La psichiatrizzazione del consumo di droghe

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La psichiatrizzazione del consumo di droghe
Provincia di Mantova
Assessorato Politiche Sociali
e Sanitarie
La psichiatrizzazione
del consumo di droghe
SEMINARIO DI STUDIO
MANTOVA Palazzo della Ragione
6 dicembre 2007
In ricordo di Stefano
“Che ci faccio qui?”
Scene da un reparto psichiatrico
STEFANO BENTIVOGLI
Torno a scrivere dopo questo periodo in cui ho conosciuto, per scelta stranamente, l’esperienza del
ricovero in un reparto di psichiatria. Si è trattato di dodici giorni a diretto contatto con il mio
appartenere alla categoria dei folli ed anche di diretto contatto con i casi quali i T.s.o., di cui mi ero
interessato ma che in realtà non avevo visto così da vicino.
In quel periodo mi sono tornati in mente i racconti di Paolo, quelli legati al suo arresto ed al ricovero in
stato di custodia cautelare, ed è stato “piacevole” trovarmi quasi con lui al fianco nell’affrontare questo
periodo. Un T.s.o. ce l’avevo proprio in stanza, è arrivato di sera portato dalla polizia e gli infermieri
dell’ambulanza, sembrava tranquillo, fino a quando gli hanno offerto la terapia.
Sosteneva che gli infermieri volevano ucciderlo, che gli mettevano la droga dappertutto, anche un tizio,
che non ho capito se era un amico od un parente, raccontava che da quando aveva accettato la terapia si
era ammalato ed era morto. Improvvisamente sono usciti da una stanza sette infermieri coi guanti di
lattice, un fare spedito simile a quello di chi si deve dare coraggio per affrontare senza esitazioni una
situazione difficile: gli sono saltati addosso e lo hanno siringato.
Hanno atteso che l’iniezione facesse effetto come nelle mischie del rugby, poi lo hanno trascinato in
una stanza liscia, materasso per terra e nient’altro. Ovviamente è stato poi messo in camera con me ed
un altro che soffriva di “anssia e angossia”, come diceva lui, tanto che vomitava sempre e piangeva a
ripetizione così, senza preavviso, senza motivo apparente.
Checco (mister T.s.o.), era talmente imbottito che quando di notte tentava di alzarsi per andare a
pisciare, finito il periodo di isolamento, rimaneva davanti al letto piegato sulle ginocchia, dondolava
per alcuni secondi cercando di muovere qualche passo, ed inesorabilmente si pisciava addosso. Finché
decidono di abbassargli un po’ il dosaggio di psicofarmaci mettendolo in condizione di sembrare quasi
vivente ed, ogni tanto, di interagire coi suoi simili. L’orario della terapia era diventato una scenetta
tragicomica: “Checco la prendi la terapia?” “Dai che lo sai come va a finire!” “Dai che sennò ci tocca
farti la puntura!”. Le prime volte faceva resistenza, coi giorni che passavano aveva imparato che dopo
il rifiuto del bicchiere con le gocce gli conveniva girarsi di culo ed aspettare piagnucolando che lo
trafiggessero.
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Checco proprio era un caso di trattamento coatto, era gentile ed educato con gli infermieri, ma loro lo
volevano uccidere e gli mettevano la droga nella colazione quindi doveva andarsene in qualsiasi modo.
Una sera lo vedo trafficare nel nostro armadio comune, durante la notte si alzava continuamente per
sistemare i bagagli finché, alle prime luci dell’alba lo vedo partire con due valige, la sua e la mia. Gli
vado dietro pretendendo indietro i miei quattro stracci, gli unici che avevo d'altronde, e lui veramente
dispiaciuto si scusava e cercava di capire cosa poteva portarsi dietro e cosa no, fino a scoprire che si era
messo la mia camicia ed il mio maglione, che la sorella gli aveva portato via tutti i vestiti tranne il
pigiama e che con quello uscire era proprio un gran casino… senza contare che gli infermieri lo
attendevano prima della porta blindata.
