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Giovanni Frangi, «Milano Porta Venezia», 2009, tecnica mista su carta SABATO 4 GIUGNO 2011 SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» ANNO 14 • N. 22 SABATO 11 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 23 Milano, via le rovine L’ENTUSIASMO PER GIULIANO PISAPIA NON DEVE FARCI DIMENTICARE LA DISTRUZIONE DELLA CULTURA NELLA CITTÀ AMBROSIANA, DAGLI ANNI OTTANTA A OGGI: LO STORICO DELL’ARTE GIOVANNI AGOSTI STILA UN PRO-MEMORIA TENEBROSO. PER RICOMINCIARE TALPALIBRI: GROSSMAN • GAZDANOV • DE CERTEAU • CLAUS • CHELSEA FLOWER SHOW • POWERS • PINCIO • PARISE • ULTRASUONI: GIL SCOTT-HERON, IL RICORDO • LA FINE DELLA PROTEST SONG • ULTRAVISTA: AL CAIRO RADIODERVISH • MUSEO DISNEY SPECIALE CHIPS&SALSA: Qual è l’origine del degrado della vita culturale milanese? Gli anni ottanta. E perché? E come? Un interprete d’eccezione ripercorre le tappe del disastro, con speciale attenzione alla storia dell’arte di Giovanni Agosti D i fronte all’esaltante possibilità di voltare pagina nella città in cui abito – Milano – non sarà del tutto disutile riflettere su forme e modi e tempi del degrado della vita culturale che ne ha caratterizzato la storia recente. Inevitabilmente gli esempi saranno tratti dal campo del mio lavoro che riguarda soprattutto, ma non solo, la storia dell’arte: sono convinto però che la morale della favola possa essere applicata anche ad altri settori della cultura. Spesso gli studenti più avvertiti, quelli dal cervello meno devastato da anni e anni di televisione e dalla rincorsa ai punti e ai crediti universitari, mi chiedono quando e come le cose sono cominciate ad andare male. Provare a raccontarlo, coordinando fatti anche lontani, non per lodare il passato, ma per cercare ragioni e responsabilità, in modo da correggere, se si può, e ripartire, adesso mi sembra giusto. I nomi dei responsabili della situazione in cui ci troviamo io li so: spesso ne stilo gli elenchi, meccanicamente: qualcuno è morto e qualcuno è vivo, qualcuno ha agito male consapevolmente e qualcuno no; e c’è anche chi si è ravveduto in corso d’opera e ha cambiato cavallo. Le ragioni, si vedrà, sono molto Due «icone» sulla crisi varie: la brama di arricchirsi a tutdi Milano: sopra, ti i costi, la smania di potere, l’asl’Università Statale senza di senso di responsabilità ciin «Colpire al cuore», vile, la mancanza di qualità intrin1983, di Gianni Amelio; seche unita alla vanità o, semplicein basso, mente, il desiderio di dare visibiliFranco Branciaroli in tà scientifica alla propria amante «In exitu» di Giovanni del momento. Testori (che compare Bisogna riandare con la macsullo sfondo), 1988, china del tempo negli anni OttanStazione Centrale. ta perché è lì che si trovano le raSi ringraziano Amelio gioni dell’oggi. Erano già scome l’Associazione Testori 2) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 parsi uomini come Franco Russoli (1923-1977), l’ultimo Soprintendente che Milano abbia avuto in grado di pensare in grande, capace di inventarsi la Grande Brera cioè un’espansione della maggiore pinacoteca cittadina – da Gentile da Fabriano a Piero della Francesca, da Giovanni Bellini a Caravaggio – che dilagasse fuori dal palazzo seicentesco che ospita il museo e raggiungesse fasce sociali differenti, immergendosi con saggezza nel turbine contemporaneo (a quasi mezzo secolo di distanza si è ancora allo stesso punto). O donne come Anna Maria Brizio (1902-1982), che era passata dall’antifascismo alla solidarietà con gli studenti in rivolta, inseguendo nuove forme di didattica, senza derogare al rigore e alla severità, senza voti politici e 18 a tutti, senza souplesse insomma: e