Il bazar di un poeta Anteprima

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Il bazar di un poeta Anteprima
BIBLIOTECA IDEALE GIUNTI
HANS CHRISTIAN ANDERSEN
Il bazar di un poeta
A cura di
Bruno Berni
Titolo originale:
En Digters Bazar
Traduzione:
Bruno Berni
Ha contribuito alla traduzione di questo volume
The Literature Centre at the Danish Arts Agency
Progetto grafico di copertina:
Lorenzo Pacini
Il logo BIG è stato realizzato da
Sebastiano Ranchetti
www.giunti.it
© 2005 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia
Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia
ISBN 9788809753808
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Prima edizione digitale 2010
Introduzione
HANS CHRISTIAN ANDERSEN
Hans Christian Andersen nasce a Odense, in Danimarca,
il 2 aprile 1805, da una famiglia poverissima. Il padre è un
ciabattino non totalmente privo di cultura, ma chiuso e insoddisfatto dalla vita, uno spirito bizzarro che di sera legge
al figlio le commedie di Holberg e Le mille e una notte. Nel
1812, quando la Danimarca è alleata con Napoleone, egli
si arruola «nella speranza di tornare a casa tenente», ma
torna gravemente malato e muore poco tempo dopo. A soli
quattordici anni, il 4 settembre 1819, Hans Christian lascia Odense per diventare «un grand’uomo» a Copenaghen: lo attende un lungo periodo di vani tentativi, durante il quale cerca di dedicarsi alla danza, al teatro, al
canto, e infine ai primi caotici esperimenti letterari, ma
solo dopo tre anni entra in contatto con il consigliere Jonas
Collin, che prende a cuore il suo destino. Una cosa è subito chiara a Collin: gli scritti di Andersen rivelano un potenziale talento, ma soprattutto la mancanza delle più elementari conoscenze. Grazie al suo interessamento, il giovane ottiene un sussidio reale e nell’autunno del 1822 inizia
a frequentare la scuola di Slagelse come pensionante in casa
del rettore, Simon Meisling. Saranno anni durissimi: scontrandosi con l’ironia e lo scherno di Meisling, la sensibilità quasi isterica del giovane Andersen rischia di portarlo
a risultati opposti. Ma l’impegno e la buona volontà gli
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INTRODUZIONE
fanno conquistare quelle basi culturali di cui era privo.
La fine degli studi è un gran sollievo e il giovane torna
subito a dedicarsi alla letteratura. Dopo aver pubblicato
alcune poesie, esordisce nel 1929 con il Viaggio a piedi dal
canale di Holmen alla punta orientale di Amager, un’opera immatura, ma accolta con favore dal pubblico e con interesse
dalla critica. Del 1930 è invece il volume Poesie, che contiene vari componimenti in versi e Lo spettro, il primo esperimento nel genere della fiaba. Ormai Andersen sente di
saper rielaborare la realtà in poesia e per questo ha bisogno
di ampliare i propri orizzonti con nuove esperienze. Nel
1831, ancora una volta grazie a Jonas Collin, riesce finalmente a partire per il suo primo viaggio fuori dalla Danimarca, un breve soggiorno in Germania, che al ritorno descrive nelle Silhouettes di un viaggio nello Harz e nella Svizzera tedesca nell’estate del 1831. Andersen si rende conto
di aver bisogno di vedere mondi nuovi, e da quel momento
spera di partire al più presto per un viaggio al Sud.
Solo nel 1833, grazie a una borsa di studio biennale, affronta il suo grande viaggio di formazione in Francia e Italia,
che dura più di un anno e, come era accaduto ai suoi contemporanei, gli apre nuove prospettive. Al ritorno inizia il
romanzo L’Improvvisatore, che esce nel 1835 e lo porta finalmente al successo: ambientata in Italia e ampiamente
autobiografica, l’opera è tradotta subito in tedesco. Incoraggiato dall’accoglienza riservata dai lettori all’Improvvisatore, Andersen pubblica altri due romanzi nel giro di
pochi anni: nel 1836 esce O.T., ancora un’opera con molti
tratti autobiografici, come gran parte dei suoi scritti, e nel
1837 Solo un suonatore. Ma l’accoglienza del pubblico non
ha convinto la critica, e proprio in occasione di quest’ultimo romanzo Andersen viene attaccato da Kierkegaard,
che dedica il suo primo libro alla critica della visione del
mondo – o meglio della mancanza di visione del mondo –
del suo giovane connazionale.
Ma intanto nel 1835 Andersen ha cominciato a pubblicare le fiabe che, a dispetto delle sue aspirazioni come
romanziere, sono destinate a donargli fama immortale. Il
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INTRODUZIONE
primo fascicolo esce l’8 maggio del 1835, in sordina, ma da
quel momento i volumetti di fiabe si succedono con cadenza quasi regolare e, nonostante lo scetticismo della critica, conquistano nel giro di pochi anni un folto pubblico
in Danimarca e all’estero. Nel 1838, dopo anni di disagi
economici, finalmente Andersen ottiene un vitalizio come
scrittore, e le sue condizioni di vita migliorano al punto che
non avrà più bisogno di scrivere per vivere. Fin dal 1835,
poco dopo il ritorno dall’Italia, progettava un nuovo
viaggio, e nel 1840 ottiene un sussidio reale che gli permette di partire ancora per l’Italia e continuare il viaggio
fino in Grecia. Lascia Copenaghen in autunno, in dicembre
arriva a Roma, dove trascorre l’inverno; da Napoli si imbarca per la Grecia, raggiunge Costantinopoli e, dopo molti
dubbi a causa delle rivolte nei Balcani, decide di risalire il
Danubio fino a Vienna facendo ritorno a Copenaghen solo
durante l’estate.
Il viaggio gli ha permesso di prendere le distanze, anche
psicologicamente, dalla vita della capitale danese. I rinnovati attacchi della critica non influiscono sul successo tributato dal pubblico al suo resoconto del viaggio, Il bazar di
un poeta, che esce nel 1842, e ai nuovi fascicoli di fiabe, che
nel 1844 contengono alcuni dei suoi grandi capolavori,
come L’usignolo e Il brutto anatroccolo. Andersen è ormai
uno scrittore affermato, amico di artisti come Oehlenschläger e Thorvaldsen, tradotto in numerose lingue, ricevuto dai grandi di tutta Europa. La sua brama di viaggiare
viene alimentata dal successo: alla fine della sua vita potrà
contare ben ventinove viaggi fuori dalle frontiere del suo
paese e innumerevoli soggiorni in giro per la Danimarca,
ospite di amici e conoscenti della migliore società. Già nel
1843 torna a Parigi, dove incontra Balzac, Heine, Victor
Hugo, Lamartine, e l’anno dopo è di nuovo in Germania,
dove ritorna nel 1845 per un viaggio trionfale che lo porterà a soggiornare presso principi e re, granduchi e conti,
da Weimar a Dresda, da Vienna a Berlino, dove l’unica delusione è quella di non essere riconosciuto da Jacob Grimm,
che afferma di non averlo mai sentito nominare. Il viaggio
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INTRODUZIONE
continua in Italia, a Roma e Napoli, e poi in nave fino a
Marsiglia. Ma invece di continuare per la Spagna, la malattia e la stanchezza lo portano a decidere il ritorno attraverso la Svizzera e la Germania.
Intanto è divenuto famoso anche in Inghilterra ed esamina l’eventualità di un viaggio, che compie già nel 1847
incontrando Dickens, cui tornerà a far visita nel 1857. In
alcuni ambienti danesi i suoi trionfi all’estero vengono ancora considerati con ironia, ma lo scrittore si prenderà una
vendetta nell’autobiografia del 1855, La fiaba della mia vita,
che in molti passi rappresenta uno scrupoloso elenco di tutti
gli attacchi subiti in patria e dei successi all’estero, delle recensioni positive e di quelle negative. Nel 1849 viene pubblicata in Danimarca la prima edizione illustrata delle fiabe
e dopo un nuovo romanzo, Le due baronesse, Andersen riparte nel 1849 per un lungo viaggio in Svezia descritto in
un volume uscito due anni dopo.
La situazione politica, che dal 1848 vede la Danimarca
opposta alla Germania in una guerra per il possesso dei ducati di confine, gli impedisce per qualche tempo di lasciare
la patria. Solo nel 1851 potrà nuovamente mettere piede
nel paese confinante, che per lui è la porta dell’Europa. In
compenso, il decennio dal 1850 al 1860 è un periodo estremamente produttivo per le fiabe, ed è anche il periodo in
cui Andersen, ormai uomo maturo, è colto dall’inquietudine per il futuro: la scalata al successo lo ha privato degli
affetti e il trionfo europeo non riesce a compensare la tristezza della solitudine. Durante un nuovo viaggio in Italia
nel 1861, a Firenze assiste ai festeggiamenti del primo anniversario dell’Unità, poi visita nuovamente Roma, che
dell’Italia non fa ancora parte. L’anno seguente parte finalmente per il viaggio in Spagna cui nel 1845 aveva rinunciato per motivi di salute. Lasciata la Danimarca nel
luglio del 1862 giunge a Barcellona e si spinge fino a Gibilterra e di lì in Africa per la prima volta, ospite del console generale britannico a Tangeri. Al ritorno, nel marzo
del 1863, scrive il suo quarto libro di viaggi, In Spagna, che
esce lo stesso anno.