La sera dopo aveva organizzato meglio la fuga, aveva rimediato i vestiti elemosinando tra noi matti, io
gli avevo regalato anche il mio berretto di lana, alle tre di notte si alza vestito di tutto punto, valigetta
piena di niente o quasi, berretto in testa e ciabatte ai piedi: “Scusate per il disturbo fioi, mi no ghe a
fasso più, vago casa prima che i me copa, grassie de tuto e dea compagnia, vago prima che s’incorse
che no’ghe so pi”. È arrivato alla porta blindata, gli infermieri dormivano come al solito, tanto che è
rimasto lì fino al mattino, berretto, ciabatte e valigetta, sperando che qualcuno aprisse la porta e lui,
senza essere notato, potesse tornarsene a casa.
Insomma ho conosciuto un sacco di gente interessante ed il più antipatico era sicuramente lo psichiatra
che mi seguiva. Mi faceva continuamente capire che quello non era un posto per tossici, per me i
reparti erano altri, anche se per la depressione stavo letteralmente andando in malora.
Ora sto meglio, mangio e dormo quasi con regolarità, sto sperimentando nuovi farmaci e chissà di non
aver fatto qualche passo in avanti.
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I. Salute mentale e Opg
1. Franca Ongaro Basaglia, “Liberi tutti. Basaglia trent’anni dopo”, Fuoriluogo, gennaio 1998
2. Giuseppe Dell’Acqua, “Appunti per la soppressione del manicomio criminale”, Fuoriluogo,
aprile 1998
3. Giuseppe Cascini, “Le insostenibili misure di insicurezza”, Fuoriluogo, gennaio 2002
4. Grazia Zuffa, “Irresponsabili per eccellenza”, Fuoriluogo, luglio/agosto 2007
5. Maria Grazia Giannichedda, “Quella tutela pagata al prezzo dei diritti”, Fuoriluogo,
luglio/agosto 2007
6. Mauro Palma, “Tutti i pericoli della ‘clinica diffusa’”, Fuoriluogo, luglio/agosto 2007
7. Peppe dell’Acqua, Angela Pianca, Luciano Comida, “Dialogo di Marco Cavallo e il Drago
con gli internati del manicomio criminale di Montelupo”, Fuoriluogo, novembre 2004
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Liberi tutti. Basaglia, trent’anni dopo
FRANCA ONGARO BASAGLIA*
[...] Che cos'è la psichiatria?, il primo dei volumi che ora si ristampano, è uscito nel '67 e fotografa una
realtà in movimento: un manicomio tradizionale che sta aprendo porte, sbarre, cancelli; che ha
eliminato contenzioni e violenza; che sta ragionando sulla propria storia, sulla qualità della terapia che
offre, sul significato dell'istituzione chiusa e della psichiatria che l'avallava; sulla necessità della
propria esistenza. Insieme, internati infermieri medici psicologi e amministratori sono alla ricerca di
nuove identità, di ruoli e rapporti qualitativamente diversi, ma soprattutto di ciò che ora appare come
l'ovvia negazione dell'essenza stessa della realtà e della logica manicomiali: libertà, responsabilità,
disponibilità, dignità, fiducia, confronto, verifica, critica e autocritica che stanno alla base di una
possibile reciproca terapeuticità. [...]
Sono passati trent'anni da questo primo resoconto di un'esperienza – avviata a Gorizia nel '61 – non
ancora giunta alla realizzazione della prima tappa: due reparti su otto ancora chiusi, solo alcuni mesi
dopo la comunità sarebbe stata completamente aperta.
