Lettera aperta agli amici di Francesca, a coloro che l

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Lettera aperta agli amici di Francesca, a coloro che l
Lettera aperta agli amici di Francesca, a coloro che l’hanno conosciuta, ma
anche al Ministro della Pubblica Istruzione all’Assessore regionale per la scuola
e a quello per la cultura (e per conoscenza al Presidente della Regione Piemonte
dott. Sergio Chiamparino, al dott. Pietro Fassino, Sindaco di Torino), al
Dottorato di Storia dell’università di Torino e alle Fondazione Luigi Einaudi
e Luigi Firpo.
Scrivo queste pagine ancora sotto l’emozione di una notizia tragica, che mi ha
coinvolto profondamente. Poco più di una settimana fa, a Firenze, si è suicidata una
giovane di poco meno di ventotto anni, dottoranda di Storia moderna nella nostra
università. Era venuta a Torino da Napoli, ma aveva studiato a Firenze. Nella nostra
città aveva vinto un posto nel dottorato di storia, che tanti anni fa avevo creato con
Franco Venturi e diretto nella fase eroica, restandone docente fino al pensionamento.
Malgrado le trasformazioni, tale dottorato ha avuto il merito di creare alcuni dei
migliori ricercatori e soprattutto ricercatrici nell’ambito della storia moderna non solo
per la nostra regione, ma anche per altre aree d’Italia. Alcuni sono notissimi docenti
di prima e seconda fascia.
Qualcuna ha vinto un premio prestigioso come il Feltrinelli, assegnato
dall’Accademia dei Lincei due anni fa. Altri insegnano in università europee. Non
abbiamo mai favorito i candidati locali, rispetto agli esterni. La prova era dura, ma
onesta, e questo forse richiamava da diverse città italiane le e i migliori. Oggi, come
tante cose, il dottorato è stato fortemente ridotto, con pochissime borse e un limitato
numero di posti senza borsa. Torino era e forse è ancora per poco una città
relativamente fortunata, perché dotata di almeno quattro Fondazioni che assegnavano
borse di studio in settori specializzati e connessi alla storia: la Fondazione Luigi
Einaudi, la Fondazione Luigi Firpo, l’Istoreto, per la storia contemporanea e la
Fondazione Michele Pellegrino per gli studi storico-religiosi in senso lato.
Faccio parte da decenni del Consiglio scientifico della prima, sono stato a lungo
nel Consiglio di amministrazione della seconda, e richiesto di giudizi decisivi anche
per la Pellegrino. Sono tutte istituzioni dotate di un grande e specializzato patrimonio
bibliografico, che forse non ha eguali in Italia, se non a Roma. Segnalo solo la
biblioteca di Luigi Einaudi, per l’economia e la storia economica, quella Luigi Firpo
per il pensiero politico e altro, il fondo della Pellegrino, amorosamente arricchito da
un collega che rimpiango, come Franco Bolgiani, un cattolico aperto, diventato
perfino migliore con la vecchiaia.
A queste si aggiungono altre Fondazioni come quelle Piero Gobetti, Gaetano
Salvemini, Antonio Gramsci, e altre, che mi sfuggono, con un notevole patrimonio
librario in gran parte accessibile sulla rete e che nei prossimi anni dovrebbero
trovare un’unica sede nel quartiere delle Caserme, accanto all’Istoreto, in una
struttura unificata che diventerà una delle più grandi biblioteche di storia
contemporanea in Italia. Non parlo qui quanto meriterebbero delle due più
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significative istituzioni culturali, a loro volta dotate di biblioteche e collane di
pubblicazioni, quali l’Accademia delle Scienze, dove mi capita di essere quasi il
Decano della classe di Scienze morali, istituita da Napoleone, e per la quale la
Compagnia di San Paolo ha fatto moltissimo; e la Deputazione di storia patria
subalpina, che per decenni ha pubblicato lavori di giovani studiosi nelle sue notevoli
collane specializzate, anche se oggi stenta a svolgere questo compito che era insieme
selettivo e scientifico. Ho scoperto che il fondo Antonio Manno è completamente
da schedare e che preziosi manoscritti non hanno neppure collocazione. La biblioteca
Reale è una grande biblioteca di conservazione che è un gioiello ottocentesco, credo
voluto da Carlo Alberto e dalla sua corte compreso Giuseppe Manno, il grande
storico della Sardegna. Alcune scelte, dopo il fallimento del mega progetto di una
Biblioteca Comunale nuova, in grado di assorbire un patrimonio librario in crescita
esponenziale e dilatato a settori che vanno dalla biblioteca per ragazzi, all’emeroteca,
alla raccolta di materiali nuovi come e-book e dischi, rende intasati quegli spazi,
affollati di studenti e in pratica preclusa ai ricercatori. Inoltre la città rischia di non
arricchire a sufficienza le biblioteche comunali di quartiere, alcune delle quali nate
da donazioni importanti.
In realtà oggi è sempre più difficile donare libri alle biblioteche, perché, come
ho sperimentato personalmente, non solo non hanno soldi per il trasporto, ma
neppure per la schedatura. L’assessorato alla cultura e gli uffici competenti sul piano
regionale dovrebbero incentivare e non scoraggiare i lasciti gratuiti, creare un fondo
per accogliere le donazioni ed incoraggiarle. Quanto uno studioso ha accumulato nei
lunghi anni di carriera di libri non solo italiani, ma francesi, inglesi, americani
tedeschi, spagnoli, russi, potrebbe in parte colmare i vuoti che la penuria di oltre
venti anni di crisi strisciante hanno creato. La Biblioteca Nazionale fa di tutto per
dimenticare di essere nata come Nazionale universitaria, ed è gestita da un Direttore
competente e giovane, ma uno e trino, dato che deve badare anche alla Nazionale di
Milano, e alla Nazionale di Parma, entrambe fuori regione, con il risultato che il
risparmio di soldi del ministero ricade sul servizio fortemente rallentato, nonostante
l’innegabile bravura dei suoi collaboratori.
Credo che anche la Biblioteca Universitaria, a base umanistica, nata intorno
all’importante nucleo dei fondi lasciati da Arturo Graf, non sia più in grado di
comperare libri, interrompendo collezioni preziose ed insostituibili. L’unificazione
di alcune biblioteche di Dipartimento, come quella a scaffalatura aperta in Via Bava
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comperare sempre meno le ricerche internazionali, con una perdita di esperienze
culturali che già paghiamo noi, ma soprattutto le future generazioni. Di due
biblioteche ancora non si conosce il destino, quella legata al Museo del Risorgimento
e infine quella della Provincia.
Il disinteresse per la memoria storica ha colpito anche un’istituzione come
l’Archivio di stato, dove non sempre l’uso del personale che vi ha prestato il
servizio civile si è rivelato utile, e qualche volta forse dannoso, ma dove, dopo una
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stagione creativa e di rilevanza non solo cittadina, la politica dei tagli rischia di
colpire a fondo la memoria collettiva ed europea del territorio.
