4. Bianchi petali e labbra rosse (Ludovica De Vito)

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4. Bianchi petali e labbra rosse (Ludovica De Vito)
4. Bianchi petali e labbra rosse
(Ludovica De Vito)
Quando lesse dal quaderno di Anastasia la descrizione del sogno, Orlando Matelli aggrottò le
sopracciglia
«Non avrai iniziato a fare sogni premonitori, vero?».
Anastasia sorseggiò la sua cioccolata calda alzando le spalle, quindi riprese il quaderno.
«Avrei dovuto darti ascolto, sono una matricola nel campo e non riesco a dividere casa e
professione. Non è mio compito lavorare a questo caso, ma vorrei ugualmente rendermi utile. Hai
visto gli occhi della madre? Li hai osservati bene? Il suo sguardo mi dà rabbia e senso d’impotenza,
come fa l’ispettore Vitaloni a restare impassibile?».
Orlando fece scorrere gli occhi su quelle frasi, poi sorrise alla ragazza facendo incrociare le proprie
pozze color pece con quelle smeraldo di lei.
«Se ci facessimo coinvolgere, non riusciremmo a combinare nulla, senza diventare folli. Felice
Vitaloni è il migliore, è stato il mio mentore. Ha avuto un unico crollo in un caso per niente facile
che ha visto come vittima una persona a lui cara, quindi guardalo con ammirazione e non con
irritazione».
Anastasia annuì, ipnotizzata da lui, dalle sue labbra, da quel sorriso accennato. Orlando soffiò una
risata, scuotendo la testa.
«Basta parlare di lavoro, ultimamente è il nostro unico pensiero…».
La ragazza lo tirò per la manica della camicia…
«Parlami dell’indagine in cui l’ispettore Vitaloni ebbe il crollo» scrisse.
Orlando si rilassò sulla sedia, posandosi sullo schienale e congiungendo le mani. Lasciò uscire un
piccolo sospiro prima di ricominciare a parlare.
«Erano i primi anni che lavoravo qui, ci fu un caso piuttosto difficile che coinvolse personalmente
Vitaloni. Una donna, molto giovane, scomparve, come la nostra signorina Carrini; una banda molto
potente di Roma era solita fare dei particolari rituali per l’inizio della primavera, non scenderò nei
dettagli perché risulterebbero poco piacevoli, fatto sta che non riuscimmo a salvare Clara. Queste
persone filmano tutto, non sappiamo bene come riescono a trasmettere il video attraverso i canali
locali; tuttavia non avviene ogni anno, ma a intervalli, ed è per questo che non siamo mai riusciti a
trovare la sede principale della setta. Quella volta riuscimmo a prendere un collaboratore, che
tenemmo al fresco e sotto controllo per tentare di estrapolare qualche particolare utile. Non si sa
come, ma morì avvelenato, e tale veleno era stato creato con normalissimi ingredienti facilmente
reperibili, quindi nulla ci ha potuto portare alla fonte di tutto. Ci sono alcune persone che hanno
affermato che il Massimo Rinaldi, per l’appunto il collaboratore, si uccise, pur di non rivelare
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nessun particolare, io l’ho sempre ritenuto improbabile».
«Perché l’ispettore era coinvolto personalmente?» scrisse con cipiglio concentrato.
«La giovane donna rapita era la prima figlia di Vitaloni – rispose l’uomo abbassando lo sguardo,
Anastasia dischiuse le labbra e sgranò appena gli occhi, incredula. – Comunque ultimamente penso
spesso a quest’avvenimento».
«Pensi che sia la stessa banda ad aver rapito Lina? E che l’abbiano rapita per lo stesso scopo?».
Orlando si limitò ad alzare le spalle, massaggiandosi il collo teso con una mano e bevendo dal
bicchiere d’acqua precedentemente portato da Mario.
«Torniamo in Questura?».