intanto leggeva, senza gli specchi, gli scritti di Leonardo da Vinci o si immergeva nella Milano tetanica della Scapigliatura, tra Tranquillo Cremona e Carlo Dossi. Non poteva più essere un riferimento per tutti Giovanni Testori (1923-1993): la reazione violenta, nel 1979, alla mostra di Gae Aulenti al Padiglione d’Arte Contemporanea e l’avvicinamento a Comunione e Liberazione, tra una Conversazione con la morte e la scoperta della Maestà della vi- ta, con decise scelte antiabortiste, lo avevano reso inviso – ed è un eufemismo – a quasi tutti i primi attori della scena culturale del momento. Chi era presente, nel 1988, alla prima di In exitu, tra le rampe della Stazione Centrale, dove una marchetta consumava la sua ultima overdose? Una delle scene madri del decennio, quando l’eroina imperversava tagliando le classi sociali e l’AIDS da poco era chiamato così. Ma il recupero della grandezza di Testori, oggi generalmente ammessa, sarà fatica del poi, di alcuni di noi. Eppure sarà proprio lui, con gli Angeli dello sterminio, a descrivere, nel 1992, in maniera immaginifica, quanto era successo nella città, già così tanto amata, di cui non riusciva più a scrivere nemmeno il nome: e poco importa che ricorresse al ricordo del finale di Roma, il film di Fellini del 1972, per la scena conclusiva dell’Apocalisse di Milano, con i motociclisti sulle Triumph, quelle vendute da Bepi Koelliker, che sgommano sul sagrato del Duomo incendiato. Alberto Arbasino (nato nel 1930) era da anni a Roma e le sue sacrosante osservazioni sul Paese senza, tra Illuminismo del cuore e Romanticismo del cervello, sembravano non raggiungere chi gestiva l’amministrazione culturale di Milano. La resa dell’olivettiano Zorzi La società Olivetti aveva avviato, dal 1977, il restauro del Cenacolo nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, affidato a Pinin Brambilla (l’impresa terminerà solo nel 1999): lì si avvertiva, almeno per la manualità del lavoro, un filo di continuità con il passato. Giorni e giorni sui ponteggi, senza delegare, rimettendoci la vista, pur di restituire un’immagine coerente e consona del capolavoro di Leonardo da Vinci, quello che nel 1498 aveva inaugurato, non solo a Milano, la «maniera moderna». Il testimone, che presto diventerà un cerino acceso, era tenuto da Renzo Zorzi (1921-2010), reduce dall’Ivrea delle utopie di Adriano Olivetti e costretto a scendere a patti con una realtà in mutazione, con committenti e protagonisti di ben altro calibro; trovandosi a fare da padrino alla sciagurata mostra sul collezionismo dei Gonzaga a Mantova, nel 2002, quando cinquecentomila visitatori furono convinti – da una pubblicità martellante e dall’esibizione del numero dei documenti consultati – di andare a vedere la raccolta delle opere che erano state dei Gonzaga, tra il giubilo degli amministratori locali, mi diceva: «Spero che la Sua generazione mi perdonerà; non potevo fare altrimenti». Ancora adesso mi chiedo che cosa volesse dire. A Milano, negli anni Ottanta, si era agli ultimi fuochi delle giunte con i socialisti in sella; i galantuomini che fanno passi indietro di fronte alle nuove urgenze della conclamata deideologizzazione, nella faticosa uscita dagli anni di piombo, le cui immagini più profonde per la città si ritrovano nei fotogrammi, che attraversano le classi sociali, di Colpire al cuore di Gianni Amelio, 1983, tra l’«acquario» di piazza Eleonora Duse e le aule della Statale di Portaluppi. Era venuto invece il momento della moda della moda. E sembrava che la fatica della ricerca non valesse più la pena di affrontarla. Al rigore concettuale e analitico si era rapidamente sovrapposto, con un ritorno di fiamma che investì anche Milano, il