Questo il punto che mi pare renda di grande attualità la ristampa – ora che si chiudono i manicomi e si
conferma un diverso trattamento della sofferenza mentale – di un volume in cui i problemi della
chiusura, dell'apertura, del significato dell'istituzione, del lavoro, dei farmaci, della terapeuticità dei
rapporti, del rischio della libertà del malato come primo elemento di riduzione del potere del medico,
rimbalzano di discussione in discussione nelle assemblee di reparto, in quelle di comunità, nelle
riunioni dei medici e degli infermieri, nelle analisi degli operatori che già prevedono di dover via via
«distruggere l'equilibrio raggiunto per uscire da quello che può diventare un nuovo sistema chiuso».
[...]
Fu un periodo di grandi fermenti sociali che sfociarono in importanti riforme. Fra queste, la legge 180
del '78, che proponeva il superamento del manicomio e l'istituzione di servizi territoriali, fu approvata
dal Parlamento quasi all'unanimità, in un clima di consenso e di comprensione diffusa sul problema
delle «diversità».
Nel momento in cui si è trattato di cominciare ad attuarla in tutto il paese, sono però incominciate le
resistenze e le difficoltà. Di fatto, la legge 180 era una legge quadro, successivamente inglobata nella
legge di Riforma Sanitaria, cui doveva seguire la presentazione del piano sanitario nazionale, con il
dettaglio di strutture, personale, finanziamenti. Il piano non è mai stato presentato. [...] È stato un
gruppo dell'opposizione – la Sinistra Indipendente, di cui ho fatto parte per due legislature – a
presentare al Senato nel 1987 il primo disegno di legge di attuazione della 180, ripreso dal piano per la
tutela della salute mentale e approvato solo sette anni dopo (1994), senza, tuttavia, produrre l'avvio
obbligatorio dei nuovi servizi.
Di fatto possiamo dire che, per la prima volta, un governo, il governo attuale, si è assunto la
responsabilità della riforma, confermando la chiusura dei manicomi, sanzionando i ritardi e
riconoscendo una legittimazione ufficiale a quanto è stato fatto per superarli. Si tratta, dunque, di un
punto di partenza forte da cui lavorare per esigere finalmente la creazione di servizi di salute mentale
adeguati in tutto il Paese, pur sapendo che i manicomi esistono ancora, che sono spesso in condizioni
disperate e disumane dove non si è fatto nulla, in trent'anni, per modificare il progetto di vita dei
degenti.
Ciò che si era capito fin dall'inizio era, comunque, l'uso di questi istituti come contenitori di problemi
sanitari che spesso erano soprattutto problemi di disturbo o di svantaggio sociali. In manicomio
finivano solo i poveri, perché chi aveva e ha la possibilità di far fronte sia economicamente che
culturalmente ai propri problemi aveva e ha sempre altre strade che ne condizionano positivamente il
destino. Il servizio pubblico deve quindi farsi carico ora anche dei problemi sociali, fusi e confusi con
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la malattia, che prima della riforma si potevano facilmente accantonare in luoghi dove – sotto
l'apparenza della «cura» – venivano nascosti ed eliminati. [...]
Ripubblicare oggi i resoconti di come sono nate le prime esperienze che hanno portato a questi risultati
– controversi, combattuti ma dibattuti e vincenti – è utile a capire la cultura che ha animato questo
lavoro. È utile, soprattutto a studenti e giovani operatori, capire come la pratica, i fatti e non un cambio
di teoria interpretativa sul fenomeno della follia, abbiano resistito – nel naufragare di ipotesi e utopie
dell'ultimo decennio – conservando la validità di una messa in discussione radicale di concetti di base
come normalità/anormalità, salute e malattia che ha coinvolto a tutti i livelli la cultura, le istituzioni,
l'assetto sociale, la politica, agendo contemporaneamente sulla struttura materiale del manicomio, sul
pregiudizio sociale rispetto al malato mentale, sul pregiudizio scientifico rispetto alla malattia. [...]
La tutela di chi, secondo la vecchia legge, poteva risultare «pericoloso a sé e agli altri» è stata, di fatto,
tutela della comunità sana, garantita dalla totale prigionia di chi cadeva nella rete di «protezione».
