgono attività in questo settore) si pone prima nei confronti del mondo in generale, ed in seguito, del paziente, perché non possono verificarsi scissioni, alterazioni del proprio modo di essere a seconda del ruolo che siamo chiamati a svolgere e della situazione in cui interagiamo. Esiste uno stato di integrità dell’essere che ci fa rimanere sempre coerenti con noi stessi, identici a noi stessi seppur in evoluzione costante, a riconoscerci sempre, a ricondurre sempre noi a noi stessi di trasformazione in trasformazione. Ed è a questo stato di integrità, a questo nucleo essenziale che c’è in ognuno di noi, la nostra anima, cui bisognerebbe fare appello proprio quando quelle che credevamo essere le nostre “fondamenta” ed, invece, altro non sono che dei condizionamenti socio-culturali, “scricchiolano” mostrando tutta la loro fragilità e Arrecare sollievo in un percorso terapeutico è necessario e importante, ma non è sufficiente. Se una persona ha sofferenze esistenziali che si manifestano tramite una malattia è necessario possedere strumenti per dare risposte più ampie. Abbiamo già potuto osservare in decenni di terapie, riguardanti ogni tipo di disagio, che la forza di cambiare e di migliorare ed eventualmente di guarire, deve scaturire dall’interno del paziente. Finche si tratta solamente di una forza dall’esterno, non serve a molto perché una volta tolta (questa forza), il paziente ricade negli atteggiamenti pregressi come un elastico teso che ritorna nella posizione iniziale. Un esempio eclatante è l’alta percentuale di recidivi in carcere. Il terapeuta è un accompagnatore per il 15 paziente. Non ci possono essere costrizioni. Più che altro bisogna fare leva sulla possibilità che il paziente, tramite l’aiuto del terapeuta, (ri-)scopre la sua forza interiore, la sua volontà di vivere, il suo equilibrio, la sua autostima. dove porre con attenzione elementi della propria vita per poterli vedere meglio e per dare valore alle cose più importanti. L’arteterapia promuove la bellezza e ciò significa equilibrio nelle forme, nei colori, strutturazione dello spazio, interconnessione e dialogo tra le parti dell’opera. Non è detto che uno stato di profondo disagio debba per forza essere espresso secondo modalità caotiche e disarmoniche. Può esserci una prima fase di “liberazione caotica” in cui il paziente allenta la tensione interiore imbrattando fogli con colori e segni grafici senza, però, dare origine a configurazioni simboliche o narrazione. Il paziente va poi condotto in una fase in cui si impegna a strutturare il suo mondo interiore attraverso l’utilizzo di regole di composizione ben precise tendenti a creare armonia ed equilibrio. Il consentire al paziente di incrementare le sue competenze tecniche ed espressive, significa garantire la creazione di basi solide sulle quali il terapeuta può intervenire per affrontare il disagio. Nessuno può rimanere convinto a lungo di qualcosa se non sente dentro di sè. Riteniamo sia inutile dire ad un paziente che la vita è bella mentre sente “l’inferno” dentro, che la vita vale la pena d’essere vissuta qualunque essa sia. Questo inferno deve essere trasformato gradualmente in qualcos’altro. Metterlo su carta o realizzarlo in un’opera d’arte è sempre di aiuto perché lo rende meno minaccioso, tangibile, condivisibile e perciò meno pesante. Questo vale per quasi tutti gli ambienti dove agisce l’arteterapia. Vale solo parzialmente per l’ambito psichiatrico perché sappiamo che non serve tanto condividere con un paziente il suo mondo delirante bensì offrire strumenti per fare un po’ di ordine nella confusione – mettiamo, a tal proposito, a disposizione armadi e scaffali simbolici A proposito del rapporto tra testo ed immagini nel libro di Pamela Palomba e Axel Rütten L e immagini presenti nel libro non sono state utilizzate allo scopo di decorare o creare suggestioni visive allettanti per il lettore e neanche allo scopo di amplificare il contenuto del libro; anzi i testi da noi proposti, al contrario, vogliono essere un accompagnamento alle immagini che, se non sottoposte ad un processo di decodifica come solitamente avviene da parte degli addetti ai lavori, potrebbero anche data la loro potenza comunicativa, indurre nel lettore interpretazioni fuorvianti. Veniamo qui chiamati a partecipare alla costruzione di un circolo virtuoso in cui la nostra visione, il nostro punto di vista sulla questione vanno incessantemente dal testo all’immagine e dall’immagine al testo. Soltanto questa modalità di strutturazione del nostro punto di vista può metterci al riparo dal pericolo di attribuire eccessivo potere alla 16 parole che non è la sola ad essere portatrice di significato ed anche all’immagine che qui si fa universo carico di significati da tenere però a bada attraverso l’applicazione di adeguate metodologie. Consapevoli del fatto che la realtà narrata dalle immagini altro non è che copia e/o derivazione di quella realtà, di quello spazio-tempo, che a sua volta è copia e/o derivazione dell’Idea originaria, viviamo con gioia la chance di poter essere noi stessi artefici di realtà attraverso la produzione di immagini e/o parole che contribuiscono a ristabilire sia dentro che fuori di noi l’armonia, l’equilibrio, la bellezza atte a ricondurci verso quello stato di Grazia in cui la sanità , la santità e la felicità ci appartengono in quanto, come dice il maestro spirituale Yogi Bhajan, nostre per diritto di nascita. 17 L’atelier di Arteterapia 18 Storia dell’Atelier di Axel Rütten S e esiste una linearità o un filo rosso che ha condotto la storia di questo atelier dal 2000 al 2009 bisogna cerca i primi segni nel lontano 1993 quando presso la sede della CoopLat (ai tempi ancora unito alla Cooperativa Di Vittorio) si è tenuto un ciclo d’incontri con l’arteterapia per gli educatori della cooperativa. A distanza di tanti anni questa piccola traccia si è trasformata in un atelier che, su suggerimento degli educatori del centro diurno di Campi Bisenzio, è stato proposto ai loro pazienti all’interno del centro stesso. Nel corso degli anni l’attività è stata modulata sulla base di due modalità: il lavoro individuale da una parte e il lavoro in gruppo dall’altra. Il lavoro individuale segue un setting classico dell’arteterapia che trova la sua espressione massima nel garantire ad ogni partecipante uno spazio esclusivo, anche se inserito in un gruppo, dove sperimentare autentiche modalità d’espressione con i mezzi artistici. Per autenticità si intende la ricerca di un linguaggio che utilizza gli strumenti dell’arte ma che, nel processo di acquisizione delle tecniche, non diventa esecutore di belle copie di opere d’arte o di raffigurazioni fedeli alla realtà, ma che, col tempo, sviluppa una connessione tra tecnica e mondo interiore per mescolare le due cose in opere che sono in grado di comunicare verso l’esterno questa unicità. In questo senso il terapeuta è accompagnatore e deve predisporre un setting protetto che favorisce questo intento e incoraggia il paziente a trovare, attraverso le difficoltà che incontra nel realizzare opere, un suo autentico incon- tro con il linguaggio dell’arte e con se stesso. Le sfide e le insidie all’interno di un setting sono tante e non si può mai stare abbastanza attenti a considerare e a valutare tutti gli elementi che influiscono sull’andamento dell’attività. Senz’altro è più facile costruire un setting quando questo luogo è fisso e ad uso esclusivo. Nel nostro caso abbiamo condiviso lo spazio con altre attività e la dinamica dell’ “apparecchiare” e “sparecchiare” ogni volta determina un setting più labile perché l’attività deve appropriarsi ogni volta nuovamente dello spazio, azione per la quale ci vuole tempo. Gli incontri si svolgevano a ritmo quindicinale, ritmo che alla fine si è rivelato troppo dispersivo, considerando che quando un paziente mancava ad un incontro, non partecipava all’attività per un intero mese. E’ difficile creare un legame ed un percorso interiore all’attività con tempi