IL VIAGGIO IMMOTO - Tangram Edizioni Scientifiche

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IL VIAGGIO IMMOTO - Tangram Edizioni Scientifiche
Stefania Tusini
IL VIAGGIO IMMOTO
Studio sul tempo e i migranti
Collana “Orizzonti”
38
Stefania Tusini, Il viaggio immoto
Copyright © 2015 Tangram Edizioni Scientifiche
Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizioni-tangram.it – [email protected]
Collana “Orizzonti” – NIC 38
Prima edizione: dicembre 2015, Printed in EU
ISBN 978-88-6458-129-3
In copertina: Baobab Trees in Madagascar, pcalapre, Fotolia.com
Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro.
Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina.
Prefazione
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Introduzione
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1. Il tempo
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1.1Quando nasce il tempo? La disputa De aeternitate mundi
1.2Scienza e senso comune: come definire il tempo?
2. Diversità temporali
2.1Il tempo Altrove
2.2Il nostro tempo
2.2.1 Tempo standard
2.2.2 Tempo sociale e collocazioni temporali
3. La collocazione temporale dei migranti
3.1Allocronia e negazione della coevità: il contributo di Fabian
3.1.1 Allocronia: specificazione e valenza euristica del concetto
3.2Migrazioni, allocronia e ricerca sociale
3.3I migranti e il cronotopo «imperfetto» di Schütz
3.4L’apartheid temporale dei migranti in Italia
4. Politiche allocroniche: mete desiderabili e mezzi
(in)disponibili
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4.1Merton e le banlieues francesi
4.2Il tunnel di Hirschman e il caso italiano
4.3Aspirazioni e protesta
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Bibliografia
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Alle mie figlie Anna Tigist e Marta Fikirte
crononaute
venute da lontano
IL VIAGGIO IMMOTO
Studio sul tempo e i migranti
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PREFAZIONE
Quante volte capita di sentire che gli immigrati in Italia vivono come
se fossimo ancora negli anni ’50? Si tratta di un’affermazione che, a ben
vedere e senza alcun intento spregiativo, non risulta essere infondata.
Sono molti, infatti – come illustra Stefania Tusini in questo volume – gli
indicatori che dimostrano l’esistenza di una distanza spazio-temporale
tra gli autoctoni e gli stranieri presenti in Italia, come per esempio: la
composizione familiare, il tipo di abitazione, il lavoro svolto e il modo di
trascorrere il tempo libero, i consumi e le abitudini. Per quanto riguarda
il primo elemento, la frattura tra i due gruppi è profonda: in una famiglia
composta da genitori stranieri connazionali la media dei figli presenti è
di 2,37 mentre in una coppia italiana è di 1,29. Dato demografico che
conferma inequivocabilmente come gli immigrati contribuiscano in misura assai significativa all’incremento della natalità nel nostro paese. Ciò
in un quadro che vede l’Italia come il paese più vecchio d’Europa, secondo nel mondo solo al Giappone, e in assenza degli stranieri, tra i due
censimenti (2001 e 2011), si avrebbe avuto un saldo negativo di quasi un
milione di unità.
Un paese, il nostro, in cui gli italiani hanno smesso di fare più figli e,
ancor prima, di progettare un futuro e di organizzare le proprie strategie di vita sul lungo periodo. Si aggiunga che, negli ultimi trent’anni, è
cresciuto il numero delle persone laureate e alla ricerca di un’occupazione che rispecchi il percorso formativo compiuto. E tutto ciò è avvenuto
con il supporto della famiglia di origine, altro aspetto che differenzia in
modo significativo i due gruppi prima considerati. Gli immigrati, infatti,
a causa della condizione di solitudine sociale in cui si trovano, non han-
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Prefazione
no questa possibilità e la loro necessità di lavorare li induce ad accettare
qualsiasi tipo di impiego e a qualsiasi condizione. Ecco perché, in quello
spazio di mercato lasciato libero dagli italiani si sono via via inseriti i
lavoratori stranieri, disposti a svolgere mansioni non qualificate, nonostante siano in possesso, in molti casi, di titoli di studio e siano specializzati in una professione. A differenza dei lavoratori italiani, in assenza di
una rete familiare di supporto, non possono rimanere senza una qualche
forma stabile di reddito.