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INTRODUZIONE
La sua vita scorre ormai sui binari della celebrità e del
benessere, anche se l’inquietudine è stata sostituita dal terrore di perdere ciò che ha conquistato. Gli amori giovanili, mai ricambiati e forse volutamente mai vissuti fino in
fondo, hanno lasciato il posto alla solitudine, alleviata solo
a tratti dal gusto del successo, dalle amicizie che lo accompagnano per tutta la vita. Solo nel 1866, al ritorno da un
viaggio in Portogallo e quasi costretto da Henriette Collin,
moglie del suo amico Edvard – il figlio di Jonas –, decide a
malincuore di acquistare qualche mobile e un letto – «e
sarà il mio letto di morte» – privandosi con terrore di quel
senso di libertà e provvisorietà che lo aveva accompagnato
per tutta la vita.
La città di Odense, che gli ha dato i natali, nel 1867 lo
nomina cittadino onorario, mentre la nuova critica, nella
persona di Georg Brandes, riconosce i suoi meriti di innovatore del genere letterario della fiaba. La sua ansia di viaggiare lo porta per ben due volte, nel 1867, a visitare l’Esposizione Universale di Parigi, che poi ricorderà nella fiaba
La driade. Nel 1870 compone anche il suo ultimo romanzo,
Peer il fortunato, riprendendo uno dei suoi temi preferiti,
quello del fanciullo povero che, grazie al suo genio artistico,
è destinato alla fama e al successo, ma questa volta introduce una variazione nel finale: mentre canta da protagonista in un’opera da lui composta, Peer muore per un attacco cardiaco, «nella gioia della vittoria, come Sofocle ai
giochi olimpici, come Thorvaldsen a teatro, ascoltando una
sinfonia di Beethoven».
Ormai vecchio e malato, Andersen continua la serie
delle fiabe, pubblicando le ultime nel 1872, ma già lo stesso
anno si manifestano i primi sintomi di un cancro al fegato,
e dopo un ultimo viaggio in Svizzera, cui nonostante la malattia e la vecchiaia non sa rinunciare, lo scrittore si spegne
il 4 agosto del 1875 nella villa della famiglia Melchior.
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INTRODUZIONE
IL BAZAR DI UN POETA
«È bene che io parta, la mia anima è malata», afferma
Hans Christian Andersen in una lettera del 1° novembre
1840 a Jonas Collin, il benefattore che lo aveva accolto
nella propria casa come un figlio. La lettera è scritta da Kiel
il giorno dopo la partenza per l’Italia, la Grecia e l’Oriente,
e rivela come per lo scrittore danese il viaggio fosse un’opportunità per nuove esperienze nella migliore tradizione
del grand tour, ma anche una fuga.
Dal primo grande viaggio in Italia nel 1833-34 Andersen aveva raccolto grandi frutti, e non stupisce che già
poco tempo dopo sognasse di raggiungere anche la Grecia.
In una lettera all’amico Edvard Collin – il figlio di Jonas
– datata 5 luglio 1835, quando lo scrittore cominciava ad
assaporare il successo dell’Improvvisatore, compare l’idea
di un viaggio in Grecia se i profitti del suo romanzo fossero
stati migliori. Il 24 giugno dell’anno successivo Andersen
scrive molto più esplicitamente a Edvard: «Se prima del
mio viaggio avessi detto: “Fatemi andar via, vi darò un
libro come L’improvvisatore ecc. ecc.!”, non mi avrebbero
creduto. Ora dico: “Maestà! Fatemi viaggiare, solo un
anno, in Sicilia o in Grecia! Vi mostrerò frutti ancora maggiori. La mia formazione passa per questa strada! Con
l’aiuto di Dio produrrò un’opera che, come è accaduto la
volta scorsa, porterà chiunque a dire: ‘Meritava di viaggiare!’”».
La risposta di Edvard, scritta il 28 giugno, non è incoraggiante: «Oggi è troppo presto per affrontare una materia prolissa come un viaggio in Grecia, [...] non vale la
pena di pensare così in anticipo a una cosa che, se mai, si
potrà realizzare solo fra un anno».
A partire dal 1838, grazie al vitalizio ottenuto, le sue
finanze migliorano: il progetto del viaggio in Grecia rimane nel cassetto, ma non è più un sogno irrealizzabile. I
guadagni ancora non gli permettono grandi piani, ma la
voglia è molta, anche a causa degli scontri con la critica,
dovuti soprattutto alla sua quasi insana passione per il
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INTRODUZIONE
teatro che lo porta a insistere nel comporre per il Teatro
Reale opere che vengono regolarmente respinte o rimangono in cartellone solo pochi giorni. Nel 1840 Johan
Ludvig Heiberg, che spesso era stato critico nei suoi confronti e adesso è censore del Teatro Reale, respinge la sua
tragedia La fanciulla moresca e sua moglie, la più nota attrice dell’epoca, per la quale è stata scritta la parte della
protagonista, rifiuta di recitarla. Questa è la goccia che fa
traboccare il vaso: Andersen parte.
Lo scrittore ha dunque un duplice motivo per viaggiare:
sa che vedere mondi nuovi gli fornisce ispirazione, e ha ogni
interesse a lasciare la Danimarca, dove si sente preso di mira
mentre la sua fama europea cresce. Il 31 ottobre del 1840
intraprende il suo viaggio fino a quel momento più lungo,
che lo porterà ancora in Italia, poi in Grecia e a Costantinopoli per la prima volta, e risalendo il Danubio fino a
Vienna e nuovamente a casa. Le sue finanze non gli permettono di fare troppi progetti: solo a Napoli sa di poter continuare grazie a un sussidio reale, e solo a Costantinopoli, a
causa delle rivolte in Bulgaria, è in grado di decidere se rischiare il ritorno sul Danubio o rientrare attraverso l’Italia.
Le esperienze del viaggio sono descritte nel Bazar di
un poeta, che fin dal titolo dichiara le intenzioni dell’opera. Quello che viene considerato uno dei grandi difetti
dei romanzi di Andersen – ma d’altro canto uno dei grandi
motivi del successo delle sue fiabe – è la sua capacità di
creare delle scene che, se legate a una trama romanzesca,
non sempre riescono a dare come risultato un’opera unitaria. La migliore caratteristica del Bazar è invece proprio
tale frammentarietà: Andersen non ha intenzione di creare
un corpo unitario, bensì di raccogliere una serie di bozzetti
di stile pittorico a dimostrazione della sua capacità di isolare temi, particolari anche minimi, raccogliendoli in un
“bazar” per riutilizzarli più tardi, quando il soggetto è
giunto a maturazione assumendo valore poetico. Naturalmente la riutilizzazione non è sempre verificabile, a parte
forse nel caso dei tre capitoli che nel 1862 vengono inseriti in una delle raccolte di Fiabe e storie: Il porcellino di
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INTRODUZIONE
bronzo, Il patto di amicizia e Una rosa sulla tomba di Omero.
Di altri bozzetti si può solo supporre una successiva riutilizzazione per contiguità di atmosfere, ovvero in una forma
tanto mutata da non essere più riconoscibile. Ciò non significa quindi che sia possibile ricostruire un inventario
del materiale riutilizzato, ma è interessante osservare la
tecnica con cui lo scrittore raccoglie le esperienze. Fin dal
primo viaggio in Italia, Andersen aveva iniziato a disegnare, a schizzare brevemente ciò che vedeva, alla maniera
di Goethe ma con minor perizia tecnica. Si trattava di piccoli disegni, eseguiti in fretta su minuscoli pezzi di carta
che poi venivano completati con qualche tratto in più e
un po’ di colore quando la sera lo scrittore si dedicava a
raccogliere nei diari le sue impressioni della giornata. L’interesse di questi disegni, gran parte dei quali è conservata,
è appunto nella tecnica con cui Andersen fissava i particolari, che è la stessa con cui raccoglie le impressioni del
Bazar. Non a caso all’interno dell’opera lo scrittore usa ripetutamente espressioni come «se fossi un pittore» o «era
proprio un quadro», e più volte la parte che rende delle
scene che ha vive davanti agli occhi sono i colori, le impressioni visive, anche se mai, nei disegni, ritrae esseri viventi, che invece sono spesso al centro dei suoi bozzetti
letterari. Andersen aveva dunque scelto di vedere il
mondo con l’occhio del pittore, e già anni prima, nelle
Silhouettes di un viaggio nello Harz, troviamo una dichiarazione programmatica in tal senso, quasi a prevedere le critiche e a difendere le proprie scelte. È qui infatti che viene
ripresa per la prima volta la tecnica del pittore che «nella
natura divina schizza il singolo albero, la singola foglia che
per la sua bellezza e il suo particolare carattere attira la sua
attenzione, riunisce in tal modo una quantità di studi che
poi vengono inseriti nelle sue composizioni».
È la tecnica del Bazar con dieci anni di anticipo, e non
a caso proprio in occasione di un altro viaggio, la tecnica
del pittore è ripresa dal poeta con le stesse motivazioni:
«Riporto ogni particolare così come l’ho visto, prima che
tutto si fonda in un solo pezzo della mia vita».
