Tempa Rossa - Manifatture Knos

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Tempa Rossa - Manifatture Knos
Alle origini di “Tempa Rossa”: un pozzo milionario
Nella nostra “contro inchiesta” sull’ambiente, oggi iniziamo un breve percorso storico-geograficoeconomico che ci porterà a conoscere nei dettagli il progetto “Tempa Rossa”. Per capire il perché
esso sia “indipendente” dall’eventuale raddoppio della raffineria Eni, così come dal progetto del
metanodotto e della nuova centrale Enipower. A conoscere le dinamiche di un progetto che va a
toccare interessi internazionali dalle vastissime proporzioni, che vanno molto al di là della realtà
della regione Basilicata o della nostra città. Non è un caso, del resto, se a differenza degli altri
progetti, “Tempa Rossa” abbia avuto da tempo l’ok dalla Regione Basilicata e dalla Regione Puglia,
dal Comune e dalla Provincia di Taranto, sino ad arrivare al decreto di “compatibilità ambientale”
del settembre scorso da parte del Ministero dell’Ambiente. Nessuna istituzione, dunque, ha osato
mettersi di traverso a questo misterioso progetto. Anche a livello locale, la politica e i sindacati
preferiscono concentrare la loro attenzione più sulla centrale Enipower che sul progetto “Tempa
Rossa”: d’altronde è molto più “facile” sostenere o contestare un progetto sulla “locale” raffineria,
piuttosto che andare ad intaccare interessi petroliferi internazionali. Ma la colpa è anche di noi
addetti all’informazione: troppe volte diamo per scontato che l’opinione pubblica conosca cose che
a stento anche noi riusciamo ad apprendere. Errore di fondo che ha peraltro pesantemente
condizionato il movimento ambientalista tarantino, che per anni ha parlato un linguaggio
incomprensibile ai più. Ed allora, proviamo a fare quanta più chiarezza possibile: per il bene di tutti.
Per fare ciò, partiamo da una semplicissima e banalissima domanda: cos’è in realtà “Tempa
Rossa”? Tempa Rossa è un giacimento petrolifero nell’alta valle del Sauro situato nel cuore della
Basilicata, che ricade in gran parte sul territorio del Comune di Corleto Perticara (PZ), a 4 km dal
quale verrà costruito il futuro centro di trattamento. I cinque pozzi già perforati si trovano anch’essi
sul territorio del paesino lucano, mentre il sesto pozzo, i cui lavori di perforazione sono in corso, si
trova nel Comune di Gorgoglione. Altri due pozzi saranno perforati a partire proprio da quest’anno
nell’area di Corleto Perticara. L'area dove verrà realizzato il centro di stoccaggio GPL si trova
invece nel Comune di Guardia Perticara.
Un progetto economico di rilevanza mondiale in un paesaggio da sogno
Il giacimento Tempa Rossa, scoperto nel 1989 dalla Fina (società belga poi assorbita dalla Total che
a sua volta nel 2002 ottenne dall’Eni la cessione della partecipazione del 25% detenuta da Eni nella
concessione Gorgoglione dove è ubicato il giacimento di Tempa Rossa), possiede una “speciale”
particolarità: non solo per la natura degli idrocarburi presenti nel sottosuolo (oli pesanti da 10 a 22
API e presenza di zolfo) ma anche e soprattutto per il suo contesto ambientale: esso infatti si trova
tra il parco regionale di Gallipoli Cognato e il parco nazionale del Pollino, dunque proprio nel cuore
della Basilicata. Quel tratto di terra possiede un alto valore turistico per la straordinaria bellezza e
naturalezza dei suoi paesaggi dalla natura incontaminata, estendendosi su un territorio geologico
contraddistinto anche da una sismicità da non trascurare e di una rete idrogeologica complessa.