Molti di loro provengono, poi, da zone del terzo mondo da cui sono
emigrati proprio alla ricerca di un’occupazione redditizia che permetta
di inviare soldi a casa. In questo senso, le loro storie, sono assai simili a
quelle degli italiani che fino a non molto tempo fa lasciavano il nostro
paese per recarsi a lavorare in Belgio, in Germania, nelle Americhe. Si
calcola che in un secolo e mezzo siano stati oltre 35 milioni, e tra essi – ed
è solo un esempio – i 136 che in Belgio persero la vita a causa dell’incendio nella miniera di Marcinelle. Le motivazioni che li spingevano a
partire sono le stesse che spingono gli immigrati del nostro tempo, e l’Italia nulla fa per agevolare l’ingresso a lavoratori che potrebbero giovare
alla nostra economia e, allo stesso tempo, trovare un’opportunità di vita
e di futuro. E ancor meno fa per i lavoratori specializzati per i quali il
mercato del lavoro italiano non presenta quasi alcuna capacità di attrazione e quasi alcun meccanismo di agevolazione per l’inserimento. Non
solo. Questo è stato il fattore principale che ha portato alcune decine di
migliaia di stranieri ad andare all’estero per poter investire altrove le loro
competenze e per non ritrovarsi a svolgere lavori non qualificati, seppure molto richiesti in Italia. Qui, infatti, il 29% degli stranieri è ancora
impiegato in un lavoro manuale generico, rispetto al 7% degli italiani.
Neppure uno su dieci, tra gli stranieri laureati, svolge un’attività qualificata. Più di 4 stranieri su 10 sono impiegati in mansioni che richiedono
competenze inferiori rispetto al titolo di studio conseguito, percentuale
che tra le donne sfiora il 50 per cento. E solo il 5% occupa una posizione
apicale, in confronto al 36% degli italiani.
Se si prende il caso delle badanti, le cifre che descrivono la distanza
tra gli italiani e gli stranieri impressionano ancora di più. In Italia si sti-
Prefazione13
ma che siano circa 800mila le persone malate di Alzheimer e intorno
ai 2milioni quelle non autosufficienti. Chi bada loro oggi? Chi baderà
loro domani? Tra gli anni ’90 e il decennio successivo, la percentuale
di stranieri impiegati nell’attività di assistenza domiciliare ad anziani,
è cresciuta in maniera assai significativa; e si può arrivare a stimare che
complessivamente, le persone che svolgono tali mansioni siano oltre un
milione e mezzo.
Questa cifra solleva un dilemma di vitale importanza. Perché mai, nel
corso degli ultimi due decenni, in presenza di una domanda di lavoro
quale quella rappresentata dalla crescente e inderogabile esigenza di assistenza domiciliare agli anziani e ai non autosufficienti, non si è registrata
una corrispondente offerta da parte di italiani? Non stiamo parlando,
oltretutto, di un «lavoro sporco», bensì di un’attività dignitosa che, in
una percentuale non irrilevante, risulta decentemente retribuita, regolarizzata in misura crescente e che offre alcuni beni non disprezzabili
(vitto e alloggio). Certo, l’assistenza a bambini e ad anziani, quando è
legata a una presenza domiciliare talvolta a orario continuato, finisce col
sottrarre libertà di movimento e autonomia di vita. Questo, senza dubbio, fa apparire un simile lavoro poco appetibile per il cittadino italiano
integrato in un sistema di relazioni familiari e sociali: e lo rende, al contrario, attraente per una persona straniera che sia, e che sia disposta a
rimanere, in una condizione intermedia tra la propria comunità e quella
di arrivo. Una situazione di limbo, dunque, che rende gli immigrati molto poco «coevi»: come scrive Stefania Tusini in questo volume, è come
se fossero qui ma non adesso. Presenti, ma rappresentativi di un tempo
precedente, che pure non sembra destinato necessariamente a esaurirsi.
Ma quali sono le conseguenze di questa sfasatura socio-temporale?
Ne risultano certamente accentuate le difficoltà di integrazione già
rese critiche da un sistema normativo che esclude dal pieno godimento
di diritti gli stranieri ancorché regolari. Il rischio, certo non immediato,
è quello già corso dalla Francia a causa di una strategia di integrazione interamente fondata su un modello di cittadinanza repubblicana, fatta in
particolare di una regolamentazione giuridica circostanziata e «inclusiva» che ha finito con il trascurare i processi sociali, culturali e formativi
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Prefazione
che rendono possibile una vera e propria convivenza. Quella strategia ha
rivelato, alla resa dei conti, una forte tentazione assimilazionista che ha
ostacolato, per esempio, il riconoscimento istituzionale delle differenze
religiose e, dunque, il pieno accoglimento delle diverse confessioni, pur
già presenti e attive nella vita sociale.
