il progetto per l`area di risulta - ZERO

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il progetto per l`area di risulta - ZERO
IL PROGETTO PER L’AREA DI RISULTA
lettera aperta al professor Antonio Monestiroli
gentile professore,
tra pochi giorni prenderà il via la fase finale della procedura di affidamento in
concessione per la realizzazione e la parziale gestione del progetto per l’area di risulta
della stazione ferroviaria di Pescara di cui lei è autorevole e prestigioso consulente.
Sono a scriverle queste poche righe nella duplice veste di cittadino di Pescara e di
architetto contemporaneo, pregandola ardentemente di ripensare il suo progetto che,
dopo la conclusione della fase concorsuale, si avvia a prendere corpo nel mondo
reale. Il ricco fotomontaggio che i quotidiani locali hanno mostrato in abbondanza per
mesi e soprattutto l’ordinata planimetria – in verità, assai meno pubblicizzata – del suo
progetto, pur nella loro ammirevole e apprezzabile proposta delineano e si affidano
allo scenario di una società ideale che però, ahimè, non trova riscontri nella realtà.
Consapevole della difficoltà e della comprensibile fatica accademica di accettare un
tale livello di affermazioni, la prego tuttavia di considerare, a parziale spiegazione della
mia posizione, la possibilità di una serie di ipotetici scenari che potrebbero realizzarsi
nei prossimi decenni.
Il tanto pubblicizzato ‘bosco’, già entrato a far parte del patrimonio affettivo popolare,
concepito con il rigore e l’ordine di una gigantesca sala ipostila senza copertura,
ancora prima di realizzare quello che lei ha definito il ‘terzo sistema di natura che
artificialmente si frapporrà tra il mare e le montagne abruzzesi’, corre seriamente il
rischio di diventare il teatro di inquietanti e notturni incubi urbani.
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A ridosso della stazione ferroviaria e ad un passo dal centro cittadino, questo luogo
aulico e altamente simbolico si espone pericolosamente alla possibilità di replicare il
triste esempio di altri limitrofi spazi pubblici già da tempo aggrediti dalle note
manifestazioni di disagio e di sofferenza, tipiche delle nostre città contemporanee.
Quando i pini d’Aleppo saranno sufficientemente cresciuti, la grande landa di circa
otto ettari, più che ai giardini de Les Tuilleries, rischierà di somigliare assai di più ad
una sorta di ruspante Central Park in versione 1999 Fuga da New York. A quel punto,
il bosco naturale da lei proposto finirà molto probabilmente per essere recintato dalle
future amministrazioni con la solita cancellata in finto stile Impero e la città in cui
viviamo tornerà ad avere il suo grande 'buco nero' centrale ed invece di essere
ricucita e riamalgamata finirà per essere definitivamente e drammaticamente spezzata
in due, ancor più di quanto non fosse quando era attraversata dalla linea ferroviaria.
È questo uno scenario assai verosimile.
Immagino che il suo Padiglione delle Feste sia stato concepito come contrappunto
plani-volumetrico al grande edificio della Mediateca, con l’obbiettivo di realizzare uno
spazio concluso in cui le masse dei due edifici ‘dialogano’ tra loro e ‘mettono in
tensione’ lo spazio aperto interstiziale. A questo volume è stata attribuita la funzione di
ospitare feste cittadine ma, più che a gioiosi festeggiamenti popolari in onore della
divinità di turno, c’è da aspettarsi che questo spazio finisca per essere utilizzato per
festeggiare piuttosto la vendita e/o la promozione delle schede elettroniche dei diversi
gestori di telefonia mobile o di chissà quale altra merce. Le assemblee e le adunanze
cittadine cui il programma funzionale di questo edificio sembra alludere, oltre
all’inesorabile e facilmente prevedibile mancanza di materia prima (spirito collettivista e
senso civico della socialità), rischiano di naufragare nel deserto polveroso di
manutenzioni ordinarie e straordinarie mancate, nell'incuria e nel lento degrado che,
nel caso di gestore pubblico unico (così come prevede il bando pubblicato), diventa
una più che plausibile prospettiva; non certo e non solo per facile critica al sistema
pubblico e ai suoi organismi gestionali, ma per una oggettiva e indiscutibile
inadeguatezza a fronteggiare il complesso sistema economico e finanziario, tecnico e
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amministrativo con cui questo tipo di struttura sarà costretta a rapportarsi.