così diluiti. Nello spazio della casa famiglia è emerso anche un altro problema: La vicinanza agli spazi abitativi ha indotto i partecipanti, in momenti di maggiore stanchezza, a ritirarsi nelle proprie camere invece di partecipare all’attività. E’ stato così trovato un altro spazio presso una struttura a Capalle che oggi si chiama centro residenziale “La Mimosa”, ma che a quei tempi non era utilizzata come residenza. Avevamo a disposizione una stanza piccola per poter lavorare con, al massimo, 5 o 6 pazienti su tavoli piccoli. I pazienti frequentavano gli incontri con regolarità e lo spostamento da Campi si era rivelato decisione funzionale all’evoluzione 20 dell’atelier. A causa della ristrutturazione dell’edificio di Capalle ci siamo dovuti spostare nuovamente e siamo tornati per un breve periodo al centro diurno ’Isola delle Tartarughe” a Campi Bisenzio, luogo dal quale abbiamo in seguito traslocato a causa di necessità di spazio da parte della casa famiglia verso il centro diurno di Sesto F.no, dove siamo rimasti fino al 2008. Il più consistente passo evolutivo nell’organizzazione dell’atelier è stato fatto quando l’equipe ha deciso di fissare incontri con cadenza settimanale. Questo ritmo ha finalmente permesso di mettere a fuoco i percorsi individuali dei frequentatori con maggiore forza. Il gruppo in questo periodo è cresciuto rapidamente e siamo arrivati ad avere anche sedici pazienti durante gli incontri, ed in più almeno un educatore oltre al conduttore. Lo spazio disponibile nel centro era ampio, ma presentava i suoi limiti dato il gruppo così numeroso. Il setting, infatti, durante questo periodo ha subito alcune limitazioni. Essendo in tante persone, ci mancava lo spazio per realizzare disegni o pitture su formati più grandi e per fare sculture. Entrambe queste attività, e si può notare facilmente dalla produzione di quel periodo, si svolgevano all’interno dei limiti imposti dallo spazio: quasi tutte le opere su carta sono di formato A4 o qualche volta anche A3, la produzione di sculture abbastanza piccola. Abbiamo tentato di creare due isole nella stanza, dove su un tavolo si eseguivano disegni e pitture e su un altro tavolo scultura. Questo tipo d’impostazione ha premesso di non inibire completamente la produzione di sculture anche se non ha rappresentato una soluzione ideale. Il gruppo in quel periodo aveva raggiunto un’elevata capacità di condividere lo spazio con gli altri, cosa non facile nell’ambito psichiatrico, ma, come è stato detto all’inizio, il setting classico è quello individuale che garantisce lo spazio, sia mentale che fisico, ad ogni partecipante. La regolarità dei frequentatori nell’atelier ha poi spinto l’equipe ad optare per un’altra impostazione con due gruppi separati al fine di garantire più spazio ad ognuno, decisione che ha però comportato ad ogni gruppo di ritornare alla frequenza quindicinale: in quel punto il setting come spaziosità ha guadagnato, ma i percorsi personali hanno iniziato a soffrire un’altra volta. La soluzione ideale è stata trovata in seguito unendo le esigenze e le esperienze di buona prassi fatte in anni d’attività all’interno di un progetto unico: sono stati formati due gruppi di pazienti con frequenza settimanale e questo è stato il passo più recente che ha consentito all’atelier di entrare a far parte della categoria di atelier con un’impostazione seria e efficace, che riesce a garantire un ritmo ed un’intensità che si possono chiamare terapeutici. Sono state eliminate anche le lunghe pause estive, che all’inizio sembravano utili per i pazienti, in quanto considerate un periodo di riposo dalle attività, e che in realtà non provocavano altro che rallentamenti e dispersione. Nell’esperienza di tanti anni possiamo affermare che pause più lunghe di un mese non procurano riposo ma soltanto difficoltà a ricominciare e recuperare. Le sane abitudini non dovrebbero conoscere vacanze ed, in particolar modo, nel mondo psichiatrico dove la regolarità delle attività risulta funzionale per i pazienti. Di questo ci siamo convinti con il tempo sulla base di evidenze e, al momento, i gruppi sono carichi di energia trainante. Con l’ampliamento dell’attività previsto a partire dal settembre 2008, abbiamo cercato spazi esterni alle strutture per sostenere scelte più consapevoli da parte dei pazienti partecipanti. Sono stati individuati due spazi idonei alle esigenze dei gruppi: Il Circolo ARCI di Capalle e la Villa San Lorenzo di Sesto F.no. Il gruppo del Circolo ARCI di Capalle è frequentato da utenti provenienti dalla residenza “Le Mimose”, da “Passaggio Nord-Ovest” e dalla “ Isola delle Tartarughe” di Campi, mentre il gruppo di Villa San Lorenzo è composto da utenti di “Luna Verde” e “Isola delle Tartarughe”. Sono circa venti gli utenti che frequentano regolarmente gli atelier. 21 Attività in atelier Frequentatori come conduttori di Axel Rütten di Axel Rütten T utte le attività di arteterapia si modellano intorno al setting scelto come abbiamo già descritto nella parte intitolata “Il nostro punto di partenza” seguendo una impostazione classica individuale. Per motivi vari, come ad esempio la necessità di far comunicare maggiormente i frequentatori dell’atelier tra loro, per lavorare sulla dinamica di gruppo, per mettere in risalto capacità particolari (si veda il ciclo frequentatori come conduttori) o per porre l’attenzione in alcuni momenti più verso l’esterno che verso l’interno in modo tale da evitare una eccessiva fissazione sul proprio mondo, si possono proporre attività di gruppo. Negli anni abbiamo inserito cicli a tema condotti dall’arteterapeuta come ad esempio quello sugli autoritratti, ciclo descritto in modo più dettagliato nella parte “percorsi”. In seguito alla visita del Museo della Cittadella i frequentatori hanno realizzato teste in cartapesta, che sono stati utilizzati in seguito anche per uno spettacolo teatrale. In un altro ciclo hanno inventato un’isola la quale condividere con gli altri, inventandosi il paesaggi con case, vegetazione, etc e fantasticandosi anche una professione da svolgere in quell’ambiente. Nel nostro piccolo gruppo abbiamo creato alcune occasioni di contatto con un pubblico diverso oltrepassando cosi le frontiere della malattia per incontrare persone del territorio tramite il linguaggio dell’arte. Il termine “gruppo misto” forse non è dei più felici perché non fa capire bene al pubblico di che cosa si tratta e verrebbe da chiedere: misto di che cosa?Ogni volta che si costituisce un gruppo si tratta di qualcosa che accomuna i partecipanti: un’attività (sport, studio, arte, cucina…) o delle caratteristiche come ad esempio l’età (bambini, adolescenti, adulti, anziani), la provenienza geografica, la fede, le convinzioni politiche o caratteristiche legati allo stato di salute (malati di Alzhei- mer, disabili, alcolisti, disturbi alimentari, psichiatrici…). Ecco qui, che ci possiamo inserire con il “gruppo misto”: quando gli elementi provenienti da due gruppi differenti s’incontrano per un’attività comune possiamo parlare di gruppo misto. L’idea di base è di evitare un gruppo chiuso in se stesso e quindi soggetto ad isolamento ed ulteriore emarginazione. E’ una lunga tradizione della psichiatria italiana quella di combattere ogni tipo di stigma ed esclusione sociale: l’antipsichiatria, con la Legge Basaglia, ha dato vita ad una grande quantità di iniziative al riguardo. L’Europa di oggi guarda con grande interesse e con ammirazione a questo movimento innovativo partito dall’Italia. Le principali iniziative da noi svolte sono: “I COLORI PER DIRLO”, novembre 2004, ateliers di pittura nei Servizi Pubblici di Salute Mentale. Nell’invito rivolto alla cittadinanza è stato proposto così: “Le varie forme d’arte applicate alla terapia ed, in particolare, la pittura costituiscono uno strumento complementare di cura ormai diffuso nell’ambito dei Servizi di Salute Mentale. Questa iniziativa si propone di far conoscere le diverse tipologie operative nei Servizi alla cittadinanza, ai pazienti, familiari, operatori, artisti, amministratori e a tutti coloro i quali sono interessati all’arte, così da favorire il dialogo tra i vari approcci al fine di arricchire le modalità di risposta al disagio mentale. La mattina si articola in un’esperienza pratica presso i vari Ateliers, nel pomeriggio i partecipanti si riuniranno nella Sala de’Dugento per una riflessione sul rapporto tra arte e terapia”; “DAL SEGNO ALLA FORMA”, Villa San Lorenzo, Sesto F.no, giugno 2007. L’iniziativa è stata proposta in concomitanza ad una festa del comune di Sesto presso la Villa e ha visto un gran numero di partecipanti, che hanno disegnato, pitturato, ritagliato, incollato e in fine discusso insieme le opere prodotte durante l’incontro. 