Orlando pagò per entrambi; camminando vicini tornarono sul posto di lavoro. L’uomo non avrebbe
voluto parlare solo di Lina Carrini quel giorno, aveva un piano speciale e voleva darle qualche
indizio, per incuriosirla, in più gli sembrava che lei fosse davvero troppo coinvolta e non andava per
niente bene. In fondo era giovane, da poco aveva imparato a rapportarsi con l’idea che gli ispettori
non erano dei paladini della giustizia capaci di fare tutto, potevano solo provarci. Non sempre si
vince, molto spesso si fallisce. La guardò un po’ preoccupato, ma non appena Anastasia se ne
accorse, fece finta di nulla.
«Stavo pensando che non conosco i tuoi cibi preferiti, ci confidiamo sempre meno sulla nostra vita»
la ragazza lo fissò divertita e incuriosita.
«Mangio qualsiasi cosa, lo sai, e per quanto riguarda la mia vita non c’è niente da dire, sto passando
molto tempo in Questura» l’altro annuì leggendo e sospirò.
«Lo immaginavo, sì. Mi puoi fare un favore? - la ragazza fece un cenno affermativo, continuando a
guardarlo per capire cosa stesse dicendo - Non metterti in mezzo, se vuoi diventare
un’investigatrice devi partire da qualcosa di più semplice».
A quelle parole l’altra restò delusa, ma assentì addolcita dalla preoccupazione dell’amico. Si strinse
a lui mentre i tacchi delle loro scarpe già risuonavano sul pavimento in marmo dell’edificio. Era
indubbio che lei non avrebbe ubbidito, tentava solo di tranquillizzarlo. Purtroppo la donna
scomparsa era divenuto il suo unico pensiero, non l’avrebbe abbandonata facilmente.
Distrattamente, quasi come se fosse un gesto automatico in quegli ultimi giorni, l’ispettore Vitaloni
aprì un cassetto della scrivania. Guardò quella foto, fece un sorriso triste e amareggiato. La sua
dolce Clara lo salutava con un cenno della mano dalla fotografia che, se si fosse consumata man
mano che ogni lacrima era scesa sul viso stanco dell’uomo, ora sarebbe solo un cartoncino bianco in
una cornice d’argento. Richiuse il cassetto con un tonfo quando sentì bussare alla porta.
«Avanti».
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«Signor Vitaloni, le ho portato il caffè».
«Grazie mille, Gloria». La segretaria, minuta e dai capelli brizzolati, entrò nella stanza posando il
bicchiere di plastica sul ripiano in legno.
«È sicuro di non voler mangiare niente?».
«Sì, ne sono sicuro. Su, non fare come mia moglie!».
La segretaria accennò una risata.
«Va bene, va bene! Sa che, però, dopo tanti anni che lavoro per lei è inevitabile che io le stia con il
fiato sul collo, anche perché la signora Valeria m’invoglia, ispettore».
L’uomo rise, mettendo una mano sulla fronte.
«Sapevo che c’era lo zampino di mia moglie, certo che quando voi due vi mettete d’accordo per me
è la fine».
La segretaria si strinse nelle spalle, riprendendo il bicchiere vuoto.
«Sua moglie ha ragione a preoccuparsi, sa. Tutte le persone che la conoscono bene hanno capito che
è turbato da quando c’è questo nuovo caso, non ci vuole la palla di cristallo per capirlo».
Strinse le labbra e uscì dalla stanza, senza dare all’altro la possibilità di controbattere.
L’ispettore non avrebbe potuto replicare niente, anche se la donna glielo avesse lasciato fare, perché
in effetti era davvero preoccupato: troppe somiglianze, troppe lacune, metodi troppo simili a ciò che
era successo a sua figlia. Questa volta non si sarebbe perso nella debolezza paterna e avrebbe fatto il
possibile per salvare almeno la ragazza, anche se ciò che gli premeva di più era prendere le persone
coinvolte e spedirle in prigione, una a una. Soprattutto il capo. L’uomo che veniva chiamato
Maestro. Aveva immaginato il suo viso per molto tempo, aveva immaginato le parole che gli
avrebbe detto non appena si fossero trovati faccia a faccia; anche solo il suono della sua voce gli
accendeva una vecchia fiamma, che forse il medico avrebbe chiamato “attacco cardiaco”. Strinse i
pugni e ne portò uno al cuore, che già iniziava a pompare con maggiore velocità il sangue. Sbuffò
sonoramente e abbassò lo sguardo sulle informazioni fino ad ora trovate; più andava avanti e più gli
sembrava un ammasso di niente: frasi enigmatiche, qualche indizio sparso, la foto della ragazza, le
informazioni sul compagno. Come faceva questa gente a prendere con tanta tranquillità donne
innocenti per uno scopo tanto macabro? Come faceva questo Maestro ad avere tanti seguaci?