Nessuna delle biblioteche, da quelle di Storia, a quella dell’Archivio di stato, cui
ho donato una preziosa collezione di estratti di saggi di studiosi italiani e del mondo
ha trovato il modo di schedare libri ed estratti, che io stesso speravo di poter
consultare e sono invece chiusi nelle stesse scatole in cui li avevo raccolti. Il
disinteresse per le donazioni è così evidente, che nessuno mi ha ringraziato, sia
nella veste di donatore privato, sia in quella di Direttore responsabile della Rivista
storica italiana che regalava le riviste europee che riceveva in cambio da tutto il
mondo, ma che ora non vengono più ritirate e rischiano di finire in quella sorta di
rogo dei libri che è il macero dell’abbandono. Mi rifiuto di utilizzare per questi libri
di scambio le bancarelle, dove si possono fare veri e propri colpi, trovando quanto
si cercava da anni. Poi c’è Amazon, talvolta cara, ma utile. L’efficiente Archivio
dell’università non ha più spazi , ma ha restaurato le tesi inondate qualche decennio
fa per una stolta politica di immagazzinamento troppo vicino al Po, ricuperandone
oltre centocinquanta mila, grazie anche alle indicazioni che a suo tempo aveva dato
per la conservazione in attesa di restauro la dottoressa Isabella Ricci, una
intellettuale che ha avuto una parte rilevante nella stagione d’oro dell’Archivio e
delle sue scuole e in molto altro. Archivi e biblioteche locali (Vercelli, Alessandria,
Cuneo, Asti, Susa, Mondovì, Racconigi, per non parlare di sedi più piccole, ma attive
come Moncalieri, Settimo torinese e Ceva, dove la società civile locale si confronta e
le biblioteche sono i veri luoghi di incontro con la cultura nazionale) non sono più
in grado di rinnovare decentemente il patrimonio librario. Vercelli, Alessandria e
Cuneo sono connesse a università o a sedi staccate di quella di Torino, mentre
alcune, come Biella e Ivrea, sono state a mio parere giustamente soppresse o ridotte
a tempo determinato. Su questa politica di distribuzione di spazi universitari, che
seguiva -inadeguatamente- un modello francese, io penso che una sede universitaria
non dovrebbe rispondere a una vanità locale, ma tener conto che una biblioteca
specializzata e atta alla ricerca in più campi non si improvvisa, per non parlare del
settore scientifico e dei suoi laboratori.
Ho combattuto a lungo l’ambizione della stessa città in cui mi sono formato,
Alessandria, sostenendo che era meglio spendere i soldi in un collegio universitario a
Torino, che non “liceizzare” le sedi locali. In realtà l’esperienza di VercelliAlessandria - che avevano buoni fondi antichi, legati ad una tradizione locale di
nobili, avvocati e notai ,che avevano il culto dei libri (non a caso quella di
Alessandria è la biblioteca che Umberto Eco ha celebrato nel suo testo su come fare
una tesi di laurea) e notevoli archivi locali, si è rivelata nel complesso solida, creando
un ambiente di studio non solo locale che funziona bene e che offre una risposta a
un territorio abbastanza vasto. Una parte dei docenti migliori in realtà non vivono a
Vercelli, ma vengono da Torino e nel mio settore sono stati nostri allievi .
Così mi sembra discutibile l’ambizione di moltiplicare i dottorati, che è
l’aspirazione segreta di ogni sede che raggiunge l’autonomia. Nel vistoso calo di
risorse che ha subìto una grande università come Torino, il fatto che Vercelli abbia
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attivato questo meccanismo ha favorito la possibilità di accedere a questo livello di
ricerca per allievi che forse a Torino o in altre sedi, data la carenza dei posti e
l’affluenza non solo italiana, non avrebbero trovato spazio. Certamente lodevole è
stato lo sforzo dei docenti che insegnano a Vercelli di internazionalizzare la loro
esperienza, ma si è risolto soprattutto in convegni ed inviti o scambi più di docenti
che di non di allievi.
Io posso ricordare che nei miei ultimi corsi ho avuto anche uno studente cinese,
ma non emigrato, un borsista mandato a imparare l’italiano e forse a controllare cosa
dicevamo sulla Cina. Ho avuto anche una dottoranda giapponese che ha raccontato
l’impatto con il nostro dottorato in una romanzo che nessuno ha potuto leggere. Ma
io le avevo fatto scrivere un saggio (sugli Annali della fondazione Einaudi) sul
rapporto fra Olandesi e Giapponesi in cui non i primi, ma i secondi avevano
imparato la lingua del commercio internazionale. Ma la prima storia moderna del
Giappone è stata scritta da un medico della colonia olandese. Deludente è stata
invece l’esperienza con una borsista rumena, che pure aveva titoli universitari nel
suo paese,
Che cosa c’entra tutto questo con una drammatico suicidio, la cui componente
soggettiva non possiamo far altro che soffrire individualmente e rispettare ?
Cercherò di spiegare il nesso che non coinvolge solo me e i docenti del
dottorato, ma fa parte di un problema più ampio, come quello che stanno vivendo
oltre due generazioni di giovani ai quali è stato rubato il futuro. Il mio ruolo in
questa vicenda è legato al fatto che, pur essendo professore emerito in pensione, ero
stato indicato dai colleghi per antica e precisa competenza a fare il tutor vicario per
una tesi di dottorato che riguardava un tema individuato dalla Candidata che mi
stava particolarmente a cuore come lo storico napoletano Pietro Giannone. La
Fondazione Einaudi, per giudizio unanime degli storici, avendo letto e la tesi e il
progetto, i giudizi lusinghieri non solo dei docenti fiorentini, ma anche di quelli del
dottorato torinese, le aveva assegnato una borsa di studio, con la clausola implicita
che la seguissi io. Avevo così accumulato un doppio mandato, quello della
Fondazione Einaudi e poco dopo quello del dottorato. Fin dal primo incontro fu
facile individuare, discorrendo con la borsista napoletana, ma che veniva da Firenze
e soprattutto dalla storia del libro, un progetto che ne rispettasse e nello stesso
tempo ne accrescesse le competenze. Dopo qualche incontro tracciammo un percorso
che a me sembra originale, la biografia di un libro europeo, l’Istoria civile del regno
di Napoli. Si trattava di studiare sia il contesto napoletano in cui era nato il libro e
quindi l’universo dei giuristi culti, le loro accademie, i maestri, la religiosità laica che
animava il giurisdizionalismo, destinato a non essere solo una pratica, ma una
passione civile, le fonti, le biblioteche, fino all’edizione fatta in casa, nella villa che il
Giannone aveva acquistato a Sorrento dopo una causa vinta, da un editore che era
soprattutto un tipografo, la distribuzione descritta analiticamente nell’autobiografia.