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INTRODUZIONE
Tale tecnica non gli impone di seguire una rigida struttura cronologica, e infatti la gran parte del viaggio del
Bazar non segue il filo del tempo. Le sei sezioni che lo compongono sono suddivise in una serie di quadri che, per i
paesi che Andersen già conosce – come l’Italia –, isolano
gli avvenimenti e si prestano a un’utilizzazione fuori dal
loro contesto, come il viaggio in ferrovia e quello con il
vetturino, o sono delle creazioni del tutto autonome, come
Il porcellino di bronzo, inserito in seguito tra le fiabe. La
cronologia è invece più marcata nei paesi che Andersen
visita per la prima volta, come la Grecia, la Turchia e soprattutto la regione del Danubio, dove la narrazione si
svolge con una sequenza precisa dettata dai tempi della navigazione e delle soste. Va notato anche come, per quanto
riguarda l’Italia, lo spazio limitato che le viene dedicato –
relativamente al tempo piuttosto lungo che lo scrittore vi
trascorre – sia giustificato dalla volontà di non dilungarsi
su una materia che, con L’improvvisatore, Andersen ritiene forse di aver trattato a sufficienza.
Che l’ordine cronologico degli avvenimenti non
sempre sia rispettato è rivelato da un confronto con i diari:
per esempio nel caso della visita alla tomba di Miaulis, avvenuta nei primi giorni dopo l’arrivo ad Atene ma posta,
al momento della stesura, quasi a coronamento del soggiorno greco. La mancanza di una struttura portante permette comunque all’autore di comporre l’opera sulla scorta
dei diari, secondo l’ispirazione del momento, per poi unire
le varie scene con la tecnica del collage solo a lavoro ultimato, aggiungendo o togliendo dei capitoli in base a un’economia interna. E gli permette di trattare liberamente
non solo la successione degli episodi, ma anche la stessa
realtà, inserendo nel Bazar – in particolare nella parte dedicata all’Italia – avvenimenti e personaggi reali, ma del
precedente viaggio, e di modificare i fatti. È questo il caso
del capitolo Vista dalla mia finestra, che nella descrizione
del funerale a Napoli ricalca esattamente un avvenimento
descritto in un suo disegno datato «Roma 28 dicembre
1833» e già utilizzato, come moltissime esperienze del suo
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INTRODUZIONE
primo soggiorno italiano, nell’Improvvisatore del 1835.
Anche il cencioso “nobile romano” che sale a bordo della
diligenza a Spoleto, durante il Viaggio con il vetturino,
non esiste nei diari del 1840-41, ma vi compare alla data
del 13 ottobre del 1833, a Firenze, e nell’autobiografia La
fiaba della mia vita – che invece segue la realtà dei diari –
l’episodio è correttamente descritto nelle pagine dedicate
al primo viaggio italiano. E la caduta per le scale, che aveva
visto protagonista lo scrittore il 16 dicembre 1840 – come
risulta dai diari – al momento della stesura del Bazar diventa una punizione per l’antipatico inglese che più di altri
la merita. Sono variazioni che ci fanno comprendere come
gli elementi passassero dalla realtà all’immaginario dell’autore e poi, nel momento del bisogno, al Bazar, che ne
era l’ideale contenitore: «Dentro tutto frigge e fermenta,
e quando sarò nella buona città di Copenaghen e mi metterò degli impacchi freddi al corpo e allo spirito, allora i
fiori si apriranno», così Andersen descrive, nel capitolo
sulla quarantena, il suo stato d’animo e la difficoltà di strutturare in un’opera organica la grande congerie di esperienze che aveva assorbito durante il lunghissimo viaggio.
Che i critici danesi non sarebbero stati favorevoli, l’autore lo sapeva per esperienza. «Certo, il trattamento non è
dei migliori», scrive nel citato capitolo sulla quarantena,
mentre in altri passi lamenta la mancanza di riconoscimenti
in Danimarca. Sembrava quasi una sfida, e fu accettata. La
critica danese, che spesso aveva disapprovato le sue opere,
non lo risparmiò nemmeno questa volta: saccenti notazioni
sull’ortografia e sullo stile, giudizi negativi sulla mancanza
di precise prese di posizioni sulla situazione politica in
Grecia, in Turchia, nella regione del Danubio, sulla mancanza di una descrizione delle condizioni sociali. L’intento
dell’opera fu mal compreso fin dall’inizio.
Ma non tutti erano contrari, anche se un solo recensore sembrò rendersi conto del valore del Bazar: era Peter
Ludvig Møller, più giovane di Andersen di quasi dieci
anni, figura di intellettuale polemico la cui importanza solo
di recente è stata rivalutata dalla critica. Nella sua recen14
INTRODUZIONE
sione al libro, l’unica positiva – tranne un breve ma ironico appunto... sull’ortografia – Møller esordisce:
Quando si attrezzano le navi per circumnavigare la
terra, in genere si adopera molto zelo per avere a
bordo un paio di naturalisti che possano farsi carico
del fatto che il viaggio non vada solo a vantaggio
di scopi mercantili, ma riporti anche frutti, come
si dice, per la ‘scienza’. È strano che non sia mai
venuto in mente a nessuno di ingaggiare nel viaggio
un poeta che, interpretando la natura esteriore e la
vita umana nella loro grandezza e ricca varietà,
possa riportare per l’istruzione e la nobilitazione
della nazione dei frutti più importanti della raccolta
di oggetti secchi e impagliati che in genere è il risultato della partecipazione dei naturalisti al
viaggio. Se tale punto di vista un giorno dovesse
prendere piede presso di noi, allora in verità non
conosciamo nessun poeta che per questo scopo sia
più consigliabile del signor H.C. Andersen.
Un punto di vista del tutto in sintonia con quello di
Andersen, tanto più che Møller comprende quello che rappresenta il nucleo centrale del Bazar: la capacità – e la volontà – di cogliere in ogni stadio del viaggio «il lato pittoresco, e comprendere quasi per istinto il lato poetico e
quello caratteristico negli ambienti apparentemente più
insignificanti». Un punto di vista certamente ‘moderno’,
che supera l’angusta atmosfera culturale della Copenaghen
del tempo e, come dimostra il successo quasi immutato da
più di un secolo e mezzo del più grande libro di viaggi di
Andersen, colloca finalmente nella giusta prospettiva il
Bazar che, con le Silhouettes e i successivi In Svezia e In
Spagna, rimane un fondamentale documento letterario del
laboratorio dello scrittore.
BRUNO BERNI
15
Il bazar di un poeta
GERMANIA
Dedicato
ai miei amici
il poeta Ludwig Tieck
a Dresda
e
il compositore Mendelssohn-Bartholdy
a Lipsia
I
I DANZATORI SPAGNOLI
Nell’estate del 1840 soggiornarono a Copenaghen alcuni danzatori spagnoli1 che attirarono i cittadini nel
vecchio teatro della Kongens Nytorv: l’intera città
parlava delle danze nazionali spagnole e i giornali ne
rilanciavano l’eco in tutto il paese.
In quel periodo soggiornavo dal barone Stampe a
Nysø, che è diventato uno dei luoghi famosi della Danimarca perché Thorvaldsen vi ha trovato una dimora
e vi ha creato alcune opere.2 Fu Thorvaldsen, in quella
casa, a raccontarmi per la prima volta dei danzatori
spagnoli; era estasiato, entusiasta come non lo avevo
mai visto prima. «Quella è danza! Quelle sono posizioni! Ci sono forme e bellezza!», diceva, e mentre
parlava i suoi occhi fiammeggiavano. «Guardate Voi
stesso! A vedere quella danza ci si trova in pieno Meridione!».
Una mattina entrai nel suo atelier e vidi un bassorilievo d’argilla che rappresentava una coppia di
baccanti che danzavano. «L’idea me l’hanno data i
danzatori spagnoli!», disse lui. «Sapevano ballare
anche così! Mentre eseguivo questo bassorilievo pensavo alla loro armoniosa danza!».
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IL BAZAR DI UN POETA
Fui preso dalla brama di vedere quei figli della
Spagna, di vedere la leggiadra Dolores Serral, che ora
i copenaghesi hanno dimenticato: è passato un anno
da quando è stata qui.
Andai a Copenaghen e fui spettatore di una danza
che mi fece dimenticare i fondali dipinti e le lampade
del palcoscenico: ero anch’io nelle valli di Valencia,
guardando quelle belle persone nelle quali ogni movimento è grazia e armonia, ogni sguardo è passione.
Dal mio arrivo in città assistetti alle danze di Dolores ogni sera, ma non la incontrai mai fuori dalle
scene, non la vidi mai se non quando danzava.
Era già la fine di ottobre,3 un periodo freddo, piovoso e tempestoso come può esserlo nel nostro caro
paese. I danzatori spagnoli volevano andar via; Dolores
disse, come Preciosa:4 «A Valencia!». Ma la strada da
Copenaghen a Valencia passa per Kiel. Ella dovette
prendere il vaporetto Christian VIII in un nordico
clima autunnale, freddo e tempestoso. La metà di
quelle brave persone che la seguirono in barca per salutarla ebbe il mal di mare durante quel breve tragitto.