Ancora una volta la mente dell’ispettore Vitaloni si proiettò nel momento in cui quell’orribile video
fu trasmesso in televisione.
In Questura quel giorno c’era più fermento del solito, Orlando Matelli, nuovo ispettore che aveva
seguito Felice Vitaloni in ogni minimo dettaglio, aveva preso le redini delle indagini in quanto
l’uomo si trovava nel suo ufficio distrutto dopo aver lavorato giorni e giorni senza mai dormire. Gli
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occhi gli dolevano, la testa gli sembrava vuota. Leggeva ogni indizio più e più volte, anche se ormai
conosceva ogni parola a memoria, e si sentiva molto vicino ad una crisi nervosa. Era già tardo
pomeriggio, il sole iniziava a illuminare la città dal basso, il giovane ispettore Matelli cercava di
rincuorare il proprio mentore. Guardava l’uomo scorrere gli occhi su ogni parola, su ogni foto, su
ogni posto cerchiato di rosso sulla mappa. Gli aveva parlato, ma l’altro non aveva dato cenno di
aver capito o di aver ascoltato almeno le sue parole.
«Signore, io penso sia meglio che lei torni a casa, stia tranquillo, ho seguito il caso dall’inizio, se ci
perverrà qualche indizio in più, rilevante o meno che sia, la informerò, la terrò aggiornato riguardo
qualsiasi movimento che potremmo fare la sua squadra ed io».
L’ispettore Vitaloni finalmente alzò gli occhi dalla scrivania, girò lo schermo del computer, dei
numeri scorrevano fluidi, sembrava un conto alla rovescia.
«Il tempo è scaduto, mia figlia morirà».
Orlando guardò i numeri, senza sapere cosa fare, cosa dire, restò di ghiaccio sulla soglia della porta
dell’ufficio, poi la voce di Stefano, un collega, lo fece scuotere.
«Mio Dio, accendete il televisore!».
L’ispettore Vitaloni non si mosse, ma il più giovane si fiondò a prendere il telecomando e lo
schermo del piccolo televisore vecchio stile dell’ufficio, s’illuminò.
Gli occhi di Clara erano chiusi e poco truccati, il viso pallido con le gote appena rosee, le labbra
rossissime, dischiuse, giusto per far passare il respiro flebile. Probabilmente era sotto l’effetto di
qualche sonnifero. Indossava un abito niveo, come il suo volto, le mani erano legate sul grembo, il
corpo disteso su dei petali appartenenti a rose bianche. Sembrava l’immagine di una favola, finché
l’inquadratura non mostrò la bara di vetro in cui la ragazza dormiva, e sotto ai petali legna e paglia
ben accatastata. Una musica eseguita al pianoforte si propagò, poi si sentì la voce vellutata del
Maestro.
«Ringraziamo Felice Vitaloni per averci donato il fiore da far bruciare quest’anno, in onore di una
primavera che sta per riscaldarci gli animi, proprio come questa fiamma ci riscalderà i corpi».
Una singola frase e poi il corpo della donna venne avvolto dalle fiamme, la bara le conteneva ed era
abbastanza grande da non permettere al fuoco di toccare le sue pareti vitree. Mentre ancora il corpo
bruciava, la trasmissione venne sospesa; Orlando spense il televisore, l’ispettore Vitaloni fissava lo
schermo con occhi vacui, si avvicinò e toccò la superficie con i polpastrelli.
«La mia bambina è stata bruciata. La mia bambina, no… è ancora a casa, sta giocando con il suo
coniglietto di stoffa. La mia bambina, sta sorridendo…».
Continuò a mo’ di cantilena, il giovane dovette portarlo via e l’uomo lo lasciò fare, senza avere la
forza fisica e psicologica per imporsi.