Devo ringraziare per questo Elvira Chiosi, e Anna Maria Rao, che l’hanno accolta e
aiutata con amicizia e competenza.
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Se questo doveva essere un ideale primo capitolo, il secondo avrebbe dovuto
percorrere la precoce traduzione inglese, fra il 1729 e il 1732, studiando non solo
l’impresa, il formato e i modi della vendita, o l’autore della traduzione, già esplorato
da Venturi, ma anche il modo in cui erano tradotti e adattati certi termini contestuali
alla cultura giuridica meridionale, al diritto consuetudinario dei nuovi lettori. Se si
tiene conto che grandi libri internazionali pro e contro i Lumi, da quelli di Pocock a
quelli di Israel, citano esclusivamente la traduzione inglese, ma che già nel Settecento
lettori come Gibbon e altri avevano avvicinato il Giannone in tale lingua, o nella
traduzione francese, si può capire l’importanza del progetto.
Il III capitolo progettato avrebbe dovuto affrontare la traduzione svizzera e il
mondo di una rivista come la “Bibliothèque italique”, dei pastori illuminati come
Jacob Vernet e il suo maestro Jean Alphonse Turrettini, un calvinismo così aperto
alla cultura italiana ed europea da fare di Vernet l’editore non solo di Giannone, ma
anche di Montesquieu e Voltaire. Parte di questo capitolo ideale avrebbe dovuto
affrontare le polemiche del Giannone a Vienna e il suo dialogo con Ginevra, Lipsia
e la cultura locale, ma soprattutto le giunte alla Istoria civile, le biblioteche in cui
erano nate, temi che fra l’altro ho ripreso a studiare personalmente e dei quali
credo di essere ormai uno dei maggiori conoscitori al mondo. Il IV capitolo ideale
avrebbe dovuto affrontare la prima e forse più importante edizione italiana, quella del
1753, questa stampata a la Haye, che era stato invece il falso luogo scelto dagli
svizzeri di Ginevra per la loro tradizione francese.
Qui il problema era andare oltre quello che io ho scritto nel 1970, in un libro che
ha cambiato l’interpretazione del Giannone , spostando la conoscenza dall’Istoria al
Triregno e alle sue avventure e forse aperto il problema della letteratura d’esilio e
del carcere. Questa tesi di dottorato avrebbe dovuto essere un prolegomeno
all’edizione critica e affrontare in un ultimo capitolo la tradizione tedesca e la serie
di edizioni italiane che non a caso nascono tutte in momenti cruciali come la
cacciata dei gesuiti, evento europeo che parte dal Portogallo pombalino e coinvolge i
paesi borbonici ed ha conseguenze mondiali, come ha mostrato Venturi nel II
volume del Settecento riformatore fino al viaggio delle lettere del Napoletano che
Ginevra aveva sottratto ai rapaci piemontesi che le avrebbero consegnate al Santo
Ufficio, o a quello di parti del Triregno, fino ad una copia dell’intera opera,
probabilmente uscita dallo stesso Santo Ufficio, che si sarebbe rivelato un crivello,
fino al punto che i manoscritti del Giannone sarebbero stati nascosti sotto il nome
di Swedemborg, come ho scritto in un volume legato all’apertura degli archivi
inquisitoriali. Tanucci ha un ruolo fondamentale e forse sottovalutato dallo stesso
Venturi nel far scrivere una grande biografia eroica del Giannone dal un suo
funzionario Leonardo Panzini, biografia che nasce dal materiale ginevrino inviato al
figlio naturale Giovanni da Vernet e che nelle edizioni successive delle opere
postume l rivela sia la conoscenza del Regno celeste, sia quella dell’intero Triregno.
Un grande editore veneziano, forse il più grande del secolo, Giambattista
Pasquali, aveva pubblicato le Opere postume, accompagnandole con la Vita tracciata
dal Panzini, dando a distanza di pochi anni non solo un primo riassunto delle idee
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radicali del Regno Celeste e poi dell’intero Triregno. Ed è in questo contesto che
nasce la edizione Gravier dell’Istoria civile, legata ad una sorta di internazionale
degli editori, presenti in diverse aree francesi, ma soprattutto italiane ed in questo
caso napoletane. Nel frattempo l’opera era tradotta in tedesco nel contesto dei
“maestri della Germania” fra Lipsia dove si stampavano gli Acta eruditorum,
Goettingen e altre città tedesche .
Il lavoro si sarebbe dovuto concludere sull’edizione “giacobina” in cui fu
coinvolta forse la stessa Fonseca Pimentel. Era un’altra una fase di svolta del regno
di Napoli, per un momento repubblica. Ma l’obiettivo più difficile era anche quello
di affrontare il mondo dei lettori, il nodo delle presenze nelle biblioteche pubbliche
e private e soprattutto di alcune letture eccezionali, da quella di Muratori, a quella di
Maffei, a quella di Montesquieu, a quella di Gibbon, a quella ancora di Voltaire e di
alcuni tedeschi, storici e giuristi, fra cui Lebret, studiato da Luisella Pesante come
uno dei traduttori. E infine identificarne altri minori, che ne compilarono diligenti
regesti, come è il caso di un manoscritto parigino dell’Arsenal. Appare chiaro che
questo era l’obiettivo finale di un libro e che la tesi avrebbe magari percorso solo
una parte del progetto, che avrebbe potuto avere sviluppi successivi, dalle letture
napoletane, il “giannonismo” e il partito dei suoi amici ed ammiratori, a quelle
toscane, a quelle piemontesi (Ormea, il persecutore di Giannone, aveva una copia
dell’Istoria civile, che meriterebbe studiare ). Un ultimo interrogativo già posto dal
mio libro ma ora da approfondire nasce da una mia domanda irrisolta. Perché
Arthur de Villettes, Segretario dell’ambasciata inglese a Torino negli anni precedenti
la pace della guerra di successione austriaca prestava i suoi libri e quelli
dell’ambasciata al Giannone? Era almeno un segno che il Giannone aveva ammiratori
inglesi, che sfruttavano il ruolo imperiale e di protezione dello stato sabaudo per
aiutare un intellettuale europeo, che avevano letto non in italiano ma in inglese o in
francese. Perché un papa pur più illuminato di altri come Benedetto XIV si
preoccupava che nelle ore d’aria il prigioniero incontrasse avvocati torinesi , fino a
chiedere al Nunzio Merlini, di segnalare questa pericolosa “libertà” del prigioniero al
governo sabaudo? La Curia romana conosceva il Triregno, di cui aveva
disperatamente cercato di intercettare tutte le copie, ma di cui sembrava sempre
imminente una traduzione. Perché la Vienna di Giuseppe II riceve un testo
fondamentale parte del Triregno, che proviene direttamente da Napoli e dal nuovo
rapporto che si stabilisce fra i fratelli austriaci, Maria Carolina, Giuseppe II e Pietro
Leopoldo?
