10. Perche e chi pregare? - La Parrocchia di Rovellasca
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10. Perche e chi pregare? - La Parrocchia di Rovellasca
moneta. L’icona è, dunque, una matrice spirituale che sprigiona il fulgore della luce di Cristo. L’orante si espone alla luce dell’icona. Lo vediamo avvicinare il suo volto al volto per eccellenza. Lo venera con inchini e sguardi, con un bacio e accendendo una luce. Esposto alla luce radiosa del Figlio, che è luce da luce, l’orante è come «matricizzato» spiritualmente. Al contatto del Volto la sua immagine offuscata dalle passioni riacquista la somiglianza originale. Riprende a somigliare al volto che è la sua matrice, cioè al Cristo. Lui è «espressione della bellezza dell’archetipo, sigillo inamovibile, immagine immutabile, “definizione” e “ragione” del Padre, che discende verso la sua immagine e assume la carne» (Gregorio Nazianzeno). Con lo sguardo l’orante penetra i misteri ritratti dall’icona. Questa contemplazione guarisce la sua mente ottenebrata dal peccato e la rimette in contatto con il Figlio. Egli è la luce increata che ha brillato sul Tabor e che ora si diffonde luminosa su chi contempla le icone. In molte di esse, dal corpo glorioso di Cristo si sprigionano i raggi delle energie divine dello Spirito che, come tante pagliuzze dorate, si rifrangono su tutti gli esseri della composizione iconica. L’irradiazione divina ha il potere di trasformare non solo gli uomini, ma anche tutto ciò che vive e respira: animali, piante, rocce. Lo sguardo dell’orante è accompagnato dall’invocazione ripetuta Kyrie eleison, che un autore moderno (A. Chouraqui), traduce con «Signore, matricizzami». Dio Padre è ricco di misericordia, ha viscere materne (ra’hamim). La sua misericordia è la capacità di matricizzare, cioè di moltiplicare le vie per restaurare la sua immagine, che convive con un cuore indurito nel peccato. La venerazione dell’icona rende il cuore sensibile alla matrice e ripulisce l’immagine. La preghiera ha come unico obiettivo di renderci un’immagine cristi-forme. E «perché non avvenga che dipingiamo nel nostro animo immagini diverse, Cristo stesso interviene e col suo Spirito traccia nel nostro cuore i lineamenti precisi di Dio» (Colombano). La venerazione dell’icona e la preghiera del cuore si incrociano nella medesima supplica rivolta al volto: « Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, matricizza me peccatore». «Un’immagine davanti a cui non prega nessuno è come una finestra murata, nasconde il mondo. Il fine della vita spirituale, al contrario, è vedere Dio in tutto come in un’immagine» (P. Florenskij). Le icone sono una via contemplativa della bellezza di Dio. Fanno dell’orante un visionario: «L’immagine di Cristo e le immagini dei santi non sono delle fotografie. La loro essenza è quella di condurre al di sopra di ciò che è puramente constatabile sul piano materiale e di insegnare un nuovo modo di vedere, che percepisca l’invisibile dentro il visibile. La sacralità dell’immagine consiste proprio nel fatto che proviene da una visione interiore e proprio per questo conduce, a sua volta, a una visione interiore. Essa deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un incontro credente con la nuova realtà del risorto e, in questo modo, condurre di nuovo allo sguardo interiore, all’incontro orante con il Signore. L’immagine serve alla liturgia; la preghiera e lo sguardo, in cui si formano le immagini, devono quindi essere preghiera e sguardo condiviso, in comunione con la fede vedente della Chiesa » (J. Ratzinger). 10. Perche e chi pregare? SU QUALI OGGETTI LO SPIRITO CI INVITA A POSARE L’OCCHIO CONTEMPLATIVO? La contemplazione parte da te, in quanto sei un’immagine di Dio (Gn 1,26-27) e questa è la tua essenza più intima. Pregare comporta, allora, di acquisire un nuovo sguardo di amore su di sé, rinunciando a valutarsi in base ai parametri di quanti sono «accecati nei loro pensieri ed estranei alla vita di Dio» (Ef 4,18-19). Si tratta d’imparare a guardarsi nel Signore. «Ecco il Signore è nostro specchio: aprite gli occhi e guardatevi in lui, imparate come sono i vostri volti e intonate una lode al suo Spirito» (Odi di Salomone). Lo sguardo di amore con cui il Signore ci avvolge riesce a dare un senso di unità a tutta la nostra vita, la penetra tutta, sebbene in un abbraccio spesso impercettibile che ci circonda senza imporsi con forza. «Chi si legge nello Spirito di Gesù, guarda se stesso con un pensiero e uno sguardo d’amore. Vede l’“insieme” di sé, i nessi misteriosi tra le tante cose della vita, vede i significati e collega tra di loro gli eventi più