Basti un esempio: nel 1989 il preside di una scuola francese ha espulso
tre ragazze musulmane perché indossavano il velo. Il fatto diede vita un
dibattito nel corso del quale si formarono due schieramenti opposti: da
un lato c’era chi condivideva la posizione del preside inneggiando alla
tradizione laica della Repubblica; e dell’altro chi la contrastava considerandola una scelta frutto dell’intolleranza. La prima non prevedeva un
riconoscimento pubblico delle appartenenze culturali e religiose perché
il legame condiviso è quello costituito dall’essere cittadini, accomunati da valori universali che superano le differenze create dalle religioni.
Col ché il legame dell’identità repubblicana, che dà vita a quella fondamentale risorsa che è il sistema della cittadinanza, rischia di annullare,
o comunque non valorizzare, le diversità, se non addirittura di ridurre il
ventaglio della pluralità di opzioni e orientamenti. È forse questo uno dei
motivi per cui, in Francia, il processo di integrazione degli immigrati che
per tutta una fase ha sortito risultati positivi, successivamente ha subito
un rallentamento e ha mostrato larghe crepe, in particolare all’interno
delle giovani generazioni. Forse perché queste ultime ritenevano quel
modello già acquisito e lo intendevano come un punto di partenza e non
piuttosto, come si è ruvidamente rivelato, un limite invalicabile.
L’attentato alla redazione di Charlie Hebdo ne è una estrema e deformata degenerazione. Resta il fatto che i terroristi incarnavano perfettamente il modello del «foreign fighter»: nati in Francia avevano completato la loro formazione in un altro paese, la Siria. E una volta tornati in
Europa si erano mostrati fedeli ai propri «educatori», portando lo jihad
laddove erano nati e cresciuti. In questo movimento tra luogo di nascita
(propria o della propria famiglia originaria) e luogo di residenza, che diventa un andare-e-venire, una sorta di elastico che si tende e si raccoglie,
il tempo assume una dimensione straniante. Il presente è la guerra in
Siria, un conflitto primitivo e tribale per molti versi, oppure la metropoli
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occidentale? Dove è maggiormente a proprio agio il giovane musulmano,
nel passato oscurantista o nel presente consumista?
Un altro esempio di come lo stacco spazio-temporale possa assumere
una dimensione iperbolica e, per certi versi, patologica, è rappresentato
dai Centri di identificazione e di espulsione in cui vengono trattenuti i
migranti privi di documenti regolari.
La loro collocazione, quasi sempre distanti e isolati dalle città a cui fanno riferimento, li rende dei luoghi al di fuori di ogni controllo. E le persone che lì sono ristrette subiscono, spesso, trattamenti degradanti. I problemi denunciati riguardano l’assistenza sanitaria precaria, l’inefficienza
della tutela legale e le generali condizioni di vita. E su tutto domina un
clima di totale insensatezza. Si pensi che la stragrande maggioranza degli
«ospiti» si trova nel Cie senza saperne la ragione e, soprattutto, senza
conoscere il tempo di permanenza. Per la verità, è proprio del tempo,
che qui tutto si ignora. Esso è desolatamente vuoto. Per i trattenuti gli
orari sono esclusivamente quelli del ritmo biologico primario: il cibo, il
sonno e i bisogni fisiologici. Per tutto il resto, non c’è alcuna attività da
compiere: nessun progetto, nessun impegno da assumere e rispettare. Il
vuoto, appunto, delimitato e definito dalle sbarre delle gabbie. Che non
appartengono – come ci piacerebbe credere – a un tempo irrimediabilmente passato. Non sono, cioè, il Medioevo: sono piuttosto una forma
della contemporaneità, destinata in genere a chi non è cittadino (nemico
esterno o immigrato irregolare). Dunque, l’alterazione del tempo può
avere anche questa manifestazione: proporci come nuova, e proiettare
nel futuro, la barbarie più antica.
Luigi Manconi
Docente di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università
Iulm di Milano, Presidente della Commissione straordinaria
per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato
Valentina Brinis
Sociologa, ricercatrice Associazione “A Buon Diritto”
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INTRODUZIONE
I migranti viaggiano, cambiano città, attraversano Paesi e continenti e
non di rado il viaggio li porta lontano non solo nello spazio, ma anche
nel tempo. Viaggiando cercano condizioni di vita migliori, più sicurezza
e più futuro. Quando arrivano (se arrivano) a destinazione non sempre
trovano ciò cui anelavano, ma ormai il viaggio è compiuto e tornare indietro in molti casi è difficile, a volte impossibile.