Stiamo parlando di oltre 4.200 ettari di boschi e rocce, macchia mediterranea, oltre a corsi d’acqua
sotto forma di torrenti e sorgenti. A tutto questo va aggiunto un patrimonio archeologico di
primissimo piano. Ma questa è solo la descrizione di ciò che la natura ha regalato agli uomini in
superficie: perché ciò che interessa davvero è quello che si trova nelle viscere. Nel sottosuolo
lucano è infatti custodito uno dei principali giacimenti petroliferi europei su terraferma: allo stato
attuale il 78,5% della produzione italiana di greggio su terra proviene dalla Basilicata. Quando
l'impianto lavorerà a pieno regime, avrà una capacità produttiva giornaliera di circa 50.000 barili di
petrolio, 250.000 m³ di gas naturale, 267 tonnellate di GPL e 60 tonnellate di zolfo. Non è un caso
dunque, che lo sviluppo del progetto “Tempa Rossa” veda interessati due tra i più grandi gruppi
petroliferi mondiali. Al fianco di TOTAL E&P Italia, operatore incaricato dello sviluppo del
progetto, figura infatti anche la Shell (25%) e la Exxon Mobil (25%) tra le compagnie americane di
petrolio più importanti al mondo. Ma oltre a ciò, forse in pochissimi sanno che “Tempa Rossa” è
l’unico progetto italiano considerato dalla banca d’affari Goldman Sachs tra i 128 progetti più
importanti al mondo in fase di attuazione o ancora sulla carta, “capaci di cambiare gli scenari
mondiali dell’energia estrattiva”. La Goldman Sachs di New York (che ha sedi in tutto il mondo) è
una delle banche più importanti e influenti del mondo. Che negli uffici di questo istituto si sia
parlato di “Tempa Rossa” lascia molto da pensare. Non sorprende, invece, il cinismo di queste
grandi multinazionali e banche di livello mondiale, che continuano a piantare le loro bandierine sul
globo terrestre in qualunque territorio essi trovino vantaggio per i loro interessi, che quando poi
presentano alle istituzioni locali si trasformano magicamente in “progetti di pubblica utilità”.
Taranto, ultimo anello della catena del petrolio
Il giacimento “Tempa Rossa” ha inoltre la “fortuna” di essere molto vicina a diverse infrastrutture
petrolifere in uso, distanti appena 8 km. Il gas sarà facilmente convogliato alla rete locale di
distribuzione SNAM, mentre il petrolio sarà trasportato tramite una condotta interrata fino
all'oleodotto “Viggiano-Taranto”, oleodotto con un diametro di 51 cm e lungo 136 km (di cui 96 in
Basilicata) che collega le installazioni petrolifere della Val d'Agri alla Raffineria Eni di Taranto, suo
terminale di esportazione. Taranto, dunque, sarà l’ultimo anello di una catena che pur partendo dalla
vicina Basilicata, la vede interpretare la semplice particina di “contenitore” di petrolio grezzo, in
attesa che decine e decine di enormi petroliere entrino nel Porto di Taranto da Mar Grande per
caricarlo nelle loro stive e portarselo in giro per il mondo. (1, Continua).
Gianmario Leone (“TarantoOggi” 18 gennaio 2012)
“Tempa Rossa”, un contenitore di petrolio vuoto di futuro
Nella puntata di ieri dedicata “alle origini del progetto Tempa Rossa”, abbiamo concluso scrivendo
che parte del sito Eni di Taranto sarà trasformato in un grande contenitore di petrolio grezzo
proveniente dalla Val d’Agri, attraverso l’oleodotto “Viggiano-Taranto”, dotato di un diametro di
51 cm e lungo 136 km (di cui 96 in Basilicata) che collega le installazioni petrolifere della
Basilicata alla Raffineria Eni di Taranto. Dalla quale partiranno ogni anno decine e decine di
petroliere destinate ad altre raffinerie. Eppure, queste due operazioni che ai più possono sembrare
“semplici”, in realtà comporteranno una serie di lavori non di poco conto, visto che l’Eni ha emesso
un bando a cui possono partecipare solo azienda con un profitto annuale minimo di 250 milioni di
euro.
I lavori di un progetto che comprometterà ulteriormente Mar Grande
Il progetto di adeguamento delle strutture della Raffineria di Taranto per lo stoccaggio e la
movimentazione del greggio proveniente dal giacimento ‘Tempa Rossa’, consisterà nella
costruzione di diverse opere, tra cui la costruzione di un nuovo impianto pre-raffreddamento
greggio e di due nuovi impianti di recupero vapori a integrazione dell'esistente, uno per la gestione
dei vapori da caricamento greggio Tempa Rossa e uno per la gestione dei vapori da caricamento
greggio Val d'Agri. Entrando nel pratico, vediamo di cosa stiamo parlando. E per farlo, ci serviamo
del bando di gara “Progetto “Tempa Rossa” Impianti Off-Shore”, pubblicato sul supplemento della
Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea (Prot. 2011/00426 del 04.02.2011). Il progetto prevede la
“Progettazione e realizzazione delle opere marine previste per l’ampliamento del terminale
petrolifero sito nel Mar Grande di Taranto”. Questo avverrà innanzitutto attraverso il
prolungamento del pontile esistente (sviluppo in mare per 515 metri con n. 2 piattaforme principali
di attracco denominate P1 e P2, e collegato a terra mediante una diga a scogliera lunga circa 350 m)
e con la realizzazione di una terza piattaforma d’attracco per la spedizione di prodotti petroliferi,
