il bambù - Cascina Macondo

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il bambù - Cascina Macondo
Cascina Macondo
Centro Nazionale per la Promozione della Lettura Creativa ad Alta Voce e Poetica Haiku
Borgata Madonna della Rovere, 4 - 10020 Riva Presso Chieri - Torino - Italy
[email protected] - www.cascinamacondo.com
IL BAMBÙ
di Antonella Filippi
Cascina Macondo - Scritturalia, domenica 7 febbraio 2010
L’aereo era partito in ritardo di due ore. Da Bologna.
Quattordici minuti prima del suo arrivo si erano interrotte le comunicazioni.
Alle 20.59 del 27 giugno 1980 quell’aereo e le 81 persone a bordo sparirono dai
radar.
Ma noi questo ancora non lo sapevamo.
Avevo preso l’aereo il giorno prima, per tornare a casa.
Mio padre mi aveva detto: “Precedimi, dopodomani è il compleanno di tua madre.
Siamo fuori per lavoro da dieci giorni, se anche parti un giorno prima non succede
nulla, tanto l’accordo l’abbiamo già firmato. Resto io per gli ultimi dettagli. Vai a
casa, così tu e tua sorella potete andare a prenderle un regalo. Io arrivo domani
sera.”
All’aeroporto mi aspettava Lina, mia sorella maggiore. Avevamo fatto un salto
veloce in ufficio, perché potessi lasciare i documenti e la mia valigetta, poi mi
aveva accompagnato a casa. Abitavo ancora con i miei genitori, avevo solo 24
anni e da quando mia sorella si era sposata, otto anni prima, la camera che avevo
diviso con lei era tutta mia, appena laureata avevo iniziato a lavorare nella ditta di
mio padre, mia madre pensava alla casa e a noi, perciò perché avrei dovuto
trovare un’altra sistemazione? E non avevo neanche un ragazzo, nessuno che mi
piacesse così tanto, dopo Luca, da farmi pensare di andarmene.
Mia sorella, invece, si era sposata alla mia età con il fidanzato storico, ma da
qualche anno li vedevo più tristi, più grigi, da quando avevano perso per due volte
il bambino che aspettavano con tanta ansia.
Certo, dispiaceva anche a me, ma… insomma, non è come perdere un figlio già
nato, in fondo era incinta di tre o quattro mesi, se mi sforzavo proprio,
immaginando di essere in attesa e di perdere quel… quel… coso, in quel momento
per me la disgrazia sarebbe stata essere incinta, avevo ancora troppa voglia di
uscire e divertirmi e farmi coccolare dai miei e crescere con una certa lentezza,
beh, magari sarebbe dispiaciuto anche a me, ma, mi dicevo, la vita è bella e
bisogna andare avanti.
Comunque, che non ci avessero provato più o che non fosse successo niente, fatto
sta che mia sorella non aveva più confabulato con mia madre, e il suo viso non era
più lo stesso, o, meglio, per ridere rideva, ma gli occhi avevano sempre un
bagliore spento.
Quel pomeriggio era passata a prendermi a casa ed eravamo andate in centro, a
cercare il regalo per mamma. Non era stato difficile, già da tempo avevo preso
l’abitudine di segnare nell’agenda qualsiasi cosa sembrasse piacerle, magari il
sabato mattina andavamo da Piazza Croci fino a Piazza Ruggero Settimo,
percorrendo la Via Libertà o le vie vicine, e quando capivo che era interessata a
qualcosa me lo tenevo a mente fino a casa.
L’agenda, nell’anno, si riempiva di annotazioni, magari non erano tutte cose che
lei aveva ammirato, spesso segnavo oggetti che aveva anche solo considerato per
un attimo, ma… melius abundare!
Ci pensava poi mia sorella a “fare la tara” al mio elenco, in effetti sembrava
conoscerla meglio di me, forse era perché chiacchieravano sempre tanto insieme,
che non so cosa avessero ancora da dirsi dopo tanti anni, io dopo un po’ mi
stufavo di ascoltarle e me ne andavo in camera mia a sentire musica o a leggere.
Così quel pomeriggio eravamo andate a colpo sicuro e le avevamo preso una bella
borsa.