22 L ’idea di questo ciclo d’incontri che ha avuto una durata di otto mesi è il risultato di due esigenze: valorizzare il lavoro individuale e connettere il gruppo. Col tempo è emerso che alcuni partecipanti, all’interno del setting classico dove lo spazio individuale è fondamentale, rischiavano una forma di isolamento all’interno del gruppo. La non-curanza del rapporto con gli altri e la tendenza a focalizzare l’attenzione unicamente sui problemi personali senza guardare mai oltre, sono espressione di questo stato di isolamento. Questo accade in maniera più esasperata quando il mondo interno è fonte di angosce o deliri. Guardare oltre ed interessarsi agli altri vuol dire: rinunciare almeno per un po di tempo all’“autismo” del proprio mondo e delle proprie fantasie trovare conforto e comprensione nelle produzioni artistiche degli altri sperimentare empatia e dialogo sentirsi compresi e comprendere gli altri Sulla base di queste considerazioni abbiamo iniziato, prima di intraprendere questo ciclo descritto nel capitolo, ad attuare alla fine di ogni incontro un setting diverso genere: dopo la fase di lavoro individuale si appendono ad una parete, ogni volta, tutti i lavoro dei partecipanti dell’incontro e ci si siede di fronte per riflettere insieme. Vengono discussi i temi che emergono al momento. Può essere che ognuno semplicemente presenti il lavoro che ha eseguito durante l’incontro nella modalità che gli sembra più opportuna. Il conduttore aiuta con domande a focalizzare aspetti che riguardano contenuto ed anche aspetti tecnici. A volte nel gruppo si sviluppa una discussione su temi che emergono dai lavori. Partendo da questa esperienza funzionale facente parte di ogni incontro, abbiamo iniziato a proporre ai partecipanti di condurre uno o due incontri a tema. L’idea era che ognuno proponesse o un tema o una tecnica di suo interesse e caratterizzante il suo percorso personale. In questo modo temi e tecniche acquisite possono essere condivise con gli altri, il conduttore acquisisce una posizione di “insegnante “ nei confronti del gruppo, ha la responsabilità di preparare l’incontro spiegando al gruppo la sua idea, dà consigli durante l’incontro e guida la discussione finale dell’incontro. Osservare che tutto il gruppo lavora sul tema proposto, aumenta l’autostima del conduttore il quale scopre che le sue idee sono interessanti anche per gli altri. Un altro effetto importante è che il conduttore si accorge che il tema o la tecnica da lui proposti possono essere realizzati in tanti modi, anche molto diversi da quello che lui stesso utilizza abitualmente. Come si può vedere nei risultati ottenuti, tutti hanno scelto temi che hanno dato ampio spazio ad interpretazioni artistiche individuali. 23 Attività fuori dall’atelier di Axel Rütten U scite come descritte in questo capitolo servono a creare connessioni tra il mondo protetto dell’atelier e il mondo esterno nel tentativo di rinforzare in questo modo anche un dialogo tra questi due mondi. Un motivo per uscire dall’atelier di arteterapia con un gruppo di pazienti è, quasi sempre, la vista ad una mostra di opere d’arte. Frequentare luoghi dove si possono vedere opere d’arte dal vivo stimola il confronto e la riflessione su opere di altri, ma anche l’immersione e il dialogo interiore, che nelle opere d’arte può trovare uno specchio. I risultati vengono poi riportati in atelier al fine di essere elaborati. Abbiamo scelto esclusivamente artisti, rappresentanti dell’arte moderna o contemporanea in modo da permettere agli utenti di ampliare la propria cultura e da trovare rinforzi per una via personalizzata di espressione artistica libera dai vincoli dell’arte classica. La prima visita organizzata ci ha portato al Parco Museo “Quinto Martini” a Seano. Il parco ospita sculture dell’artista, nato in questo paese, e che sono state donate da lui stesso in segno di amicizia. Il parco, aperto e spazioso, invita a camminare tra le opere ed entrare in un dialogo tra le opere e la natura che le circonda. Nello stesso periodo abbiamo visitato il Museo della Cartapesta a Viareggio, luogo suggestivo, che trasmette tutto il piacere ma anche la fatica della costruzione dei carri allegorici del carnevale locale. La visita al museo della cittadella, una vera città-laboratorio, è un evento unico. Tramite una visita guidata ai capannoni, dove gli artisti creano, abbiamo potuto vedere vari carri allegorici in costruzione e conoscere i loro artefici. Gelosi dei loro segreti, gli artisti che lavorano tutto l’anno alla produzione dei loro carri, che poi partecipano alla annuale premiazione e ai cortei, non raccontano volentieri i dettagli delle tecniche di realizzazione delle loro opere. Alcune di loro arrivano anche ad altezze vertiginose di 10 o 12 m utilizzando legno, corde, impalcature, scale, etc. In genere trattano temi politici attraverso caricature e provocazioni rispetto a temi e personaggi contemporanei. Alcuni, pochi invece, come il nostro artista Jonatan, trattano anche temi più legati alla psiche umana e agli stati emozionali. Il gruppo è rimasto colpito da una parte 44 dalle dimensioni delle opere, dai colori brillanti, dalla passione degli artisti, e dall’altra anche dai temi più profondi rappresentati dai carri. La terza visita ci porta al CAMeC di La Spezia con la mostra di Tinguely e Munari, Visitare mostre di artisti moderni e contemporanei, specialmente quando realizzano anche sculture ed installazioni, dà la possibilità di ampliare la vista su altre tecniche ed altri modi di interpretare il mondo. Le figure metalliche, meccaniche, dure, movimentate e nello stesso momento poetiche insieme ai giochi di luci, trasparenze e leggerezze di Munari hanno dato molto materiale nuovo al gruppo. La visita guidata nei vari piani del museo ne ha fatto un evento importante. La mostra “Moi! Autoritratti del XX secolo”, arrivata anche a Firenze dopo l’apertura a Parigi, ci ha permesso di poter studiare opere importanti dopo un ciclo d’incontri nell’atelier sul tema dell’autoritratto. In questo caso abbiamo svolto prima il lavoro in atelier tramite fotografia, elaborazione di fotocopie, disegni e dipinti sul tema per poi confrontarci con gli stili dell’arte moderna e contemporanea. Alcuni dei lavori si trovano nel capitolo sul ritratto e autoritratto. La visita al museo del Bargello di Firenze nel maggio del 2006 è stata l’unica occasione nella quale ci siamo immersi in opere antiche in un’ambientazione rinascimentale. In quel periodo il museo proponeva una mostra con opere del Giambologna Nella primavera del 2007 è stata proposta la mostra del Laboratorio artistico “La Tinaia” di Firenze presso la casa del popolo di Calenzano. Le opere degli artisti seguiti dall’associazione, realtà affermata nell’ambito internazionale dell’ art brut e dell’outsider art, sono di forte impatto e forse a causa dell’affinità con i partecipanti del nostro gruppo, non c’e stato elaborazione in seguito. Nello stesso anno: La più grande mostra e retrospettiva di Daniel Spoeri “Non per caso” al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. I contenuti della mostra sono stati elaborati in atelier. La visita al grande maestro del colore del ‘900 Cezanne a Firenze è stato di importante insegnamento per il gruppo in quanto ha permesso di aggiornare i propri schemi compositivi e rappresentativi nel disegno e nella pittura. Nello stesso anno si è visto a Firenze la mostra di Giovanni Fattori: “Fattori e il naturalismo in Toscana”. Nonostante Fattori sia un classico, ha ugualmente dato al gruppo alcune informazioni importanti rispetto ad un periodo collocabile tra il classico e il contemporaneo. La pittura dal vero ha mantenuto il suo fascino. Nel 2008 il gruppo ha visto esposte le opere di Axel Rütten presso “Grafio” a Prato. La mostra “Raumgebilde”, ha permesso al gruppo di comprendere la formazione artistica del conduttore arteterapeuta e la sua comprensione dell’arte. I contenuti della mostra sono stati elaborati in luogo. “Antonio Ligabue è a Pontassieve” e “Genio e follia” a Siena hanno introdotto il 2009 con due mostre difficili da accettare. Ligabue ha suscitato forti e contrastanti sentimenti, da una parte ammirazione per il suo stile diretto e “naif” e dall’altra repulsione e rifiuto in quanto vissuto uno dalle caratteristiche “simili” a quelle dei partecipanti. 