Era la danza nordica delle onde! Dolores ben presto
ne ebbe abbastanza; le belle membra si piegarono a un
riposo che non era davvero tale; le onde spazzavano il
ponte una dopo l’altra, il vento sibilava fra il cordame,
e un paio di volte il vaporetto sembrò addirittura fermarsi e quasi riflettere sull’opportunità di tornare indietro. Le caraffe d’acqua e i piatti, sebbene fissati, tremavano di paura o d’istinto. Era tutto uno scricchiolio,
tutta una vibrazione; ogni asse della nave gemeva e
Dolores sospirava così forte che i suoi sospiri passavano
attraverso il ponte della nave; il piede sottile e flessuoso si stendeva spasmodicamente contro la sottile
paratia, la sua fronte toccava il divisorio...
Una nave è uno strano mondo! A destra un pan22
GERMANIA
nello ci separa dalla morte fra le onde, a sinistra
un’altra asse sottile può essere la spada del cherubino.
Dolores sospirava, e anch’io con lei! Per una notte intera giacemmo in quella nave e sospirammo letteralmente l’uno per l’altra; le onde danzavano come Dolores non sapeva danzare, e la tempesta cantava come
io non sapevo cantare, mentre la nave percorreva potente la sua rotta, finché non fummo accolti dal golfo
di Kiel e non vedemmo a poco a poco i passeggeri salire sul ponte, uno dopo l’altro.
Raccontai a Dolores l’impressione che la sua danza
aveva fatto al più grande scultore della nostra epoca,
le raccontai dei baccanti. Lei arrossì e sorrise; mi sembrava veramente che ballassimo insieme il fandango
nella verde pianura, sotto le acacie profumate. Lei mi
porse la mano... ma era per congedarsi: andava dritta
a Valencia.
Fra molti anni Dolores sarà un’anziana signora e
non danzerà più, ma allora le danzeranno davanti i
paesi e le città in cui ha incantato il pubblico, e ricorderà la città reale sulla verde isola del Nord, al
centro del mare in tempesta che attraversò, e penserà
al bassorilievo sul quale ancora volteggia, giovane e
bella; allora le sue dita scivoleranno sul rosario che
tiene in mano sul balcone, e spingerà lo sguardo oltre
i monti. E chi si troverà accanto all’anziana signora
le chiederà: «Dove sei, Dolores?».
E lei risponderà sorridendo: «Sono stata un po’ nei
mari del Nord!».
II
BREITENBURG
Dalla strada reale fra Kiel e Amburgo la mia carrozza
si inoltrò nella brughiera: volevo fare una visita a Brei23
IL BAZAR DI UN POETA
tenburg. Un uccellino mi volò incontro cinguettando,
come se volesse augurarmi il benvenuto.
Nella brughiera di Lüneburg, anno dopo anno, nascono sempre più boschi, case e strade, mentre il suo
proseguimento, nei Ducati e nello Jütland, per la maggior parte ha ancora lo stesso aspetto che aveva nel
secolo scorso. La brughiera danese ha carattere e
poesia: la volta stellata è vasta e grande, le nebbie ondeggiano nella tempesta, come gli spiriti di Ossian, e
la solitudine ci permette di ricevere la visita dei nostri pensieri più sacri. Gruppi di querce piegate, coperte di muschio fino ai rami più alti, sorgono nel
bosco come fantasmi. Una stirpe egiziana dalla pelle
bruna e gli occhi neri come il carbone vi conduce la
sua vita nomade, cuoce sotto le stelle l’agnello rubato
e festeggia matrimoni e danze fuori dalla casa di zolle
d’erica, innalzata alla svelta nella brughiera solitaria.
La mia carrozza avanzava affondando lentamente
nella sabbia: credo che, a passare in carrozza su queste
terre, si potrebbe provare il mal di mare. Sempre avanti,
attraverso regioni desolate e spopolate; le poche case
che si incontrano sono lunghi edifici dalle cui porte
aperte il fumo esce vorticando. Queste case non hanno
comignoli, è come se mancasse il focolare, come se all’interno non si trovasse alcuna abitazione, come se ci
fosse solo il viandante, attraversando la brughiera in
tutta fretta, ad accendere un fuoco sul pavimento e a
scaldarsi un po’ per continuare il suo viaggio! I comignoli che di solito hanno le case dei contadini e il fumo
turbinoso che ne esce creano un’atmosfera domestica,
abbelliscono e ravvivano quasi quanto il giardinetto
fiorito davanti alla casa, ma qui c’era armonia con la
brughiera e con la fredda giornata autunnale. È vero
che il sole splendeva, ma non aveva raggi caldi, e forse
non era nemmeno il sole in persona, forse mandava at24
GERMANIA
traverso il cielo solo la sua tunica splendente. Non incontrammo anima viva, non si vedeva un branco di
bestiame; era quasi da credere che tutto si fosse addormentato o fosse prigioniero di un incantesimo.
Solo nel pomeriggio avanzato apparve una campagna rigogliosa; vedemmo un grande bosco, la luce
del sole sulle sue foglie marroni lo faceva sembrare di
rame... Aveva qualcosa di stregato, al punto che,
quando un grande branco di bestiame uscì dal folto
degli alberi e ci guardò con i grandi occhi, mi venne
l’idea di un’intera fiaba su una città incantata in un
bosco di rame.
Dietro il bosco attraversammo un grosso villaggio
che, se non mi portò nel paese delle fiabe, almeno mi
riportò indietro nel tempo, in un altro secolo. Nelle
case la stalla, la cucina e la sala sembravano tutt’uno.
La strada era inondata da un’abbondante fanghiglia
in cui erano conficcati grossi macigni. Era abbastanza
pittoresco e lo divenne ancora di più poiché, al centro
del fitto bosco, splendeva nel sole serale un maniero
con torri e merli, dal quale ci separavano le anse di
un fiume ampio e profondo.
Il ponte rimbombò sotto gli zoccoli dei cavalli.
Dopo aver attraversato il bosco e il giardino, entrammo nel cortile aperto del maniero, dove le luci si
muovevano affaccendate dietro le finestre, dove tutto
aveva un aspetto ricco e accogliente. Al centro del
cortile c’era un grande pozzo antico con una griglia di
fattura ricercata, dalla quale si alzò in volo un uccellino: sicuramente era lo stesso che mi aveva dato il
benvenuto al mio ingresso nella brughiera, era giunto
qui prima di me e aveva annunciato il mio arrivo. Il
proprietario del maniero, il nobile Rantzau,5 condusse
il suo ospite in una casa benedetta, dove le portate
fumavano, i tappi di champagne saltavano… Sì, do25
IL BAZAR DI UN POETA
veva essere proprio un incantesimo! Una brughiera
spoglia, un bosco di rame, e alle loro spalle un castello
ospitale con splendidi quadri e fiori accanto ai morbidi divani. Era una magia! Pensai al mare in tempesta, alla brughiera solitaria, e sentii che comunque
si può stare bene, in questo mondo.
Là fuori l’uccellino cinguettò mentre guardavo
dalla finestra; casualmente la luce cadeva sul pozzo, e
sembrava che il secchio salisse e scendesse da solo, e
che dentro vi fosse seduto un folletto che mi dava il
benvenuto con un cenno del capo. Sicuramente non
mi sbagliavo, perché un tempo un antenato del folletto, nel bosco, aveva porto un boccale dorato a un
cavaliere della famiglia Rantzau zu Breitenburg,
mentre questi cavalcava nel bosco al chiaro di luna.*6
Il boccale è ancora oggi conservato nell’armadio di
quercia intagliata che si trova nella sala dei cavalieri,
sopra la cappella; l’ho visto io stesso, e gli antichi ritratti dei fieri nobili alle pareti muovevano gli occhi.
C’era la luce del sole, ma se fosse accaduto di notte,
alla luce della luna, sarebbero sicuramente usciti dalle
cornici e avrebbero brindato all’amabile conte che ora
domina sull’antica Breitenburg.
«La beatitudine del Paradiso non ha storia!», dice
un poeta. «Il sonno migliore non ha sogni», aggiungo
io, e a Breitenburg la notte non portò sogni. Alla luce
del giorno, invece, antiche leggende e ricordi attraversavano la mente come sogni, mi salutavano sugli
antichissimi viali del giardino, annuivano seduti sulla
scala a chiocciola della torre di guardia, dove gli scozzesi stavano di vedetta quando le truppe di Wallen* Oltre al boccale la famiglia ricevette anche una rocca d’oro;
la leggenda che narra di questi doni è stata cantata in tedesco
da Lobedanz, in danese da H.P. Holst.
26
GERMANIA
stein7 erano accampate fuori; Wallenstein fece passare gli uomini a fil di spada, e quando le donne del
castello non vollero eseguire il suo ordine di lavare il
sangue dal pavimento, fece abbattere anche loro.
Tutt’intorno, nella natura eternamente giovane,
vagavano antichi ricordi; dall’alta torre del castello
vedevo in lontananza la rigogliosa campagna acquitrinosa, dove d’estate il grasso bestiame cammina nell’erba alta fino alle spalle. Gettai uno sguardo ai molti
boschi in cui Ansgarius8 aveva vagato, predicando la
dottrina di Cristo ai pagani danesi: laggiù un piccolo
villaggio conserva ancora la memoria del suo nome,*
più in là sorgeva la sua fattoria, qui egli viveva… La
chiesa di Heiligenstedten, i cui muri sono stati nascosti dalla terra, risale alla sua epoca, e come allora
si rispecchia nello Stören, nel punto in cui egli, con
la sua povera barca da pescatore, lo attraversava fino
al piccolo sentiero fra le canne.
