la mitologia di tolkien dalla pagina ai film

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Saggi
I
LA MITOLOGIA DI TOLKIEN
DALLA PAGINA AI FILM
Andrea Oddone Martin*
Il perdurante impegno delle produzioni cinematografiche nel genere non meglio definito come
Fantastico (Fantasy) induce alla seguente riflessione: quanta parte della nostra vera realtà riguarda
la nostra proiezione fantastica? Quanto è vicina alla verità la celebre affermazione shakespeariana:
siamo costituiti della sostanza dei sogni? Il successo di pubblico (prima letterario e successivamente
cinematografico) della saga di Harry Potter, dell’ultima produzione fantasy La Bussola d’oro attestano
l’importanza del genere. Ma cosa ci attira veramente in queste fiabe, cosa le rende così coinvolgenti?
Precisamente, i films di questa specie che si avvicendano sul grande schermo hanno un più solido
e concreto riferimento che possiamo far coincidere con l’opera del professore oxoniense John Ronald
Reuen Tolkien. Notoriamente, di una parte dell’intero corpus dell’opera letteraria di Tolkien è stata
ricavata una versione cinematografica dal regista Peter Jackson: la trilogia del Signore degli Anelli. Accolta con successo, la trilogia allargò il pubblico già folto di estimatori dell’opera tolkeniana. Opera
che si fonda sulla consapevolezza strutturale e spirituale dell’intima natura dell’autocoscienza umana,
e dell’insieme dei segni che storicamente la definiscono: il mito.
Tolkien ebbe consueta la vicinanza al mito dalla sua professione di linguista e filologo, naturale
evoluzione di una passione precocissima: già durante l’infanzia inventò lingue di sana pianta, occupazione che non lasciò mai e che gli permise di ricreare (Tolkien avrebbe preferito sub-creare) un
intero mondo. Man mano che i suoi studi specialistici proseguivano, Tolkien incontrò il norvegese
antico (o antico islandese), cioè il linguaggio importato in Islanda dai norvegesi, che vi approdarono
nel IX secolo provenienti dalla loro terra natia. Egli si dedicò con attenzione alla letteratura di quelle
zone. Lesse l’Edda in prosa e l’Edda poetica o antica. Fu così che si imbattè nell’antico scrigno pieno
di miti e leggende islandesi1.
Oltre a manifestare una piena comprensione e vastissima conoscenza di tutte le valenze mitiche e
simboliche, Tolkien sarà in grado di trattarne con una terminologia precisa fino allo scrupolo lessicale
e fonologico, con una aderenza completa e totalmente corretta alle valenze dottrinali e semiologiche
delle tematiche descritte e delle immagini evocate nelle sue narrazioni. L’impiego dello strumento
magico-mitico è in lui preciso fino alla meticolosità, è la parte più organica e viva della sua epica,
costituisce la vera molla che muove tutto il «meccanismo» letterario2.
La costituzione di una lingua genera di per sé una mitologia, poiché «creazione della lingua e
creazione della mitologia sono funzioni correlate»3. Un linguaggio sarà il mito stesso, il quale poggia
del resto sulla possibilità del linguaggio verbale. Nell’ouverture della Mitologica di Lévy-Strauss, si fa
notare che le leggi e le regole «coercitive» del mito operano nell’inconsapevolezza esattamente come
nel caso delle regole grammaticali che sono attive per il parlante senza che egli abbia il bisogno di fare
di esse una tematizzazione esplicita: «ciò che vale per il linguaggio, vale anche per i miti: il soggetto,
che nel discorrere applicasse coscientemente le leggi fonologiche e grammaticali, perderebbe quasi
subito il filo delle sue idee: allo stesso modo l’esercizio e l’uso del pensiero mitico»4.
L’elaborazione linguistica non trascura la valenza sonora del linguaggio, anch’essa veicolo di significato. Tolkien fa parlare i personaggi delle sue opere in Elfico, nelle sue due varianti Quenya e
Sindarin, e nella lingua dei Nani. Linguaggi completi di struttura grammaticale, alfabeto e precisa
* Musicista e studioso di cultura musicale.
