L`attesa messianica

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L`attesa messianica
L’attesa messianica
Prof. Ottavio Di Grazia
Shabbat, anno sabbatico, giubileo sono momenti centrali del tempo
ebraico e allo stesso tempo, prefigurano il tempo messianico.
Shabbat, anno sabbatico giubileo sono prospettive storiche nelle quali la
dimensione dell’esistenza si apre alla responsabilità verso l’Altro, gli altri, la
natura. Esiste un tempo, tempo a venire, ma sempre tempo umano, la cui meta
è la riparazione di questo mondo, il tiqqun, come dicono i cabalisti. Un mondo in
cui possa diventare visibile la giustizia e la pace. Questo ci ricorda il capitolo 25
del libro del Levitico. In questo tempo, nei tempi umani, della lacerazione e del
dolore si erge l’architettura di un altro tempo, della quale la memoria è struttura
portante.
Shabbat, anno sabbatico, giubileo, rappresentano le strutture portanti di
quest’altra architettura del tempo. Ineffabili istanti, echi di un’eternità, vissuti
attraverso la cessazione (questo il significato in ebraico della parola shabbat)
dei ritmi consueti dei nostri concreti tempi. Innamorarsi dell’eternità, non è una
vuota utopia, ma significa fare spazio, nel tempo, a una disponibilità verso
l’incessante creazione. Nel Talmud il tempo messianico è chiamato “Sabato
eterno”.
“Un antico adagio ebraico afferma che il messia non è venuto, non sta
venendo e non verrà; però bisogna andargli incontro. Un secondo adagio
asserisce che il messia dovrebbe arrivare subito dopo essere arrivato. Un terzo
adagio, sostiene che il messia arriverà quando colui che deve precederlo per
garantirgli buon accoglimento in seno al genere umano, avrà avuto a sua volta
modo di arrivare, rivelarsi e ciò nonostante sopravvivere in pace. Un quarto
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adagio avverte che l'avvento del messia non coinciderà con una apocalittica fine
dei giorni né con una miracolosa angelicazione di tutti gli esseri viventi. Esso
produrrà infatti un unico mutamento: gli stolti si renderanno conto di essere stolti
e ne proveranno vergogna”. Questi quattro adagi non possono non sorprendere
quanti non abbiano dimestichezza con il modo ebraico di leggere le scritture che
consiste nel cogliere il filo con cui, partendo dalla prima parola o, meglio, dalla
prima lettera della prima parola della Genesi, cuce l'uno all'altro gli elementi di
un leggere, interpretare, ragionare e vivere, costantemente tesi verso la
realizzazione dell'era messianica. Siamo di fronte a una lettura infinita,
un’incessante ermeneutica che fa esplodere testi e contesti dando vita sempre a
nuovi significati e a una galassia di segni in irreversibile espansione. In ogni
caso resta la caratteristica fondamentale secondo cui per gli uomini e le donne
del Libro il primo contrassegno dell’era messianica è quello di una compiuta
esistenza terrena. Concludendo questa breve ricognizione su alcuni adagi
messianici, occorre chiare che essi scaturiscono da letture midrashiche dei
passi biblici. Tali letture offrono di volta in volta squarci interpretativi che non ne
escludono mai altri, anzi. Se il testo biblico è per gli ebrei ez khaiìm, albero della
vita, la lettura midrashica ne dispiega al massimo le fronde facendole
colloquiare e perfino disputare fra loro in modo da tenerle sempre in stretto
contatto con la radice stessa dell’albero.
L'attesa messianica assume per l’ebraismo, sempre, una dimensione
collettiva, dunque storica, impossibile da vedersi separata dal mondo visibile. I
segni della redenzione sono affidati alla comparsa di eventi e mutamenti
concreti sulla scena della storia. Il ciclo del tempo è rotto dall’attesa messianica
non perché sia differita nel futuro, ma perché proviene dal passato. È memoria
che si fa racconto di eventi che hanno avuto senso nella concretezza della vita e
che attraverso la memoria, zikkaron in ebraico, vengono affidati ad altri perché
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possano essere ri-narrati. Secondo la nozione di zikkaron, la realtà, di cui il
racconto dà notizia, acquista una nuova vita al momento della sua rimessa nel
circolo della narrazione.
Se Israele è il popolo della speranza esso è, nello stesso tempo, il popolo
della memoria. Il nesso tra queste due dimensioni viene colto dalla frase del
Ba'al Shem Tov (il fondatore del moderno chasidismo), secondo cui “la memoria
è la porta della geullah (redenzione)”. La speranza nasce dalla memoria.
Unicamente ricordando non si spezza il filo dello sperare.
Speranza in ebraico si dice tiqwah, termine derivato da qaw, corda (cfr.
Gb. 7,6). L'uscita dall'Egitto fu strappo violento e, per molteplici aspetti,
distruttivo, ma l'averne conservato il ricordo è stato, generazione dopo
generazione, il nido entro cui si è mantenuta viva l’attesa. La trasmissione del
ricordo rappresenta così la perdurante possibilità di sperare.
Ma cosa resterà di questo legame fatto di memoria e di speranza quando
sulla terra si estenderà il perfetto shalom dell'età messianica? Un passo
talmudico affronta proprio questo tema: “e non è stato forse detto: ‘Ecco giorni
verranno - dice il Signore - in cui non si dirà più come è vero che vive il Signore
che ha fatto uscire i figli d'Israele dalla terra d'Egitto', ma si dirà: Come è vero
che ho fatto uscire e ho fatto tornare la discendenza della casa d'Israele dalla
terra del Settentrione e da tutti i paesi dove li ho sospinti' " (Gerermia 23,7-8)”.
Insomma, ciò che determina la redenzione non è tanto l’azione del Messia...ma
l'azione mia e tua. Qui entra in gioco il ruolo dell’umanità, il ruolo degli uomini e
delle donne. La responsabilità dell’umanità. Qui entra in gioco il problema,
appunto dell’osservanza dei precetti, delle mitzwot, contenuti nella Torah che
Dio ha consegnato a Mosè sul Sinai. Nell’osservanza delle mitzwot, c’è un
tentativo di anticipare i tempi messianici.
La speranza, forse, ha a che fare con la salvezza o con la redenzione. In
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questo forse è racchiuso il mistero di una attesa che può anche andare delusa,
strappata com’è alle macerie della storia. Nel Talmud, proprio nel primo trattato
Berakhot (Benedizioni), 4a, c’è una frase che dice: “insegna alla tua lingua a
dire ‘non so’”.
L'attesa subisce però continue delusioni e il qui e ora è sempre spostato
oltre: “Egli [il messia] ... parlò falsamente... affermando che sarebbe venuto
oggi, ma non è venuto. Elia rispose: “Questo è quel che disse: Oggi, se
ascolterete la sua voce' (Sal. 95,8)” (b. Sanhedrin 98a). L'attesa, diviene anzi
un impegno ancor più irrinunciabile. Irrinunciabile e ...forse? Forse anche questo
attendere stancherà. ’acharit hayamim: il termine biblico che designa la fine dei
tempi non è il punto finale della storia ma il domani di questa fine. Anche la fine
si spezza, si dissolve. Ma non la speranza. “Maledette le ossa di coloro che
calcolano la fine. Infatti essi dicono: Poiché il tempo prestabilito è giunto e
tuttavia la fine non è giunta, essa non giungerà mai". Ma [anche così] attendila,
come è scritto, per quanto tardi attendila' (Ab. 2,3)” (b. Sanhedrin 97b).
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