Gli insegnanti interrogano il loro specchio infranto

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Gli insegnanti interrogano il loro specchio infranto
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Formazione professionale svizzera
Gli insegnanti interrogano il loro specchio
infranto
Conversazione ordinaria
Lei cosa fa nella vita?
Eh! Prof … insegnante.
Ah! Interessante. Non troppo difficile? Le vacanze …
Sorriso beffardo del prof di turno. Ma certo! Tre mesi di vacanza, poche ore di lavoro. Una pacchia,
non c’è che dire!
L’
humour o la collera. Da decenni i prof
sentono le stesse sciocchezze. La voglia di
urlare la loro disapprovazione, di farsi
rossi di rabbia, di dir male della stupidità umana,
cede spesso il posto ad una prostrazione costretta e forzata. Assumendo un atteggiamento
distaccato, uscendo dal quadro ristretto del
nostro mestiere, cerchiamo di comprendere e di
analizzare questo verdetto popolare, quest’immagine che è incollata alla pelle dei prof e di cui
essi si sbarazzerebbero molto volentieri.
Christian Léchenne
Docente professionale
Traduzione:
Vittorio Dell’Era
Il processo «insegnare»: nascita e sopravvivenza del
magister
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La situazione pedagogica può essere definita
stando a Jean Houssaye1 secondo un triangolo
composto da tre elementi: l’insegnante, l’allievo e il sapere. Così, ogni pedagogia è articolata attorno ad una relazione privilegiata tra
questi due elementi e l’esclusione del terzo. E
cambiare pedagogia equivale a cambiare la
relazione di base, ossia il processo. Questo processo può essere collegato con l’evoluzione storica delle idee e delle pratiche pedagogiche, e
allo stesso tempo determina l’immagine e la
funzione dell’insegnante.
Questo processo mette l’accento sull’insegnamento e la trasmissione dei saperi e la priorità
della relazione tra il maestro e i saperi. L’allievo
oggetto è relativamente assente dal processo.
1
Jean Houssaye.
La pédagogie, une
encyclopédie pour
aujourd’hui.
ESF éditeur.
Paris, 1994.
2 André Petitat.
Production de
l’école, production
de la société.
Librairie Droz.
Genève, Paris, 1982.
Storicamente, il mestiere d’insegnante può essere correlato senza troppa fatica alle situazioni
socio-storiche che accompagnano la formazione generale e la formazione tecnica. Una
costante attraversa il sistema scolastico che esso
ha contribuito a produrre e a riprodurre per
secoli: l’opposizione tra i manuali e i non-manuali, l’opposizione tra i manuali e gli intellettuali. Secondo le analisi socio-storiche, e in
particolare il notevole studio d’un sociologo
svizzero, André Petitat, «Ecole, production et
reproduction»2, la diffusione della scrittura e
la creazione delle scuole generali o tecniche si
può riassumere in quattro grandi tappe.
T
Il Medioevo dominato dalla chiesa forma preti,
chierici e funzionari nelle scuole delle cattedrali. Il modo dominante di trasmissione dei
saperi e dei valori è la trasmissione orale. Nelle
città del Medioevo la regola è l’apprendimento
diretto e corporativo e la scuola costituisce
un’eccezione destinata ad una minoranza. Una
vera rivoluzione scolastica avviene con lo sviluppo urbano. Essa è caratterizzata dalla comparsa di piccole scuole urbane e corporative,
frequentate da futuri commercianti e futuri letterati, nelle grandi città italiane e in seguito
nelle grandi città d’Europa. Nella stessa epoca,
la nascita delle università relativamente emancipate dalla tutela della chiesa permette la creazione delle prime facoltà di diritto e di medicina
frequentate da un’élite borghese e urbana.
Emerge così chiaramente nel Medioevo il predominio della cultura libresca sulla cultura vissuta, confermato dagli umanisti del Rinascimento.
Nel XVI secolo entriamo in una terza fase, che
vede apparire i collegi. Questi collegi vanno diffondendo in modo massiccio una cultura generale scritta, greco-latina. L’origine sociale dei
collegiali è limitata alla nobiltà, alla borghesia,
ai mercanti e agli artigiani. I figli di salariati, di
domestici, di lavoratori a giornata e di contadini sono completamente assenti dai collegi. La
chiesa tuttavia intraprenderà la scolarizzazione
delle classi popolari per il tramite delle scuole di
Carità, gratuite e destinate a trasmettere un insegnamento e un’educazione elementari. D’altra parte, i collegi, diretti principalmente dai
Gesuiti e dai primi riformatori, formeranno le
strutture scolastiche che domineranno il sistema scolastico fino alla nostra epoca moderna: costruzione di edifici scolastici, creazione di aule, organizzazione della formazione
in materie secondo un orario molto stretto,
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selezione e valutazione scolastiche, disciplina e
rigore, tra l’altro. Infine, quest’epoca è il punto
di partenza di un dualismo fra due tipi di formazione che finirà per durare parecchi secoli.