gusto per la pittura: era stata un requiem delle aspettative deluse nel 1983 la mostra dell’arte cinetica e programmata, curata da Lea Vergine, in Palazzo Reale. Come a dichiarare, in una contrapposizione superficiale, che adesso era la volta della joie de vivre; e non mancarono i cantori. A fare data, stando sul piano della qualità, l’avvio di Memphis, che risale al 1981. Era del resto servita a poco l’affermazione di Mercedes Garberi (1927-2007), la dimenticata direttrice delle raccolte d’arte del Comune: «A Milano la Transavanguardia non pas- serà». Dopo avere riaperto, nel 1979, il PAC, era stata lei a volere, nei sottotetti del Palazzo Reale, una presentazione delle ricchissime raccolte comunali d’arte contemporanea: il CIMAC (era ormai già evidentemente stagione di acronimi), aperto nel 1984 (lo chiuderanno nel 1998). Un’infilata di piccole stanze e più corridoi dove le sculture astratte di Melotti o le nature morte di Morandi o i numeri di Fibonacci al neon di Merz si vedevano in una luce chiara, sulle allora consuete pareti bianche. Tutto gratuito, civile. Se ne sarà fatto parola nella pompa dell’inaugurazione, qualche mese fa, del Museo del Novecento? Il Bosch di Mike Bongiorno Intanto le formiche diventavano cicale e guai a far parola dell’inverno, prossimo venturo. Che quello fosse il clima e che i parametri della dedizione al lavoro non corrispondessero più agli standard precedenti, quelli in cui si era naturalmente cresciuti a Milano, io l’ho avvertito quando è comparso il primo volume del catalogo della Pinacoteca di Brera. Faceva parte di una collana, edita dall’Electa, e avviata da Raffaele Mattioli (1895-1973), il direttore della Banca Commerciale Italiana, prodigo di aiuti a chi facesse veramente della buona cultura («sono le idee che mancano, non i soldi per realizzarle»: sulla sua bocca stavano battute così, a quanto riferiscono quelli che lavoravano con lui). Il raggio delle frequentazioni di Mattioli, ben oltre le mura di Milano, stanno a dirlo i nomi dei partecipanti al libro per i suoi settantacinque anni, 1970: da Contini a Isella, dalla Barocchi a Longhi, con il ritratto di Guttuso nel controfrontespizio, la messa in pagina di Mardersteig e la redazione di Antonini. Era un libro Ricciardi. Mattioli, abruzzese di nascita, è sepolto all’abbazia di Chiaravalle, uno dei più plurilinguistici monumenti milanesi, vegliato – in cima alla scala che conduce dalla chiesa alle celle dei monaci (adesso sono rimasti in cinque) – dalla Madonna del 1512 di Bernardino Luini (e «chi dice Luini dice Lombardia»), tra i giotteschi in fuga da Firenze e i resti bronzei della romana cappella Chigi di Raffaello; lì era riemerso da un muro, nel 1989, un notevole affresco quattrocentesco con un Cristo davanti a Pilato, probabilmente di Hans Witz: la televisione ne presentava in diretta, da Mike Bongiorno, il ritrovamento come se si trattasse di un autografo di Bosch cioè di un autore vissuto più di mezzo secolo dopo ma molto più noto al grande pubblico. Era una delle tante testimonianze del cattivo costume dell’informazione in campo storico-artistico; ultimo esito, il mese passato, lo scivolone raffaellesco sulla copertina dell’« Espresso». Perché per i fatti figurativi non sono richieste le medesime precisione e competenza che il lettore pretende se si tratta di sport o di economia? I musei tra Electa e Finarte Proprio Mattioli si era adoperato perché le raccolte pubbliche milanesi, indipendentemente dalla loro proprietà (statale, comunale, ecclesiastica), fossero provviste di cataloghi scientifici, tutti dello stesso formato, pubblicati dallo stesso editore. Non credo esista qualcosa del genere per il patrimonio artistico