La sensazione di spaesamento dovuta al vivere immersi in una cultura
altra rispetto alla propria è ben documentata da numerosi contributi,
molti dei quali pregevoli (tra i più noti Fanon, 1952; Sayad, 1999). Rinunciando a riassumere stenograficamente quelle tesi nel poco spazio
qui a disposizione, preferisco prendere a prestito un breve racconto di
Julio Cortázar in grado di tratteggiarle in poche righe illuminanti:
«Un cronopio vuole aprire la porta, e nel mettere la mano nella tasca
per prendere la chiave si trova invece in mano la scatola di fiammiferi, allora il cronopio resta male e comincia a pensare che se invece della chiave
ha trovato i fiammiferi può essere accaduto l’orribile fatto che il mondo
si sia spostato di colpo, e magari, dato che i fiammiferi sono dove dovrebbe esserci la chiave, può capitargli di trovare il portafoglio pieno di
fiammiferi, la zuccheriera piena di soldi e il pianoforte pieno di zucchero,
e l’elenco telefonico pieno di musica, e l’armadio pieno di abbonati, e il
letto pieno di vestiti e i vasi pieni di lenzuola, e i tram pieni di rose e i
campi pieni di tram. Sicché questo cronopio è terribilmente angosciato
e corre a guardarsi allo specchio, ma siccome lo specchio è messo un po’
per storto ciò che vede è il portaombrelli dell’entrata e i suoi dubbi si
rafforzano e scoppia in singhiozzi. I famas suoi vicini accorrono per con-
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Introduzione
solarlo, anche le speranze, ma passano ore prima che il cronopio si liberi
da tanta angoscia e accetti una tazza di tè, che guarda e osserva ben bene
prima di bere, non capiti che invece di una tazza di tè sia un formicaio o
un libro di Samuel Smiles» (Storie di cronopios e di famas).
È quello che Bourdieu e Sayad (1964), studiando lo sradicamento dei
contadini algerini dalla campagna alla città, chiamano «effetto d’istéresi» (o «effetto Don Chisciotte») che provoca un décalage, uno sfasamento tra presente e passato che rende inadatti i vecchi schemi cognitivi,
pratici ed espressivi provocando disorientamento e inadeguatezza.
La sensazione che «il mondo si sia spostato di colpo» risulta tanto più
marcata quanto più i Paesi di origine sono lontani da quelli di destinazione. Per i migranti diretti verso Paesi occidentali e provenienti da quelli che, con un indecente neologismo, vengono definiti «Paesi non esportatori di turismo», si tratta di una distanza spesso assai significativa.
Tale distanza però non è da misurarsi in chilometri: in questo caso
infatti non interessa soffermarsi sul mero divario spaziale, quanto soprattutto su quello culturale e temporale. Provando a ragionare in questi
termini può accadere che Paesi a noi spazialmente vicini risultino temporalmente molto lontani. Ad esempio, fino all’abbattimento del muro
di Berlino i Paesi oltre la «cortina di ferro», pur essendo in molti casi
confinanti con i Paesi dell’Ovest, si trovavano temporalmente e culturalmente distanti da questi ultimi. Nello stesso periodo gli Stati Uniti, assai
più lontani spazialmente, risultavano invece culturalmente e temporalmente molto più prossimi all’Europa occidentale.
Oggi, allo stesso modo, i migranti provenienti da Paesi dell’Africa
subsahariana possono, con poche eccezioni, essere considerati temporalmente più distanti da noi rispetto, ad esempio, a quelli sudamericani,
benché questi ultimi percorrano tragitti spazialmente maggiori per raggiungerci. Pertanto, in base a tali considerazioni, dovendo rappresentare
la posizione di questi Paesi in una mappa geotemporale, in questo momento storico l’Africa risulterebbe più lontana dall’Europa rispetto al
Sud America.
Adottando questo punto di vista, quindi, non interessa misurare tali
distanze in chilometri in quanto trattasi, appunto, anche di distanze
Introduzione19
temporali. Queste ultime a loro volta non sono rilevabili mediante il tempo standard o tempo storico, cioè il tempo segnato dall’orologio e dal calendario. Questa, come è noto, è solo una delle specie di tempo: utilissima
per arrivare in orario a scuola o dal dentista, per festeggiare i compleanni,
per datare una battaglia, ma molto meno per l’analisi sociologica.