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L’ispettore si scosse e si rammaricò nel ricordare che non aveva resti della sua Clara, nemmeno le
ceneri del corpo, su cui piangere. Solo una foto e gli occhi della moglie, identici a quelli della figlia,
in cui leggere il suo stesso dolore.
Anastasia fu l’ultima ad uscire dalla Questura e tornare a casa; Orlando, dopo essere tornato dalla
pausa pranzo, era scomparso e la ragazza ne aveva approfittato per mettere a posto qualche
archivio, per spiare il caso di Lina Carrini e per scrivere qualche appunto e considerazione, non
essendo controllata dall’occhio vigile dell’amico. Aveva ripensato spesso alla storia raccontata da
Matelli e la sua conclusione era che molto probabilmente quest’organizzazione di folli, stava
riserbando lo stesso trattamento per la povera donna scomparsa. Aiutata dalla segretaria
dell’ispettore Vitaloni, era riuscita ad avere anche l’archivio della bellissima Clara Vitaloni;
Anastasia si era presa tutto il tempo per analizzare e comparare entrambe le storie, ma, a parte il
metodo che era senza alcun dubbio simile, non riusciva a riscontrare somiglianze o almeno un filo
conduttore tra le due donne. Come era possibile che gli organizzatori scegliessero le vittime senza
uno schema ben definito? Nessuno studio in comune, nessun interesse condiviso, vivevano anche in
due parti completamente opposte di Roma, neanche tra le famiglie c’era qualcosa di collegabile.
Possibile che questi signori prendessero l’elenco telefonico e indicassero un nome a caso? Forse il
campo di analisi era troppo ristretto, avrebbe dovuto procurarsi gli archivi di altri casi simili, ma
come? Valutò se farsi aiutare da Orlando, ma eliminò subito questa opzione.
«Bambina, per te è arrivato il momento di andare a casa, non credi?».
Anastasia guardò Gloria con occhi imploranti. La donna faceva tintinnare le chiavi dell’ufficio nella
mano per indicare che era ora di andare via, la ragazza le guardò ed indicò con i gesti che le
servivano altri cinque minuti, ma l’altra le fece un’occhiata severa e scosse la testa. Gloria avrebbe
tanto voluto lasciarle tutto il tempo che voleva per analizzare i dossier, per lasciarla lavorare in
pace, se non fosse che conosceva un piccolo dettaglio, un programma inaspettato per la ragazza per
quella sera, e non poteva di certo permetterle di passare la notte in Questura. La fece alzare quasi di
forza e la accompagnò all’uscita chiudendo la porta. L’altra fece un cenno con la testa alla segretaria
per salutarla e per darle la buonanotte.
Quando Anastasia arrivò davanti l’entrata del proprio appartamento, trovò un biglietto attaccato
sulla porta, sul quale c’era scritto: “I tuoi occhi non solo mi ricordano gli smeraldi, ma anche i
prati bagnati dalla rugiada”.
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La grafia era inconfondibile, rimase incredula per un po’, poi si decise ad aprire. La luce del
soggiorno era soffusa, avanzò con un grande sorriso, aspettandosi da un momento all’altro di vedere
Orlando Matelli.
La tavola era imbandita con cura, anche se in maniera non troppo elegante. Su una delle sedie c’era
un altro biglietto: “A volte vorrei non riuscire a sentire per capirti a pieno, vorrei risolvere i tuoi
problemi, vorrei essere una roccia per te, una guida, un amico fidato, la spalla su cui piangere, su
cui appoggiarti se avessi momenti di debolezza, se ridessi talmente da non avere più la forza di
respirare e di stare in piedi. Vorrei essere tutto questo ed altro, per te. Per stasera sarò il tuo cuoco
di fiducia. Apri il coperchio”.
Anastasia guardò avanti a sé e trovò un vassoio coperto da un coperchio d’acciaio, quando lo alzò
vide degli stuzzichini, un piatto di spaghetti alla salsa di noci, una fetta di scaloppina di petto di
pollo accompagnato da insalata mista. Guardò i piatti, ma di Orlando nessuna traccia. Aggrottò le
sopracciglia, coprì di nuovo le pietanze, intenzionata a dare un’occhiata in giro per essere sicura che
lui non si nascondesse per poi balzare fuori all’improvviso e farle prendere un infarto. Era un gesto
fin troppo bambinesco per un tipo composto come l’ispettore Matelli, ma tutto era possibile.