denominata P3, e delle relative strutture di ormeggio. La lunghezza del prolungamento (struttura
carrabile) sarà di 355 metri, dalla piattaforma P2 alla nuova piattaforma P3; inoltre, è prevista la
realizzazione di passerelle di collegamento tra la struttura principale e le briccole di ormeggio
esterne, per un’ulteriore lunghezza di 160 m. L’estensione del pontile esistente sarà comprensiva di
una nuova piattaforma di carico (P3) provvista di due accosti, per l'attracco di navi da 30.000 DWT
non allibate e da 45.000 DWT e 80.000 DWT parzialmente allibate; da 4 briccole di accosto e 6 di
ormeggio, corredate di ganci a scocco e cabestani; da un sistema antincendio acqua & schiuma e vie
di fuga; da un sistema di raccolta dreni idrocarburi; da un sistema di raccolta acque meteoriche e da
un sistema di drenaggio bracci mediante azoto. Su ciascun accosto è prevista inoltre l’installazione
dei necessari bracci di carico greggio, braccio recupero vapori, bracci per il carico del
Bunker/Marine diesel, dispositivo per controllo velocità di accosto, torre munita di scala di
collegamento con la nave. Nel bando si legge che “il progetto e l’esecuzione delle strutture sarà
condotto in accordo alle vigenti normative italiane e con riferimento a normative internazionali
specifiche nel campo delle opere marittime. Il pontile e tutte le strutture accessorie saranno
realizzate interamente in acciaio (con profitto assicurato anche per l’Ilva S.p.A.) così come le
fondazioni, previste su pali e le attività di realizzazione saranno condotte con il minimo impatto
sulle attività di carico e scarico dell’attuale pontile”.
Le conseguenze di “Tempa Rossa”
E’ bene nuovamente indicare che tutti gli enti istituzionali hanno dato il loro benestare al progetto.
Dal Comune alla Provincia di Taranto (spinti dal grande entusiasmo mostrato dai sindacati
confederali e Confindustria), dalla Regione Puglia (6 dicembre 2011) al Ministero dell’Ambiente
(19 settembre 2011), nessuno ha riflettuto sul fatto se fosse o meno il caso di pronunciarsi così in
fretta a favore della compatibilità ambientale di un progetto come “Tempa Rossa”, che possiede
diverse zone d’ombra. Il 27 ottobre 2011 è stato pubblicato il decreto di VIA sul sito del Ministero
dell’Ambiente, con il parere favorevole con prescrizioni della Commissione Tecnica VIA-VAS. Il
problema è che questo progetto giudicato dalle istituzioni “compatibile” con il nostro mare e la
nostra città, produrrà un 12% in più di emissioni diffuse, che si distinguono dalle altre per il fatto
che si disperdono in atmosfera senza l'ausilio di un sistema di convogliamento delle stesse
dall’interno verso l'esterno. Le quali rientrano nella normativa sull'inquinamento prodotto dagli
impianti industriali, emanata con D.P.R. 24 maggio 1998 n° 203, che all’art.2, comma 4 recita
testualmente: “Emissione, ovvero qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta
nell'atmosfera, proveniente da un impianto, che possa produrre inquinamento atmosferico”. Dato
(12% in più) che l’Eni non smentisce, anche se nel SIA (Studio d’Impatto Ambientale) la
percentuale scende all’8%, e che è stato anche confermato dai tecnici di Arpa Puglia (a microfoni
rigorosamente spenti). Ente “per la protezione ambientale” che presta i suoi servigi alla Regione
Puglia, che però a differenza di quanto avviene quando di mezzo c’è l’Ilva, in questo caso non è
stata ritenuta idonea ad esprimere una posizione ufficiale. “Compatibilità ambientale” che non tiene
conto nemmeno del fatto che, sempre all’interno dello Studio d’Impatto Ambientale, manchi
l’analisi di rischio di incidente rilevante, necessaria specialmente in funzione del fatto che nella rada
di Mar Grande aumenterà dalle attuali 40 ad un massimo di 133 il transito di petroliere, oltre alla la
costruzione di due nuovi serbatoi, accanto a quelli già esistenti, della capacità di 180.000 m3.
Tutto questo è “compatibile” con l’ambiente e di “pubblica utilità” per Taranto?
Ciò che ci chiediamo, dunque, è come si fa a giudicare un progetto del genere “compatibile con
l’ambiente circostante” e soprattutto di “pubblica utilità”. E’ compatibile con l’aria di Taranto
l’aumento del 12% delle emissioni diffuse? E’ compatibile con l’ecosistema di Mar Grande
l’aumento annuale di enormi petroliere? E’ compatibile con la vita dei cittadini il sicuro aumento
della dispersione delle emissioni odorigene che già oggi avviene sistematicamente quando sono in
corso operazioni di caricamento di greggio dalla Raffineria ENI su nave collocate nel Porto
Mercantile? E’ di pubblica utilità un progetto che farà aumentare il bilancio delle multinazionali del
petrolio come Total, Shell, Exxon Mobil, Eni? E’ di pubblica utilità un progetto che per la
costruzione di tutte le sue opere affiderà i lavori ad aziende in grado di supportare quanto scritto
sopra e lasceranno solo le briciole alle piccole aziende presenti sul territorio? Vorremmo che
qualcuno rispondesse alle nostre domande: non importa chi, l’importante è che qualcuno risponda.