L'alibi di una cura impossibile in un contesto di violenza e di repressione ha coperto la funzione
puramente carceraria e di contenimento della pratica manicomiale. Di fronte al fallimento di questo
tipo di cura, occorreva allora demolire fino alle fondamenta il manicomio ma, insieme a esso, il ruolo
tradizionale dello psichiatra come medico-carceriere che operava a esclusiva difesa della comunità; il
ruolo della psichiatria come scienza che, sotto l'apparenza della cura, avallava violenza, annientamento
e distruzione delle persone. Si è trattato, dunque, della necessità di demolire lo stesso concetto di
malattia che doveva essere guardata e avvicinata come uno stato di profonda sofferenza legata a un
complesso di fattori biologici, psicologici e sociali e non solo come segno di pericolosità da prevenire e
reprimere. Contemporaneamente si assumeva il carico della responsabilità nei confronti del malato e
della sua esistenza, creando servizi, luoghi di vita, di opportunità, di lavoro, rapporti interpersonali
diversi, puntando – in questo doppio binario di demolizione e contemporanea costruzione – a un
cambio di cultura e di politica sociali oltre che sanitarie.
La liberazione della persona, l'emergere di un soggetto pieno di bisogni da quel mondo di «cose» che il
manicomio conteneva e insieme produceva, sono stati i primi gesti terapeutici verso la liberazione
dell'internato dal manicomio materiale che lo imprigionava e dalla logica manicomiale che egli stesso
aveva incorporato. Liberazione che contemplava, come primo passo, il rischio della libertà del malato.
Si è trattato e si tratta, tuttavia, di una libertà controbilanciata e supportata dalla forza aggregante del
gruppo, dalla capacità degli operatori e della comunità di sostenere il conflitto che ogni soggetto
produce e dalla capacità di renderlo positivo come elemento di reciproca responsabilità. Responsabilità
che si acquisisce solo nella possibilità di crescere, svilupparsi e misurarsi in un clima di libertà. [...]
Ciò non significa che questo problema diventi – come troppo spesso è accaduto in questi anni di
vergognosa latitanza governativa e amministrativa, con conseguente assenza di servizi – compito e
responsabilità esclusivi della famiglia. Ma vuole significare che se la famiglia è coinvolta dal servizio
ai diversi livelli di necessità, malati e familiari, insieme con operatori e amministratori, diventano allo
stesso titolo soggetti di un processo di cura e di emancipazione che passa anche attraverso
un'assunzione di responsabilità reciproca e un profondo cambio culturale e sociale. [...]
In questi anni la scelta più facile è stata invece la creazione di servizi ospedalieri di diagnosi e cura
risultati, inevitabilmente, insufficienti, e di ambulatori aperti poche ore al giorno che hanno continuato
a proporre, da un lato, il carattere puramente medico dell'intervento (mettendo fra parentesi la
molteplicità dei bisogni espressi attraverso la malattia), dall'altro, un rapporto psicoterapico classico
che di per sé seleziona (per valori, linguaggio, codice di riferimento) i pazienti che possono accedervi,
presupponendo l'esistenza di altre risposte più «forti». [...]
Affrontando invece – come è avvenuto in molte esperienze diffuse nel Paese – la molteplicità dei
bisogni di cui è fatta la vita quotidiana della gente (stati di sofferenza, di malattia, di impotenza,
impossibilità di espressione soggettiva, mancanza di prospettive, di progetto, di significato, ma anche
disoccupazione, sottoccupazione, mancanza di casa, convivenze familiari impossibili, diversità di
sesso, di opportunità, livelli diversi di potere), la sfera del bisogno strettamente tecnico-psichiatrico
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viene a ridursi in rapporto all'ampliarsi delle risposte agli elementi di altra natura compresenti nel
disturbo psichico. [...]