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qualità fonetica, che hanno avuto bisogno di un accurato studio da parte degli interpreti nei film di
Jackson. Del resto nel mito vi è una carenza di suono, nella musica (nel senso di suono non organizzato) vi è una carenza di senso; gli artifici di carattere musicale nella narrazione concretamente
mitica sono espedienti che tendono a compensare questa carenza ritrovando l’equilibrio linguistico
tra suono e senso che assume evidentemente in Lévy-Strauss (ed in Tolkien) il valore di un equilibrio
originario ed esemplare5.
Dal momento che si tratta di una lingua vera e propria, l’idioma del mito porta con sé l’emergere
della poesia. E per quanto sia la differenza di statura poetica tra i vari mitografi, la terminologia in sé
era stata coniata assai prima che apparissero sulla scena poeti di cui ci siano noti i nomi. Da questa
zecca sono usciti tipi ben delineati (sopravvissuti fino ad oggi, per esempio, nei giochi dei bambini,
nelle figure degli scacchi e delle carte da gioco), unitamente alle avventure a loro destinate; queste
immagini orali sono sopravvissute al sorgere e al cadere di imperi, si sono accordate a nuove civiltà
e a nuovi ambienti6. In effetti, Tolkien non si discosta dalla tradizione nella sua sub-creazione, rifacendosi alla letteratura antica nelle fonti della mitologia nordica e risvegliando gli archetipi sopiti
nella distrazione della vita moderna. Il mito quindi trascende il piano del linguaggio articolato, e
pur richiedendo, manifestandosi come linguaggio, una dimensione temporale per articolarsi, sviluppandosi smentisce la dimensione cronologica e ci affaccia ad una cosmologia senza tempo. Scrive
Tolkien: «È appunto perché i massimi nemici in Bēowulf sono inumani che la storia è più ampia e
piena di significato di questo immaginario poema sulla caduta di un grande re. Getta uno sguardo
nel cosmo, e si muove col pensiero di tutti gli uomini, il pensiero concernente il destino della vita
e degli sforzi umani; sta dentro le insignificanti guerre dei prìncipi, ma è anche sopra di esse, e supera i dati e il limiti del suo periodo storico, per quanto cospicui, all’inizio, e nel suo svolgimento,
e soprattutto alla fine, guardiamo giù, come da un promontorio visionario, fra le case degli uomini
nella valle del mondo»7. Quindi, nonostante le svariate caratterizzazioni, ciò che è veramente mito
non ha basi storiche, per allettante che sia questa riduzione, per massiccio ed agguerrito che sia l’urto
di molta critica moderna su tale convincimento. Identificare sotto le più svariate manifestazioni le
funzioni principali del mito significa possedere la capacità di riconoscere forme essenziali8, che non
esistono in una precisa collocazione temporale ma precisamente in tutte le collocazioni temporali. Il
vero signore del mito è la coscienza umana del Tempo.
Cosa sono le mitologie? Per i semplici, un’immagine magica, una favola; per quelli che capiscono,
un riflesso del Tempo stesso, ovviamente uno dei suoi aspetti principali. I miti sono sempre lo stesso
mito: essi esprimono le leggi dell’universo in quel linguaggio specifico che è il linguaggio del Tempo.
Così si deve parlare del cosmo, nella sua caratteristica ciclicità. È un gioco delle trasmutazioni che
comprende anche noi, governato dal Tempo, inquadrato nelle forme eterne. Un pensiero governato
dal Tempo può essere espresso solo nel mito9.