45 Il punto di vista dell’educatore (prima parte) Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d e c/f “L’isola Delle Tartarughe” di Campi Bisenzio G eneralmente l’educatore svolge sul campo una funzione di io ausiliare, in tutti gli ambiti che quotidianamente l’utente frequenta nella sua presa in carico. L’utenza che ritroviamo nei servizi di salute mentale è spesso caratterizzata da una relazione problematica col proprio ambiente per cui, volendo descrivere per sommi capi la nostra funzione di educatori, ci potremmo definire anche come persone che utilizzano le proprie capacità di adeguatezza rispetto ai vari eventi della vita per fornire un orientamento agli utenti al fine di recuperare una maggiore integrazione col loro mondo (interno ed esterno). Nelle strutture intermedie, quindi, nel tempo si stabilizzano dei gruppi di persone nei quali noi educatori siamo presenti in quanto detentori, per definizione, ma anche per forza di cose, del giusto senso della realtà, della misura e di quant’altro occorra per integrarsi nel mondo, mentre gli utenti sono parte del gruppo proprio perché in diversa misura deficitari di questi sensi. Questo particolare rapporto di ruoli però, con le inevitabili frizioni che esso produce in contenitori come le case famiglia, i centri diurni o le residenze assistite, insieme alla lentezza con cui si verificano cambiamenti apprezzabili nel decorso delle patologie, favorisce un processo di cristallizazione nella relazione tra utenti e operatori. Può succedere così che l’educatore finisca per confondere i tratti di cronicità di un utente, quelli più resistenti al cambiamento, con l’identità peculiare dello stesso. C’è da considerare anche che per molti utenti, la struttura intermedia è l’unico ambito di socializzazione di gruppo alternativo alla famiglia. Gli inserimenti lavorativi danno luogo solitamente a relazioni sociali la cui natura è certamente più professionale, il centro diurno e la casa famiglia così come la comunità protetta sono terreni fertili per la nascita di relazioni significative, tra operatori ed utenti la cui natura non può prescindere da aspetti affettivi. Noi educatori, quindi, spesso rappresentiamo il mondo quotidiano dell’utente, e anche se esso non è proprio quel luogo verso cui la riforma della legge 180 voleva far tornare la questione del disagio psichico, è proprio qui che l’utente ha l’occasione di incontrare l’altro in cui riflettersi, con cui misurarsi, per accedere per quanto possibile alla consapevolezza di sé. In un atelier d’arteterapia, a differenza della maggior parte 54 degli ambiti quotidiani, si lavora per esprimere tramite forme visive ciò che si è integralmente, anche negli aspetti di evidente inadeguatezza. In questo contesto, quindi, abbiamo dovuto parzialmente rinunciare ad essere figure di riferimento e condividere col gruppo di utenti un lavoro di espressione di sé in cui quello che conta è essere sé stessi, differenziarsi e comunicare la propria autenticità, la propria unicità. La funzione di io ausiliare, in questo caso, si esplica nel coinvolgersi, a fianco degli utenti, in un gruppo esperienziale. Può essere successo che un utente abbia utilizzato in modo particolarmente ripetitivo un tema od una tecnica, ed allora noi siamo stati tentati di intervenire, come se si fosse trattato di attenuare una fissazione proponendo un modo di porsi più elastico.. L’arteterapeuta, invece, con pazienza e discrezione, in questi anni può averci insegnato a rispettare il modo di essere degli utenti, quando esso si tramuta in un fare artistico. di esprimere la propria creatività, è stata quella di poter condividere col gruppo di utenti l’espressione di quelle stesse dimensioni esistenziali che sono alla base della necessità della loro presa in carico, ma che qui diventano icone, figure, colori, interpretazione di una tecnica, temi nei quali immergersi in contemplazione cercandovi le proprie corrispondenze interiori, anche quelle che possono inquietare maggiormente. L’arteterapia in questo senso ha curato la nostra relazione col gruppo degli utenti alleggerendoci dal compito quotidiano di contenitori, e restituendo agli utenti, in questa relazione, una nuova capacità propositiva di se stessi, delle loro idee dei loro sentimenti, della loro visione del mondo. Allo stesso tempo però, le immagini espresse all’atelier raccontando il mondo interno di chi le frequenta, possono divenire elementi di orientamento, strumenti preziosi per il lavoro dell’educatore. La cura ha avuto maggiore efficacia proprio là dove eravamo più convinti che un utente fosse ciò che pensavamo che fosse, e invece siamo stati stupiti, sorpresi non dall’evoluzione clinica, che, pur palese, non saremmo stati in grado di misurare o attribuire a questa o ad un’altra cura, ma dalle forme e dai colori che le loro (e le nostre) mani e le loro (e le nostre) persone producono all’atelier. Un convincimento patologico, infatti, se espresso attraverso un disegno oppure con un particolare approccio alla tecnica invece che con un comportamento problematico, assume una sua verità condivisibile, permettendo di essere letto come se fosse vero, esattamente come le opere di artisti che non devono necessariamente essere connesse direttamente ad elementi di concretezza per avere un significato. In Arte chi guarda si assume sempre la responsabilità del significato che attribuisce a ciò che vede. Per quanto estremo qualsiasi contenuto espresso in Arte può essere ritrovato nel mondo interno del fruitore e non c’è disperazione, gioia, ossessione, desiderio o inadeguatezza, per fare alcuni esempi che non possa essere espressa o riconosciuta dentro ogni essere umano. Così l’opportunità di frequentare un’atelier d’artetereapia come educatori, oltre a quella forse più ovvia Un piccolo toro nero, un busto dallo sguardo vuoto, un pesce dalle squame lucenti, la sintesi spaziale con cui è stata reinterpretata una scultura di Moore, gli occhi dell’autoritratto del giovane Picasso, così somigliante a quelli dell’autore dell’omaggio all’artista, una “mater” ispirata all’arte precolombiana che sembra emergere da una laboriosità preistorica, l’azzurro di un fiume costellato di ponti, una “vetrata” di colori in tecnica mista, un padre “cacciatore” col fucile sulla spalla, sono queste alcune delle cose preziose e nuove che animano e arricchiscono le nostre relazioni con gli utenti oggi grazie all’arteterapia. 