Le misure più efficaci, nell'emergenza e nella prevenzione della cronicità, risultano dunque quelle che
– in servizi diversificati aperti ventiquattro ore su ventiquattro passano attraverso una visione completa
e integrata dei diversi livelli di bisogni della persona sofferente e un 'assunzione di responsabilità da
parte del servizio nel confronti di questa complessità.
Non si può dimenticare, inoltre, che l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, anche se minato ed
eroso da tutti i lati, ha comunque alzato il livello delle esigenze e dei diritti dei cittadini ed è a questo
livello che non sono in grado di rispondere la vecchia cultura, i vecchi strumenti, i vecchi modelli
operativi. [...]
I problemi sono dunque aperti. Dal momento che i cittadini hanno via via acquisito una sempre più
forte consapevolezza del diritto alla tutela della salute, l'incontro e la verifica delle diverse discipline
con la pratica sociale non è rimasto soltanto un incontro o una contaminazione delle discipline con le
disuguaglianze, ma è diventato un incontro/scontro con il problema dei diritti con cui ora anche le
discipline dovrebbero misurarsi. È dunque un problema politico rispetto a diritti riconosciuti e negati,
che riguarda però anche i modelli operativi e i corpi professionali che dovrebbero rispondervi.
È questa la natura dei problemi posti dall'esperienza di cui Che cos'è la psichiatria? rappresenta la
prima fase. Sono problemi ancora aperti perché negli anni di colpevole inerzia in cui la mancanza di
servizi ha continuato a tenere vivo il bisogno di internamento, così come non si è potuta cancellare
l'altra faccia del malato e della malattia che le esperienze pratiche facevano emergere, non si è potuto
procedere nel radicale discorso critico su che cos'è la psichiatria. La chiusura dei manicomi (vera o
mascherata?) e l'avvio che speriamo reale di servizi e strutture adeguati sono solo il punto di partenza
per la possibilità di un ulteriore processo critico. Ma quale potrà essere l'evoluzione di questo processo
nel contesto sociale in cui viviamo? La cultura dall'esclusione è viva e operante in tutti i settori della
marginalità, via via aumentati negli ultimi tempi da disoccupazione diffusa, disgregazione dei gruppi
sociali, perdita del senso di appartenenza e di identità, fonti costanti di un conflitto che, qualora resti
senza interlocutori e senza risposta, può evolvere in disagi e sofferenze che facilmente si organizzano
in malattia. Quali discipline saranno in grado di confrontarsi con questi problemi? La psichiatria
tradizionale che, in gran parte, si continua ad insegnare all'università come se nulla fosse emerso dalle
esperienze di questi anni, pare fatichi ad uscire dal modello medico e dal letto ospedaliero. Ma una
cultura diversa che – confrontandosi con i conflitti senza cancellarli – sappia intrecciare competenze e
disponibilità, tutela e vita, pare fatichi a farsi strada in un sistema che tenta di trasformarsi
riproponendo spesso vecchie logiche e vecchi paradigmi.
*Saggista.
Dalla prefazione al libro di Franco Basaglia Che cos'è la psichiatria? riproposto dall’editore Baldini &
Castoldi a trent'anni dalla sua prima uscita.
Da Fuoriluogo, gennaio 1998
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Appunti per la soppressione
del manicomio criminale
GIUSEPPE DELL’ACQUA*
Che il manicomio criminale sia luogo orrendo tanto nella sua accezione letterale che simbolica è
opinione condivisa. La concezione del disturbo mentale e le modalità di cura e di riabilitazione
derivanti dalla (nuova) legge 180 hanno giustificato il dubbio di costituzionalità, non solo in ordine
all'esistenza dell'ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), ma soprattutto intorno agli automatismi
giuridico-psichiatrici che definiscono l'infermità di mente e con essa l'incapacità di intendere e di
volere come giudizio assoluto riferito alla totalità della persona e, logica conseguenza, la negazione
della persona stessa, oggi, non più accettabile.