Un’altra specie di tempo più utile al nostro ragionamento è quella cui
ci si riferisce in queste pagine: il tempo sociale. Il concetto qui impiegato
non ha a che vedere con un’analisi introspettiva delle sensazioni temporali individuali, quanto piuttosto con una disamina di alcune «evidenze» al fine di far emergere la coesistenza di mondi sociali temporalmente
differenti.
Com’è noto, ciascun sistema sociale costruisce propri quadri temporali che rappresentano cornici generali entro le quali muoversi. All’interno
di questi confini si intrecciano elementi di varia natura (non ultime, le
condizioni materiali) che vanno a comporre trame diseguali e contribuiscono alla definizione di gruppi sociali eterogenei che, pur vivendo
spazialmente in prossimità, abitano mondi (sociali) temporalmente dissimili per condizioni, vincoli e opportunità. Adoperato in quest’ambito,
il concetto di tempo sociale permette di portare alla luce differenze che
delineano fattispecie fisicamente simultanee ma temporalmente distanti. Ciò consente confronti temporali tra popolazioni viventi in spazi non
contigui, ma anche tra soggetti simpatrici, cioè viventi in prossimità.
Nel primo caso, ad esempio, è possibile esaminare la relazione temporale tra italiani ed etiopi viventi nel medesimo tempo storico. I due gruppi hanno esperienze (passato) e aspettative (futuro) decisamente differenti, e soprattutto risultano molto diverse le loro condizioni materiali,
le attività, le credenze, i rapporti sociali, le priorità, gli atteggiamenti,
le possibilità, i consumi, la speranza di vita, lo stato di salute, e tutto il
resto. La mancanza di coevità che caratterizza la loro relazione fa sì che
le due popolazioni siano distanti non solo spazialmente (allopatria), ma
soprattutto temporalmente (allocronia). In altri termini, pur vivendo nel
medesimo tempo storico, esse non abitano lo stesso tempo sociale.
È proprio a causa di tale duplice distanziamento che il viaggio dei migranti è da intendersi come una delocalizzazione non solo spaziale, ma
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Introduzione
anche temporale e culturale. Ma la migrazione vera e propria rappresenta
soltanto il primo viaggio nel tempo compiuto dai migranti: è un viaggio
in movimento, che trasferisce fisicamente individui da un territorio a un
altro, di cui questo volume non si occupa.
C’è un altro viaggio temporale che i migranti compiono, ma in questo
caso si tratta di un viaggio immoto, che avviene senza spostamento, permanendo nel Paese di destinazione, e che affiora tra le righe del confronto fra le
collocazioni temporali di nativi e migranti viventi nel medesimo territorio.
Qui ci si addentra nell’idea di fondo del volume che porta a concludere come nativi e migranti residenti nel nostro Paese, pur essendo fisicamente coesistenti, vivano in tempi sociali differenti. Nell’intento di
avvalorare questa tesi sono state amalgamate argomentazioni teoriche e
dati empirici. In questo senso particolarmente proficue si sono rivelate
l’analisi e la revisione del concetto di allocronia di Fabian, e la disamina
critica dei concetti schütziani di mondo sociale e di relazione sociale.
Alla luce di questa riflessione la nota tipologia di Schütz (successori,
predecessori, consociati, contemporanei), costruita all’incrocio delle dimensioni di tempo e di spazio, appare incompleta lasciando un vuoto
in corrispondenza di individui che pur condividendo il medesimo spazio, non condividono lo stesso tempo. Quel vuoto va riempiendosi progressivamente nello scorrere delle argomentazioni lungo il volume e, in
conclusione, risulta abitato da una nuova categoria sociale: i crononauti.
Viaggiatori provenienti da altre culture, da altri mondi, che hanno attraversato lo spazio e il tempo e ora abitano nell’appartamento accanto
e, loro malgrado, continuano a viaggiare nel tempo restando immobili.
Il concetto di allocronia, fulcro del ragionamento e centro dell’invettiva di Fabian contro l’atteggiamento di ricerca dell’etnografia classica,
viene qui liberato dalla patina ideologica ed evoluzionistica di cui si
trova caricato. Risarcito del valore euristico necessario a far emergere la
non-coevalness insita in alcune relazioni sociali, il concetto è in grado di
supportare adeguatamente analisi tese a mettere in luce differenze temporali di fondo, altrimenti destinate all’oblio in nome dell’adozione di
una (forse politicamente corretta ma scientificamente perdente) coevità
universale auspicata da Fabian stesso.