55 Il punto di vista dell’educatore (parte II) Gli educatori della Coop. Di Vittorio del c/d “ La Luna Verde” di Sesto Fiorentino I l ruolo dell’educatore nell’ambito dell’attività di Arteterapia è complesso e comprende molteplici aspetti anche di tipo professionale, come la partecipazione alla fase progettuale insieme all’equipe del servizio. La scelta di inserire un laboratorio di Arteterapia tra le proposte riabilitative va collocata in un contesto che vede privilegiare le attività espressive e le Artiterapie nel loro complesso (Teatroterapia, Musicoterapia, discipline corporee e Danzamovimentoterapia, scrittura creativa) allo scopo di favorire la conoscenza ed espressione di sé, la scoperta di canali di comunicazione del proprio mondo interiore, l’ autonomia, lo sviluppo di relazioni con gli altri, l’allargarsi del campo delle relazioni sociali. In tal senso sono stati predisposti setting che prevedono la presenza di pazienti di più strutture, incontri a cadenza regolare, momenti di laboratorio aperti alla cittadinanza, luoghi di svolgimento dell’attività collocati il più possibile nel contesto sociale. I pazienti sono stati inseriti al laboratorio in base a motivazioni personali e per aderire al progetto personale di cura. Per quanto riguarda la parte più specifica dell’intervento riabilitativo dell’Arteterapia è il conduttore dell’Atelier a portarla avanti nel corso degli incontri, confrontandosi con l’equipe nei momenti di verifica. possibilità di dar voce alla propria creatività e mondo interiore per mezzo di disegni, pitture sculture, esattamente come gli utenti. Generalmente non fa proposte, non si sostituisce o sovrappone all’Arteterapeuta, può al limite far da cassa di risonanza alle sue indicazioni o avere un atteggiamento di incoraggiamento. Rappresenta un sostegno all’utente, un punto di riferimento importante. Il clima all’interno del setting è disteso, vi è libertà di espressione, non vi è giudizio; c’è chi si concentra sul suo lavoro, chi preferisce conversare, ognuno segue il suo percorso personale ed è nello stesso tempo insieme agli altri. La parte finale dell’incontro è destinata all’osservazione dei lavori realizzati e alla comunicazione verbale del proprio vissuto l’Arteterapeuta facilita, con i suoi interventi, la verbalizzazione. Vedere le opere realizzate permette un viaggio nei diversi modi di esprimersi creativamente e offre all’educatore un approccio di conoscenza dei pazienti diverso dal quotidiano. E’ un mondo di colori, forme, contenuti che spesso stupisce anche dal punto estetico. L’essere all’interno dell’Atelier ha dato modo all’educatore di arricchire la conoscenza e la relazione con il paziente. Ha inoltre rappresentato una fonte di consapevolezza e di crescita personale permettendogli di esprimersi creativamente, di sperimentarsi con varie modalità artistiche, di lasciare affiorare i propri contenuti interiori e lavorare su di essi. Per quanto riguarda i risultati oggettivi raggiunti è difficile generalizzare, ogni persona rappresenta un caso a sé stante. Si può comunque affermare che l’attività è stata seguita nel corso degli anni con continuità e attenzione da un discreto numero di pazienti e che in loro si è potuto osservare un progressivo aumento L’ Atelier è seguito da un educatore in maniera continuativa e da altri che vi partecipano con una certa regolarità. Vi sono compiti pratici o legati al proprio ruolo da assolvere: verificare la fornitura dei materiali, monitorare le presenze, organizzare visite, compilare schede e relazioni periodiche. L’aspetto più delicato e interessante è legato a ciò che viene vissuto in prima persona dall’educatore durante gli incontri. L’educatore partecipa attivamente alle sessioni e quindi ha la 58 delle capacità di potersi esprimere con un mezzo artistico e di poter comunicare verbalmente la propria esperienza. All’interno delle sessioni è andata ad attenuarsi, fino a scomparire, l’esigenza di alcuni presenti di allontanarsi ogni tanto dal setting per motivi personali vissuti come imprescindibili. Adesso chi partecipa all’incontro è intento quasi senza interruzione al suo lavoro. L’elasticità con cui è concepito il laboratorio, il non richiedere il silenzio assoluto, e non dare consegne precise su ciò che deve essere fatto, è una situazione ottimale per pazienti che hanno difficoltà ad inserirsi in setting più strutturati. Il setting di Arteterapia permette un lavoro su se stessi e il raggiungimento di una certa introspettività seguendo ritmi che si confanno all’utente, che segue il suo percorso personale sentendosi accolto per quello che è. Certo, la libertà di espressione, il non avere indicazioni vincolanti può in centri casi spaventare il foglio bianco richiama il vuoto e spesso si è sentito domandare e soprattutto domandarsi: “E adesso che cosa disegno?“ Ma con il tempo ognuno sembra aver trovato la sua strada, sia chi lavora da anni, sia chi si è inserito da poco. Persone che in altri contesti “disturbano“ ponendo, per esigenze di ripetitività della patologia psicotica, sempre le stesse domande e gli stessi argomenti, all’interno dell’atelier allentano in maniera naturale tali tendenze, conversano con le persone dell’altro centro con meno ossessività, manifestando curiosità per il disegno e le sculture altrui, dedicandosi nello stesso tempo al proprio lavoro. Per alcuni pazienti l’ Arteterapia è pressoché l’unica attività a cui aderiscono. Quando l’atelier è stato spostato all’esterno dei locali del centro diurno, a Villa S. Lorenzo, sede del centro civico importante luogo culturale e punto di riferimento per la cittadinanza Sestese, gli utenti hanno approfittato dell’occasione per uscire dalle proprie chiusure pato- logiche. In tal senso può risultare esemplificativo il caso di un paziente che ha seri problemi a fare qualsiasi cosa fuori della struttura e che all’inizio aveva difficoltà anche solo a condividere lo spazio della stanza con altre persone e adesso mostra nuove capacità interrelazionali, evidenti anche fuori dal setting, mentre all’interno del laboratorio sperimenta tecniche e rappresentazioni in libertà. Forse il raffinato cromatismo dei suoi collages prodotti in passato (i disegni non venivano generalmente colorati) era quasi un “presagio“ di una ricchezza emotiva tenuta nascosta! Chiaramente i cambiamenti riscontrati non sono dovuti ad un unico fattore ma il contributo dell’Arteterapia appare rilevante. All’interno dell’Atelier, oltre all’attenzione che ognuno dedica alla propria produzione artistica, è aumentata nel tempo, nella parte della condivisione verbale, la capacità di stare ad ascoltare gli altri e di trovare le parole per spiegare il proprio lavoro. Quello che nei primi tempi era vissuto con impazienza, non vedendo l’ora di andare via, probabilmente per il disagio provocato dalla restituzione di temi interiori scottanti, adesso trova tutto il gruppo interessato a condividere il proprio vissuto. Un utente dalle forti difficoltà di verbalizzazione, di cui è a volte difficile capire il senso dei discorsi, ci ha meravigliato con alcune osservazioni acute sulle opere degli altri ed è riuscito ad assegnare titoli e a fornire semplici informazioni sui propri disegni, immagini variegate del suo mondo interiore. L’ evoluzione positiva delle componenti relazionali, il suo essere maggiormente “presente” sono state notate anche fuori dall’atelier, nei rapporti con gli altri utenti e con gli operatori. La frequenza del laboratorio di Arteterapia ha rappresentato per il gruppo e i singoli una fonte di crescita che ha permesso di conoscere aspetti di sé che sono stati comunicati agli altri per mezzo della immediatezza visiva delle opere e delle verbalizzazioni, in un contesto adatto all’ampliarsi delle relazioni sociali. 