Erano queste le domande cui avrebbe nel tempo dovuto rispondere almeno in
parte il lavoro della dottoranda. La borsa Einaudi copriva solo una parte del tempo
del dottorato, ma le avrebbe dato per un tratto il modo di cercare un lavoro part time.
L’avventura era in corso. Naturalmente la candidata doveva sottostare alle prove che
erano richieste e che forse riprendono quelle inventate al mio tempo. Non solo
elaborare una relazione che rivelasse una buona conoscenza di testi storiografici
internazionali connessi -ma non meccanicamente- al tema di ricerca. Era necessario
che facesse qualcosa che insieme connettesse il suo interesse per la storia del libro e
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gli strumenti più recenti sul tema, il tutto condensato in un elaborato che non
superasse le venti-trenta cartelle. Il tema era ripercorrere in senso internazionale la
letteratura clandestina da Gustave Lanson, maestro di Hazard, ma anche di Ira O.
Wade, fino a Miguel Benitez e a Robert Darnton. Era una sfida difficile. Le dovetti
prestare i miei libri, perché con la piccola borsa che doveva spalmare su un tempo
lungo non poteva certo pensare di andare a Parigi o a Londra.
Le prestai -con timore- anche un preziosa esemplare della prima edizione
dell’Istoria civile, regalatami da Alessandro Galante Garrone e appartenente
dall’Ottocento alla sua famiglia. Se ne servì per confrontarla con la traduzione
inglese che avevo fatto comperare dal Dipartimento .
Il risultato, giudicato positivo dalla commissione, mostrava un’intelligenza
reattiva, duttile e filologicamente precisa. La coinvolsi in un lavoro che seppe fare
con molta passione, la versione digitale di un testo di Furio Diaz, che riguardava
proprio il Giannone e che era stato non accettato dalla rivista “Società”. Diaz, allora
sindaco comunista, si era rivolto a Togliatti, che gli aveva commissionato ricerche
sull’Illuminismo. Il dattiloscritto, segnalato da Edoardo Tortarolo, era all’Istituto
Gramsci di Roma e sta per uscire sulla “Rivista storica italiana”. Sciogliemmo
insieme alcuni dubbi e buchi del testo. Purtroppo ho poi dovuto fare da solo gli
ultimi controlli. Le proposi di pubblicare la sua tesi sugli “Annali della Fondazione
Einaudi” come esempio di un notevole studio bibliografico su una biblioteca di un
docente fiorentino che è stato un grande ed originale maestro, vivo nelle pagine dei
suoi allievi e mio caro, anche se non facile amico, Antonio Rotondò.
Questi aveva insegnato a Torino diversi anni, per poi tornare a Firenze, dove
finalmente aveva potuto creare una sua scuola, su un tratto di storia europea ampio,
dagli eretici, agli utopisti, agli illuministi, scoprendo nuove strade e nuovi luoghi
deli Lumi, dall’Inghilterra, all’Olanda, alla Svizzera, alla Germania, alla Polonia
rinnovando filologicamente la lezione di Cantimori e forse anche di Firpo, che lo
aveva voluto a Torino. Ma egli aveva saputo imparare anche da Venturi e forse,
anche un po’ più orizzontalmente, dal nostro gruppo e da un mondo in cui si
incontravano uomini come Alessandro Galante Garrone e Norberto Bobbio, due
modi diversi di essere pubblici, il primo sotto il segno della più alta bontà laica da
me incontrata, il secondo cartesiano maestro di dubbi, Maître non solo à penser, ma
soprattutto à douter, uomo che avrebbe sorriso con lieve melanconia grifagna al
culto laico successivo alla sua morte, dopo tanti, forse il più bravo e lucido
giornalista accademico della Stampa.
L’avventura conoscitiva di Francesca era in pieno corso, ma dietro la creatura
solare e apparentemente serena c’era una disperazione che nessuno , non parlo di me,
che avevo con lei un rapporto relativamente formale, ma anche dei suoi maestri
fiorentini ed amici, compresi i compagni di dottorato, avevano indovinato. Io l’avevo
vista un giorno star male, ma sembrava una cosa assolutamente fisica, un giramento
di testa dovuto ad un eccesso di lavoro. Mia moglie ed io l’abbiamo curata con un
placebo di acqua e zucchero. Ricordo che sono sceso ad accompagnarla a superare
corso San Maurizio, via di scorrimento pericoloso. Il giorno dopo abbiamo
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completato il lavoro, che riguardava sia la sua tesi, sia il progetto stesso, che andava
delimitato per essere possibile.
Le avevo affidato il compito leggere un mio libro ora in corso di stampa,
chiedendole un aiuto tecnico, non solo perché come tutti i giovani, sapeva usare il
computer meglio di me, ma anche per chiederle un onesto parere di congruenza su
un capitolo che avevo scritto ex novo, ma nato da una lectio brevis all’accademia dei
Lincei sul rapporto fra storia e letteratura fra sfide e incontri. Mi disse che le
sembrava una conclusione utile e mi segnalò con precisione gli errori che aveva
trovato, prendendomi in giro perché non mi raccapezzavo mai sulle diverse versioni
dello stesso testo.
Il giorno dopo ebbi la notizia di un suo tragico incidente. Era caduta dalle scale,
ricoverata in rianimazione, con fratture diffuse e da curare in luoghi diversi.
All’inizio le notizie me le dava per telefono la madre. Poi potei parlare con lei
attraverso il telefonino ed infine, ma erano ormai passati diversi mesi, la incontrai
nella clinica dove stava facendo rieducazione, ancora con le stampelle e i tutors
(strano nome che mi ricordava il mio ruolo) alle braccia. Era piena di vita, di
progetti, e anche di speranze, tanto che Le portai due bandi di concorso uno per una
borsa Filippo Burzio, e l’altro per il Croce di Napoli, dove fra l’altro ero andato a
presentare i libri sulle opere del carcere di Pietro Giannone e ne avevo discusso con
amici carissimi come Giuseppe Galasso e Girolamo Imbruglia. Io stesso ero stato
formalmente allievo del Croce, avendo vinto la borsa in tempi d’oro, quando eravamo
poverissimi, ma con molte possibilità, avendo da scegliere fra una borsa Rockefeller
e una borsa del ministero degli Esteri. Potei vivere un anno a Vienna, ma poi fui
raggiunto dal servizio militare. La scelta fra Napoli e Vienna rispecchiava quanto
avevo intuito fin dalla tesi di laurea, che avrei voluto capire il Triregno e il mondo
in cui era nato.
Per tornare a Francesca, docenti , borsisti, genitori e forse Lei stessa pensavano
che aveva avuto un improvviso malore, ed era precipitata dalle scale. La sua capacità
di ripresa, la pazienza, l’affetto dei genitori, la presenza della madre, che l’aveva
imboccata per tre mesi almeno e forse più, avevano cancellato ogni ricordo altro. I
carabinieri e i giornalisti fiorentini hanno fatto ipotesi che io ritengo troppo semplici,
da una delusione d’amore, ad un secondo tentativo di suicidio, questa volta riuscito.