(2. Continua)
Gianmario Leone (“TarantoOggi” del 19 gennaio 2012)
Tempa Rossa, l’inganno di Santa Maria
Dobbiamo ammetterlo: questa volta nel tranello siamo caduti anche noi. E l’amarezza che proviamo
nel constatarlo, non è tanto nell’esserci cascati, quanto nell’aver avuto l’ennesima conferma che in
questa città, nel rapporto con le grandi industrie, tutto funziona al contrario. Da sempre. E così, alla
fine di questa continua centrifuga in cui la verità viene abilmente nascosta in documenti “segreti”
nemmeno fossimo ancora in piena Guerra Fredda, è obiettivamente difficile mantenere il giusto
equilibrio nell’esprimere giudizi, qualità irrinunciabile per chi, come ad esempio questo giornale, ha
deciso di intraprendere una lunga e faticosa battaglia di cui non sappiamo il finale, ma che
certamente condurremo sino alla fine, andando sempre alla ricerca della verità.
Piccola premessa: quando nel 2009 l’Eni presentò il progetto della nuova centrale Enipower a
turbogas da 240 MW, nelle compensazioni previste vi era anche la sistemazione a verde dell’area
circostante la Chiesa di Santa Maria della Giustizia, che dal 1967 è stata “ingoiata” dagli enormi
serbatoi della raffineria. Poi, in un secondo momento, si è preferito puntare su altro. Bene.
Sicuramente molti di voi ricorderanno che lo scorso 20 settembre 2011, ci fu una conferenza stampa
presso la Sede operativa di Taranto della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici,
alla quale tra gli altri partecipò anche il direttore della raffineria Eni di Taranto, Carlo Settimio
Guarrata. La convocazione della stampa era dovuta alla presentazione alla città del concerto del
gruppo jazz “The Jazz Set” del 23 settembre proprio presso il complesso monumentale di Santa
Maria della Giustizia (sito in contrada Rondinella, a Taranto, S.S. 106 Jonica Taranto-Reggio
Calabria al km 3). Un evento, visto che la Chiesa risultava abbandonata da oltre quattro secoli:
l’Eni, main sponsor della serata, finanziò interamente il progetto.
L’arch. Augusto Ressa, responsabile della Sede operativa di Taranto della Soprintendenza per i
Beni Architettonici e Paesaggistici, presentò l’evento come l’occasione per la città di riappropriarsi
di un monumento preziosissimo per la sua storia e come ipotetico inizio di un nuovo rapporto tra la
città e la grande industria. Il direttore della raffineria, invece, dichiarò cosa buona e giusta
sovvenzionare tale evento, per “concedere” ai tarantini la possibilità di usufruire, almeno per una
sera, di un bene architettonico appartenente alla loro storia e di come fosse giusto dare “visibilità al
bello”.
Ora. Il problema è che abbiamo scoperto che queste parole non sono la verità. O, se volete, fanno
solo da contorno alla realtà delle cose. Perché si dia il caso che quando lo scorso 27 ottobre è stato
pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente il decreto di VIA (num. Prot. 573) al progetto
“Tempa Rossa”, come ultertiore allegato abbiamo trovato anche un parere a firma del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali datato 11 luglio 2011. Strano, direte voi. In realtà, la prima cosa che si
apprende è che la compensazione prevista inizialmente per il progetto della nuova centrale
Enipower, la sistemazione a verde dell’area circostante la Chiesa di Santa Maria della Giustizia, è
finita nelle compensazione per il progetto di “Tempa Rossa”, come si evince dalla richiesta di
compatibilità ambientale per il progetto datata 15/04/2010. Il 20/05/2010, la Soprintendenza per i
beni architettonici e paesaggistici per le provincia di Lecce, Brindisi e Taranto, risponde alla
richiesta di tale parere con una nota datata 20/05/2010. Nota nella quale, oltre a ricordare che tale
richiesta da parte dell’Eni era pervenuta già per quanto concerneva la nuova centrale Enipower, la
Soprintendenza sottolinea come l’area di accesso e visuale al mare è “oscurata” dalla presenza dei
serbatoi della raffineria e che nel progetto di “mitigazione e compensazione”, debba essere previsto
un “arricchimento con ulteriore impianto di appropriate essenze arboree”. Inoltre, viene
specificato che è “auspicabile a titolo compensativo che la società richiedente contribuisca
all’intervento di consolidamento e restauro del complesso demaniale, tuttora in corso di esecuzione
a cura di questa Soprintendenza”. E qui le cose iniziano già a non tornarci più. Perché quel 20
settembre non è stato detto che il sito monumentale di Santa Maria della Giustizia rientrava nelle
compensazioni previste per la realizzazione del progetto “Tempa Rossa”? D’altronde, l’occasione