Non fece in tempo a fare un passo, che notò qualcosa nell’ombra, a terra. Si avvicinò titubante,
mentre il cuore le stava battendo con tale forza da sentirlo in gola. Si fermò a metà strada, volgendo
lo sguardo verso l’interruttore, allungò la mano e accese la luce. Portò le mani al volto e corse verso
la macchia di scuro vista in precedenza, s’inginocchiò e iniziò ad agitare il corpo apparentemente
senza vita. Posò la mano sul collo e notò che il battito era presente, seppure flebile. Leggermente
rassicurata, cercò nella tasca della giacca il cellulare, scrisse un messaggio e lo inviò.
Marco, il migliore amico di Orlando Matelli, stava facendo zapping davanti la tv, quando sentì il
cellulare vibrare. Si alzò di scatto e si mise una tuta e il giubbotto. A quanto pareva la collega
dell’amico, quella sordomuta, lo aveva trovato a casa sua privo di sensi. La prima domanda che gli
era sorta spontanea era per quale motivo l’innamorato senza speranza si trovava a casa del proprio
amore segreto, solo successivamente realizzò che il suo amico si era sentito male per una causa non
ben definita, che poteva essere tranquillamente qualcosa di grave, e serviva una mano, perché
ovviamente quell’handicappata da sola non poteva fare nulla..
Mentre andava verso la macchina, gli arrivò un secondo messaggio nel quale veniva spiegato dove
fosse la casa della ragazza. Seguì le indicazioni anche se più ci pensava più l’ansia diveniva
presente; aveva paura di arrivare troppo tardi, a volte è questione di pochi secondi e poi
improvvisamente ci si ritrova senza una cara persona, che è sempre stata lì nel momento del
bisogno. Arrivò addirittura a pensare che la ragazza fosse la causa del malessere dell’amico, che lei
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gli avesse dato o fatto qualcosa volutamente, o forse la causa era quel problema allo stomaco.
Orlando gliene aveva parlato un giorno, ma lui non gli aveva dato retta, dicendo soltanto che
doveva mangiare cibi meno pesanti, aveva scherzato dicendo che era colpa dell’età che avanzava.
Assurdo. Scosse la testa e parcheggiò sotto al palazzo, bussò e il portone si aprì, nel messaggio era
indicato anche il piano in cui abitava la ragazza. Salì le scale e trovò la porta aperta.
«Dov’è?» chiese guardandola con freddezza, l’altra si spostò per farlo accomodare e lo guidò fino al
salotto; non appena Marco vide Orlando, si affrettò a mettere una mano sulla bocca per controllare
che respirasse e verificò la regolarità del battito cardiaco. Si girò verso la ragazza.
«È semplicemente svenuto, il battito è debole ma presente, ora lo portiamo in ospedale». Spostò il
corpo e notò del sangue sul muro, che proveniva da un piccolo taglio sulla nuca dell’amico,
sembrava causato da un urto con uno spigolo o qualcosa del genere. Trovò il bordo del tavolo
leggermente sporco, ciò voleva dire che il corpo era stato spostato, ma chi era stato capace di
spostare un uomo alto un metro e ottantacinque a peso morto? Dovevano essere state per forza due
persone.
Arrivati in ospedale, Marco parlò con due infermiere e sulle labbra di una, Anastasia lesse: «C’è una
camera libera, dottor Romano. Vuole occuparsi lei del paziente?». Marco annuì, fece un segno alla
ragazza, che lo seguì portando Orlando sulla sedia a rotelle. Appena arrivati nella stanza prese il
quaderno.
«Sei un medico?». L’uomo lesse con distrazione, fece un cenno di assenso. Anastasia ebbe
l’impressione di non essere simpatica a Marco Romano, quindi restò in disparte, seduta su una
sedia, per lasciarlo lavorare senza dare ulteriore fastidio.
«Cosa stavi facendo quando lo hai trovato?».