In realtà il sorriso e il senso della vita riconquistato con mesi di esercizio, credo
che possano consentire un’altra ipotesi, che è il furto del futuro che sta investendo
tutta una generazione, un bisogno di autoaffermazione e insieme la totale insicurezza
d’avvenire. Francesca - ed è stata l’ultima volta che l’ho vista - ha voluto incontrare
Marina Roggero, responsabile del dottorato per la parte moderna, e me, chiedendoci
se c’era un modo di interrompere, senza perderlo- il dottorato, nel senso che aveva
trovato un servizio civile a Firenze nella biblioteca credo universitaria - dove sperava
poi di trovare un posto. Cercammo un compromesso. Mi ricordo che La sgridai
anche un po’ per il tono sciatto e burocratico della e mail inviato ai docenti. Il
collegio del dottorato Le diede il permesso, secondo regole ancora in vigore e grazie
alla lunga degenza, con la promessa formale, che ero certo avrebbe mantenuto, di
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continuare a Firenze, con un lavoro assicurato e per lei di prospettiva, il progetto di
tesi.
Temo che la sofferenza che ho provato alla tragica notizia mi abbia fatto
sottovalutare ciò che sta dietro un gesto che resta incomprensibile per quanto l’hanno
conosciuta, da Lucia Felici a Renato Pasta, a Rolando Minuti, al quale ho dato io la
notizia. Non ho parlato con Graziano Ruffini che era stato il responsabile della tesi e
che insegna biblioteconomia e storia del libro a Firenze e che ne ha tracciato un
ricordo. L’ho capito fulmineamente quando ne ho parlato con due collaboratori
precari, cui ho dato la notizia. La disperazione - aperta nel primo al quale l’avevo
presentata perché l’aiutasse con la sua energia vitale -contenuta nel caso del
secondo, che ha un famiglia serena e due bambini da far giocare - per entrambi era
in modi diversi una sorta di dolorosissima autocompassione generazionale.
Anche lo sgomento dei compagni di corso e delle sue stesse amiche ed amici che
non conosco, ma che mi è stata raccontata con tenera precisione da Marina Roggero e
da Dino Carpanetto, conteneva, credo lo stesso sentimento implicito e non dichiarato,
nascosto dall’amicizia. Io stesso ho utilizzato un convegno dove ero relatore per
sottrarmi al pensiero dominante, per usare non del tutto impropriamente
un’espressione leopardiana. Ho forse tormentato con un eccesso di parole le
amicizie più care. Ma tornato a casa mi ha ripreso il senso di colpa di non aver
risposto, proprio perché impegnato a preparare la mia relazione, ad una telefonata, di
Francesca. Lungi da me di pensarmi un “borghese taumaturgo”, ma forse il
messaggio era insieme un addio e una richiesta di aiuto. La lettera più dolorosa è
quella che ho scritto ai suoi genitori, anche in nome di tuti i luoghi che l’avevano
incontrata, dal dottorato alla Fondazione Einaudi.
E vengo alla risposta che mi sono data, unendo magari più cose che in clima di
scelte anche politiche. Qui mi allontano dal caso estremo di Francesca e tento di
utilizzarlo per capire la tragedia generazionale. Il dottorato seleziona i migliori, o
almeno così capita da noi, per una consuetudine etica, che ho imparato da Venturi e
ho cercato di trasmettere. Insegniamo a non essere ripetitivi, ma creativi e a non
scegliere modelli rigidi, ma a rischiare. Venturi rifiutava per questo il termine scuola:
eppure, lasciandoci il massimo della libertà, ci ha segnati per sempre. Ha fatto di
velleitari piccolo-borghesi che volevano fare tutto, compreso poesia e romanzo,
degli storici decenti e con un certo margine di creatività che appartiene a noi stesso,
alle nostre represse fragilità e al bisogno di vincere le sfide dell’esistenza,
accumulando cicatrici, ma non cedendo mai al rancore, senza quella libertà
aristocratica -apparentemente gelida e sicura- che la tradizione familiare aveva
insegnato a Venturi, ma con un senso del dovere e della restituzione sociale della
conoscenza, che non era regale, ma socialista.
Io credo che un mondo che allontana i fragili e fa vincere i più forti è destinato
alla sconfitta. Ed è per questo che Francesca ed altri ed altre prima di Lei sono stati
importanti per me e per loro. Ma chi è responsabile non di questa morte, ma del
profondo disagio di una generazione intellettuale che o emigra o nel migliore dei
casi entra nella scuola e la rinnova, come ho cercato di fare io per quasi dieci anni, o
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fa lavori manuali, come forse uno dei più creativi e certo il più fantasioso dei miei
dottori di ricerca, che non riesce a finire un libro, perché deve guadagnarsi la
pagnotta come cameriere, tutto fare, usando il corpo per fortuna robusto, per riservare
la mente alla notte come un piccolo machiavello. O un altro, che pur avendo vinto
quindici anni fa il concorso da docente e avendo poi provato il meccanismo di
selezione a quiz, che avrebbe demolito tutti i docenti universitari, me compreso, ad
eccezione forse dei più mediocri e duttili, o di quelli che sanno tutto, peccato che
sappiano solo quello. In realtà per dieci anni ha fatto un’esperienza che solo
l’insipienza del mercato editoriale si è potuto consentire di perdere. E’ stato il vero
animatore della politica editoriale dei saggi della Utet. Ma quando la Utet è stata
comperata con sufficienza incompetente, la spietata logica del mercato ha prevalso.
La tecnica dello spezzettamento, la liquidazione dei migliori a favore dei più
ossequienti non ha fatto i conti che distruggeva una persona che aveva regalato al
libro un altro capitolo di una piccola grande storia, che ora è finita e certo uomini
come Pomba e il commendator Verde, per non parlare di Luigi Firpo, se non fossero
polvere e memoria distratta di pochi, si rivolterebbero nella tomba.
E’ vero che il libro è una merce, ma non è solo quello e le scelte editoriali sono
state più un gioco di gadgets che un progetto coerente. In questo modo la De
Agostini, comperando la Utet, è riuscita a dominare il settore scolastico, sottraendolo
a Torino, con risultati che nel caso che mi riguarda sono stati disastrosi. Hanno
distrutto un manuale universitario, ma anche per i colti, che era una proposta
alternativa, un laboratorio di scelte possibili, per farne un arido e banale riassunto,
che non riconosco come mio, non avendo firmato mai il contratto. In compenso
hanno licenziato il coautore.