59 (Auto) - Ritratto di Pamela Palomba e Axel Rütten A bbiamo iniziato con un ciclo di lavori che possiamo intitolare “Autoritratti”. La nostra scelta di iniziare con gli autoritratti e non con i ritratti deriva dalla necessità d’essere coerenti con il mondo del disturbo mentale nel quale il paziente, spesso, è prigioniero del proprio mondo interiore ed è per questo motivo che pare, dunque, logico focalizzare l’attenzione con gli strumenti dell’arteterapia su questi aspetti, nel senso di affrontare il conflittuale dialogo tra il dentro e il fuori partendo da un’introspezione che esprime la peculiare visione che l’autore ha di se stesso. Il lavoro in atelier è stato proposto in varie fasi utilizzando anche tecniche diverse. All’inizio i partecipanti sono stati invitati ad eseguire autoritratti a dimensione reale sagomando la propria figura su un grande foglio bianco appeso ad una parete. L’interno della sagoma doveva essere riempito con elementi reali come parti del corpo, vestiti, etc, ma anche con elementi o colori che potevano esprimere un modo di sentirsi e perciò non corrispondere alla realtà superficiale e visibile dall’esterno. In una fase successiva abbiamo proposto al gruppo, partendo da ritratti fotografici dove ognuno è stato invitato a farsi scattare tre fotografie raffiguranti tre espressioni del viso diverse: normale, arrabbiata, sorridente. Le foto sono state scattate dal conduttore all’intero dell’atelier in un setting organizzato. E’ stato molto interessante osservare l’interpretazione che ogni partecipante ha dato dei tre stati d’animo diversi l’uno dall’altro. Alcuni hanno presentato una mimica facciale molto accentuata mentre altri sembravano non cambiare volto passando da uno stato all’altro. Questo accadimento potrebbe essere letto semplicemente come una capacità più o meno accentuata di “fingere” teatralmente un’espressione, che in quel momento forse non corrispondeva tanto al vero, o come una maggiore o minore capacità di entrare in sintonia con stati interiori e trovarne un’espressione immediata all’esterno. In ogni caso è stato molto interessante e coinvolgente, per alcuni addirittura divertente, per altri invece un motivo di tensione e rifiuto. Una volta stampate le foto, abbiamo invitato i partecipanti ad elaborare queste foto in diversi modi scegliendo quella preferita tra espressione normale, arrabbiata, sorridente, nella quale si riconoscevano maggiormente. I partecipanti, precisamente, hanno sottoposto la foto scelta alla seguente fase d’elaborazione: colorare una fotocopia in bianco e nero sbiadita del volto scelto con l’uso di mezzi grafico-pittorici inserire l’autoritratto fotografico in contesti vari con l’uso del collage completare la propria figura aggiungendo le parti mancanti tramite interventi grafico-pittorici eseguire un autoritratto con i mezzi grafico-pittorici 62 La figura assomiglia ad un pirata per il fazzoletto rosso in testa, la barba un po’ trascurata, un apparire tra il sicuro e l’aggressivo. I colori scelti per l’opera sono vivaci e solari e, in particolar modo, la figura del pirata e il sole sono contornati con grosse pennellate nere che, nel caso della figura, danno maggiore risalto ai colori, ma anche una certa rigidità ed evidenziano le mani che sono particolarmente grandi. Al primo impatto si ha l’idea di una figura che esce fuori da uno sfondo dello stesso colore della figura stessa che solamente si intensifica in un corpo piatto per dargli consistenza. La figura si muove energicamente verso lo spettatore con uno sguardo diritto però non facilmente decifrabile. La figura richiama l’idea di un uomo con gli occhiali ed è forse il rosso intenso utilizzato dall’autore per colorare il viso che lo rende un po’ inquietante e un po’ extraterrestre. Melanconia potrebbe essere un’ espressione adeguata per riferirsi a quest’opera. Lo sguardo pare diretto verso un vuoto o forse rivolto nello stesso momento verso l’interno della figura femminile, vestita elegantemente in una posizione dove le braccia sono legate al corpo tramite un qualcosa di grigio che assomiglia a tessuto o che ricorda le ali di un pipistrello. L’ambiente che circonda la giovane donna è trattato con pennellate astratte e rinforza l’idea del disperdersi in ricordi tristi e solitudine. Le immagini qui proposte sono accompagnate da descrizioni che noi autori proponiamo per avvicinare il lettore a questo mondo e non da decodifica in quanto applicabile solamente all’interno di un percorso fatto di un consistente numero di produzioni realizzate dai pazienti. 63 Ritratti L Le varie proposte dovevano servire a riflettere sull’idea che ognuno ha su se stesso, tra sogno e realtà. Il lavoro di inserimento in un ambiente del proprio ritratto è stato percepito e utilizzato come contenitore per esprimere sogni e desideri: vediamo collage con bellissimi paesaggi di mare, sogni di ricchezza espressi con macchine costose, barche a motore ecc, campagna, montagna. In collage che contengono più elementi i partecipanti affrontano situazioni anche più conflittuali, come l’aggressività repressa, stress da prestazione, il rapporto conflittuale con l’altro sesso, conflitti legati al mondo della religione, il corpo e il rapporto con il cibo. Nella parte successiva dove è stato proposto di completare la figura aggiungendo le parti mancanti (dalle spalle in giù) si sono manifestati con evidenza il rapporto conflittuale con il proprio corpo: dimensioni e proporzioni diversi dalla realtà. L’ultima parte poi ha visto la realizzazione di autoritratti in dimensioni ridotti. In seguito a questo ciclo di lavoro in atelier abbiamo visitato la mostra “Moi – autoritratti del XX secolo” a Firenze. e opere descritte in questo capitolo non sono il risultato di un ciclo di incontri a tema, ma di lavori realizzati nei percorsi individuali e quindi da comprendere in questo senso. E’ una raccolta “orizzontale” nella quale abbiamo unito diversi lavori divisi in diverse categorie di ritratti. Vi troviamo ritratti copiati da libri, ritratti inventati e ritratti dal vero. Per quanto riguarda le prime due tipologie di ritratti, talvolta possiamo parlare di veri e propri autoritratti, pur trovandoci di fronte a disegni o dipinti che raffigurano una persona diversa dall’autore o, addirittura, un personaggio inventato nel quale, però, l’autore ci proietta qualcosa di sé, ci ritrova sue caratteristiche, modi di essere e aspetti del suo mondo interiore. Può anche succedere che il paziente scelga di ritrarre un soggetto che svolge la funzione di alter- ego e che, quindi, gli consente di far riaffiorare in superficie aspetti di sé tenuti a bada, dormienti. Si può dunque comprendere che la linea di demarcazione che c’è tra la categoria dei ritratti e quella degli autoritratti può diventare così sottile da rendere talvolta difficile il comprendere se ci troviamo di fronte al tentativo di ritrarre se stessi oppure gli altri. Inoltre, il copiare un’immagine da un libro può avere un effetto rilassante sull’autore che, pur non dovendo dichiarare l’intenzione di ritrarre se stesso e non dovendo impegnarsi in una ricostruzione della sua identità, si ritrova davanti forme e colori già “preconfezionati” nei quali deve solo predisporsi a vedere/ ritrovare se stesso. Anche il titolo (Auto) – ritratti che abbiamo dato a questa prima parte del capitolo Percorsi lascia intendere che, nell’ambito dell’arteterapia, un ritratto è sempre potenzialmente un autoritratto. 64 65 Ritratti fantastici Più che al ritratto di una persona, sembra di trovarsi di fronte al ritratto degli organi interni di una persona o, meglio, di una persona profondamente identificata con i suoi organi interni. Vediamo disegnato un cuore accanto alla testa di un essere dalle sembianze vagamente umane. Un essere che sembra composto da tre organi: un ventre rigonfio, un tubo da cui scendono tre semi rossi ed una testa con tre punte in cui è ben visibile un volto. Alla sinistra della figura notiamo un contenitore-ovulo dentro il quale sta un essere che ricorda un feto. Ciò che colpisce di quest’immagine intitolata dall’autrice “Il verbo di Dio” è il vortice che esce dalla bocca semiaperta della donna ritratta. E’ come un flusso energetico che si presenta sottoforma di vortice il quale ha a che fare sia con l’elemento acqua, data la presenza del colore azzurro e di fiotti che fuoriescono dal vortice stesso, e con l’elemento fuoco considerando il rosso della bocca, dei capelli ed i fiotti questa volta neri come fumo, che fuoriescono sempre dal vortice. E’ un movimento che dall’interno và verso l’esterno della donna che rimane immobile, con lo sguardo un po’ attonito, quasi cristallizzata per poter sostenere la potenza del processo in corso. Il titolo del resto ci suggerisce che si tratta di un processo in cui è coinvolto il verbo, la parola di DioCreatore che, sottoforma di vibrazioni energetiche e sonore, dà inizio ad un processo creativo. 