opposti, più contraddittori. Ha un profondo senso di interdipendenza tra tutte le componenti della sua personalità. La persona spirituale ha un senso dell’armonia e dell’equilibrio, un senso dell’integrazione. Anche qui si tratta non di un’armonia formale (sono perfetto tutto è a posto), ma di un’armonia anche nella misericordia con se stessi, dove cose belle e cose spiacevoli parlano, hanno il loro significato e lo svelano alla persona» (M.I. Rupnik). Grazie alla preghiera imparerai ad apprezzare e amare te stesso come creatura e figlio di Dio, contemplandoti con sguardo integro e verace, non sfalsato dai rimproveri, dalle doppiezze, dall’idealismo. Più collabori con lo Spirito e più sarai penetrato dall’amore di Dio nei tuoi gesti, negli sguardi e nei linguaggi. Crescerà in te la somiglianza a Cristo. Chi ti è vicino lo vedrà e te lo dirà. I ritratti dei santi sono facilmente riconoscibili perché sono tutti uguali: essi non hanno che un volto, quello di Cristo di cui sono i somiglianti. «Contemplando il Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine» (2Cor 3,18). Pavel Florenskij dice che la liturgia è la scuola filocalica che ci educa a contemplare noi stessi, addirittura facendoci diventare oggetto di venerazione: «Oh, fratelli, se voi pensaste alle meraviglie che sono presenti in voi! Non è forse lo Spirito Santo che abita in voi che il sacerdote incensa quando vi asperge con il turibolo? Non è il trono del tempio interiore a essere avvolto dall’incenso? La perla che il mercante cercava non è lontana, l’uomo la porta con sé ovunque, solo che non lo sa. E ognuno di noi va angosciato per il mondo, pur avendo un tesoro dentro di sé e molto spesso crede che una simile perla sia in qualche posto lontano. Beato colui che vede il suo tesoro! Ma chi è in grado di vederlo? Chi vede la sua perla? Le cose terrene le vede solo colui che ha un occhio corporeo puro, le cose celesti le vede solo colui che ha puro l’occhio celeste, il cuore. Beati i puri di cuore perché vedono sempre Dio, si relazionano con riguardo gli uni con gli altri: essi infatti vedono quanto in loro c’è di santo, cioè vedono quanto nemmeno l’altro conosce di sé. Provano ammirazione e gioia per quanto c’è di santo in ognuno: soffrono e piangono per lo strato di polvere che si è depositato su quanto c’era di prezioso nell’uomo-fratello. Per tutti i cammini Dio conduce l’uomo a questa illuminazione, alla conoscenza di ciò che in lui è santo. A volte questo avviene per mezzo di grandi sofferenze». La preghiera ti offre occhi nuovi per contemplare anche l’altro uomo nello sguardo di Dio. Le vie dell’amicizia e della fraternità si moltiplicano e l’ideale della comunione è una realtà. «Dio è bellezza. È questa bellezza a produrre ogni amicizia, ogni comunione. Così il bello autentico si fonde col bene, perché, qualunque sia il motivo che muove gli esseri, essi tendono sempre al bello e buono, e non v’è cosa alcuna che non partecipi del bello e buono. Grazie ad esso tutte le cose sussistono, sono unite e distinte, identiche e opposte, simili e dissimili, i contrari comunicano e gli elementi uniti si sottraggono alla confusione. Grazie ad esso tutto comunica con tutto, ciascuno alla sua maniera, gli esseri si amano senza perdersi gli uni negli altri, tutto si armonizza, le parti si accordano in seno al tutto» (Dionigi l’Areopagita). Il contemplativo tiene unite tutte le dimensioni dell’amore: quando ama Cristo ama tutti quelli che Cristo ama e quando ama il prossimo ama colui che tutti ama, il Cristo. Non c’è scisma nell’amore perché l’amore è uno solo...... Lo spazio umano filocalico per eccellenza è la Chiesa. «Che cos e la Chiesa? È una vita nuova, la vita nello Spirito. Qual è il criterio di verità di questa vita? La bellezza. Gli specialisti di questa bellezza sono gli uomini spirituali: i maestri dell’arte delle arti che è l’ascetica» (P. Florenskj). L’uomo di preghiera ama la Chiesa, perché la guarda attraverso Cristo. Ne vede i vuoti umani, ma per lui rimane «la pienezza di colui che riempie tutto in tutti» (Ef 1,23). Pensa e sente con la Chiesa, è un’anima ecclesiastica. La fatica della preghiera gli ha fatto conoscere gli abissi del cuore umano. Ha visto crollare le illusioni spirituali che gli facevano credere di bastare a se stesso e ha smorzato l’orgoglio. L’ascesi lo ha reso umile. Essere umili significa trovare la roccia solida e duratura non in sé, ma nell’altro, nella Chiesa, a cui si sa obbedire con docilità, con un vivo senso della comunione, accettandone le istituzioni, le regole, l’autorità. Chi prega ha più volte sperimentato che gli elementi istituzionali della