Ai fiori pensava sempre mio padre, con la scusa di andare al bar o di avere
dimenticato qualcosa in macchina, tutti gli anni usciva presto e le prendeva un bel
mazzo di fiori.
Tutto sembrava come sempre. Non era vero, ma io ancora non lo sapevo.
Quella sera mancavano dieci minuti alle nove quando arrivai all’aeroporto.
L’aereo sul quale era mio padre doveva atterrare entro meno di mezz’ora. Aveva
chiamato la mamma da Bologna, per avvertirla del ritardo. Quell’aereo aveva
volato tutto il giorno su e giù per l’Italia ed era arrivato a Borgo Panigale con 94
minuti di ritardo.
Mi misi a leggere distrattamente una rivista che avevo portato da casa, per
l’attesa, tenendo d’occhio il monitor sul quale lampeggiava il suo avvicinarsi.
Non mi preoccupai alle 21.30, pensando che avesse accumulato ulteriore ritardo,
né verso le 22. Alle 22.15 presi un gettone dal portafoglio, allora non c’erano i
cellulari, e chiamai mia madre: “Mamma, arrivano tutti, ma non quello di
Bologna.”
Sul tabellone un ritardo si accumulava all’altro e non ne capivamo la ragione.
Arrivò mezzanotte e ancora niente.
Sempre più nervosi chiedevamo ansiosamente spiegazioni agli addetti
dell’aeroporto, ma la loro evasività scavava in noi un’angoscia che assomigliava a
terrore. Arrivò un amico di un uomo che stava aspettando con noi e gli disse:
“Guarda che il TG delle 23 ha detto che l’aereo è scomparso, forse è stato
dirottato.”
In quel momento anche quello sarebbe stato meglio della paura di altre parole.
Poco dopo era uscito il direttore dell’aeroporto. Aveva in mano una lista.
“Elenco passeggeri aereo IH 870.” La sua voce aveva letto i nomi.
Nelle ore in cui aspettavamo gli elicotteri stavano perlustrano il mare a nord di
Ustica.
Ma io questo non lo sapevo.
Ero corsa a casa. Mia sorella era già lì. Ci dicevamo: “Forse non l’ha preso, forse
all’ultimo momento…” Appena spuntò l’alba andammo a comprare i giornali. Più
tardi venimmo a sapere che alle 5 erano stati avvistati i primi piccoli pezzi di un
aereo e più tardi una grossa chiazza di cherosene, insieme a pezzi più grandi,
seggiolini, una bambola, e i corpi.
In quella disperazione mi venne improvvisamente in mente che era il giorno del
compleanno di mia madre. Tutto sembrava di colpo così privo di peso, ma volevo
che avesse i fiori da mio padre. Corsi dal nostro fioraio, che mi strinse forte la
mano e preparò un mazzo in cui c’erano fiori e un bambù.
Sul biglietto, imitando la calligrafia di mio padre, scrissi: “Per sempre.”
Mia madre volle credere che mio padre avesse ordinato la composizione prima
della nostra partenza e che quelle parole fossero la prova che lui non sarebbe mai
scomparso davvero.
Quel giorno e i due giorni successivi tornammo ripetutamente all’Istituto di
Medicina Legale, sperando che tra i corpi trovati ci fosse quello di nostro padre. Il
magistrato che si occupava delle identificazioni alla fine ci disse che non c’era.
Così, qualche giorno dopo, quando fu certo che nient’altro era stato reso dalle
onde, per molti venne celebrato un funerale senza corpo.
Di lui neanche un frammento di valigia, niente. A Bologna l’avevano
accompagnato all’aeroporto, per forza doveva essere salito. Eppure ci siamo
illuse. Quante volte, sentendo il campanello, senza parlarci abbiamo detto:
“Eccolo, è lui, è tornato!”
Anche per morire ci vogliono i certificati. Quando tra le mani tenemmo il suo, il
nostro, era già passata una settimana.
Mia madre aveva disposto i fiori in un vaso, il grande vaso azzurro che le
avevamo regalato qualche anno prima, e aveva piantato il bambù. Niente altro
sembrava esserle caro come quei fiori e quella pianta, l’ultimo regalo di nostro
padre. Sembravamo le pareti di una casa cui fosse stato d’improvviso strappato il
tetto, barcollanti e percosse da un vento gelido.