di nessun’altra città del mondo. La serie era cominciata nel 1973 e da allora – non è ancora terminata ma con puntualità procede di anno in anno; ora è sostenuta dalla Banca Intesa San Paolo – ha censito quasi tutti i musei cittadini. Fino alla comparsa del primo volume del catalogo di Brera, nel 1988 appunto, era costume che lavori del genere toccassero a uno o più individui che per anni si prendevano cura della catalogazione loro affidata: così era stato per esempio con il Museo del Duomo o con la pinacoteca del Poldi Pezzoli. Nel caso di Brera viene varata una nuova formula: decine di schedatori che procedono l’uno indipendentemente dall’altro, nessuna forma di controllo generale, nessuna bonifica a monte delle vicende collezionistiche e un curatore di facciata scelto nel personaggio che in quel momento rivestiva, tra televisione e mercato, il massimo dell’autorevolezza: Federico Zeri (1921-1998), a cui spettò in sostanza solo il controllo della bontà delle attribuzioni, come se per i quadri di Brera si dovessero stilare stime o perizie per eventuali vendite o divisioni ereditarie. Nel 1984 era infatti morto Carlo Volpe e il ruolo di consulente della Finarte per i dipinti antichi era passato proprio a Zeri o a suoi prestanome: si individua così un singolare legame tra piazzetta Bossi, sede della casa d’aste, e via Trentacoste, sede dell’Electa, che non era più la casa editrice di Dario Neri e di Bernard Berenson, ma non era ancora quella di Silvio Berlusconi. I risultati furono immediatamente evidenti, alla comparsa del primo volume, dedicato alle scuole lombarda e piemontese tra il 1300 e il 1535: una periodizzazione di per sé con poco senso sia dal punto di vista della storia che da quello della storia dell’arte. I venticinque autori del libro erano generalmente troppo impegnati in prove di presenzialismo su più scenari non solo milanesi per dedicarsi con il dovuto rigore alla prova faticosa, e spesso disperante, costituita dalla scheda di catalogo di un museo: la carta di identità che deve accompagnare un’opera, si spe- ■ PRIMO «MOVIMENTO» DI UN PROMEMORIA PER MILANO ■ Sinfonia di una città ra, per decenni, all’interno di un repertorio ragionato e coerente. Si varava anche, in quell’occasione, l’idea di affidare a giovani veri, al di sotto cioè dei trent’anni, la stesura di alcune schede: di per sé una scelta lodevole se accompagnata da adeguati impegni pedagogici. Così non è stato e intorno all’Electa di quegli anni si mette a punto la figura dello schedatore: poco retribuito, sempre disponibile, di rado competente, bisognoso di farsi notare. Forse qualche «no, grazie» in più, qualche «magari un’altra volta» avrebbe preservato da quello che è venuto dopo. Infatti lo schema adottato nel catalogo di Brera è stato replicato innumerevoli volte (non solo a Milano). E l’abbassamento degli standard, all’interno della stessa collana, è sotto gli occhi di tutti: dalle fotografie alla redazione dei testi, agli indici. In quella Milano lì infatti le case editrici cominciavano progressivamente a rinunciare ai redattori interni. I cataloghi dei musei dovrebbero essere libri scientifici: provare per credere a utilizzare i volumi sul Museo Bagatti Valsecchi alla ricerca degli scioglimenti delle abbreviazioni bibliografiche in coda alle schede. Non ci sono più. Per distrazione? Per sciatteria? Quello che conta è solo l’involucro esterno: il libro assomiglia a quelli originari, e tanto basta alla civiltà dell’apparire. Il Manifesto DIRETTORE RESPONSABILE Norma Rangeri VICEDIRETTORE Angelo Mastrandrea Alias A CURA DI Roberto Silvestri Francesco Adinolfi (Ultrasuoni), Federico De Melis, Roberto Andreotti (Talpalibri) Con Massimo De