Per finire, possiamo costatare che l’evoluzione
dei nostri sistemi scolastici ha imposto la svalorizzazione della cultura orale e la supremazia
dello scritto, l’inferiorità della mano e la superiorità dello spirito e ha contribuito in tal modo
alla produzione e alla riproduzione dei rapporti
di dominazione.
Questo lungo preambolo storico ci è parso necessario per costruire l’immagine leggendaria e
tradizionale dell’insegnante, sia egli maestro,
professore, o docente professionale. In effetti,
questa figura del magister prevalsa per secoli è
ancora molto presente nelle nostre memorie.
L’insegnante investito d’un potere assoluto sui
suoi allievi, spaventoso per la sua autorità e il
suo sapere, è stato a lungo l’incarnazione e la
garanzia di una formazione seria ed efficace. In
simbiosi con l‘educazione familiare tradizionale, il magister distribuiva gli incoraggiamenti
e soprattutto punizioni severe per quanti osavano turbare l’ordine scolastico. Il riconoscimento sociale era forte e, malgrado gli stipendi
modesti, la funzione dell’insegnante veniva riconosciuta da tutti. La cosa incredibile è che,
nonostante le angherie e le umiliazioni vissute
da migliaia di allievi, la rivolta era inesistente,
perché tutto sembrava funzionare secondo un
ordine assoluto e immutabile. I cambiamenti
emergeranno infatti assai più tardi.
Il processo «formare»:
il bel mese di Maggio e i suo dilettanti pedagogici
Ciò che caratterizza il processo «formare» è
l’importanza della relazione tra l’insegnante e
l’allievo, e la definizione delle regole che determinano questi rapporti e il posto dei saperi.
Ogni rigidità sociale provoca il suo contrario.
L’eccesso d’ordine e di severità del sistema scolastico tradizionale genererà disordini più o
meno grandi. Se marinare la scuola è stato a
lungo il solo mezzo di sottrarsi al rigore dei
maestri d’una volta, un movimento di contestazione nascerà a partire dagli anni sessanta e
riguarderà il mondo intero. In America e in
Europa, la contestazione studentesca sconvolgerà il funzionamento di numerose scuole e
università. L’apogeo di questo movimento sarà
costituito dal movimento del Maggio 68 in
Francia, che raggrupperà differenti movimenti
di giovani che contestano i valori fondanti della
società e delle sue varie istituzioni. Le università
e i licei sono nel mirino delle rivendicazioni studentesche. La messa in questione dell’autorità e
della sclerosi della scuola tradizionale è prioritaria. I nuovi valori sono la spontaneità, la creatività, l’immaginazione, la convivialità, che i
nuovi pedagoghi tenteranno d’integrare nella
formazione.
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La quarta tappa, nel XIX secolo, è costituita
dall’emergere dei sistemi scolastici di stato e
dalla generalizzazione della cultura scritta. Lo
sviluppo dello stato moderno si combina così
con una rivoluzione industriale e tecnica e con
un modo di produzione capitalista che determina l’evoluzione della scuola obbligatoria per
il tramite di una vasta burocrazia scolastica. Il
XIX e il XX secolo organizzeranno la scuola in
una traiettoria ispirata alle epoche precedenti e
il principio di una scuola a due velocità. Il sistema primario e il suo prolungamento in una
formazione d’apprendistato destinata ai mestieri manuali e un sistema secondario, ispirato
ai collegi dell’Ancien régime, destinato alle formazioni lunghe di tipo accademico.
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magister d’una volta e dal prof «alternativo»
smarrito nelle sue fantasticherie, l’insegnante
pedagogo vive lacerato fra queste due immagini e questa scomoda realtà lo turba profondamente. L’immagine che egli proietta nel
pubblico non è migliore. Funzionario pagato
per lavorare meno degli altri con incredibili settimane di vacanza, egli suscita al tempo stesso
la gelosia e la presa in giro. L’evoluzione economica e sociale della nostra società non sistema
le cose.