L’idioma del mito porta con sé l’emergere della poesia, si diceva. Una riflessione sulla poesia
di Mallarmé ci aiuterà a stringere la comprensione attorno al modo di avvicinarsi alla sostanza del
mito. Non è vero, come scrisse un giorno Proust a Reynaldo Hahn, che in Mallarmé le immagini
si perdono. No, sono «ancora le immagini delle cose, poiché null’altro saremmo capaci di immaginare, ma riflesse per così dire nello specchio cupo e levigato del marmo nero». E quel marmo nero
è la mente. Chiusa in un invisibile templum, la parola evoca successivamente simulacri, mutazioni,
accadimenti che sorgono tutti e si dileguano nella camera sigillata della mente, là dov’è il crogiuolo
che arde. È quello il luogo in cui viene invitato il lettore, ma per avervi accesso egli dovrà percorrere
in sé lo stesso iter. Mai dare l’oggetto, bensì la risonanza dell’oggetto, nella sua forma più concisa
tale postulato dichiara che il pensiero è linguaggio. Ma noi non pensiamo in parole. Noi pensiamo
talvolta in parole. Le parole sono arcipelaghi fluttuanti e sporadici. La mente è il mare. Riconoscere
nella mente questo mare sembra essere qualcosa di proibito, che le ortodossie vigenti, nelle loro varie
versioni, scientistiche o soltanto commonsensical, evitano quasi per istinto. Ma è appunto questa la
biforcazione, qui si decide in quale direzione si muoverà la conoscenza10. Con l’immagine, sforzo ta-
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lentuoso della nostra capacità mentale, compare nell’arazzo dell’opera letteraria un elemento nuovo:
l’immagine è più grande della somma dei fili che la compongono, e non viene spiegata in essi. In ciò
si cela la debolezza insita nel metodo analitico (o «scientifico»)11. Poiché nel racconto mitico non si
tratta di cogliere un semplice sviluppo narrativo, ma i nessi profondi che formano il suo senso, le attività cerebrali connesse all’immaginazione dovranno essere tali da consentire alla mente di «spaziare»
in lungo e in largo nel campo del racconto man mano che esso si dispiega12.
Vorrei ricordare una testimonianza del compianto Luigi Meneghello, il quale asserì di essere sempre stato interessato alle lingue per ciò che le lingue recavano in sé, un’immagine intensificata delle
cose del mondo: «in queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel
cuore della realtà: e non mi pareva nemmeno pertinente, che si trattasse di lingue diverse, era come
se fosse una sola lingua»13.
Quindi, il viatico che ci avvicina al senso del mito si snoda lungo i profili ritorti della nostra mente, essa lo corrisponde nella sua innata potenza ri-creativa che possiamo finalmente nominare senza
timore di far emergere il suo senso diffuso, legato al banale trastullo: la Fantasia.
L’impegno che Peter Jackson e la sua equipe hanno profuso nell’adattamento cinematografico del
Signore degli Anelli è certamente encomiabile e per certi versi capillare ed aderente in modo esteriore
agli scritti di Tolkien. Il realismo con il quale sono state realizzate le immagini è straordinario. Infatti,
la mission del gruppo di produzione del film era proprio la precisa replica delle situazioni narrate da
Tolkien, nello sforzo di ricostruire visivamente il mondo che lo scrittore aveva creato.
Tuttavia, l’aver «portato avanti il mito moderno di Tolkien, di averlo migliorato trasformandolo
nella nuova dimensione cinematografica, di aver praticato il modo di tramandare il mito da una generazione all’altra»14 coincide con un atto che lo stesso Tolkien non esiterebbe a chiamare tradimento.
La sua competenza specifica, capace di comprendere il vero, intimo principio e le potenti ramificazioni incantate della Fantasia definiscono senza mezzi termini
la «strada maestra» da percorrere: la Fantasia, anche del tipo più semplice, difficilmente riesce
in un testo teatrale (o in una riduzione cinematografica, per quanto ambiziosa) quando esso venga
recitato in modo che si possa vederlo e udirlo. Le forme fantastiche non possono essere contraffatte.
Degli uomini travestiti come animali parlanti possono giungere alla buffoneria o alla mimica, ma
non giungono alla Fantasia15.
Si potrebbe obbiettare che ai tempi in cui viveva lo scrittore non esistevano gli artifici digitali
odierni, ma questa è un’obiezione che si colloca in un contesto di superficialità. Tolkien rivendica
l’indipendenza dell’immaginazione individuale capace di trascendere, nel proprio congeniale processo di ri-creazione, qualsiasi descrizione d’immagine proposta, anche la più audace. Infatti, il teatro
(ed il cinema), per sua propria natura, tenta una sorta di magia fasulla, o quantomeno sostitutiva: la
rappresentazione che si può vedere ed ascoltare di esseri umani immaginari coinvolti in una storia. Il
che significa che è esso stesso un tentativo di contraffare una bacchetta magica. Quindi, se si preferisce il Teatro (o il Cinema) alla Letteratura, si è idonei a fraintendere la pura creazione di storie, e a
costringerla nei limiti propri delle opere sceniche (anche le più stupefacenti).