Passeggiavo nel giardino del castello sotto gli annosi alberi, lungo i canali serpeggianti. Il cespuglio di
sambuco e quello di rose si chinavano sullo specchio
d’acqua per vedere quanto erano belli i loro fiori. Il
contadino camminava sugli argini, trascinando la
barca in direzione opposta a quella della corrente. Il
cacciatore si dirigeva con i suoi cani nel folto del bosco
rosso come il rame. Il corno della posta risuonava, ed
era come se il bosco e la campagna prendessero voce,
come se intonassero l’inno di morte dell’autunno: «Il
grande Pan è morto!».
Al calar del sole risuonarono nel castello canti e
tintinnio di boccali; attraversai la sala dalle pareti
rosso scure che ospitano i bassorilievi di Thorvaldsen
e fanno da sfondo alla bellezza dei busti e delle statue;
* Willenscharen.
27
IL BAZAR DI UN POETA
all’esterno la siepe di rosa canina si inchinava fino alla
finestra con il suo ramo spoglio punteggiato di frutti
rossi, e alla vista della vita estiva che si svolgeva nella
sala sognava di essere anch’essa ancora giovane e fiorita, e che ogni frutto fosse un bocciolo che l’indomani si sarebbe aperto. Il folletto seduto sul bordo del
pozzo batteva il tempo con i suoi piedini, e l’uccellino cinguettava: «Com’è bello qui al Nord! Come si
sta bene qui al Nord!»; eppure volò verso i paesi caldi,
e il poeta fece lo stesso!
III
RICORDO DEL VAPORETTO STÖREN
Presso le acque dello Stören, sulle due rive opposte del
fiume, c’erano due linde casette, entrambe con la facciata verde e un paio di cespugli. All’esterno di una di
esse era stesa una rete, e una grande ala che si agitava
al vento: quante volte due occhi belli avevano guardato, da una delle casette, quell’ala che sventolava, e
un cuore fedele aveva tirato un profondo sospiro!
In questo tratto prendemmo a bordo una bella
donna. Apparteneva a quella che viene definita classe
inferiore, ma era abbigliata in maniera così festosa, ed
era così giovane e affascinante, e portava uno splendido bambino al petto. Da entrambe le case la gente
la salutava col capo, augurandole felicità e gioia! L’ala
sventolava tanto forte da sibilare, ma i begli occhi
della donna non la guardavano più, perché ora non
le interessava più sapere che vento c’era! Partimmo.
Tutto era verde, uniforme ma mai uguale lungo il piccolo fiume, che creava un’ansa dopo l’altra.
Ora eravamo sull’Elba, la grande strada reale della
Germania. Le navi andavano e venivano, le barche
28
GERMANIA
attraversavano il fiume, e anche noi dovevamo passare a imbarcare alcuni passeggeri sulla sponda dell’Hannover, poi su quella dello Holstein, quindi di
nuovo su quella dell’Hannover, ma non salì alcun passeggero! Io guardavo la giovane. Sembrava impaziente
come me; era sempre a prua, a guardare intorno con
la mano sui begli occhi: cercava le torri di Amburgo?
Baciò un paio di volte il suo bambino e sorrise, con le
lacrime agli occhi. Due vaporetti ci passarono davanti, un battello a vele spiegate portava degli emigranti in America. Davanti a noi, con la bandiera agitata dal vento contrario, era ancorata una magnifica
nave appena giunta da laggiù che faceva una sosta nel
risalire il fiume! Mentre ci avvicinavamo se ne staccò
una barca; quattro marinai presero i remi e un uomo
gagliardo, dalla barba nera, aveva l’aria di essere il timoniere a bordo. Allora ci fermammo e la giovane
non camminò, ma volò, con il bambino che dormiva,
e in un attimo eccola nella leggera barca che ondeggiava, fra le braccia dell’uomo scuro con la barba nera.
Quello sì che era un bacio: era il coronamento di un
lungo anno di dolce nostalgia! Allora il bambino si
svegliò e pianse, l’uomo lo baciò e abbracciò la donna,
e la barchetta ondeggiava con loro, come se saltasse
di gioia, mentre i marinai abbronzati si facevano cenni
con il capo... Ma noi continuammo la navigazione, e
io guardavo le coste piatte, nude.
IV
LISZT
Era ad Amburgo, all’Hotel Stadt London, che Liszt9
dava un concerto! In pochi attimi la sala era gremita
e nonostante fossi arrivato troppo tardi, ottenni ugual29
IL BAZAR DI UN POETA
mente il posto migliore, proprio davanti alla tribuna
dove si trovava il pianoforte, perché mi fecero salire
da una scala posteriore.
Liszt è uno dei re del regno delle note, e da lui mi
portò la mia compagnia, come ho detto, salendo da
una scala secondaria, non mi vergogno a confessarlo.
La sala, così come le stanze attigue, splendevano
di luce, catene d’oro e diamanti. Non lontano da dove
ero seduto c’era, su un divano, una ragazza ebrea,
grassa e agghindata, che somigliava a un tricheco col
ventaglio. Un gruppo di robusti commercianti amburghesi stavano in piedi l’uno addossato all’altro,
come se dovessero trattare un’importante questione
di borsa: dal sorriso che avevano sulla bocca si sarebbe
detto che avessero acquistato titoli estremamente
vantaggiosi. L’Orfeo della mitologia sapeva far muovere pietre e alberi suonando, ma Liszt, il nuovo
Orfeo, li aveva infervorati ancor prima di suonare!
La fama, con il suo possente alone, aveva aperto gli
occhi e le orecchie dei presenti, che sembravano già
conoscere e sentire ciò che sarebbe seguito. Fra i raggi
di quella miriade di occhi fiammeggianti provavo anch’io la stessa palpitazione densa di aspettative, all’approssimarsi di un grande genio che con le audaci
dita segna i confini della sua arte nella nostra epoca!
È singolare ascoltare Liszt per la prima volta a
Londra, la grande metropoli delle macchine, o ad Amburgo, l’ufficio di commercio europeo: allora il tempo
e lo spazio corrispondono l’uno all’altro, e io lo avrei
ascoltato proprio ad Amburgo. La nostra epoca non
è più quella della fantasia e del sentimento, ma quella
della ragione. La capacità tecnica in ogni arte e in ogni
mestiere è oramai una condizione generale per il loro
esercizio; le lingue sono diventate così perfette che
per scrivere in buono stile bisogna quasi saper mettere
30
GERMANIA
i propri pensieri in versi, cosa che cinquant’anni fa sarebbe stata opera di un vero poeta; in ogni grande città
ci sono dozzine di persone che eseguono la musica con
un’abilità tale che solo vent’anni fa sarebbero stati
considerati dei virtuosi. Al giorno d’oggi ogni aspetto
tecnico, sia materiale sia spirituale, è al suo massimo
sviluppo, così il nostro tempo fa volare anche la materia inerte!
Se i nostri geni universali non sono nati solo dal
fermento di questa contraddizione presente nella nostra epoca di progresso, se sono realmente spiriti insigni, devono essere in grado di sopportare il linciaggio
della critica e di elevarsi molto al di sopra del livello
raggiungibile, non accontentandosi di riempire ciascuno il proprio posto spirituale, ma dando qualcosa
di più! Come i madreporari, devono aggiungere ancora uno strato all’albero dell’arte, altrimenti la loro
attività non è grande! Nel mondo della musica, la nostra epoca ha due principi del pianoforte che riempiono in tal guisa il loro posto, e sono Thalberg10 e
Liszt.
La sala fu come attraversata da una scossa elettrica
quando Liszt fece il suo ingresso. La maggior parte
delle signore si alzò: era come se il sole risplendesse
in ogni volto, come se tutti gli occhi ricevessero un
caro, amato amico! Io ero vicinissimo all’artista, un
uomo magro, giovane, dai lunghi capelli scuri intorno
al pallido volto. Salutò e si sedette al pianoforte. Tutto
l’aspetto esteriore e il modo di muoversi rivelano subito una di quelle personalità cui si fa caso per la loro
peculiarità: la mano divina ha impresso loro un marchio particolare che li rende riconoscibili fra mille.
Appena Liszt si sedette al pianoforte, la prima percezione che ebbi della sua personalità fu l’espressione
delle forti passioni che trasparivano dal volto pallido,
31
IL BAZAR DI UN POETA
tanto che mi apparve come un demone inchiodato a
quello strumento dal quale le note sgorgavano a fiumi,
venivano dal suo sangue, dai suoi pensieri. Era un demone che doveva liberare la sua anima suonando; era
sotto tortura, il sangue scorreva e i nervi fremevano.
Ma, mentre suonava, il demone scomparve; vidi che
il bianco volto assumeva un’espressione più nobile e
più bella, l’anima divina risplendeva dai suoi occhi,
da ogni lineamento; divenne bello, bello come solo
lo spirito e l’entusiasmo possono rendere una persona!
Il suo Valse infernale è qualcosa di più di un dagherrotipo11 del Roberto di Meyerbeer!12 Noi non restiamo a guardare il noto dipinto dall’esterno, no, vi
veniamo trascinati dentro, gettiamo lo sguardo nell’abisso e scopriamo nuovi vortici di figure. Non sembrava più il severo suono di un pianoforte, ogni nota
somigliava al tintinnio delle gocce d’acqua!