era delle migliori visto che, appena il giorno prima, il 20 settembre (a volte la Storia si diverte a
giocare con le date e le circostanze) il Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo aveva appena
firmato il decreto di compatibilità ambientale per il progetto “Tempa Rossa”. Inoltre, cosa alquanto
folcloristica, nella nota del maggio 2010, la Soprintendenza supera se stessa, quando si legge che
“l’Eni dovrà inoltre porre in essere ogni dispositivo ed applicare le più moderne tecnologie atte a
contenere le emissioni di gas maleodoranti dall’impianto di raffineria che determinano, con
frequenza, oggettivo limite alla permanenza prolungata all’interno dell’area monumentale”. In
pratica, da un lato di chiede all’Eni di circondare l’intero perimetro dell’area del sito con
“appropriate essenze arboree”, in modo tale da impedire la vista degli ingombranti serbatoi e con
essi anche del mare e dell’orizzonte, dall’altro si chiede addirittura di contenere le emissioni di gas
ad una raffineria che solitamente invade un’intera città, in relazione ad un sito archeologico situato
in mezzo ai serbatoi contenenti petrolio. Proseguendo nell’elenco dei vari uffici di competenza,
mentre la “Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia” e la “Direzione
Generale per l’antichità” non oppongono alcuna obiezione al progetto, la “Soprintendenza per i beni
archeologici della Puglia” richiede almeno un “servizio continuativo di sorveglianza archeologica”,
visto che se qualcuno se l’è dimenticato il sito monumentale di Santa Maria della Giustizia si trova
in un comprensorio territoriale caratterizzato da “un’intensa frequentazione archeologica, riferibile
ad epoche diverse”.
Ma la parola finale spetta ovviamente alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici
per le provincia di Lecce, Brindisi e Taranto, la quale con due note (del 27/05/2011 e del
20/06/2011) conferisce al progetto “Tempa Rossa” il proprio assenso, previo ottemperanza delle
prescrizioni stabilite. Che consistono nel “completamento delle opere di consolidamento e restauro
dell’ala nord-est di epoca normanna; la revisione e l’incremento degli impianti interni ed esterni;
la manutenzione ordinaria e straordinaria delle componenti consistente nella registrazione degli
infissi, nella tinteggiatura di pareti e volte, nella revisione delle coperture; il completamento degli
allestimenti dei blocchi servizi; la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’alloggio del
custode; la sistemazione della corte interna e dell’area nord, alle spalle della Chisea; la
realizzazione di una recinzione lungo i confini Ovest e Sud, a chiusura dell’area di pertinenza
esterna che conserva alcuni esemplari dell’antico uliveto”. Il tutto per una spesa di un milione di
euro. Infine, i due righi che dimostrano che quel 20 settembre, Soprintendenza ed Eni recitarono un
copione sul quale erano d’accordo da tempo: “A tal fine dovrà essere elaborato specifico progetto
da parte dell’Eni previo accordi con questa Soprintendenza e sulla base di specifica convenzione
da stipulare con la Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia”.
Ora, qualcuno ci dovrebbe spiegare che senso ha avuto omettere di spiegare alla città di Taranto
quel 20 settembre, che quel concerto non era come invece dichiarato un singolo evento culturale
sovvenzionato dall’Eni, ma un semplice passaggio di un iter che prevede un’operazione di “tutela”
nei confronti di un sito archeologico come compensazione di un progetto come quello di “Tempa
Rossa”. Vorremmo inoltre conoscere, sempre restando nel campo della “pubblica utilità” (come
viene appunto considerato il progetto “Tempa Rossa”), come fa il Ministero per i Beni e le Attività
Culturali a scrivere che “l’attuazione delle prescrizioni può consentire una positiva ricaduta per il
medesimo territorio sia in termini di valorizzazione del complesso monumentale, sia in termini di
fruibilità dello stesso da parte delle popolazioni locali”: ma voi davvero fate? O siamo all’interno
di un gigantesco scherzo? Ma i signori del ministero conoscono la disposizione della Chiesa in
questione e di come essa sia inutilizzabile anche con se venisse ristrutturata e recintata con tanto di
alberi? Sono mai passati da quel tratto della 106 ionica che 24 ore su 24 emana aria irrespirabile? In
cosa dovrebbero consistere queste migliori tecnologie così all’avanguardia da catturare l’olezzo dei
depositi di petrolio? E poi, di grazia: ma era proprio necessario mettere in piedi un teatrino del
genere, pur di non dire come stessero realmente le cose? Ma davvero pensate che non arrivi mai il
giorno in cui le carte saltano fuori e con esse le vostre omissioni?