La Fantasia aspira all’abilità elfica, all’Incantesimo, e quando riesce, gli si avvicina più di tutte le
forme umane di Arte. Nel cuore di molte storie sugli esseri fatati elaborate da esseri umani si trova,
scoperto o nascosto, puro o mescolato ad altri elementi, il desiderio di un’arte sub-creativa vivente
e realizzata. Quel desiderio creativo viene soltanto ingannato dalle contraffazioni. Incorrotto ed imperituro, perché impossibile da soddisfare, esso non cerca illusione, né malia e dominio: cerca un
arricchimento da condividere, e compagni, non schiavi, nella realizzazione e nella gioia16.
Nel costruire puntigliosamente e pervicacemente mirabolanti e stupefacenti effetti scenici, nelle
scelte registiche di «assoluto realismo» in argomento fantastico, coltiviamo candidamente ambizioni
equivoche, ci prefiggiamo obbiettivi errati e fuorvianti.
Il vero motivo per cui non si è mai tentato di dare una versione cinematografica dell’epopea
tolkeniana (a parte un tentativo sostanzialmente fallito, anche per gli ingenui canoni moderni diffusi:
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Il Signore degli Anelli, di Ralph Bakshi, 197817) non è, come accenna ironicamente Peter Jackson18,
nella fatica dell’impresa, ma per esempio nell’avvertire, come avvertiva Tolkien, della necessità di
integrale compiutezza della sub-creazione. Lo scrittore ne aveva scritto l’intera Genesi, saggiamente
pubblicata successivamente al Signore degli Anelli con il titolo de Il Silmarillion, a cura del figlio di
Tolkien, Christopher; e addirittura il mito degli esseri appartenenti all’epica della Genesi, uscito in
Italia da poco con il titolo de I Figli di Húrin19. Oggi, gli uomini vengono addestrati a pensar in termini spaziali, a localizzare gli oggetti. Mano a mano che la scienza e la storia invadono l’intero campo
del pensiero, gli eventi del mito retrocedono nella pura favola e ci appaiono come fantasie di futile
svago: mancano di collocazione e serietà. Il loro spazio è ubiquo, il loro tempo è circolare20.
Con l’acqua del ruscello Galadriel riempì la vasca sino all’orlo, e vi soffiò, e quando l’acqua fu
nuovamente calma, disse: «Questo è lo specchio di Galadriel. Vi ho portati qui affinché possiate
guardarvi, se lo desiderate. Molte cose comando allo Specchio di rivelare e ad alcuni posso mostrare
ciò che desiderano vedere. Ma lo Specchio può anche spontaneamente mostrare delle immagini, che
sono spesso più strane e utili di quelle che noi stessi desideriamo vedere. Non vi so dire quel che
potrete mirare, lasciando lo Specchio libero di creare. Esso infatti mostra cose che furono, e cose che
sono, e cose che ancora devono essere. Ma quali fra queste egli stia vedendo, nemmeno il più saggio
può sapere. Desideri guardare?»21.
Note
1
H. CARPENTER, J.R.R.Tolkien la Biografia, Fanucci, Roma 2002, p. 99.
2
S. FUSCO, L’uso del simbolo tradizionale in J.R.R. Tolkien, in «ALBERO» di Tolkien, a cura di G. De
Turris, RCS, Milano 2007, pp. 72-73.
3
J.R.R. TOLKIEN, Il medioevo e il fantastico, a cura di Christopher Tolkien, dall’Introduzione di G. De
Turris, RCS, Milano 2003, p. 9.
4
G. PIANA, Linguaggio, musica e mito in Lévy-Strauss, gruppo di lezioni del corso Linguaggio ed esperienza nella filosofia della musica, tenuto all’Università di Milano nel 1987, versione digitale 2003,
p. 13.
5
Ibidem, p. 17.
6
G. DE SANTILLANA – H. VON DECHEND, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 2000, p. 361.
7
J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, Bēowulf: mostri e critici, Bompiani, Milano 2003, p.
68.
8
G. DE SANTILLANA – H. VON DECHEND, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 2000, p. 75.
9
G. DE SANTILLANA – H. VON DECHEND, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 2000, p. 72.
10
R. CALASSO, La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano 2001, pp. 99-101.
11
J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, Bēowulf: Sulle Fiabe, Bompiani, Milano 2003, p. 183.