66 E’ un uomo dietro le sbarre ma, come potete notare, non completamente. C’è una sbarra accanto a lui che, non essendo stata completata, provoca l’effetto di farci vedere questo personaggio contemporaneamente un po’ dentro e un po’ fuori rispetto alla prigione. La descrizione di questa situazione riguarda la difficoltà vissuta dall’autore nel relazionarsi al mondo esterno con una certa continuità e del ritrovarsi imprigionato in se stesso pur non volendolo completamente, pur lasciando uno spiraglio, un’apertura verso l’esterno. I capelli ritti per lo spavento sono di uno colto di sorpresa, l’espressione del viso invece è di uno abituato a subire da parte di se stesso questo “scacco” ed anche, però, impegnato data l’assenza di parte della sbarra a mantenere un contatto con l’esterno, nonostante tutto. Siamo di fronte al ritratto di un super-uomo muscoloso con tanto di cintura dai super-poteri e, però, contemporaneamente bloccato in questa posizione da una palla al piede della quale non riesce a liberarsi. Il super-uomo sorride come se fosse abituato a vivere in questa condizione contraddittoria. 67 Ritratti copiati Gli otto ritratti scelti per questo capitolo sono tutti copiati più o meno fedelmente da opere di artisti, modificando qualche volta la tecnica artistica rispetto all’originale e mettendo in risalto aspetti dei ritratti particolarmente interessanti per l’autore come ad esempio sguardo, colori o posizione della figura. 68 Queste opere non hanno la pretesa di essere ricopiate in modo accademico dagli originali, ma appartengono alla categoria delle opere recettive, dove il guardare opere artistiche diventa una possibilità di ritrovare aspetti della propria personalità. La riproduzione e la libera interpretazione dell’opera lasciano spazio per un confronto più approfondito e per una maggiore identificazione con l’opera. 69 Ritratti dal vero Dedicarsi al volto di un’altra persona richiede attenzione e capacità di osservazione, non soltanto per comprendere l’anatomia del volto, ma per rendere il ritratto un’ interpretazione personale dell’altro. 70 La percezione dell’altro e la capacità di rendere visibile in un’opera questi aspetti particolari danno il tocco artistico all’opera. 71 Sculture in argilla di Pamela Palomba e Axel Rütten L ’ultimo capitolo di questo libro è dedicato alla scultura in arteterapia e come spesso si usa fare nei libri alla fine si mettono le cose più care. Non possiamo nascondere di essere particolarmente legati al lavoro della scultura e ammettiamo che più tempo le dedichiamo più ci piace. Il lavoro con la scultura in arteterapia non è ancora molto popolare e ancora da sviluppare in molti dei suoi aspetti. Vogliamo dare, attraverso questo capitolo, un piccolo contributo in modo che esso si possa sviluppare meglio, possa trovare un circuito di appassionati per raggiungere il suo posto di parità rispetto alle altre tecniche artistiche utilizzate in arteterapia. Quasi tutte le persone che parlano d’arteterapia, inclusi gli arteterapeuti stessi, intendono riferirsi, con tale termine, alle tecniche grafico-pittoriche e quasi mai alla scultura. Negli ultimi anni l’arteterapia si è sviluppata in diverse direzioni ampliando da una parte la tipologia di pazienti che tratta e dall’altra parte includendo forme di espressione artistica prima non considerate come ad esempio il collage, l’illustrazione, il lavoro con materiali di recupero, la fotografia, writers etc. Quando si parla di scultura bisogna ricordarsi che si tratta, nel senso originario della parola, solamente di tecniche che lavorano un blocco di materia riducendone il suo volume come ad esempio la scultura in pietra o in legno. Tutte le altre tecniche sono conside- rate scultoree perché operano nella tridimensionalità e producono oggetti che occupano spazio reale: sculture in metallo, fusioni, sculture in materie plastiche o terrecotte. Arriviamo a quella piccola parte all’interno di un vasto mondo (terreno) chiamato sculture che ci interessa indagare un po’ meglio: la modellazione con l’argilla tramite la quale si arriva ad ottenere sculture in terracotta. Nel caso dell'argilla la scelta è motivata dal suo primato tra i materiali di scultura nell'atelier di arteterapia. E' la regina dei materiali per le sue qualità terapeutiche intrinseche, e per la varietà di possibilità che propone a livello di modellazione: è malleabile, dinamica, sempre recuperabile. Per noi l'argilla è il materiale (scultoreo) più importante nell'atelier di arteterapia. E' custode della storia dell'umanità e ogni volta che si prende in mano un pezzo d’argilla, questa storia si rianima attraverso le mani del modellatore. Materiale prezioso (non per il suo prezzo commerciale, anzi da questo punto di vista è piuttosto conveniente) ed efficace nell'impatto, apparentemente inerte e senza forma specifica, duttile, malleabile, assorbe e cede alla volontà del modellatore senza opporre resistenza. Segue i movimenti e le forme che il modellatore imprime e tende, in una prima fase, a sottomettersi completamente alla sua 72 volontà. Sembrerebbe non porre alcuna resistenza e non possedere né forma né volontà propria. Quando meno la persona inesperta se lo aspetta, questo materiale si impone con una tale forza e potenza che l'artefice rimane quasi travolto dal rovesciamento di ruolo, in un' ondata di emozioni trasmesse dal contatto diretto con le mani. L'argilla “regina” si è impossessata del suo modellatore. L'argilla va dritta al cuore, sveglia ricordi ed emozioni, odori e suoni dalle profondità dell’animo umano, dagli angoli remoti della memoria. Le mani che toccano l'argilla incominciano a ricordare mentre essa diventa uno specchio nel quale l'immagine si chiarifica come in uno specchio d'acqua e si manifesta nella scultura in maniera così reale e diretta da creare stupore. L'argilla fresca è viva; viva perché contiene acqua che è la fonte della vita. Le sculture fresche sembrano vive. Appaiono così vive che sembra di sentire le loro voci e di scorgerne i movimenti. Non appena finito il lavoro, questi manufatti hanno ancora le mani dei loro modellatori impresse sul volto, nei capelli, sul collo, divenendo così espressione di profondi dialoghi interiori. Troppo, a volte, tutto questo per proporlo in atelier dove può capitare che i pazienti non vogliano toccare, sporcarsi le mani, entrare in contatto così diretto e senza mediazione con le proprie emozioni. E' comprensibile e sappiamo ormai a questo punto il perché: l'argilla è la potente dea del risveglio delle emozioni. Proponiamo allora nei nostri percorsi delle mediazioni che fanno avvicinare lentamente alla modellazione con le mani e al tutto-tondo. Il basso rilievo, l'incisione su lastre e l'uso di attrezzi, ad esempio, possono aiutare a mediare questo impatto. Alcuni pazienti arrivano alla modellazione a tutto tondo, altri no, altri ancora non toccheranno mai l'argilla perché vissuta come sporca o per la paura di sporcarsi. Si pensi a come l'argilla nel suo stato di mollezza ottenuto attraverso l'aggiunta di acqua possa trasformarsi in fango e, se la quantità di acqua è maggiore dell'ar- gilla, addirittura in acquitrino trasmettendo, inevitabilmente, una sensazione di sporco. L'argilla è soggetta ad un percorso di trasformazione collocabile all'interno di una scala costituita da due polarità, mollezza e durezza. Siamo noi a decidere, all'interno di questa scala, quale gradazione scegliere per l'argilla, se renderla molle fino a farla diventare come fango o dura fino a farla diventare come pietra. Il destino dell'argilla è quello di rimanere in equilibrio tra più elementi naturali: 1. La terra e l'acqua di cui è composta per sua stessa natura 2. L'aria che in una prima fase è nemica dell'argilla in quanto tende a deprivarla