Una cosa, però, è certa: questo semplice episodio rivela ancora una volta come le nostre istituzioni e
i loro rappresentanti, a qualunque livello essi si trovino, non sono e non saranno mai in grado di dire
un onesto e semplicissimo NO. Che spesso è la più semplice e diretta parolina magica da usare per
iniziare a cambiare davvero la Storia.
Gianmario Leone (“TarantoOggi” del 20 gennaio 2012)
Un’inchiesta su un progetto che vede alleate Eni, Total, Exxon Mobil e Shell, dal valore di oltre
1 miliardo di euro e giudicato dalla Goldman Sachs tra i 128 progetti più importanti al mondo in
fase di attuazione, “capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva”. Approvato
ad occhi chiusi da Istituzioni e sindacati, contribuirà a distruggere l’ecosistema della Basilicata e
aumenterà l’inquinamento nell’aria di Taranto
“Se in questo paese sappiamo fare le automobili, dobbiamo saper fare anche la benzina”: quando
Enrico Mattei, fondatore dell’Eni nel 1953, pronunciò questa frase a Vittorio Valletta, storico
dirigente della FIAT, eravamo sul finire degli anni ’50. Chissà cosa penserebbe oggi
l’ultracentenario Mattei se fosse ancora in vita, sapendo che proprio la sua Eni, creata per rompere il
monopolio delle famose “sette sorelle” (le maggiori compagnie di petrolio dell’epoca), ancora oggi
recita una parte da comprimaria, piuttosto cha da padrona di casa sul “suolo italico”, che lui stesso
difese durante la Resistenza come partigiano, tra i cosiddetti “bianchi” (quelli, cioè, che si
riferivano all’area politica cattolica).
Tempa Rossa: un’opera da 1 miliardo e 300 milioni di euro
Sintesi di quanto sopra, è ciò che sta accadendo in questi mesi in Basilicata, considerata l’“Arabia
Saudita” italiana, e a Taranto, dove si trova una delle più grandi e strategiche raffinerie Eni in Italia,
unite dall’oleodotto di Viggiano (lungo 136 km) che collega le installazioni petrolifere della Val
d’Agri alla raffineria ionica, suo terminale d’esportazione. Strutture che saranno il cuore pulsante di
“Tempa Rossa”, considerato dalla banca d’affari Goldman Sachs tra i 128 progetti più importanti al
mondo in fase di attuazione, “capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva”. Fase
d’attuazione che sta per scadere, in quanto lo scorso 11 aprile la Total Esplorazione & Produzione
Italia (Gruppo Total) ha reso noto di aver sottoscritto il 5 aprile una ‘Lettera di Intenti’ (LOI)
sull’esecuzione delle attività di “Engineering, Procurement, Supply, Construction and
Commissioning del trattamento “Oil & Gas Tempa Rossa” con l’associazione temporanea di
imprese tra Tecnimont S.p.A. e Tecnimont KT S.p.A., società entrambe controllate dalla Maire
Tecnimont S.p.A., quotata in borsa dal 2007 e gestita dall’imprenditore romano Fabrizio Di Amato
(scelto direttamente dalla francese Total grazie al commissario europeo responsabile per il Mercato
interno e i servizi, il francese Michelle Barnier che ha liberalizzato la disciplina che regola i rapporti
tra i titolari di concessioni pubbliche, come quelle assegnate in Italia per la ricerca e l’estrazione di
idrocarburi e i loro vari fornitori). L’attività di ingegneria prenderà il via il prossimo 14 maggio e la
firma del contratto è attesa a breve: il valore complessivo sarà di circa €500 milioni. In realtà,
affinché le ruspe entrino in azione, serve solo l’ultima autorizzazione dell’Ufficio nazionale
minerario, che dovrebbe arrivare a breve. Alle aziende locali lucane invece, la Total concederà il
“privilegio” di effettuare soltanto i lavori civili (di preparazione a quelli che farà la Maire
Tecnimont) per la modica cifra di 60 milioni di euro. Il valore stimato dell’opera, secondo il
progetto definitivo approvato lo scorso 23 marzo dal CIPE (organo per il quale “Tempa Rossa”
“contribuirà a sviluppare la produzione di petrolio in Italia e ridurre la dipendenza energetica
dall’estero”), è però di un miliardo e trecento milioni di euro. Dall’altro lato invece, guardando
verso Taranto, il 19 settembre 2011 l’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, firmò il
decreto di pronuncia di compatibilità ambientale Via/Aia congiunto per la Raffineria di Taranto per
l’“Adeguamento stoccaggio del greggio proveniente dal giacimento Tempa Rossa”, per il cui
progetto l’Eni ha stanziato 300 milioni di euro. E sempre nel corso del 2011, sono arrivati i vari ok
al progetto da parte del Comune e della Provincia di Taranto, oltre che della Regione Puglia del
governatore “ecologista” Nichi Vendola.