In un – neanche troppo – ipotetico scenario futuro, questo Padiglione rischia pertanto
di diventare o una delle molte scatole vuote chiuse al pubblico per trecentocinquanta
giorni l’anno ovvero, nell’ipotesi contraria in cui si finirà per cederla 'in uso' a
organizzazioni private, di essere trasfigurata dall’inevitabile aggressione di cancelletti e
piazzole di carico e scarico merci, dai tabelloni luminosi con i dati in tempo reale sulla
qualità dell’aria e dalle mobili strutture gonfiabili per la pubblicità che si pretenderà,
anche legittimamente, di imporre.
Immergendosi poi all’interno di questo spazio un po’ metafisico e un po’
semplicisticamente determinista che il suo progetto definisce, più che la purezza delle
forme, il rigore degli spazi e la qualità delle prospettive, oltre le chiome – per la verità,
un po’ fuori scala – del fotomontaggio di concorso, salta agli occhi il contrasto con
una serie di cortine drammaticamente e pericolosamente irrisolto. È davvero difficile
pensare a come il bosco ordinato, l’ombràculo delle feste e i viali alberati di fronte alla
stazione possano relazionarsi con lo spoglio e imponente muraglione dell’impalcato
ferroviario da una parte o con gli stridenti e un po’ dismessi ‘retri’ dei palazzi di corso
Vittorio Emanuele II. Proprio questa radicale astrazione dal contesto, questo fiero e,
per molti versi, autoreferenziale atto di ‘nuova fondazione’ del cuore eco-culturale
della città, rischia di frustrare oltre alle attuali dinamiche del sistema urbano generale,
persino l’idea alla base del suo stesso progetto, allorquando una sola delle
innumerevoli variabili che definiscono il rigido assunto di base dovesse cambiare di
segno.
L’unico fronte concluso esistente, seppur con la discutibile e monotòna facciata da
‘catalogo modernista’ anni ottanta/settanta tipica delle società di ingegneria
dell’epoca, rimane ad oggi proprio quello della nuova stazione ferroviaria; immagine di
vetro specchiato modulare, acquisita tuttavia e assimilata dall’iconografia urbana
locale, finisce per essere questo l’unico fronte che verrà drasticamente coperto dalla
costruzione dei due edifici del parcheggio multipiano/stazione degli autobus.
Il grosso gorgo infrastrutturale che le decine di pullman, il traffico locale della stazione
e quello urbano di attraversamento creeranno nel futuro ‘viale della stazione’
rappresentano – tipologicamente parlando, se così posso permettermi di dire – una
soluzione poco adeguata al ruolo e alle dimensioni della nostra città che già agli inizi
degli anni ottanta, quando era in uso la vecchia stazione, ha sperimentato i limiti di
questo schema un po’ ottocentesco costituito dal grande viale urbano di
collegamento (corso Vittorio Emanuele) e dalla piazzola capolinea di autobus e taxi
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(piazza della Repubblica).
Mi permetta dunque di invitarla a ripensare profondamente lo schema e gli elementi
infrastrutturali
del
suo
progetto
che
appaiono
essere
stati
decisamente
sottodimensionati, nella speranza forse di ‘limitarne’ il carattere invasivo rispetto al
suggestivo complesso di edifici monumentali e al bosco ipostilo, o forse piuttosto a
seguito di una storicizzata insofferenza intellettuale ad affrontare il caotico e ibrido
mondo dell'infrastruttura (non passa tra l'altro inosservata l'assenza di una qualunque
corsia dedicata alle linee di attraversamento per i mezzi pubblici all’interno del parco,
né la fortissima resistenza del suo schema di progetto ad accoglierne in futuro). Non a
caso, probabilmente, è questo il punto meno indagato del suo progetto, quello a cui
vengono concessi i pochi margini di variabilità alle imprese realizzatrici e l'ambito in cui
vengono elargite e concentrate le occasioni di ‘lucro’ e di ‘profitto’ degli investitori
privati chiamati a rispondere al bando pubblicato in questi giorni. Vorrei farle tuttavia
notare che, proprio per via del fatto che i due edifici dei parcheggi silos (così come le
aree per il parcheggio a raso) sono i soli destinati alla gestione privata, finiranno
inevitabilmente per esser quelli che più facilmente e spregiudicatamente tenderanno a
sfilarsi dal controllo del suo rigore progettuale, col serio rischio di compromettere,
quasi osmoticamente, proprio quell’equilibrio formale che il resto del progetto sembra
tenacemente ricercare.
Per quel che riguarda l'edificio della Mediateca, le confesso infine la mia
preoccupazione nel registrare ancora una volta l'incombere di uno stridente contrasto
fra le aspirazioni dell'architetto-demiurgo di vecchia scuola (alla Fountainhead, tanto
per cinematografare il discorso) e le complesse dinamiche urbane sottoposte -oggi- al
governo della nostra disciplina. Traspare infatti evidente, da una parte, la
soddisfazione dell'architetto che si misura con la geometria delle masse più o meno
pure, con la matericità delle zone d'ombra e degli oggetti sotto la luce, con gli ordini
giganti e con i riferimenti tipologici dell'architettura classica, cui del resto il suo motto
di concorso -Egina (il luogo dove sorgeva il tempio di Atena Aphaia nella Grecia
antica)- alludeva già dal primo istante.