Il vento dei segreti, di volontà ignote che per anni avrebbero negato, depistato,
assassinato.
Cercando di riprendere una parvenza di vita, ricominciammo a lavorare, a
riprendere i fili degli accordi, delle consegne, delle fatture, a indurirci.
I fiori si erano seccati, ma il bambù aveva attecchito. Mia madre l’aveva messo
vicino alla fotografia di nostro padre e parlava a entrambi.
Una mattina di giugno dell’anno dopo mi chiamò: “Vieni a vedere.”
Di fianco al bambù, spuntando con due foglioline di un verde pieno di forza, era
uscito un germoglio. Lei lo toccò esitando, e sorrise leggermente.
“Ieri sera mi ha chiamato Lina. Non ha voluti dire niente, prima, ma è già di
quattro mesi. Questo non lo perderà, vedrai.” L’abbracciai forte. Non riuscivo più
a piangere. I miei occhi sono come un deposito di sale, che assorbe tutta l’acqua e
inaridisce la terra. Quel sale amaro per anni ci ha coperto, tolto l’acqua da dentro,
resi duri e immangiabili per chi ci ha negato quello che era nostro diritto sapere.
Il 24 novembre 1981 è nato mio nipote, cui è stato dato il nome di mio padre,
Giacomo. Qualche giorno dopo il vecchio bambù iniziò a seccarsi, mentre
entrambi i nuovi nati prendevano forza, crescevano, mettevano radici forti nella
terra e in noi.
Molto spesso di tante cose diciamo che sono coincidenze, ma fu come se quel
corpo assente fosse tornato.
I resti dell’aereo sono rimasti per otto anni nell’apparente pace del mare e ci sono
voluti altri quattro anni per recuperare, a oltre 3600 metri, i 2500 pezzi di quel
corpo fatto per volare, e altri sette anni perché sapessimo finalmente una parte
della verità, e cioè che fu abbattuto. Fu il regalo per i 18 anni di mio nipote.
Il 22 maggio 2006 ci accompagnò a Pratica di Mare, dove per la prima volta dopo
26 lunghi anni vedemmo il relitto, quello che rimaneva di 31 metri e 15 tonnellate
delle nostre speranze di un arrivo. Mamma non ce l’aveva fatta a venire, a fare
una carezza a quei rottami, a immaginare un posto, un viso.
Il 25 giugno dello stesso anno andammo insieme alle vecchie Tranvie di Bologna,
a vedere arrivare i 15 mezzi che trasportavano gli stessi rottami per ricomporre
quel corpo in un museo. Non avremmo mai permesso che, esaurita l’indagine,
quel gigante arrugginito potesse essere gettato via. Abbassato il pavimento, tolto il
tetto per potere calare i resti dall’alto, per ultima la coda, richiuso infine il tetto
sopra il nostro strazio e i ricordi.
Il 27 giugno 2007 siamo tornati a Bologna, all’inaugurazione del museo per la
memoria di Ustica. Uno di quegli specchi, una di quelle luci, uno di quei pensieri
espressi a voce bassa è mio padre.
Le nove grandi casse nere disposte intorno ai resti del DC9 contengono oggetti
appartenuti alle vittime: scarpe, occhiali, orologi, borse, chiavi, giochi, pinne,
boccagli. Ma sono chiuse, e quello che contengono è invisibile agli occhi dei
visitatori. Chiuse come il dolore che dopo 30 anni ancora non ci abbandona.
Quasi un museo di un nuovo olocausto, solo 38 corpi ritrovati, gli altri dissolti
come quei molti nei campi, corpi che non hanno ancora avuto la grazia di sapere
come è successo, perché sono morti.
La memoria può essere fragile, è un velo che si consuma al vento degli anni, ma il
simbolo la fissa nella pietra, nel ferro, nel legno e la mantiene in vita per tutti noi
che non c’eravamo.
Ho spesso nostalgia per i giorni della sicurezza. Per qualcosa che non è mai stato
mio. Di tante cose che non sapevo, alle quali non volevo rassegnarmi, una è certa:
quest’anno avrò 54 anni, sono più vecchia di mio padre, ormai.
mare in tempesta così piena di rabbia
perché mai, perché?
Cascina Macondo
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