12
G. PIANA, Linguaggio, musica e mito in Lévy-Strauss, gruppo di lezioni del corso Linguaggio ed
esperienza nella filosofia della musica, tenuto all’Università di Milano nel 1987, versione digitale
2003, p. 20.
13
L. MENEGHELLO, Candelete, smorsarse!, Domenicale del Sole 24ore, n. 185, 8 luglio 2007.
14
Brian Sibley, negli extra della Houghton Mifflin del DVD, New Line Cinema, 15’32».
15
J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, Bēowulf: Sulle Fiabe, Bompiani, Milano 2003, p. 208.
16
Ibidem, pp. 211-212.
17
A. TENTORI, Tolkien al cinema, in «ALBERO» di Tolkien, a cura di G. De Turris, RCS, Milano
2007, p. 302.
18
Peter Jackson, negli extra della Houghton Mifflin del DVD, New Line Cinema, 5’46».
19
J.R.R. TOLKIEN, I Figli di Húrin, Bompiani, Milano 2007.
20
G. DE SANTILLANA – H. VON DECHEND, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 2000, p. 73.
21
J.R.R. TOLKIEN, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2006, p. 462.
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MEDEA, OPERA-VIDEO:
L’INCONTRO DEI LINGUAGGI
Adriano Guarnieri*
Introduzione
Un’opera onirica, in cui mito e contemporaneità si fondono attraverso il rapporto formale di tre partiture: musicale, registica e live-eletronics. Il mito di Medea è rivissuto allestita alla Fenice di Venezia
nel 2002, con frammenti del testo originale di Euripide, propriamente estrapolato nei punti più
espressivi e lirici. Il testo ha dei rimandi alla contemporaneità per temi come la perdita di identità,
di terra, di patria, di sole e di sacralità in un tempo in cui il nichilismo ideologico sembra schiacciare
l’uomo proprio nei suoi aspetti ideali.
L’opera mette in scena tre Medee con chiaro riferimento psicologico alla «frantumazione» dell’io
contemporaneo, a cui la psicanalisi ha dedicato ampi studi. L’opera non ha alcun richiamo nostalgico
della classicità; piuttosto prende spunto da essa per ridare vita alle problematiche della attuale crisi
sociologica. La forma di opera-video ben si presta a questa difficile operazione culturale.
Sul concetto di opera-video in Medea
(Tre parti – ogni parte dieci sequenze musicali per soli, coro, orchestra e live-electronics)
Il concetto di opera in musica ha evidenziato a volte all’interno dello stesso genere uno iato strutturale: da una parte la musica, il canto, la coralità, fluttuanti e mobili che assecondano le esigenze del
libretto. Dall’altra parte una regia fissa, rigida, schematica, a volte « didascalica» (che trae forma dal
teatro di prosa), spesso in rapporto d’urto con il contenuto musicale, non assecondato in tutti i suoi
variegati aspetti modulanti propri di una partitura operistica. Tutto ciò è palesemente visibile nelle
regie d’opera con una struttura propriamente teatrale, anche per evidenti ragioni di tempi storici in
cui la mobilità figurativa non era tecnicamente possibile. Con l’avvento della filmografia tutto ciò
subisce una notevole modifica proprio nei canoni registici anche di ordine formale. Sin dagli anni
Settanta compaiono in regie sperimentali proiezioni in movimento, che danno già un sapore ed un
respiro ritmico-scenico ben amalgamato al respiro formale della partitura musicale. Stava nascendo
il concetto di partitura registica scritta appositamente a lato e specularmente a quella musicale preesistente. Si trattava di una svolta epocale. Questo ha portato anche il compositore contemporaneo
a poter ripensare il lavoro propriamente teatrale in osmosi con la musica, sottraendolo così dal precedente schema rigido ed ormai desueto: recitativo – concertanza orchestrale – arie solistiche. Già
nell’opera di Wagner abbiamo una poetica che prevede una concertanza continua e «plastificata»
sì da dare alla forma musicale in divenire una struttura orizzontale «in – continuum», che di fatto
rompeva la struttura originaria italiana, composta da quadri chiusi e procedimenti formali a «tasselli»
incastrati l’un l’altro. Il compositore di oggi non può più non tener conto del movimento registico
che nell’opera contemporanea si prevede prescritto a lato della partitura musicale. Si tratta di un
procedimento parallelo o sfasato per pannelli orizzontali senza chiusure formali che rompano la forma musicale medesima. Tutto ciò nella storia della musica è anticipato nella partitura del Wozzek di
Alban Berg e via via sino ai nostri giorni. Si pensi al ciclo di Stockhausen sulla genesi, alle musiche
* Musicista e musicologo.