Chi nell’arte ammira l’abilità tecnica deve inchinarsi davanti a Liszt, chi si fa trasportare dalla genialità, dal dono divino, si inchina a qualcosa di più
profondo! L’Orfeo della nostra epoca ha fatto risuonare le note attraverso la grande metropoli delle macchine, e qualcuno ha ritenuto, come ha detto un copenaghese, che «le sue dita fossero strade ferrate e
macchine a vapore», ma la potenza del suo genio nel
riunire gli spiriti del mondo è ancora più forte di tutte
le strade ferrate della terra. L’Orfeo della nostra epoca
ha fatto risuonare le note nell’ufficio di commercio
europeo e, almeno in quell’istante, la gente ha creduto nel Vangelo: «L’oro dello spirito ha un suono più
potente di quello del mondo».
Spesso, senza rendersene conto, si usa l’espressione “un mare di note”, ed è proprio quello che
sgorga impetuoso dal pianoforte al quale siede Liszt.
Lo strumento sembra trasformato in un’intera or32
GERMANIA
chestra, questo riescono a fare dieci dita che possiedono un’abilità, per così dire, fanatica, guidate dal
genio possente; è un mare di note che proprio nella
sua ribellione rispecchia il compito immediato della
vita di ogni animo ardente. Ho incontrato politici
che, sentendo suonare Liszt, avevano compreso come
le note della Marsigliese potessero spingere il tranquillo cittadino a prendere il fucile, precipitarsi fuori
di casa e combattere per un’idea! Ho visto tranquilli
copenaghesi, con la nebbia autunnale danese nel
sangue, che sentendolo suonare sono diventati politici forsennati, e matematici vinti dalla vertigine di
figure armoniche e calcoli sul suono. I giovani hegeliani – e i più dotati di loro, non quelle teste morte
che fanno una smorfia spirituale solo con la corrente
galvanica della filosofia – vedevano in questo mare
di note l’avanzata ondeggiante della scienza verso la
coste della perfezione. Il poeta vi trovava la lirica di
tutto il suo cuore o il ricco abito per le sue figure più
audaci! Il viaggiatore – così mi suggerisce la mia personale esperienza – ottiene immagini musicali di ciò
che vede o che dovrà vedere.
Ascoltai la sua musica come un’ouverture al mio
viaggio. Sentii quanto batteva e sanguinava il mio
cuore al congedo dalla patria; sentii il saluto delle
onde, le onde che avrei riascoltato solo sulle rupi di
Terracina: sembravano note d’organo dalle antiche
cattedrali della Germania; i ghiacciai scendevano
dalle cime delle Alpi e l’Italia ballava in costume carnevalesco, agitando la spatola mentre, in fondo al
cuore, pensava a Cesare, Orazio e Raffaello! Dal Vesuvio e dall’Etna sprizzavano fiamme, la tromba del
Giudizio risuonava dai monti della Grecia dove gli antichi dèi sono morti; note che non conoscevo, note
per le quali non ho parole, accennavano all’Oriente,
33
IL BAZAR DI UN POETA
la terra della fantasia, la seconda patria del poeta!
Quando Liszt ebbe finito di suonare gli piovvero
intorno fiori, piccoli bouquet lanciati da giovani e graziose fanciulle o da anziane signore, un tempo anch’esse giovani e graziose… In fondo egli aveva lanciato nel loro cuore e nel loro spirito migliaia di mazzetti di note!
Da Amburgo Liszt sarebbe volato a Londra. Lì
avrebbe gettato nuovi mazzi di note, lì avrebbe sparso
poesia sulla materiale vita quotidiana! Oh fortunato,
che in tal modo può viaggiare per tutta la vita! Vedere
sempre la gente nel suo abito spirituale della domenica, anzi persino nell’abito nuziale dell’entusiasmo!
Lo incontrerò ancora? Fu questo il mio ultimo pensiero. E il caso volle che tornassimo a incontrarci durante il viaggio,13 a incontrarci nel luogo in cui il mio
lettore meno potrebbe aspettarselo; incontrarci, diventare amici e di nuovo separarci; ma questo fa parte
degli ultimi capitoli di questa fuga. Per il momento
egli andò nella città di Vittoria, io in quella di Gregorio XVI.
V
LA PULZELLA DI ORLÉANS
(Uno schizzo)
Avevamo quasi attraversato l’Elba. Il vaporetto scivolava sul versante di Hannover, fra le basse isole
verdi dove si scorgevano case di contadini e gruppi di
bestiame. Vedevo bambini felici che giocavano fra le
barche tirate quasi in secco e pensavo che presto quel
gioco sarebbe finito, che presto, forse, sarebbero volati lontano, nel mondo, sarebbero cresciuti. Allora
vidi nel ricordo queste piatte, piccole isole, come i
34
GERMANIA
giardini delle Esperidi con i frutti d’oro e le arance
della loro infanzia.
Eravamo a Harburg; tutti controllavano che ogni
loro cosa fosse caricata sui carrelli dei facchini, ma una
signora alta, un po’ corpulenta, con un portamento
fiero che mal si accordava con l’abito di stoffa indiana
scolorita e il soprabito certamente rivoltato più volte,
scuoteva la testa ogni volta che un garzone allungava
la mano verso la piccola bisaccia che portava lei stessa.
Era una bisaccia da uomo, ma la signora non voleva
proprio mollarla, come se essa custodisse un prezioso
tesoro. Lentamente si avviò dietro tutti noi, entrando
nella città silenziosa.
Apparecchiarono un tavolino per me e per un altro
viaggiatore, chiedendoci poi se poteva prendervi
posto una terza persona, la quale in effetti arrivò di lì
a poco: era la donna dall’abito scolorito. Un boa
grosso e un po’ consunto le pendeva dal collo, aveva
l’aria molto stanca.
«Ho viaggiato tutta la notte», disse; «sono attrice!
Vengo da Lubecca, dove ho recitato ieri sera», e tirò
un profondo sospiro sciogliendo il nastro del mantello.
«Qual è il suo campo?» chiesi io.
«I ruoli di punta!» rispose lei, e con un gesto ardito lanciò il boa sulla spalla. «Ieri sera ero la Pulzella
di Orléans! Sono partita subito dopo la fine dello spettacolo perché sono attesa a Brema; domani mi esibirò lì, nella stessa opera», e tirò un respiro molto
profondo, gettandosi nuovamente il boa sull’altra
spalla.
Chiese un postale straordinario e un solo carrozzino a un cavallo, o, ancora meglio, una carrozza dell’oste con un unico garzone, perché in caso di necessità sapeva guidare da sola. «Bisogna fare economia,
specialmente in viaggio», disse. Osservai il suo pal35
IL BAZAR DI UN POETA
lido volto; aveva certo trent’anni, sicuramente era
stata molto bella... in fondo interpretava ancora la
Pulzella di Orléans, e comunque ruoli di punta.
Un’ora dopo sedevo nella diligenza; il corno della
posta risuonò per le strade deserte di Harburg, un carrozzino camminava davanti a noi, si fece da parte e si
fermò perché potessimo superarlo. Guardai fuori, era
la Pulzella con la sua piccola bisaccia posata fra lei e
il ragazzo che doveva farle da cocchiere. Salutò come
una principessa, lanciandoci un bacio con la mano,
mentre il lungo boa le svolazzava sopra la spalla. Il nostro postiglione suonò un brano allegro col corno, ma
io, pensando alla Pulzella sul carretto, alla vecchia attrice che domani avrebbe fatto il suo ingresso a Brema,
al suo sorriso e alla musica allegra del postiglione, divenni malinconico. Poi proseguimmo nella brughiera,
ognuno per la sua strada.
VI
LA FERROVIA
Poiché molti dei miei lettori non hanno mai visto
una ferrovia, voglio subito provare a dargliene
un’idea. Prenderemo una normale strada maestra –
che corra diritta o faccia una curva fa lo stesso – ma
dovrà essere spianata, spianata come il pavimento di
una sala; perciò abbiamo fatto saltare tutte le montagne che la ostacolavano, e costruito forti arcate e
ponti sopra le paludi e le valli profonde. Una volta
ottenuta la strada spianata, laddove passerebbero le
ruote collochiamo dei binari di ferro, sui quali possono far presa le ruote delle carrozze. Davanti viene
attaccata la macchina a vapore, con sopra il suo fuochista in grado di governarla e fermarla, poi vengono
36
GERMANIA
le carrozze con le persone o il bestiame, incatenate
l’una all’altra: si parte!
In ogni punto del tragitto la gente conosce l’ora e
il minuto in cui arriverà la fila di carrozze e, quando
il treno è in marcia, si sente il fischio di segnalazione
anche a miglia di distanza. Laddove la ferrovia è attraversata da strade secondarie, c’è un guardiano,
messo lì a bella posta, che abbassa la sbarra di legno
per chi va in carrozza e a piedi, e quella brava gente
deve aspettare finché non siamo passati. Lungo la ferrovia, per tutte le miglia del percorso, sorgono delle
casette, a una distanza tale l’una dall’altra che chi sta
di guardia riesce a vedere la bandiera dell’altro e fa in
tempo a tenere liberi i binari da pietre o rami.
Ecco, questa è una ferrovia! Spero che mi abbiate
compreso.