Alle origini di Tempa Rossa
Ma cos’è in realtà “Tempa Rossa”? E’ un giacimento petrolifero dell’alta valle del Sauro situato nel
cuore della Basilicata, che ricade in gran parte sul territorio del Comune di Corleto Perticara (PZ), a
4 km dal quale verrà costruito il futuro centro di trattamento. I cinque pozzi già perforati si trovano
sul territorio del paesino lucano, mentre il sesto, i cui lavori di perforazione sono in corso, si trova
nel Comune di Gorgoglione. Altri due pozzi saranno perforati nel corso di quest’anno sempre in
agro Corleto Perticara. L’area dove verrà realizzato il centro di stoccaggio GPL si trova invece nel
Comune di Guardia Perticara. Il giacimento Tempa Rossa, che fu scoperto nel 1989 dalla Fina
(società belga poi assorbita dalla Total che a sua volta nel 2002 ottenne dall’Eni la cessione della
partecipazione del 25%, detenuta da Eni, della concessione Gorgoglione dove è ubicato il
giacimento di Tempa Rossa), possiede una “speciale” particolarità: non solo per la natura degli
idrocarburi presenti nel sottosuolo (oli pesanti da 10 a 22 API e presenza di zolfo) ma anche e
soprattutto per il suo contesto ambientale: esso infatti si trova tra il parco regionale di Gallipoli
Cognato e il parco nazionale del Pollino, proprio nel cuore della Basilicata. Ma ciò che interessa
davvero è quello che si trova nelle viscere. Nel sottosuolo è infatti custodito uno dei principali
giacimenti petroliferi europei su terraferma: allo stato attuale il 78,5% della produzione italiana di
greggio su terra proviene dalla Basilicata. Quando l’impianto lavorerà a pieno regime, avrà una
capacità produttiva giornaliera di circa 50.000 barili di petrolio, 250.000 m³ di gas naturale, 267
tonnellate di GPL e 60 tonnellate di zolfo. Il gas sarà convogliato alla rete locale di distribuzione
SNAM, mentre il petrolio sarà trasportato tramite una condotta interrata fino all’oleodotto
“Viggiano-Taranto”, che come detto ha come terminale d’esportazione la raffineria Eni del
capoluogo ionico. Non è un caso, dunque, se lo sviluppo del progetto “Tempa Rossa” veda
interessati due tra i più grandi gruppi petroliferi mondiali. Al fianco di TOTAL E&P Italia,
operatore incaricato dello sviluppo del progetto, figurano infatti anche la Shell (25%) e la Exxon
Mobil (25%) tra le compagnie americane di petrolio più importanti al mondo. Tre delle “sette
sorelle” combattute invano proprio da Mattei nella metà del secolo scorso.
Tra fanghi e ricatti
Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché il 15 aprile 2011, 19 anni dopo l’inizio delle perforazioni
esplorative effettuate dalla Total Mineraria Spa ed il successivo abbandono dei fanghi petroliferi per
la mancanza di una discarica che potesse raccoglierli, la Regione Basilicata riceve la notifica
ufficiale del sito in questione, indicato come “situazione a rischio”. Sulla vicenda Total ed Eni
hanno iniziato il solito scarica barile, in quanto il terreno ora in concessione alla Total, all’epoca era
di proprietà dell’Eni, per cui la Total Mineraria Spa tra l’altro lavorava. Ma ciò che più preoccupa
in questo momento l’Arpab, è cosa sia successo nei terreni in cui sono stati abbandonati i fanghi,
specie per quanto concerne l’inquinamento delle acque di falda e la regimazione di quelle di
pioggia. Inoltre, al momento è in corso un’inchiesta, avviata dal PM Henry John Woodcock prima
del suo trasferimento a Napoli, il quale inquisì “i vertici della Total per presunti accordi corruttivi
con ditte lucane interessate ai lavori di realizzazione delle infrastrutture legate al giacimento Tempa
Rossa, il secondo più grande dopo quello dell’Eni”. Inchiesta che vede come parti lese i pochi
agricoltori che si opposero all’esproprio dei terreni, che avvenne su cifre imposte dalla compagnia
petrolifera e ritenute dagli agricoltori e dagli stessi inquirenti a dir poco ridicole: si parla infatti di
somme di dieci volte inferiori al reale valore di mercato.