Il processo «apprendere»:
l’emergere degli insegnanti manager
Fioriscono le nuove pedagogie. La pedagogia libertaria di Neill in Gran Bretagna, la pedagogia
istituzionale di Oury in Francia, la pedagogia
non-direttiva di Rogers, fra gli altri, concretizzano la lunga marcia degli innovatori che
tenteranno di modificare la scuola tradizionale.
Da Montaigne a Roussseau, passando per i teorici della pedagogia come Dewey, Montessori,
Decroly, Claparède, o altri ancora, insegnanti
innovatori sul tipo di Célestin Freinet anticipano la liberazione pedagogica degli anni settanta.
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La parola chiave che simbolizza questa ondata
pedagogica è la libertà. La liberté pour apprendre, secondo la celebre opera di Carl Rogers.
L’entusiasmo contagioso dei nuovi pedagoghi
autorizza tutte le speranze e favorisce numerose esperienze più o meno riuscite. Le scuole
ufficiali sono più o meno toccate da questo movimento di rinnovamento che farà scattare importanti riforme scolastiche in tutta l’Europa e
in certi cantoni svizzeri.
In questo periodo l’insegnante, divenuto animatore e animatore turistico dei «Club Méd»
scolastici, vive una vera e propria luna di miele.
Il prof compagno, che ha deposto il suo potere
nell’urna dell’autonomia pedagogica, sembra
aver superato tutti i problemi conflittuali e
disciplinari che sciupavano la sua vita quotidiana. I bambini e gli adolescenti «re» decidono,
secondo la loro voglia e secondo la legge del
minor sforzo, d’imparare o di non imparare.
Ahimè, le dolci utopie del Maggio 68 vanno infrangendosi sulle dure realtà sociali e istituzionali. La vita in gruppo impone infatti un minimo di costrizioni e di regole che ciascuno deve
accettare. La libertà eretta a diritto assoluto è
invivibile e sarà presto l’affossatrice di numerose esperienze d’autogestione pedagogica.
Infine, negli anni ottanta, l’insegnante disincantato si ritrova nudo e senza riferimento. Tra
i due estremi pedagogici rappresentati dal
In questo processo si privilegia la relazione diretta tra l’allievo e il sapere. Nella misura del
possibile, l’accesso al sapere non passa più attraverso l’insegnante. Il suo ruolo è quello di un
preparatore, di un accompagnatore della situazione d’apprendimento.
Per riconciliare immagine estreme e antagoniste
e per lenire certe piaghe aperte, la soluzione
non è in un ritorno verso un passato nostalgico e
spesso idealizzato. Dall’inizio degli anni ottanta,
perpetuando in tal modo le scoperte dei pionieri
della pedagogia della scoperta, la maggioranza
delle ricerche in educazione e dei metodi che ne
derivano si sono focalizzate sull’atto d’apprendere. Grazie ad un importante sviluppo della psicologia cognitiva, ad una migliore conoscenza
del cervello umano, ad una concentrazione sul
discente, la pedagogia si costituisce in campo autonomo. La pedagogia per obiettivi, la pedagogia del progetto e soprattutto la pedagogia differenziata permettono d’attualizzare un «Leitmotiv» troppo spesso ripetuto e raramente applicato: insegnare a imparare.
D’altra parte, giusto ritorno delle cose, si assiste
ad un ritorno dell’importanza dei saperi relativamente trascurati dalle nuove pedagogie. Di
conseguenza, l’insegnante rinnovato e rassicurato può immaginare i profili d’una nuova professione. Ormai l’insegnante, generico o professionale, sarà un amministratore dei saperi,
uno specialista dell’apprendimento e della comunicazione. Sarà pure uno specialista della
complessità legata alla sua professione e in
grado di prendere le numerose microdecisioni
che fanno tutta la difficoltà e tutto il valore del
suo compito. In fin dei conti l’attività d’insegnante è un’attività globale, che esige soprattutto un «saper esser là», altrettanto importante quanto le competenze didattiche. Perché
se si insegna spesso con la propria testa, si insegna anche col proprio corpo, col proprio
cuore e con le proprie viscere … e tutto il resto
spesso non è nient’altro che letteratura.
Ecografia socio-pedagogica
Le rappresentazioni sociali sono un concetto chiave
in sociologia e in psicologia sociale. Esse consentono di comprendere meglio il funzionamento dei
gruppi attraverso l’importanza delle rappresentazioni e dei simboli che sono spesso il motore delle
attività sociali. Le rappresentazioni sociali sono l’insieme delle credenze, delle opinioni, condivise da
un gruppo a riguardo di un dato oggetto sociale.