dell'acqua così necessaria alla sua sopravvivenza; mentre in una seconda fase si rivela sua amica in quanto ne stimola il processo di essiccazione preparatorio alla cottura 3. Il fuoco che pone fine al processo di trasformazione dell'argilla dandole una forma stabile, definitiva, sottraendola al pericolo di deterioramento (si pensi a quanto una scultura in argilla ormai essiccata sia fragile, soggetta a creparsi, a rompersi) Il fuoco “eternizza” l'argilla donandole così tutta la dignità tipica dei materiali, anzi, dell'unico materiale, la pietra, che riescono a sfuggire al logorio del tempo. Tentativo questo condiviso dagli esseri umani in generale. Interessante è notare che nella cultura occidentale esistono miti inerenti la creazione del primo uomo come, ad esempio, quello contenuto nell'Antico Testamento dove si racconta che Dio ha usato la terra dei campi, modellandola, per creare Adamo e l'aria soffiandola nella narice della sua "scultura" per animarla. Ritornando all’aspetto dell'argilla vissuta come sporca, nel momento in cui questo materiale si trova in uno stato di equilibrio dei suoi elementi costitutivi, terra e acqua, il modellatore non dovrebbe provare sensazioni di disagio. Talvolta, però, accade che ugualmente l'argilla eserciti come una sorta di effetto regressivo, revocatore di stadi dell'evoluzione psichica dove il sen74 so dell'esistere viene scandito dal fluttuare in liquidi, dal produrre, trattenere e rilasciare materia organica. Quando il terapeuta nota che nel paziente c'è un processo regressivo in corso, è sconsigliabile proporre l'utilizzo dell'argilla. I bambini piccoli, invece, vivono l’ aspetto regressivo dell'argilla come una condizione spontanea e naturale che provoca piacere e divertimento. E' sconsigliabile utilizzare l'argilla anche in atelier con anziani in condizioni psico-fisiche non ottimali in quanto essa, per via delle sue componenti terra-acqua-umidità-freddo e terra-assenza di acquasecchezza- friabilità, ricordano lo stato della morte. Per quanto riguarda gli aspetti terapeutici dell'argilla, occorre parlare a questo punto di quelli ottenuti tramite la tecnica proposta. Il lavoro chiamato "tuttotondo" è fondamentalmente un lavoro sulla "pelle", intesa come membrana sensibile tra il dentro e il fuori, tra la figura e lo spazio che la circonda, tra una densità (materia argilla) ed un'altra (aria) e costituisce, in tale modo, una chiara definizione degli spazi, delle espansioni, riduzioni, volumi e relazioni che riguardano direttamente la personalità dell'artefice. E' importante tenere presente che un lavoro di modellazione non è possibile senza prendere una posizione chiara che definisca confini, volumi, equilibri che diventano reali e tangibili. Contenimento è la parola chiave anche per la qualità dei percorsi terapeutici. Modellare l'argilla significa fare un lavoro di contenimento in materia (argilla) all'interno di limiti (pelle) che crea figura. Questa è la forza che imprime l'argilla nel suo modellatore, lo sforzo che richiede, la pressione che esercita su di lui e, al contempo, la grande possibilità che gli offre. 75 Atelier di Scultura di Axel Rütten N ell’ultimo anno si è creato un gruppo di pazienti che lavora con particolare intensità l’argilla. Abbiamo potuto osservare, con un certo stupore, questo diffondersi del lavoro scultoreo. E’ vero che quando qualcuno inizia, spesso, altri la seguono. Questo è già successo altre volte ma mai abbiamo visto gruppi lavorare con una tale costanza e passione questa materia così complessa. Le opere che dimostriamo qui sono alcuni esempi di lavori realizzati in piccola e media dimensione. Per ogni opera proponiamo almeno tre fotografie, da diversi punti di vista, in modo tale da facilitare al lettore la comprensione dell’insieme delle forme. Documentare sculture è molto complesso in quanto il punto di vista che si sceglie per la fotografia diventa facilmente un’interpretazione dell’opera dando così più valore ad una parte rispetto ad un’altra. L’utilizzo di un’unica foto, inoltre, non permette di comprendere la dimensione e l’espansione della scultura nello spazio e tanto meno di comprendere come le forme sono interconnesse l’una all’altra. Proporre più foto non risolve di certo il problema, tuttavia amplia le possibilità di lettura e riduce il problema dell’interpretazione. Un’altra domanda che ci siamo posti è se sia meglio proporre la foto della scultura appena modellata in stato umido oppure solo quando è cotta e quindi nel suo stato definitivo ed irreversibile. La riposta non è facile, perché l’autore ha lavorato con l’argilla fresca e quindi tende ad attribuire la paternità all’opera che si trova ancora in questo stato della materia anche se ogni modellatore sa che la sua opera, conclusa la lavorazione, va portata a cuocere per essere così esposta al processo di trasformazione e cristallizzazione tramite il fuoco. La scultura poi passa attraverso uno stato che assomiglia a quello della morte, ciò è quando è secca e friabile ed è il momento più delicato nel percorso perché, se non trattata con cautela, si rompe facilmente. L’intervento del fuoco cambia il colore dell’argilla (nel nostro caso da grigio a rosso) e rende la scultura molto resistente. L’esperienza di queste numerose trasformazioni è intensa e non va sottovalutata perché, in ogni cambiamento di stato (da umido a secco a cotto), si nascondono insidie e percoli per l’opera. Ogni passo va accompagnato correttamente per garantire processi trasformativi in armonia con gli elementi che intervengono nei processi. La svuotatura ed, in seguito, la cottura crea talvolta ansia negli utenti e ricevere una scultura che si è rotta durante la cottura appartiene alle esperienze meno piacevoli in un atelier. Non eseguire la cottura a causa di ansie eccessive è però la soluzione sbagliata perché la scultura rimane bloccata tra due stati, incompiuta e fragile. Solamente la cottura può chiudere il ciclo della trasformazione. 76 La testa dell’uomo, con i tratti di un viso orientale, è di pura invenzione dell’autore: infatti, appartiene alla categoria “ritratti fantastici”, nelle classificazioni che abbiamo proposto nel capitolo (auto)-ritratti. Il viso ha dei lineamenti accentuati con uno sguardo profondo che suggerisce un senso di autorevolezza e potere. Si tratta di un volatile seduto che mostra due lati completamente diversi l’uno dall’altro. Se da un lato vediamo un uccellino un po’ spennacchiato ma ben strutturato e con uno sguardo tranquillo, possiamo intuire nella prospettiva frontale un qualcosa di inquietante, una serie di protuberanze che soltanto nella visione laterale rivelano la loro natura: si ha l’idea di un animale gravemente ferito, senza più la pelle - specchio di una stato interiore tra integrità e disgregazione. 80 La testa di un uomo anziano appartiene alla fantasia dell’autore. L’archivio personale dell’autore, ricco di personaggi dei fumetti, ha dato sicuramente un contributo, ma modellare un volto è diverso dal disegnare e diventa più reale. Infatti, si ha la sensazione di poter contattare l’uomo rappresentato anche se gli occhi chiusi suggeriscono una riservatezza e uno sguardo rivolto verso l’interno, sguardo concentrato e consapevole di tante sfide affrontate In questa opera astratta possiamo osservare che cosa significa il punto di vista: ogni lato è differente dall’altro e rivela un’ idea diversa dell’opera. Non avendo a disposizione uno schema, come ad esempio per la riproduzione di una figura, di un volto o di un altro oggetto di nostra conoscenza, non possiamo immaginarci i lati, senza vederli. Potrebbero essere anche tre opere diverse. Nella sua semplicità, l’autore riesce ad offrici un grande quantità di volumi e esperienze spaziali. Questo genere astratto permette, attraverso la negazione del riconoscimento immediato dell’oggetto, una immersione nelle forme e nei volumi che si susseguono intorno all’opera. 81 realizzazione e stampa: finito di stampare nel giungo 2009 0,5mm