Stavo per vederne una per la prima volta in vita
mia. Per mezza giornata e la notte successiva avevo percorso con la diligenza la terribile, pessima strada da
Braunschweig a Magdeburgo, dove arrivai stanco, e
un’ora dopo dovevo ripartire con la carrozza a vapore.
Non voglio negare di aver provato già da prima
una sensazione che chiamerò “febbre da ferrovia”, ed
essa era al culmine quando entrai nel magnifico edificio dal quale parte la fila di carrozze. C’era un affollamento di viaggiatori, un correre con valigie e sacchi
da notte, un sibilo e un ronzio di macchine dalle quali
usciva il vapore. La prima volta uno non sa bene dove
mettersi per non farsi venire addosso una carrozza o
una caldaia o una cassa di bagagli; è vero che si sta al
sicuro su un’altana sporgente davanti alla quale, come
gondole a un molo, si trovano le carrozze su cui bisogna salire, ma, giù sulla massicciata, i binari di ferro
si incrociano come nastri magici, e sono proprio dei
nastri magici costruiti dall’ingegno umano; le nostre
37
IL BAZAR DI UN POETA
carrozze incantate devono rimanervi sopra, perché se
escono dal nastro magico, ebbene, allora si rischia la
pelle. Io fissavo le carrozze, le locomotive, i carri staccati, i fumaioli ambulanti e Dio sa cos’altro, correvano
avanti e indietro incrociandosi come in un mondo
magico fatato; sembrava che ogni cosa avesse le
gambe! E questo vapore, questo sibilo, insieme alla
ressa per trovare posto, questo puzzo di sego, la marcia
ritmica delle macchine e il fischio e lo sbuffo del vapore che esce, rafforzavano tale impressione, e quando, come ho detto, si è qui per la prima volta, ci si immagina di rovesciarsi, di rompersi le braccia e le
gambe, di saltare in aria o di rimanere schiacciati nello
scontro con un’altra fila di carrozze; ma credo che ci
si pensi solo la prima volta.
La fila di carrozze era divisa in tre sezioni, le prime
due sono comode carrozze chiuse, in tutto e per tutto
simili alle nostre diligenze, solo molto più larghe, la
terza è aperta e incredibilmente economica, tanto
che vi sale persino il contadino più povero, gli costa
meno che se dovesse fare a piedi tutta la strada e rifocillarsi alla locanda o pernottare durante il viaggio.
Ecco il fischio di segnalazione... ma non ha un bel
suono, ha molto in comune con l’ultimo grido del
maiale, quando il coltello gli entra in gola. Ci si siede
nella carrozza più comoda, il conduttore chiude lo
sportello e porta via la chiave, ma possiamo abbassare il finestrino, godere della fresca brezza senza temere alcun disturbo dalla pressione dell’aria; si sta
proprio come in qualsiasi altra carrozza, ma più comodi; qui ci si riposa, se poco prima si è fatto un
viaggio faticoso.
La prima sensazione è un leggerissimo sobbalzo
nelle carrozze, ora le catene che le tengono unite sono
tese; suona ancora il fischio di segnalazione e inizia la
38
GERMANIA
marcia, ma lentamente, i primi passi vanno piano,
come se una mano di bambino tirasse la piccola carrozza. La velocità aumenta in maniera impercettibile,
ma tu leggi il tuo libro, guardi la tua carta, e non sai
ancora bene se la marcia è iniziata, perché la carrozza
scivola come una slitta su un campo liscio e innevato.
Guardi fuori dal finestrino e scopri che stai camminando di gran carriera, come con i cavalli al galoppo;
va ancora più forte, ti sembra di volare, ma non ci sono
scossoni, non c’è pressione dell’aria, niente di ciò che
immaginavi di spiacevole!
Cos’era quella cosa rossa che è passata vicinissima
come un lampo? Era uno dei guardiani che stava lì con
la sua bandiera. Guarda fuori! E fino a dieci o venti
braccia di distanza la campagna scorre rapida come
una freccia; erbe e piante si confondono, sembra di essere al di fuori della terra e di vederla girare. Fissare a
lungo lo stesso punto fa male agli occhi, ma basta guardare alcune braccia più in là e allora gli altri oggetti
non si muovono più velocemente di quando si va in
carrozza di buon passo, e più lontano, verso l’orizzonte,
tutto sembra rimanere fermo, si gode davvero la vista
e l’impressione di tutta la zona.
È così che bisogna attraversare i paesi pianeggianti! È come se una città fosse vicinissima all’altra;
eccone una, eccone ancora un’altra! Si riesce a immaginare davvero il volo degli uccelli migratori, è così
che si lasciano dietro le città. I normali viaggiatori in
carrozza che si scorgono sulle strade laterali sembrano
fermi, i cavalli che tirano le carrozze sollevano le
zampe, ma sembrano tornare a posarle nello stesso
punto, e noi li abbiamo già superati.
C’è un aneddoto piuttosto noto su un americano
che viaggiava con la carrozza a vapore per la prima
volta. Poiché vedeva passare un’infinità di pietre mi39
IL BAZAR DI UN POETA
liari una dopo l’altra, credeva che stessero attraversando un cimitero e che fossero lapidi; forse non dovrei raccontarlo, ma dà un’idea precisa della velocità;
così mi è venuto in mente, anche se lungo il nostro
percorso non si vedevano pietre miliari e perciò avrei
dovuto parlare delle bandiere di segnalazione rosse,
e lo stesso americano avrebbe potuto dire: «Perché
oggi c’è tutta quella gente in giro con la bandiera
rossa?».
Invece voglio raccontare che mentre passavamo
davanti a uno steccato, che vidi ridotto a una sbarra,
un uomo al mio fianco disse: «Guardate, ora siamo nel
principato di Köthen», e poi tirò una presa, offrì anche
a me la scatola, io mi inchinai, provai il tabacco, starnutii e poi chiesi: «E per quanto tempo saremo a
Köthen?». «Oh», rispose l’uomo, «ne eravamo già
usciti prima del vostro starnuto!».
Eppure le carrozze a vapore potrebbero camminare
a una velocità doppia di questa; ci si ferma ogni momento a una nuova stazione dove alcuni passeggeri devono scendere e altri salire, così la velocità diminuisce,
ci si ferma un minuto, e dai finestrini aperti i camerieri
ci porgono rinfreschi, leggeri e solidi, a nostro piacimento! I piccioni arrosto, dietro pagamento, volano
letteralmente dritti in bocca, e poi si corre via, si chiacchiera con il vicino, si legge un libro o si osserva la natura, e spesso un branco di mucche si gira stupito o dei
cavalli si svincolano e scappano nel vedere che venti
carrozze possono attraversare il mondo senza il loro
aiuto, e ancora più velocemente che se dovessero pensarci loro, e d’improvviso ci ritroviamo di nuovo sotto
una tettoia dove la fila di carrozze si ferma, abbiamo
percorso quindici miglia in tre ore, siamo a Lipsia.
Nella stessa giornata, quattro ore dopo, ripartiamo da
qui per un tragitto simile, della stessa durata, ma at40
GERMANIA
traverso montagne e fiumi... e siamo a Dresda.
Ho sentito molte persone affermare che con le ferrovie scompare tutta la poesia del viaggio, e che si passa
di corsa davanti alle cose belle e interessanti; per
quanto riguarda quest’ultima cosa, ciascuno è libero di
fermarsi in qualsiasi stazione voglia, e guardarsi intorno
finché non arriva la prossima fila di carrozze; e per
quanto riguarda il fatto che tutta la poesia del viaggio
scompare, io sono di un’opinione del tutto opposta. È
nelle carrozze e nelle diligenze anguste e piene di bagagli che scompare tutta la poesia del viaggio, ci si infiacchisce, nella stagione migliore si è tormentati dalla
polvere e dalla calura, e d’inverno dalle strade cattive;
e la natura viene goduta in porzioni più grandi che
nella carrozza a vapore, ma solo a sorsi più lunghi.
Oh, che capolavoro dello spirito è questa creazione! Ci si sente potenti, come maghi dell’antichità!
Attacchiamo alla carrozza il nostro cavallo magico e
lo spazio scompare; voliamo come le nubi nella tempesta, come volano gli uccelli migratori! Il nostro cavallo selvaggio sbuffa e soffia, il vapore nero sale dalle
sue froge. Mefistofele, con Faust sul mantello, non
sapeva volare più veloce! Nella nostra epoca i mezzi
naturali ci danno una forza che nel Medioevo credevano prerogativa del diavolo! Con il nostro ingegno
lo abbiamo raggiunto, e prima ancora che se ne accorga lo avremo superato.
Poche volte, nella mia vita, ricordo di essermi sentito commosso come in questo caso, di aver quasi guardato faccia a faccia Dio con tutta la mia mente. Sentivo una devozione come ho provato solo da bambino,
in chiesa, e da grande nel bosco illuminato dal sole o
sul mare liscio come l’olio in una notte stellata! Nel
regno della poesia il sentimento e la fantasia non sono
i soli a regnare, essi hanno un fratello, altrettanto po41
IL BAZAR DI UN POETA
tente, viene chiamato intelligenza e annuncia l’eterna
verità, e in questo c’è grandezza e poesia!