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di Ligeti, alle musiche dello stesso Maderna per citare alcuni padri storici della musica contemporanea. Allo schema ottocentesco di parti chiuse alternate si va sostituendo un unico schema con un
fluire plastico e continuo della regia e della partitura musicale in sintonia non solo ritmica ma anche
interiormente «pulsante». I grandi autori storici dell’Ottocento e primo Novecento non potevano
pensare alla forma «continuum». Le regie di taglio filmico spesso affiancate ad una partitura verdiana
sono quanto di più sbagliato si possa compiere sulla sintassi musicale del medesimo autore. Paradosso vuole che la musica colta per film (musica di scena) abbia suggerito ad autori contemporanei (di
musica pura) la sostanziale modifica dell’unità concertante tra partitura musicale e regia filmica. Ne è
un esempio storicamente riuscito e di strada senza ritorno il successo del Ring wagneriano di Pier Alli
messo in scena a Bologna negli anni Ottanta. Non solo la bellezza delle immagini filmiche di questo
lavoro, ma l’eliminazione di comparse ferme sul palcoscenico, nel contesto del tutto inutili, hanno
così soppiantato la struttura ad impianto fisso sino ad allora usato nel genere operistico. Le partiture
contemporanee cambiano forma, non isolando ad esempio le arie da un serrato recitativo come era
proprio nella scrittura ottocentesca. Il canto dell’opera d’oggi si fa plurilineare ed orizzontale dove
tutto è «arioso» e nel contempo recitativo, grazie ad una cantabilità mobile ininterrotta e dialogante
con una concertanza orchestrale sinuosa e plastica. Una grande lezione registica in tal senso viene
dai film di Tarkovskij, autore geniale preferito, non a caso, da Luigi Nono. Questo regista, con la sua
tecnica filmica e completamente orizzontale e per pannelli assommati come successione musicale di
varianti, ha indicato il passaggio quanto meno «obbligato» dal genere operistico al genere opera-film:
video-opera. La scorrevolezza orizzontale delle sequenze filmiche in Tarkovskij dà la percezione di un
nuovo concetto musicale della forma come unicum e non più legato al rapporto didascalico musicanarrazione. Anche autori contemporanei che si affidano ad un libretto narrativo usano però regie con
taglio filmico stridenti con una continuità insita nel linguaggio onirico per immagini in movimento
propria del film. L’esito è a mio avviso negativo perché la musica diventa in tal modo subalterna allo
scorrere delle sequenze registico-filmiche. Non a caso ho citato prima un autore come Tarkovskij
nelle cui opere la musica non è presente. È l’immagine stessa nel suo fluire ad avere una cantabilità
interna. Ne risulta che un libretto narrativo può diventare «opera-film», nel senso più didascalico
del termine o «video-opera». Non si tratta però di «opera-video» dove la partitura registica è scritta
totalmente di pari passo con la pre-esistente partitura musicale. Un esempio di ciò lo abbiamo nella
scrittura registica della Medea, come riportata nelle pagina a fianco, da un estratto del programma di
sala e di cui parleremo in dettaglio più avanti quando ne faremo l’analisi tecnica.