Sull'altro fronte invece si profilano -inesorabili esattori- quelle decine di gruppi di attori
istituzionali e non che di questa architettura dovranno appropriarsi, tutti quegli utenti,
gestori, promotori, finanziatori cui il suo progetto dovrà risultare conformato e
ottimizzato - cui il suo progetto potrà fornire certamente occasioni di arricchimento
culturale e di sviluppo sociale, ma senza la cui approvazione diventa velleitario,
idealista e inconcludente qualunque progetto di architettura, anche quelli che sulla
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carta sembrano funzionare alla perfezione.
Tempio di Athena Aphaia ad Egina (V sec. a.c.)
Mediateca di Pescara (2005 d.c.)
Sicuramente, il progetto della sua mediateca - che diventerà in assoluto l’edificio più
grande di Pescara (poco più dell’attuale palazzo Quadrifoglio) - si sarà posto il
problema di dimensionare e configurare i diversi spazi di questa mediateca - che
continua comunque ad essere una biblioteca tout court (come si sarebbe detto
qualche anno fa) - ne avrà immaginato i possibili usi e margini di flessibilità, con tutte le
problematiche normative, tecnologiche e funzionali che queste comporteranno ma, mi
permetta tuttavia di ricordarle, tra le altre cose, che l'Abruzzo - l'intero Abruzzo (da
Carsoli a Castiglione Messer Raimondo) - conta poco più di un milione e duecentomila
abitanti; a Parigi - dove sono state realizzate la Médiateque de France e il Beaubourg,
edifici cui il suo progetto può, almeno dimensionalmente, raffrontarsi - questo è il
numero degli abitanti di poco più di un paio di arrondissement.
Cosa accadrà al grande tempio pescarese, alla nuova Egina degli anni 2000, se fra
qualche anno ci si dovesse accorgere che alle sue spalle manca -come ad oggi
sembra mancare- quel substrato sociale e quella serie di strutture ed associazioni
capaci di alimentare un progetto culturale di queste dimensioni? Sarà questo suo
edificio capace di accogliere la sfida di una sua assai probabile riconversione? O finirà
per dipendere totalmente da uno sproporzionato impegno economico da imporre a
tutta la collettività? Rischierà di monumentalizzare sé stesso e lentamente decadere in
nome di una idea tradita dal solito mondo crudele, cinico e baro?
Non sarebbe forse preferibile progettare architetture a partire dalle esigenze e dalle
aspirazioni concrete e strutturate del territorio? Ancorché embrionali. O davvero si
crede ancora che l'architettura abbia la capacità di imporre una propria
autoreferenziale visione del mondo? L'architetto demiurgo!
Senza le certezze e la garanzia politica ed economica che l'imperatore o il tiranno
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ateniese offrivano agli architetti del passato, sarà più utile che l'architettura impari a
preoccuparsi molto di più della costruzione di un equilibrio dinamico tra economie,
condizioni d'uso e opportunità programmatiche piuttosto che di tipologie neo
neoclassiche e di società ideali. Beninteso, non certo per repulsione nei confronti del
classicismo e delle sue forme, ma piuttosto per amore e dedizione nei confronti
dell'architettura, obbligata -per definizione- a misurarsi con una realtà che non fa
sconti a nessuno, neanche al più rigoroso dei progetti e che consuma, degrada e
mina tutto ciò che non da risposte alle sue tante, complesse e conflittuali questioni.
Uno scontro crudele e spietato la cui prima vittima rischia di essere proprio la sua
architettura.
La prego dunque, professore, ripensi il suo progetto per Pescara; lei che ne è
diventato l'indiscusso (e indiscutibile) responsabile, faccia sì che questa diventi una
vera occasione di sviluppo e di miglioramento della nostra realtà territoriale e non
quella formalistica parata tardo-ottocentesca fatta di fontane zampillanti, viali alberati e
colonnati di marmo cui molti qui, nella provincia centro-meridionale d'Italia, continuano
ancora ostinatamente e sciaguratamente a plaudire e ad aspirare, in cui rischia
concretamente di tradursi anche la sua migliore attenzione e proposizione
architettonica e dietro cui si annida e prospera quella cultura pianificatoria e
imprenditoriale più pigra e meno intraprendente che continua a tenere imbalsamato il
nostro territorio.
La saluto cordialmente.
ANDREA MAMMARELLA
settembre 2005
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