«Ero appena tornata a casa. Cos’ha?» scrisse.
«Non ne sono sicuro, non mi pare abbia nulla di grave, è svenuto perché ha sbattuto la testa contro
il bordo del tavolo, ma mi sembra strano che sia scivolato o inciampato in qualche modo, non si
spiegherebbe il motivo per cui era poggiato al muro, non può essersi spostato da solo vista la
distanza tra il tavolo e la parete».
«Qualcuno quindi è entrato in casa mia?» chiese iniziando a sentirsi nel panico.
«Orlando come ha fatto?» Anastasia ci pensò un po’ prima di scrivere la risposta.
«Il portiere lo conosce, spesso Orlando mi accompagna a casa per non lasciare che io affronti il
viaggio da sola, credo che conosca anche dove nascondo le chiavi di riserva».
Certo, non c’era da stupirsi che il premuroso amico si facesse in quattro per far arrivare la ragazza
sana e salva a fine giornata. I sospetti di Marco si erano assopiti, ma quella ragazza continuava a
non piacergli. Come poteva amarla Orlando? Non lo irritava dover aspettare sempre che lei capisse
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per labiale cosa stesse dicendo e che scrivesse le risposte? Come poteva volere una vita tanto
difficile con una donna che non capiva di masticare rumorosamente o di disturbare facendo troppo
rumore?
«Aveva qualche nemico in Questura o in generale che tu sappia?» domandò, riprendendosi dal
vortice di pensieri, Anastasia scosse la testa.
«Posso avvicinarmi?».
«Prego, vi lascio soli». La ragazza si avvicinò e il medico uscì dalla stanza. Il viso dell’uomo era
privo di espressione, pallido, le sue labbra erano rilassate, l’altra le poté finalmente accarezzare con
le dita, notare che erano morbide anche se un po’ screpolate. Il pensiero di poterle baciare volendo
la fece arrossire. Fino a quel momento non aveva avuto il tempo di sbrogliare la matassa confusa
nella sua testa e ne approfittò per esaminare con razionalità ciò che era successo quella sera. La
situazione era chiara: Orlando era stato aggredito nel suo appartamento, come gli aggressori fossero
entrati non si sapeva, forse l’uomo aveva aperto il portone credendo fosse arrivata la proprietaria di
casa, oppure li conosceva. Ciò che, però, interessava alla ragazza era capire cosa volessero dal suo
caro amico. Che fossero stati i vicini che lo credevano un ladro? Improbabile, ma non impossibile,
inoltre tutti i vicini conoscevano l’ispettore Matelli e in più la tavola imbandita bastava per
eliminare qualsiasi cattivo pensiero. Quale ladro dopo aver derubato una casa si metterebbe ad
apparecchiare la tavola e a cucinare? Orlando sospirò, Anastasia gli accarezzò la guancia e andò a
spostare la sedia vicino al lettino. Nessuno sarebbe riuscito a farla alzare da quella postazione,
voleva stare vicino all’uomo per tutta la notte ed essere ancora lì quando sarebbe stato in grado di
aprire gli occhi. Proprio mentre guardava le palpebre chiuse, vide le ciglia vibrare e le pupille
apparire, contrarsi. L’uomo girò il volto e la vide, intenta ad osservarlo in un primo momento
stupito, poi con sguardo dolce e rassicurante.
Marco tornò e, con l’aiuto di un’infermiera, riportò su un foglio tutte le informazioni fino a quel
momento conosciute e le condizioni, per fortuna stabili, del paziente.
«Marco, cosa ci faccio qui?».
«Amico, hai perso i sensi per colpa di un trauma cranico».
Orlando si portò una mano alla testa dolente, arricciò il naso per la sofferenza.
«Cos’è successo?».
«È proprio quello che vorremmo sapere da te. Non ricordi nulla dell’accaduto?».
Scosse la testa, avvertendo un senso di vertigini.
«Ricordo di aver preparato la cena per Anastasia, niente più. Sono scivolato? Ho sbattuto da
qualche parte?».
«Hai urtato contro il tavolo, ma non crediamo tu sia scivolato. Sicuro di non ricordare proprio
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nulla? Hai per caso aperto la porta a qualcuno?».