Rubare il futuro ai giovani in nome della selezione dei migliori favorisce
inevitabilmente la riproduzione di casta, che sarebbe da accettare se la sfida fosse
alla pari. Ma oggi si restituisce la palla del rugby più antisociale e violento
escludendo i fragili che sono tali perché spesso non hanno radici e se le devono
costruire. Io non sono fiero soltanto dei miei libri, o dei problemi che ho aperto, o
dei ruoli che ho coperto, ma soprattutto degli allievi e allieve migliori di me, che
ho contribuito a far crescere , non imponendo mai il mio modello, ma imparando a
confrontarmi, con altri.
Sono fiero di aver inventato quasi tutti i titoli dei libri nati all’interno del nostro
dottorato, ma anche di aver aperto spazi, cercando di capire, ma non accettando, le
ambizioni sbagliate degli indifferenti, un gioco di prole caro a Venturi. Il rapporto
socratico non sempre è di amicizia, il più delle volte costoso e selettivo, anche se
non dovrebbe mai essere crudele. Ogni allievo è una scommessa non solo
intellettuale, ma anche etica, nel senso che mi ha sempre fatto fare durissime ed
inutili prediche ai furbetti, che per fortuna sono stati pochi.
In realtà il docente dovrebbe essere del tutto neutrale, come ho cercato di essere,
sia sul terreno della politica, sia della stessa simpatia istintiva.
Qualche volta ho esagerato, sostituendomi a dio, nel favorire l’emersione sociale
di quelli più poveri e svantaggiati. Ne ho fatto talvolta degli ottimi insegnanti. Hanno
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imparato anche dai miei errori. E gli insegnanti che ho formato sono forse quelli che
ho amato di più, per la loro straordinaria capacità di restituzione sociale. Ho cercato
di sottrarre al giornalismo almeno tre casi notevoli, in una riuscendoci pienamente e
in altri fallendo. Guido Tiberga, per esempio, oggi giornalista affermato, non ha mai
voluto pubblicare la sua bellissima tesi sull’Accademia delle scienze e il Fascismo
preparata con me.
Qualcuno l’ho perso per strada, ma ha rivelato il suo talento non solo nei libri, ma
anche nella politica o nell’insegnamento creativo Ho patito il prezzo che Venturi
non aveva dovuto pagare per regalità intellettuale, di veder massacrati i miei allievi
migliori (allievi e soprattutto allieve ), dato che i docenti che mi sostituivano a loro
volta volevano crearsi una scuola. Ho avuto la fortuna di incontrare come ultima
laureanda Alessia Castagnino, che è un vero talento, come è stato riconosciuto nel
dottorato di Venezia, dove ha incontrato Mario Infelise, Antonio Trampus e altri
modelli di ricerca.
La morte di un’allieva scatena inevitabilmente un bisogno di bilanci. Fare il
direttore della Rivista storica italiana, dopo un lungo apprendistato in Studi storici è
stato un dovere, un piacere e una responsabilità etico-politica, che del resto vivo in
tutti gli spazi di cui faccio parte, coltivando gli amici, ma evitando di far parte dei
gruppi che contano. Ma da questa lunga autoconfessione voglio trarre una morale. E’
facile dire che l’università di Torino non è più quella di una volta. Io sono stato a
lungo a Oxford, Cambridge, Londra, Parigi, Nice, Chambéry, Providence , a Toronto
e a Montréal, per non parlare di Vienna e del mondo tedesco, o quello olandese, dove
ho studiato e posso testimoniare che Torino in primis , ma anche Milano, Padova,
Roma, Bari, e soprattutto Napoli, Catania, nelle loro differenze, non erano tanto da
meno.
Come avevo scritto da sindacalista della CGIL, cui sono ancora iscritto, nei miei
due soli articoli che io ricordi con piacere, all’inizio degli anni settanta avevo
profondamente criticato il modello non selettivo che avrebbe messo in ruolo senza
filtri diverse migliaia di insegnanti, in una fase in cui era facilmente prevedibile che
la scuola stava saturandosi e incontrando una bassa demografica, che si sarebbe
potuto affrontare immettendo solo i migliori. Rischiai l’espulsione sia dal PCI, sia
dal Sindacato, allora diretto da Emilio Pugno con un ‘ottica genialmente ottusa, che
era quella dell’operaismo come chiave di tutto. La mia storia sindacale in realtà si era
spezzata nel 1972, anno di nascita di mia figlia , perché avevo protestato duramente
contro un Segretario che aveva esordito - aprendo un nostro congresso di settore dicendo che non sapeva se chiamarci compagni o signori. Il risultato fu drammatico,
perché lentamente i migliori se ne andarono e prevalsero i corporativi dell’ope legis,
per non parlare dei radicali, che teorizzavano la scuola come fronte ormai secondario.
Così, ancora sulla “Stampa” nel 1982 criticai il sindacato cui appartenevo per voler
trasformare in ope legis un’assunzione massiccia e indiscriminata all’università,
dove le esclusioni furono in realtà pochissime e sanate nel giro di tre tornate. Avevo
detto brutalmente che avremmo impedito l’ingresso a tre generazioni e calcolavo che
il reclutamento serio sarebbe iniziato correttamente solo nel 2004. In realtà le
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generazioni sacrificate sono cinque, se non sei e non si vedono schiarite. Il
meccanismo della precarizzazione ha fatto strada anche all’università. La demagogia
di un uso compiacente dei ricercatori e ultimamente degli studenti per l’elezione del
rettore ha favorito un corporativismo di massa degli stabilizzati o aspiranti tali, o
di quanti trovano eccessive le tasse, creando debiti che si ripianeranno a spese delle
biblioteche, dei servizi, delle rinunce a giovani di grande valore.
Ecco il senso estremo della morte di una dottoranda, non a caso intelligente,
onesta, educata da genitori che combattono in quartieri periferici di Napoli la Mafia
con la Scuola.
Ecco perché soffro di non aver risposto al suo messaggio, anche se forse era
soltanto un saluto. Ma questo non implica un profondo mutamento nella politica
culturale, che deve partire dalla consapevolezza che il furto del futuro è diventato
ormai senza senso per due generazioni. E qui rivolgo una riflessione amara alle
stesse Fondazioni di cui faccio parte. Le borse che diamo rischiano di creare
illusioni, se non sono seguite da una politica di reclutamento dei migliori anche
attraverso il moltiplicarsi di progetti di ricerca. Altrimenti restituiamo l’università ai
figli dei professori universitari, o dei più ricchi che si possono permettere attese o
costose università all’estero.