Tempa Rossa e affari neri
Ma mentre in Basilicata la Total continua a perforare il terreno in uno dei luoghi naturali più
affascinati della regione lucana, a Taranto l’Eni continua ad allungare la sua ombra sia all’interno
che all’esterno della raffineria. I 300 milioni di euro stanziati, serviranno infatti per la costruzione di
due enormi serbatoi (oltre ai tanti già presenti che si affacciano su Mar Grande) per stoccare i
180mila metri cubi di greggio che arriveranno dalla Basilicata e l’ampliamento del pontile della
raffineria per ospitare dalle 45 alle 140 petroliere l’anno. E proprio l’aumento delle navi nella rada
di Mar Grande è uno dei punti meno chiari del progetto, visto che nello Studio d’Impatto
Ambientale manca l’analisi di rischio di incidente rilevante, di fondamentale importanza in questi
casi. Il progetto dell’Eni, inoltre, produrrà un 12% in più di emissioni diffuse, che si distinguono
dalle altre per il fatto che si disperdono in atmosfera senza l’ausilio di un sistema di convogliamento
delle stesse dall’interno verso l’esterno. Emissioni diffuse che rientrano nella normativa
sull’inquinamento prodotto dagli impianti industriali, emanata con D.P.R. 24 maggio 1998 n° 203,
che all’art.2, comma 4 recita testualmente: “Emissione, ovvero qualsiasi sostanza solida, liquida o
gassosa introdotta nell’atmosfera, proveniente da un impianto, che possa produrre inquinamento
atmosferico”. Dato (12% in più) confermato dai tecnici di Arpa Puglia che l’Eni non smentisce,
anche se nel SIA (Studio d’Impatto Ambientale) presentato la percentuale scende all’8%. A tutto
questo le nostre istituzioni, accompagnate a braccetto dai sindacati confederali e da Confindustria,
hanno conferito la loro sentenza definitiva di “compatibilità ambientale” e di “pubblica utilità”. Si è
parlato di occasione unica per l’economia del territorio e di imprecisati posti di lavoro in più. Ma al
bando emesso dall’Eni per l’aggiudicazione dei lavori per il progetto “Tempa Rossa”, scaduto lo
scorso anno, potevano partecipare solo aziende con un profitto annuale minimo di 250 milioni di
euro. E aziende tarantine di questo calibro, non ce ne sono. Anche se, a pensarci bene, rileggendo il
profitto annuale minimo richiesto collegato al fatto che “il pontile e tutte le strutture accessorie
saranno realizzate interamente in acciaio”, a noi il nome di un’azienda ci è venuto in mente eccome
(l’Ilva della famiglia Riva che si trova a pochi metri dalla raffineria). D’altro canto, Confindustria,
sindacati e istituzioni, non potrebbero mai e poi mai dire che anche per il progetto “Tempa Rossa”,
Taranto e le aziende locali dovranno accontentarsi ancora una volta delle briciole: che da queste
parti sanno tanto di subappalti e lavoro in nero. Oltre che di nuovo inquinamento.
Tutto questo è “compatibile” con l’ambiente e di “pubblica utilità”?
Ciò detto, dunque, ci chiediamo come sia possibile giudicare un progetto del genere “compatibile
con l’ambiente” e soprattutto di “pubblica utilità”. E’ compatibile con l’aria di Taranto l’aumento
del 12% delle emissioni diffuse? E’ compatibile con l’ecosistema di Mar Grande l’aumento annuale
di enormi petroliere? E’ compatibile con la vita dei cittadini il sicuro aumento della dispersione
delle emissioni odorigene che già oggi avviene sistematicamente quando sono in corso operazioni
di caricamento di greggio dalla Raffineria ENI su nave? E’ compatibile con l’ambiente lucano la
perforazione di otto pozzi petroliferi nel cuore di uno degli scenari naturali più belli che abbiamo in
Italia? E’ di pubblica utilità un progetto che farà aumentare solamente il bilancio delle
multinazionali del petrolio come Total, Shell, Exxon Mobil, Eni? E’ di pubblica utilità un progetto
che per la costruzione di tutte le sue opere affiderà i lavori ad aziende in grado di supportare quanto
scritto sopra e lasceranno solo le briciole alle aziende presenti sul territorio lucano e ionico?
Vorremmo che qualcuno rispondesse alle nostre domande: non importa chi, l’importante è che
qualcuno risponda. Il problema è che, ancora una volta, otterremo in cambio solo un assordante
silenzio.
Gianmario Leone (da “Il Manifesto” del 27 aprile 2012)

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