VII
LA TOMBA DI GELLERT
In uno dei cimiteri di Lipsia è sepolto Gellert.14
Quando andai in Germania per la prima volta, nel
1831, feci visita a questa tomba;15 l’intelligente figlia
di Oehlenschläger, Charlotte, era in visita da
Brockhaus, mi ci condusse lei e mi mostrò la tomba
del poeta. Migliaia di nomi erano incisi sulla lapide e
scritti sullo steccato di legno; anche noi scrivemmo i
nostri nomi e lei staccò una rosa dalla tomba e me la
donò in ricordo del luogo.
Ora, dieci anni dopo, ho fatto la strada da solo; ho
trovato facilmente il cimitero, ma la tomba non riuscivo a trovarla, chiesi a una povera vecchia dove fosse
sepolto Gellert, e lei mi mostrò il posto. «Le brave persone vengono sempre cercate!», disse la vecchia. «Era
un grand’uomo!», e guardò con silenziosa devozione
la semplice tomba. Io cercai, fra i molti nomi scritti,
i due aggiunti l’ultima volta che venni qui, ma lo steccato era stato riverniciato da poco, anzi, forse era stato
riverniciato più volte da allora; v’erano scritti nuovi
nomi, solo il nome sulla lapide, il nome di Gellert, era
lo stesso. Esso sarà lì quando i nomi scritti da poco saranno scomparsi, e ne saranno stati scritti di nuovi; il
nome immortale rimane, i singoli nomi della stirpe
umana vengono cancellati.
La vecchia staccò una rosa per me, una rosa giovane
e fresca come quella che Charlotte, in tutta la freschezza
della sua gioventù, mi diede nello stesso posto; e io la
ricordai così viva, lei, la fresca rosa che ora è nella
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GERMANIA
tomba!16 Lei, la cui anima e la cui mente erano colme
di voglia di vivere e ardore giovanile. Questa volta non
scrissi il mio nome sulla cancellata; conservai la rosa
bianca sul petto, e il mio pensiero era rivolto ai morti.
VIII
NORIMBERGA
Se la Germania conoscere vorrai,
e la Germania di cui val la pena,
allora Norimberga visitar dovrai,
nobile città di belle arti piena;
mai certo invecchiare potrà
quella città fida e laboriosa
ove l’arte di Dürer sempre vivrà
e il canto di Sachs per sempre riposa.
Schenkendorf
La storia di Kaspar Hauser17 porta l’impronta di un secolo passato, anzi, per quanto sappiamo che è vera, faremmo fatica a collocarla nella nostra epoca. Senza
dubbio però, se dovesse svolgersi ai nostri tempi, fra
le grandi città della Germania la scena dovrebbe essere Norimberga, e del resto è così.
Si narra che Kotzebue18 avesse scritto I crociati appositamente per le decorazioni che il teatro già possedeva, perciò si sarebbe tentati di pensare che Kaspar
Hauser sia stato scritto per la città di Norimberga;
perché, se si fa eccezione di Augsburg, nessuna città,
con il suo aspetto, sembra riportarci al Medioevo
come l’antica libera “Reichsstadt” Norimberga.
Molti anni fa, quando ero a Parigi, vidi una prospettiva di Daguerre,19 che poi divenne famoso in
tutto il mondo; riproduceva, credo, il castello estivo
43
IL BAZAR DI UN POETA
del Dey di Algeri; oltre il tetto piatto si vedevano il
giardino, i monti e il Mediterraneo; ma prima di arrivare alla prospettiva, per creare l’atmosfera adeguata
e preparare gli spettatori, si attraversavano un paio di
stanze drappeggiate alla maniera orientale, e attraverso delle piccole finestre si vedeva la cima di una
palma o degli alti cactus. Mentre entravo a Norimberga, dopo aver attraversato l’antica Franconia, mi
venne da pensare a quella scenografia. Dal momento
in cui, nella città di Hof, si entra in territorio bavarese, tutto comincia a poco a poco a dar man forte alla
fantasia. A Norimberga, come sognando, si torna al
Medioevo, ed è in quella città che il sogno trova la
giusta scenografia.
Dopo aver superato Münchberg eravamo in montagna, e la regione assumeva un carattere sempre più
romantico. Tutto era avvolto dalla luce della sera.
La Ochsenkopf, la montagna più importante qui, era
completamente nascosta da nubi minacciose e dense
di pioggia. La strada andava facendosi angusta e buia,
e a Berneck era completamente circondata da pareti
rocciose ripidissime; sulla sinistra, soltanto a qualche
braccio sopra di noi, c’era una torre diroccata che anticamente doveva dominare l’ingresso della valle. La
stessa Berneck, con le sue strade irregolari, le luci che
si muovevano all’interno delle piccole finestre nelle
antiche case, la musica del postiglione, che risuonava
malinconica come la melodia di un antico canto popolare, tutto ispirava romanticismo ai nostri pensieri.
Desiderai trovare parole per quelle note minori, parole sul brigante di vedetta in cima all’antica torre,
mentre i mercanti di Norimberga percorrevano con
le loro mercanzie la strada profondamente incassata
fra le rocce; desiderai trovare parole sull’aggressione
nella notte illuminata dalla luna, come la videro il
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GERMANIA
Meno bianco e il Meno rosso e poi la raccontarono
al fratello Reno sotto le coste incoronate di viti.
Attraversammo di corsa Bayreuth, la città di Jean
Paul; e presto, nella nebbia mattutina, scorgemmo
l’antica, magnifica Norimberga.
Quando fui molto vicino vidi i suoi antichi bastioni coperti d’erba, le sue mura doppie, le molte
porte con le torri a forma di cannoni puntati, le strade
ben costruite, gli splendidi pozzi e gli edifici gotici, e
dovetti riconoscere: “Tu sei la capitale della Baviera!
È vero che hai dovuto cedere la tua corona a Monaco,
ma conservi ancora la tua regale dignità, la tua caratteristica grandezza! Sotto il tuo scettro la laboriosità
cittadina, l’arte e la scienza si tendevano la mano; per
tutto il paese risuonavano i colpi di martello di Adam
Kraft20 e le campane di Mastro Conrad e Mastro Andreas; i quadri di Albrecht Dürer21 cantavano il nome
di Norimberga ancora più forte di quanto potesse farlo
il calzolaio Hans Sachs,22 eppure il buon maestro aveva
una voce immortale; Peter Vischer23 faceva scorrere il
minerale in ardite immagini della bellezza, come le vedeva la sua mente; Regiomontano24 portò il tuo nome
alle stelle, mentre i tuoi figli con lui divennero più
grandi, compresero ciò che è utile e nobile. Il marmo
si modellava sull’immagine stessa della bellezza, il
blocco di legno si trasformava in un’opera d’arte.
Il postiglione suonò per le strade di Norimberga;
le case sono diverse fra loro, eppure hanno lo stesso
carattere; e sono tutte antiche, ma ben tenute; la maggior parte è dipinta di verde, alcune hanno immagini
sul muro, altre sono ornate di bovindi e altane sporgenti e provviste di finestre gotiche dai piccoli vetri
ottagonali che interrompono le spesse mura; sui tetti
a punta una fila di abbaini sovrasta l’altra, e ogni abbaino ha una piccola torre. I getti d’acqua cadono in
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IL BAZAR DI UN POETA
grosse vasche di metallo e le fontane sono circondate
da cancellate forgiate ad arte. Eppure, certe cose non
si possono raccontare, ma dovrebbero essere dipinte!
Se ne fossi stato capace mi sarei messo sull’antico
ponte in muratura che attraversa il fiume dall’acqua
gialla e impetuosa, e lì avrei disegnato gli edifici laterali stranamente sporgenti, l’antico palazzo gotico
che, posandosi sugli archi sotto i quali scorre l’acqua,
si erge sul fiume con un piccolo giardino pensile di
alti alberi e siepi in fiore. Se sapessi dipingere andrei
in piazza, mi farei largo tra la folla ed eseguirei uno
schizzo della fontana; è vero che ora essa non ha più
la ricca doratura che un tempo la faceva risplendere,
ma tutte le meravigliose statue di bronzo sono ancora
in piedi. I sette principi elettori, Giuda Maccabeo,
Giulio Cesare, Ettore... Sì, è gente famosa! Ce ne
sono ben sedici ad abbellire la fila inferiore di colonne della fontana, mentre in alto compare Mosè in
compagnia di tutti i profeti! Se fossi un pittore andrei alla tomba di san Tebaldo quando la luce del sole,
attraverso i vetri variopinti della chiesa, cade sulle
statue bronzee degli apostoli di Peter Vischer, ed entrambe, chiesa e tomba, andrebbero disegnate così
come si rispecchiavano nei miei occhi. Ma non sono
un pittore, non sono capace di riprodurre tutto
questo. Sono invece uno scrittore, e perciò chiesi
della casa di Hans Sachs. Mi indirizzarono in una stradina laterale, indicandomi una casa dalle forme antiche. In realtà era un edificio nuovo sul quale appariva l’immagine di Hans Sachs corredata del suo
nome, ma non era la casa in cui egli aveva vissuto e
cucito scarpe. Il posto è lo stesso, ma tutto è nuovo: il
nome e l’immagine costituiscono soltanto l’insegna
della locanda ospitata dall’edificio. Seimiladuecentosessantatré fra commedie, tragedie, canzoni e Mei46
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