Nell’opera-video tutto si capovolge. Il compositore si trova nell’esigenza di scrivere ben tre partiture: musicale, registica e sonologica, ovvero la disposizione in sala del materiale di diffusione amplificata del suono e le relative traiettorie sonore e spaziali. Le tre partiture concorrono a far scorrere
nello spazio il suono in maniera circolare e non più monofrontale, unificato alla tridimensionalità
dell’immagine anch’essa espansa e spazializzata. Questi tre aspetti partiturali unificati portano ad
avere un forma come corpo unico suddisivo in tre scansioni, sottraendo così per sempre il genere
operistico dall’impianto dualistico dell’opera tradizionale. In Medea ho applicato questo tipo di tecnica compositiva dopo lungo travaglio di anni di ricerca. È infatti degli anni Ottanta una mia Medea
«opera-film» su testo di Pier Alli, edizioni Ricordi, poi decaduta nel nulla. Finora non abbiamo dato
cenno specifico alle tre partiture. In primo luogo analizziamo la partitura live-electronics. Si veda a
tal proposito la dislocazione in sala di tutto l’apparato tecnico elettronico come da figura 1 (a pagina
28). Nella figura appare evidente la dislocazione a semisferio di dodici altoparlanti. Sul piano superiore ulteriore emittenti sonore. Strumentisti, cantanti e coro sono «microfonati» per un ingresso ed
uscite totali di un centinaio di linee sonore. Il tutto è mixato e proiettato in uno spazio razionalmente
definito con uno specifico ingegnere del suono. Tutte queste linee hanno una direzionalità «calcolata»
sia orizzontalmente che verticalmente che trasversalmente. La loro velocità di movimento è indicata
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Estratto del programma di sala della Medea
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nella partitura live-electronics. Va da sé che
non tutte le linee hanno la stessa velocità per
cui si viene a creare nello spazio un tracciato
polifonico, ma asincrono, anch’esso «calcolato» nella partitura. Trattasi dunque di un
concetto che anticamente si sarebbe definito
contrappuntistico. In realtà il compositore
nei suoi calcoli sommatori non può non tener conto delle interferenze che tutti questi
contrappunti creano nello spazio.
Bach in questo è sommo maestro di
mixage contrappuntistico, dirò di più, un
compositore contemporaneo che non conosca tutta la polifonia antica non può portarsi
poi su una scrittura live-electronics, pena il
rischio di improvvisazioni «rock». Ciò è già
di per sé drammaturgia. Come si evince dalla figura allegata, il pubblico sta al centro di
questa sonologia spaziale e dunque è coinvolto nel discernimento progettuale. Non
solo questa è la vera drammaturgia contemporanea perché l’ascoltatore, oltre a vedere
in maniera tridimensionale, è immerso anche in una sfericità sonologica che lo coinFigura 1. Disposizione e pianta sonologica della Mevolge psicologicamente, intellettualmente e
dea predisposta dal compositore
fisicamente. Il suono è altresì manipolato e
filtrato nelle sue multiformi volumetrie. Si fa
plastico e sinuoso sul ritmo della mobilità dell’immagine. Ma nulla è dato al caso. Tutto è prescritto
dal compositore e dall’ingegnere del suono, sia per quanto è «ritardato»… oppure riverberato… filtrato timbricamente tanto da avere poi come somma totale non più il suono storico che conosciamo
sino a metà del secolo scorso. Tutto questo può di primo acchito sconcertare l’ascoltatore non abituato a questi procedimenti sonologici. In realtà, oggigiorno la nostra percezione musicale è mutata
anche nell’ascoltatore non esperto. L’orecchio musicale si è fatto più intelligente e malleabile in tutti.
Dunque, tutto ciò che attiene alla materia sonora è già previsto e presentito dal compositore per
come il nostro orecchio lo percepirà in tempo reale sia sul piano cognitivo nonché sul piano fisicoacustico. Questo nuovo aspetto è però inscindibile con la proiezione video: spazio virtuale e totale di
entrambi vanno a debordare nello stesso spazio fisico-teatrale penetrando interiormente e fisicamente
nelle «viscere» dell’ascoltatore.