Che senso ha dare quattro soldi a pochissimi e sentire che il premio Grinzane
Cavour ha consumato diversi milioni a beneficio di una collusione fra fratelli, senza
che gli organi di vigilanza controllassero questo gioco perverso allo spreco, che ha
attraversato la gestione di Ghigo, della Bresso, e di Cota? Sei milioni affidati alle
fondazioni o all’università avrebbero consentito il futuro di dieci ricercatori a
tempo pieno o di 100 contratti biennali o più di 60 triennali ad un compenso
decente. I contratti a progetto hanno un limite di fondo, che credo non ci fosse nel
modello tedesco. Nessuno controlla i risultati e tutto finisce, mentre bisognerebbe
prevedere sulla base della qualità una graduale assunzione in istituti di ricerca non
necessariamente universitari, per qualche settore, un possibile accesso alla scuola,
dove i dottori di ricerca hanno cambiato il clima. Le mie proposte sono semplici.
Controllare la qualità, non la quantità, fidarsi di chi sa reclutare, non accettare senza
controlli la politica culturale delle Compagnie, dando più potere ai Consiglieri e
meno ai funzionari, scegliere personaggi scomodi, onesti, rompiscatole, ma con
competenze non dilettantesche. I contratti semi-finanziati hanno senso se non si
discrimina fra scienza e cultura umanistica, se le biblioteche funzionano, se i libri si
acquistano e se la regione accetta di essere una regione europea e sa rinnovare il
patrimonio librario con acquisti non solo europei, ma mondiali. L’altra parte la deve
fare il ministero della cultura in sinergia con quello dell’Istruzione e della ricerca.
Non mi preoccuperei dei cervelli che fuggono. Cercherei di creare spazi di
accoglienza per nuovi docenti. Se Torino fosse quella di una volta, forse si aprirebbe
un nuovo mercato culturale. Se è necessario fare le lezioni anche in inglese o in
francese o in spagnolo o in tedesco, questo è il dovere dei nuovi ricercatori. Parlare
perfettamente una lingua che non sia la propria e saperne leggere e capire tre o
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quattro è un dovere sulla base del quale selezionare chi esce dall’università con
ambizioni accademiche.
E’ uscito un bilancio scritto da uno scienziato sui dottorati, che non ho letto, ma
ho sentito presentare all’Accademia dei Lincei. Se questo scritto insegna qualcosa a
qualcuno, per esempio ad amministrare meglio le risorse, anche una morte
individuale diventa non solo un mistero indecifrabile e da rispettare, ma un segnale
per il cambiamento, un capitolo inedito del diritto allo studio di chi è socialmente e
psicologicamente fragile. Detto questo, invierò questa lettera a tutte le Fondazioni di
cui faccio parte e, se questo Le mette in imbarazzo, perché dipendono dalle
donazioni delle Compagnie, sono pronto ad offrire le mie dimissioni, ma solo dopo
una discussione pubblica.
Se qualcuno vorrà invece discutere con me qualche progetto che potrebbe
coinvolgere tutta l’università io posso fornire testi e bibliografia. Preferisco passare
per emotivo e reattivo al dolore amichevole, che essere cinico: il cinismo
dell’allontanamento come ho visto più volte, può essere una forma raffinata di
ottusità almeno dal mio punto di vista. Un non credente in continuo dialogo
interreligioso è per forza costretto a battaglie donchisciottesche e perdenti, ma che
forse indicano il futuro. Essendo, con altri torinesi in gran parte delle istituzioni
culturali non solo torinesi, dall’Accademia delle scienze, cui ho contribuito abi
immemorabili e non soltanto con la Storia di Torino, ma all’Einaudi, alla Firpo,
alla Deputazione, per non parlare dei Lincei di Rona, dell’Istituto Lombardo, della
Società muratoriana, credo di saper qualcosa di cultura, scuola, giovani e meno
giovani, dato che i miei primi allievi stanno andando in pensione e quelli dei miei
anni di scuola secondaria, che considero preziosi, sono ormai in pensione, malgrado
la legge Fornero.
Cosa farei, se fossi responsabile della cultura? Riporterei il numero delle borse
alle Fondazioni quali avevano negli anni Settanta, dato che selezionano con
competenza e correttezza e senza subire amicizie e liasons dangereuses .
Sceglierei la quantità degli anni Settanta- Ottanta come base, anni di crisi ma anche
di speranze. Anzi le potenzierei, creando solide borse successive e ripetibili per
completare una vera ricerca. Il meccanismo attuale è la guerra feroce dei poveri.
Eviterei che le Fondazioni dal passato glorioso diventassero solo biblioteche di
conservazione. La Fondazione Einaudi ha consentito a molti, storici ed economisti,
di girare il mondo. Io stesso ho avuto un finanziamento che integrava una prestigiosa
ma misera borsa che mi ha consentito di stare sei mesi a Providence. Con i fondi
ministeriali sono stato sette mesi ad Oxford, per non parlare del tempo di formazione
viennese. Questo dovrebbe coinvolgere anche le sedi regionali, da non dilatare, ma
semmai potenziare come alternative numeriche, luoghi di studio di base,
concentrando i dottorati solo a Torino e Vercelli Alessandria e tenendo conto che
alcuni scelgono Genova, Pavia, o Milano. Ogni città ha spesso una banca che si è
impegnata per la cultura locale. E’ il caso di Vercelli che ha permesso di scrivere un
buona storia della città. Torino ha due Compagnie legate a due grandi banche
nazionali, come Intesa San Paolo e Unicredit. Con la precedente Cassa di Risparmio
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di Torino e un suo presidente lungimirante abbiamo avuto la fortuna di costruire una
storia della città e delle sue dipendenze, che resta un riferimento più che non la
versione inglese ed italiana pur affidata a storici che vi avevano collaborato, ma che
hanno detto non quello che conteneva le nuove ricerche, ma quello che avevano
studiato in precedenza. Questo almeno per la parte medievale. Ma Symcox era un
modernista e Cardoza un buono studioso di Ottocento. L’opera in nove volumi,
malgrado inevitabili disparità, resta un monumento di cui essere fieri. Ma perché
non coinvolgere docenti e ricercatori in un progetto più ampio come quello già
abbozzato dalla Compagnia di San Paolo? Sarebbe un modo di investire tutta
l’università, le sedi locali, le istituzioni culturali piccoli e grandi, le università
francesi svizzere frontaliere, da Nice a Grenoble, a Chambéry a Ginevra, una rete che
stavo costruendo. Un modo per rendere utili non solo tutti i competenti dei vari
settori umanistici, ma anche giovani borsisti ad hoc. Ma questo richiede dalle
Compagnie una politica meno capricciosa, imperscrutabile e casuale. La mia
esperienza in tal senso, condivisa da persone come la dott. Ricci e dal dott. Carassi,
che avrebbero voluto assicurare il ruolo degli archivi locali e di quelli nazionali ed
internazionali, rivitalizzandoli come sedi di ricerca, si è rivelata disastrosa. Gli unici a
guadagnarci sono stati i borsisti più furbetti e intelligenti che hanno puntato sul
progetto Venaria. Ma dei due libretti che sono nati da tre anni di ricerche è meglio
non parlare. Quando stavamo per trovare quella che era una quadratura del cerchio,
la Compagnia da un giorno all’altro ha chiuso il progetto, invitandoci a tirare le fila.