Matelli lo guardò dubbioso, scosse nuovamente la testa e s’inumidì le labbra, notando solo in
quell’istante che aveva la gola secca.
«Sono stato spinto da qualcuno, quindi».
«Sì, è proprio quello che crediamo… Ora però devi riposare, ti daremo qualcosa per il mal di testa
domani e ti faremo mangiare, non ti preoccupare». Gli sorrise e poi prese in disparte la ragazza,
cercando di apparire amichevole.
«Non puoi stare qui, mi dispiace».
La ragazza fece finta di niente, poteva solo immaginare cosa l’altro le aveva detto perché
continuava a tenere puntati gli occhi sul corpo immobile dell’amico e quindi non gli aveva letto le
labbra.
«Non scherzo, signorina, devi andartene, ascoltami… Orlando deve riuscire a riposare senza
problemi ».
«Non voglio lasciarlo da solo».
«Non starà da solo, non dimenticare che per rimettersi in forze dovrà dormire molto, quindi non
potrà nemmeno godere della tua compagnia».
«Dottor Romano, abbiamo i parenti del paziente a telefono». Un’infermiera entrò nella stanza,
Marco le fece segno di aspettare.
«Ti lascio il tempo di salutarlo, poi ti voglio vedere uscire da questa stanza. Ora come ora Orlando
non ha bisogno del tuo aiuto». Uscì e Anastasia si avvicinò al lettino.
«Grazie per essermi rimasta vicino, l’ho apprezzato – lei gli sorrise e gli baciò la fronte – Volevo
farti passare una sera rilassante, dopo tutto il lavoro extra che stai facendo, e invece sei qui, vorrei
almeno sapere cosa mi è successo».
La ragazza si sedette e posò il quaderno sulle gambe per scrivere.
«Anche io vorrei saperlo, comunque ho apprezzato tanto il gesto, è stato dolce prepararmi la cena e
creare l’atmosfera, ma ora è più importante capire chi ci ha rovinato la splendida serata. È una
fortuna che non sia nulla di grave, rallegriamoci almeno di questo».
«Giusto, ma l’irrequietezza resta. Un dubbio mi perseguita da quando Marco mi ha spiegato cosa è
successo: la casa era la tua, può essere che quelle persone siano venute sperando di trovare te,
oppure mi hanno seguito ed effettivamente volevano me. Detto con sincerità, non riesco a capire per
quale motivo qualcuno dovrebbe aggredire uno di noi due. Hai visto se per caso la porta aveva segni
di effrazione?».
«Non ho pensato di controllare, quando sono arrivata, però, la porta era chiusa normalmente e non
ho notato niente di strano». L’uomo lesse, ma il mal di testa iniziò a fargli lacrimare gli occhi.
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Anastasia posò il quaderno e gli diede un altro bacio sulla fronte.
«No, non mi salutare così, voglio cercare di ricordare» l’altra rispose con un sorriso amaro, gli
accarezzò la mano e si avviò verso la porta, girandosi un’ultima volta per salutarlo con lo sguardo.
Il dottor Romano tornò nella stanza poco dopo che la ragazza se n’era andata, si sedette sulla sedia
precedentemente occupata da lei.
«Ah, perché ti devi sempre cacciare nei guai, amico mio? Hai trent’anni, non venti, basta partire
all’avventura come se fossi ancora un ragazzino».
«Allora? Non sono mica vecchio, in più non sono andato a cercare gli aggressori, sono loro che
anno trovato me» l’altro lo fissò con aria seria e si sporse un po’.
«Senti, lo dico per il tuo bene, sta’ lontano da quella ragazzina. Ogni tuo problema parte da lei, io
continuo a essere fermo sulla mia idea: non potrai mai avere una vita normale. Credo che faresti
meglio a fartelo entrare nella testa, il concetto dell’amore che supera ogni avversità e ogni handicap
è datato e personalmente lo ritengo anche senza senso, non ci ho mai creduto».
«Non avevi detto che avrei fatto bene a riposare? Hai sbattuto fuori Anastasia “per la mia salute”».