Esse sono quindi portatrici di senso.
Così, l’immagine rappresentata dalla maggioranza
degli insegnanti nel pubblico varia secondo il
gruppo d’appartenenza. Le classi agiate valorizzate dalla cultura scolastica alla quale sono spesso
debitrici della loro riuscita sociale e professionale,
hanno un’immagine molto positiva della professione d’insegnante … Tutto il contrario nelle classi
popolari o medie, che rappresentano spesso gli
esclusi del sistema scolastico. In effetti, sono numerosi gli individui che hanno dei conti da regolare
con la scuola tradizionale di cui hanno spesso
subito le umiliazioni e gli scacchi. Attori fonda-
mentali e complici d’una scuola particolarmente
selettiva, gli insegnanti sono spesso divenuti i capri
espiatori responsabili di tutti i mali scolastici.
La professione d’insegnante fa parte delle professioni dette ad alto rischio psicologico, in cui rientrano tutte le professioni sociali. Fa parte dei mestieri impossibili per dirla con Freud. Il numero di
periodi di corsi varia da 25 a 30, secondo il tipo
d’insegnamento. È evidente che il numero di questi periodi non corrisponde assolutamente alle ore
di lavoro effettive effettuate dai prof. In effetti, la
preparazione dei corsi, la lettura di documenti e di
opere specializzate, le correzioni, la partecipazione a gruppi di lavoro, i corsi di aggiornamento,
tra l’altro, esigono abbastanza tempo e abbastanza lavoro.
Il calcolo preciso delle ore di lavoro effettuate
dagli insegnanti è praticamente impossibile. Ammettendo un coefficiente variante da 1,6 a 2, si
può stimare che il lavoro d’un docente professionale che insegna 25 periodi settimanali ammonti a
40–50 ore al minimo.
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Il numero delle ore di lavoro non permette
comunque di esprimere con esattezza il peso e la
fatica rappresentate dall’insegnamento. In effetti,
la presenza permanente dell’insegnante con un
gruppo di apprendisti genera una tensione e uno
stress particolarmente elevati. Il controllo permanente di ciò che si sta facendo e si sta dicendo non
va da sé, malgrado gli anni d’esperienza. Nel quadro della concezione attuale della professione
d’insegnante, relativamente tradizionale, questo
«one man show» quotidiano è estenuante, malgrado tutte le soddisfazioni che gli insegnanti ne
traggono.
D’altro canto, gli insegnanti spesso sono anche padri e madri di famiglia. Benché traggano certi vantaggi dalle loro vacanze relativamente lunghe, in
generale durante l’anno scolastico sono poco «presenti» nelle loro famiglie. La fatica quotidiana, le
preparazioni e le correzioni effettuate spesso la
sera o durante il weekend, fanno dell’insegnante
un eterno assente dalla cellula familiare. Siamo
tuttavia coscienti che questo problema riguarda
l’insieme delle professioni, vista la parte importante consacrata al lavoro nelle nostre società moderne e particolarmente in Svizzera dove la settimana di lavoro supera allegramente le 40 ore.
Potremo continuare a coprirci gli occhi e a occultare un problema reale? I docenti professionali
non devono più essere i forzati della pedagogia
logorati prematuramente da un compito che
oltrepassa spesso le norme del ragionevole. Così,
presi tra l’incudine e il martello, tra le difficoltà
legate al lavoro e il poco riconoscimento sociale
legato all’esercizio della loro professione, gli insegnanti sono spesso stanchi e frustrati. Lasciando
da parte qualche pecora nera presente in tutti i
mestieri, gli insegnanti non sono dei profittatori e
degli imboscati. Non hanno scelto questo mestiere
per le vacanze e la garanzia d’un impiego a vita,
assicurato dal loro statuto di funzionari.
I docenti professionali alla ricerca d’un credo …
– Abbiamo scelto questo mestiere perché amiamo i
giovani.
– Abbiamo scelto questo mestiere perché amiamo
trasmettere certe conoscenze.
– Abbiamo scelto questo mestiere perché, nelle tempeste che attraversiamo, siano esse politiche, economiche o sociali, pensiamo che la formazione e l’educazione restino dei fari che evitano più gravi derive.
– Abbiamo scelto questo mestiere perché non abbiamo paura delle sue difficoltà e perché siamo pronti
ad accettare tutti i cambiamenti necessari.
– Abbiamo scelto questo mestiere perché l’amiamo.
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