L’unico borsista che ha collaborato con me, Duccio Canestri, allievo di Carlo Ossola,
ha portato a termine l’edizione della traduzione italiana di Alberto Radicati di
Passerano, pubblicata gratuitamente da Aragno. Io ho fatto dare un piccolo
finanziamento a due giovani docenti che avevano discusso la tesi con me e le loro
opere, profondamente riviste gratuitamente dal sottoscritto, che ha pagato
personalmente le correzioni, sono due volumi di quasi mille pagine, con un libro
implicito scritto da me sul Giannone del carcere. Ho il ricordo del disagio di tutti
quando ho fatto mettere a verbale che non volevo compensi. L’inserimento nel
progetto di un corpo estraneo come la Famija Piemonteisa ha all’inizio accentuato le
conflittualità di un gruppo che non è riuscito a controllare parte dei borsisti, pronti a
cavalcare altre tigri.
E’ stata un’esperienza deludente, che però è nello stile delle Compagnie, dominate
da funzionari e non da consiglieri. L’ho provato amaramente curando, dopo la morte
di Marziano Guglielminetti, il volume sulle reggenti, dove la ostilità acrimoniosa
di un direttore di dipartimento verso una sua bravissima collega gli aveva fatto
spedire una lettera di complimenti al rigore della Compagnia nel richiedere il rispetto
dei tempi, salvo poi a scoprire che a pagare sarebbe stato lui e non la innocente
Franca Varallo. In realtà la Olschki aveva mandato a tempo ben quattro copie alla
Compagnia, ma a nome del dott. Disegni, spostato ormai su altro progetto. Io stesso senza trarre insegnamento dai tre anni persi a fare progetti sulla storia del Piemonte
come regione europea - avevo presentato un progetto per un’edizione critica del
Triregno che sarebbe costato un triennio di borse di studio per Duccio Canestri, il
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pagamento dei microfilms o meglio delle foto di tutti i nuovi codici da prendere in
considerazione e mi è stato rifiutato con lettera burocratica. Alla mia richiesta di
chiarimento il dott. Gastaldo non ha mai risposto, facendomi dire che per me era
meglio così.
Il risultato ottenuto: quello che Ossola considera forse il suo allievo più brillante,
con due o tre anni di Parigi alle spalle, al quale il dantista Mandelbaum aveva offerto
una borsa post-dottorale negli Stati Uniti, alla sola lettura della tesi, oggi fa il free
lance ed è perduto forse non per sempre per la ricerca. Il patrimonio culturale
europeo che io incarno in quel campo e che avrebbe reso possibile il progetto nei tre
anni richiesti per una somma non riguardava il sottoscritto, ma solo la realizzazione
della mia competenza attraverso un borsista filologicamente, ma anche culturalmente
raffinato, scomparirà con la mia inevitabile scomparsa.
In realtà chiederei ai consiglieri e in primis al Presidente di tener più conto delle
competenze reali che questi spesso conoscono meglio dei funzionari. Tutta l’amara
vicenda dell’interruzione del progetto e dei suoi costi era documentata in una lettera
da me inviata al Presidente di allora, Avvocato e Professore Franzo Stevens che per
strani casi conosce meglio di altri il mio lavoro essendo un cultore del Giannone di
cui è per lontane ascendenze parente ed anche felice possessore di parte della villa
delle due porte di Sorrento. Questi fu gentilissimo nella risposta, ma era in scadenza
e senza che io chiedessi nulla, mi diede un finanziamento per la RSI, nei limiti delle
discrezionalità presidenziali: ho potuto fare la rivista storica meglio per oltre tre anni
e più. Abbiamo sempre dato atto del contributo, inviando copia della Rivista. Non
ho chiesto mai soldi al dott. Benessia perché era quasi un amico e così ho fatto con
il dott. Chiamparino, perché è mia abitudine non chiedere favori agli amici.
Per qualche tempo ancora intendo dirigere tale rivista dalla circolazione nazionale
ed internazionale che fa onore a Torino e all’Italia, ma soprattutto continua il suo
dialogo con il mondo. Su di essa ho presentato il progetto, che nasceva anche dai
lunghi anni di confronti nazionali e internazionali sul tema delle frontiere. Quanto al
ministro della pubblica istruzione credo che come sempre abbia molte cose da capire
ed affrontare. So che è il ministero più duro ed ingrato. Le lacrime di un grande
linguista come Tullio De Mauro restano uno degli atti più onesti degli ultimi decenni.
In una lettera pubblica ho criticato le scelte del ministro Profumo, che forse è stato
un grande rettore del politecnico e un possibile grande Presidente del CNR, ma certo
un improvvisato ministro del settore più delicato del governo. Alla prof. Carozza
non è stato dato il tempo di orientarsi e di mostrare le sue qualità che credo fossero
notevoli. Alla nuova ministra non posso che fare gli auguri da parte di uno storico
che ha studiato molto i meccanismi dell’istruzione, negli ultimi decenni devastata da
modeste improvvisatrici, che volevano spezzarne il carattere pubblico. Capisco, ma
non amo chi ha cercato di migliore le cose offrendosi come tecnico neutrale. A
questo punto ripartirei dall’edilizia e dall’aggiornamento agli insegnanti. Ma tale
aggiornamento deve far ripensare le facoltà umanistiche o quanto ne resta. La scuola
non è un servizio sociale soltanto: è un atto costituzionale che si rinnova ogni giorno
e quindi deve essere pubblica, anche quando è privata, ma con contratti di afferenza
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non dati una volta per sempre, ma verificati ogni tre -cinque anni dalla regione e
dalle città come facevano le regioni più illuminate. Se vuol capire qualcosa del
drammatico rapporto tra pubblico e privato si studi il caso della Lombardia, dove la
scuola separa fin dall’inizio i ceti, dando ridicoli bonus a chi è ricco tanto da pagare
rette che superano largamente gli ottomila euro l’anno, senza contare i sontuosi extra.
Quanto al ruolo della formazione degli insegnanti e dei futuri docenti universitari,
faccia il possibile per non sentirsi complice di chi da decenni ha rubato il futuro a
giovani che ora lo sono sempre meno. Il diritto allo studio deve essere garantito a tutti
come il sogno di una emancipazione. E forse più di Profumo controlli le saghe
familiari, se la democrazia e la giustizia sono uguaglianza almeno per i capaci e i
meritevoli. Accetti che la morte di una dottoranda piena di vita e di coraggio e
d’intelligenza progettuale, che si è sentita deprivata di reali possibilità -in realtà
voleva fare la bibliotecaria ad alto livello e forse una specialista di storia del libro e
biblioteconomia - anche per fragilità che meritano silenzio e rispetto, non sia solo un
nostro dolore privato, o quello dei suoi genitori, ma anche una comune sconfitta .
Giuseppe Ricuperati
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