«Vedi che non capisci? Io lo dico per te. Questa sera, per esempio, hai provato a fare una cosa
carina per lei e ti sei beccato una botta in testa, con Jessica ti sarebbe mai capitato?».
«Lascia le mie ex fuori da questo discorso, nemmeno una è paragonabile a lei, alla sua sensibilità e
alla sua intelligenza».
«Continui a vaneggiare, io me ne lavo le mani, Orlando».
«Bravo, allora lasciami riposare, ho la testa che mi scoppia» Marco lo guardò con aria severa per
qualche attimo ancora, quindi uscì dalla stanza.
Si risvegliò da un incubo, la fronte era madida di goccioline di sudore freddo. Le spalle le facevano
male, le gambe non le sentiva più, la bocca aveva il desiderio di parlare, urlare, chiedere aiuto. Non
piangeva da tempo, così decise di liberarsi in lacrime disperate, mentre il suo corpo tremava per il
gelo della stanza, per la tristezza, per la desolazione, per la rabbia, per il disprezzo e infine per
l’odio. Maledisse più volte il giorno in cui aveva deciso di uscire per schiarirsi le idee, annoiata e
irritata per la vita umile che aveva scelto, per cosa, poi? Per amore. Dove l’aveva portata l’amore?
Da nessuna parte, ecco dove. Si calmò dopo essersi sfogata ed improvvisamente si sentì stanca: di
lottare, di provare a capire perché l’avessero rapita. Aveva davanti a sé un futuro brillante, lo aveva
rifiutato e questo era solo il destino, il potente Fato, che aveva deciso di punirla. Sentì dei rumori e
s’irrigidì, smise quasi di respirare per captare ogni parola.
«Dovevate ucciderlo, non ferirlo, razza di idioti!».
«Ci dispiace, ma un vicino ci ha visti».
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«Come avete fatto con lui?».
«Abbiamo avuto fortuna, l’uomo era anziano ed è stato colto da un infarto, lo abbiamo sistemato
sulla poltrona. Una perfetta morte naturale, Maestro».
«Non credo che avrete fortuna una seconda volta. Rinaldi, vieni qui».
«Sì, signore».
«Eri curioso di sapere cosa è successo a tuo padre, giusto?».
«Curioso, sì, credo» Lina sentì perfettamente che la voce aveva titubato.
«Da’ questi drink ai tuoi bravi colleghi, hanno fatto un lavoro ottimo stasera».
«Va bene».
Un tintinnio di bicchieri si riuscì a percepire nel silenzio, poi dei passi.
«Alla salute, miei cari. Ciò che non vi uccide fortifica, no?». Dopo qualche secondo di assoluta
calma, Lina sentì due tonfi. I due uomini erano morti.
«Congratulazioni, Rinaldi, hai preso il posto di tuo padre».
Notando con che crudeltà e facilità li aveva uccisi la donna restò paralizzata. Un senso di disprezzo
le salì in gola, voleva uscire fuori sotto forma di vomito di insulti, le mani le prudevano per la
rabbia. Questo tale Maestro non aveva nemmeno avuto il coraggio di procurare la morte ai suoi
scagnozzi da sé, ma aveva sfruttato un intermediario, si credeva forte, ma alla donna sembrò solo un
codardo. Scosse la testa con forza, sentendo una nuova potenza prenderle tutto il corpo. Tuttavia
come si era ravvivata improvvisamente, così la fiamma si smorzò, lasciando cenere fumante.
Un’unica domanda esigeva una risposta: perché i due scagnozzi avrebbero dovuto uccidere
qualcuno quella notte? La speranza che delle persone si stessero mobilitando per cercarla e che una
di loro forse era troppo vicina alla verità e perciò meritava la morte le rilassò i muscoli indolenziti,
pregò con tutta se stessa che i tentativi non fossero vani, che un giorno avrebbe rivisto la luce del
sole e che quel tale Maestro avrebbe avuto ciò che in realtà si meritava: morire nella sofferenza,
lentamente, per mano della pazzia in una stanza bianca e vuota, senza finestre, legato con una
camicia di forza, senza riuscire a far altro se non implorare con lo sguardo di essere liberato.
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