La partitura musicale è scritta con una notazione appropriata, dove vi si scorge graficamente, anche da chi non è esperto, un procedere per segni ad andamenti sinusoidali. C’è in essa una mobilità
visivo-figurativa in cui si apprezza che si tratta di una scrittura a misura di uno spazio virtuale entro al
quale si muove in maniera circolare il suono. Non vi è più una scrittura per movimenti mono-frontali, altrimenti si ricadrebbe nel rapporto armonia-accordi-melodia di ottocentesca memoria. La forma
musicale prende spunto dalla forma filmica di Tarkovskij. Infatti nella partitura è menzionato il numero delle sequenze musicali corrispondenti ad una successione di episodi musicali procedenti per
«varianti». Qui oltre alla grande lezione di Tarkovskij non può mancare nel compositore la maestria
unica della tecnica compositiva presente nella scuola di Vienna. Ogni parte consta di dieci sequenze e
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dunque di dieci varianti, l’intera opera consta di tre parti con una somma di trenta varianti, la durata
di ognuna delle quali va dai tre ai cinque minuti. Infine analizziamo nei dettagli la partitura registica
che è scritta (e qui sta la novità) non dal regista, bensì dal compositore: Schoenberg docet. Si veda
ancora l’allegato di cui sopra delle sequenze riportate nel libretto. Vi si apprezza in maniera dettagliata la scansione del tempo (in secondi), la scansione della forma (si veda la successione delle lettere
alfabetiche corrispondenti alla lettere della partitura musicale) ed i particolari sonori nel rettangolo a
lato. Tali dettagli sono anticipati al regista, in modo che egli/ella si muova entro questa terza partitura
con una sua libertà creativa, figurativa ed immaginifica, ma obbligata a schemi strutturali e formali
precisi. Tutto questo origina una concatenazione circolare di tre composizioni interdipendenti. Il
movimento a tre diventa armonico ed è la base del nuovo concetto spaziale di armonia, che soppianta
per sempre il concetto ormai sorpassato di accordi modulanti. In questo nuovo pensiero musicale è
presente la grande lezione storica di Edgar Varèse.
Le tre partiture comunicanti tra loro in forma simbiotica si portano al pubblico in un linguaggio
empatico, coinvolgendolo nella sua totale interiorità. Uno sforzo immane del compositore, perché,
se una delle tre partiture non si amalgama con le altre, cade tutta la costruzione ed il concetto di
«opera-video». Ne consegue anche che la creatività musicale da sola non basta più. Il compositore
oggi deve essere affiancato da uno staff di musicisti esperti del contemporaneo, esperti del suono ed
esperti dell’immagine filmica. Il concetto romantico di compositore tuttologo ne è soppiantato in
quanto una partitura d’opera è scritta dal compositore per la parte musicale, ma per la parte registica
e sonologica è indispensabile l’appoggio di squadre di esperti del ramo.
Conclusioni
Ho elencato gli aspetti tecnici della forma e del genere «opera-video», ma la dizione «opera-video»
ha suscitato controversie e discussioni fin dalla sua nascita con Medea. Vi sono autori contemporanei che avevano scritto «video-opera» sottintendendo un’opera con semplici proiezioni ma senza il
concetto delle tre partiture comunicanti. Quanto Medea abbia realizzato il concetto di «opera-video»
non sta solo a me giudicare. Non sempre si ottiene una sintonia totale con il pubblico. Lo sconcerto
è avvenuto anche a livello editoriale, non avendo intuito l’intenzione di questo progetto. In verità
il pubblico veneziano ha avuto una reazione molto positiva e calorosa nelle sue cinque repliche. La
presenza fra il pubblico di tanti giovani mi ha fatto riflettere su come il linguaggio mediatico sia stato
percepito e compreso anche nella sua espressione «colta». È chiaro che questa forma musicale è ancora in divenire. Citavo all’inizio Wagner: questo per indicare un grande autore dentro la cui musica
albergano gli albori dell’opera contemporanea. Una gestazione storica dunque lunghissima ed il cui
cammino sarà legato ad ulteriori evoluzioni «tecnologiche». La strada però pare aperta, anche se aspra
ed in continua salita. Aver ritrovato però una simbiosi con il pubblico giovane, che con questo genere
si è riavvicinato all’opera, è già di per sé un aspetto incoraggiante. Esso è depositario di questa nuova
percezione ed evoluzione psicologica e mediatica, a lui più familiare. Le trasgressive sollecitazioni dei
concerti rock e dei video-clip musicali hanno certamente contribuito a destrutturare un orecchio che
quindi non è più sintonizzato solo sulla musica classica. Con ciò non si critica la classica in quanto
tale, ma filologicamente anch’essa con l’avvento delle nuove tecnologie sonore e filmiche non può
esimersi dal proporsi al pubblico con mediazioni percettivamente adeguate al «sentire» odierno.
Il linguaggio musicale di oggi non consta più solo della parola nuda e cruda o solo del bel canto,
ma anche di mediazioni extra-musicali e mass-mediologiche più pertinenti all’orecchio contemporaneo. Questa è la complessità e la sfida del nuovo con i rischi ad esso connessi.
F i l m c r o n a c h e
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