Chiesa non sono un peso da sopportare, ma dei punti di sostegno da scoprire e apprezzare, a cui appoggiarsi specie nei momenti di luce diminuita. Coglie in essi una forma di carità della Chiesa, della quale percepisce sempre una bellezza materna, anche quando contempla sul suo volto umano le rughe della decadenza e i segni della sposa infedele. Un ultimo spazio di apparizione del divino, su cui l’occhio contemplativo si posa, è la bellezza che trasuda dalla liturgia. In essa, lo Spirito di Cristo e i celebranti partoriscono una terra nuova e le imprimono una fisionomia. La materia perde l’opacità, in cui l’ha chiusa il peccato, e si dischiude nel suo orientamento originale che la spinge verso il volto dei santi e del Logos. La materia desidera entrare nel corpo dell’uomo, che è portatore dello Spirito e, tramite l’uomo, divenire corpo di Cristo e così partecipare della sua risurrezione. I cristiani non guardano più la materia come un oggetto morto, da analizzare e usare perché contemplano il suo compimento liturgico: «il destino dell’acqua e quello di partecipare al mistero del Battesimo; quello del legno di offrire la croce; la terra è chiamata ad accogliere nel suo grembo il corpo del Signore durante il riposo del grande sabato, mentre la pietra è destinata a sigillare il sepolcro per poi essere rotolata via dall’angelo alla presenza delle donne che recano i profumi; il grano e la vite culminano nel calice; l’olio e le essenze aromatiche entrano a comporre il crisma dell’unzione. Tutto è in rapporto con l’incarnazione, tutto termina nel Signore, ogni cosa trova il proprio posto, come un frammento della preghiera della Chiesa» (P. Evdokimov). Anche il gesto umano è trasfigurato dalla liturgia. Essa integra e carica di sacralità le azioni più semplici della vita: bere, mangiare, lavarsi, parlare, agire, cantare, muoversi, nascere e infine morire per svegliarsi nella risurrezione. L’Eucaristia è la più alta verità di ciò che è umano e cosmico. Perciò l’orante confessa: «Non cesserò di portare venerazione alla materia attraverso la quale è stata operata la mia salvezza» (Giovanni Damasceno). II potere trasfigurante della liturgia si rifrange sul nostro rapporto con le cose materiali: tenere ordinata e pulita una casa, adornare l’ambiente con i fiori, preparare i pasti, tutto riflette la qualità del cuore delle persone: «Le mille piccole cose che devono essere fatte ogni giorno, questo ciclo che consiste nello sporcare e nel pulire, sono state date da Dio per permettere agli uomini di comunicare attraverso la materia. Cucinare e lavare i pavimenti possono divenire un modo di manifestare agli altri il proprio amore. Quando si mette amore in un’attività essa diviene bella, e il frutto di questa attività è bello. Una comunità in cui ci sia bruttezza manca dell’amore. Ma la bellezza più grande è una bellezza spoglia e semplice in cui tutto è orientato verso l’incontro delle persone fra di loro e con Dio. Talvolta si dimentica il ruolo delle cose che ci circondano nella crescita e nella liberazione interiore. L’amore non è fare delle cose straordinarie, ma fare le cose normali con tenerezza» (J. Vanier). CONTEMPLARE L’ICONA L'icona riveste un ruolo importante per gli oranti cristiani, non solo orientali. Ha fatto il suo ingresso nel culto delle Chiese occidentali, sia cattoliche che riformate. Le icone, anzitutto, si venerano. «Un'icona, una croce non sono semplicemente figure per orientare la nostra immaginazione durante la preghiera; sono dei centri materiali nei quali riposa un’energia, una virtù divina che s’unisce all’arte umana» (V. Losskij). Se le icone si guardano è solo perché sono un dogma messo a colori: «La Chiesa greca e le Chiese slave hanno considerato la venerazione dell’icona come parte integrante della liturgia, a somiglianza della celebrazione della parola. Come la lettura dei libri materiali permette di far comprendere la parola vivente del Signore, così l’ostensione di un’icona dipinta permette a quelli che la guardano di accostarsi ai misteri della salvezza mediante la vista. Ciò che da una parte è espresso dall’inchiostro e dalla carta, dall’altra è espresso dai diversi colori e da altri materiali» (Giovanni Paolo II). L’orante cerca l’icona solo perché desidera vedere un ritratto del Signore Gesù. La tradizione originaria si rifà al velo della Veronica o al mandyhon (fazzoletto) di Edessa: il volto stesso di Cristo, non dipinto da mano d’uomo, è stato impresso su un panno. La faccia di Cristo è come una matrice che è destinata ad essere utilizzata a sua volta come un sigillo da imprimere su tante copie o come il conio per battere