Feo, Roberto Peciola, Silvana Silvestri REDAZIONE via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA fax 0668719573 ULTRASUONI fax 0668719573 TALPA LIBRI tel. 0668719549 e 0668719545 EMAIL [email protected] WEB: http://www.ilmanifesto.it IMPAGINAZIONE ab&c - Roma tel. 0668308613 RICERCA ICONOGRAFICA il manifesto CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ Poster Pubblicità s.r.l. SEDE LEGALE Distruzione del Castellazzo Un paio di istantanee per chiudere il decennio degli Ottanta. Le sale di Brera, con le pareti ancora tutte chiare – non l’arlecchinata di oggi –, ridotte a ospedale: le tavole dipinte distese sui cavalletti come malati in settori del museo preclusi al pubblico, dietro transenne di cellophan. La temperatura era all’improvviso cresciuta, gli allarmi non erano stati tempestivi, la soprintendente, se non ricordo male, era all’estero, mi pare in Nepal… Di rigore non fare parola dell’avvenuto. Per fortuna ci fu anche chi, per questo e altri malanni di Brera, non ebbe paura di scrivere che «si vergognava» di fare parte di quella Soprintendenza. Intervenne persino una sorta di consiglio di disciplina del Ministero dei Beni Culturali di fronte a quella prova di «disfattismo» della funzionaria coraggiosa. Per qualcuno di noi Maria Teresa Binaghi, che aveva conosciuto ben altre conduzioni dell’ufficio, ben altre forme di senso dello Stato, diventava invece un riferimento nella città sempre più smarrita. Un’altra immagine invece riguarda il settore, che sarebbe diventato sempre più importante, della storia del collezionismo. Gli storici dell’arte infatti cominciavano a riflettere – dopo che Francis Haskell aveva inaugurato nuove forme di pensiero per rivolgersi al campo figurativo, subito intese e messe alla prova dalla sapienza storica di Paola Barocchi – sulle forme di collezionismo del passato. E a Milano ancora sopravvivevano, e sopravvivono, contesti naturalmente alti, dalla stratificazione secolare. Fino al 1989 uno di questi era, alle porte della città, la villa del Castellazzo, dai sontuosi interni e dal parco mirabile, celebrata nei Mémoires di Goldoni e nei carteggi di Canova. Tutto in quell’anno è stato smantellato e disperso, salvo l’approdo smarrito di alcune sculture del Bambaia – dei capolavori, per fortuna notificati nel primo Novecento – nelle raccolte civiche di Milano, tramite la mediazione di una casa d’aste. Sui giornali neanche lacrime di coccodrillo per descrivere l’accaduto, solo il plauso per l’operato del Comune. Si era ormai alle soglie di Tangentopoli; sui muri della città gli spray scrivevano «Di Pietro facci sognare». Ma non sarebbe cambiato nulla. 1- continua via A. Bargoni, 8 tel. 0668896911 fax 0658179764 e-mail [email protected] sede Milano via Pindemonte 2 20129 Milano tel. 02 76016293 fax 02 76312360 TARIFFE IN EURO DELLE INSERZIONI PUBBLICITARIE Pagina 21.000,00 (279 x 433) Mezza pagina 11.600,00 (279 x 213) Colonna 8.200,00 (90 x 433) Mezza colonna 4.700,00 (90 x 213) Piede di pagina grande 8.200,00 (279 x 141) Piede di pagina piccolo 5.800,00 (279 x 93) Quarto di pagina 6.300,00 (137 x 213) Quadrotto 2.300,00 (90 x 93) POSIZIONI SPECIALI Coppia manchettes prima pagina 3.500,00 (60 x 40) Finestra di sezione 3.200,00 (90 x 93) IV copertina 22.800,00 (279 x 433) STAMPA Sigraf s.p.a. via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) tel. 0363300330 Diffusione e contabilità Rivendite e abbonamenti REDS Rete Europea Distribuzione e servizi viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 0639745482 Fax. 0639762130 ABBONAMENTO AD ALIAS euro 70,00 annuale versamenti sul c/cn.708016 intestato a Il Manifesto via A. 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