La soppressione del manicomio criminale, non solo perché luogo di addizione e sedimentazione del
“peggio” dell'istituzione carceraria e manicomiale, ma soprattutto perché gli strumenti della psichiatria
legale, i saperi e le teorie cui fa riferimento, risultano oggi assolutamente inadeguati. A più di un secolo
dalla sua fondazione, essi sono inutilmente classificatori, disfunzionali rispetto alla concretezza del
destino istituzionale che riservano alle persone, fallimentari rispetto alle finalità di rieducazione,
inserimento sociale e riabilitazione che in ogni caso e per qualsiasi cittadino devono essere connesse
all'espiazione della pena. Peraltro, la pesantezza del sistema finisce per tradire anche l'asserita capacità
di protezione sociale, tanto che molti oggi ritengono che l'unica funzione riabilitativa dell'Opg possa
consistere esclusivamente nella sua soppressione.
Dopo i fervori, le discussioni e le proposte intorno a questa questione succeduti alla riforma psichiatrica
(ricordo la proposta di legge Vincigrossi e un importante convegno tenutosi a Trieste nel 1984 a cura
dell'Istituto giuridico della Facoltà di economia e commercio e del Dipartimento di salute mentale), e il
silenzio paludoso degli anni '80, si sta ora riprendendo a discutere.
DUE PROPOSTE DI LEGGE
Per brevità e col rischio consapevole della estrema riduzione, si possono individuare due proposte:
entrambe sono finalizzate alla chiusura dell'ospedale psichiatrico giudiziario, ma differiscono nel
merito della premessa critica intorno alla questione.
La prima, che forse impropriamente chiameremo proposta di legge delle Regioni Toscana ed EmiliaRomagna (sostenuta anche dal direttore del Dap, Alessandro Margara), dispone la territorializzazione
degli istituti manicomiali, attribuendo alle singole Regioni il compito di organizzare residenze
riabilitative e di contenimento (sostituzione della misura di sicurezza con un ricovero in un istituto
regionale di trattamento sanitario custodito). Tale proposta, dalla quale derivano necessariamente
articolati aggiornamenti della norma, sia del codice di procedura penale che dell’ordinamento
penitenziario, privilegia il momento della cura, suggerendo una regionalizzazione del manicomio
giudiziario e un conseguente rapporto operativo e pratico con i servizi di salute mentale di quelle aree.
Questa proposta non tocca le questioni che fondano il rapporto psichiatria-giustizia, non affronta la
questione dell’infermità mentale e della incapacità, lasciando inalterato il concetto della non
imputabilità e, in definitiva, non altera la geometria del “doppio binario”, ovvero di una giustizia penale
speciale per le persone affette da disturbo mentale. Dunque si occupa, e bene, dell’esecuzione della
misura di sicurezza, ma non discute le ragioni per le quali infermità, irresponsabilità, pericolosità,
assenza di responsabilità soggettiva costruiscono il sistema penale speciale; in concreto, lascia inalterati
gli articoli 88 e 89 del codice penale del 1930, relativi appunto alla infermità, semi-infermità e
imputabilità.
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La seconda proposta, che forse altrettanto impropriamente chiameremo “Corleone” affronta con
radicalità proprio la questione dell'imputabilità, suggerendo in premessa proprio l'abrogazione degli
articoli 86 e 89, riportando dunque in giudizio l'imputato riconosciuto eventualmente affetto da
infermità di mente. Questa proposta introdurrebbe un cambiamento reale e profondo, proponendo
percorsi coraggiosi, certo difficili ma sicuramente orientati verso percorsi di normalità.
È evidente che la questione, per quanto chiara, rivista oggi nella prospettiva storica, continui a
contenere contraddizioni di non facile affrontamento.
RELATIVITÀ DELLA FOLLIA
Rivisitando i passaggi che costruirono la psichiatria forense, e con essa i manicomi giudiziari, emerge il
“positivo” spessore della cultura medica della prima metà del secolo scorso. L’individuazione di
categorie come la “monomania omicida” e la catalogazione delle malattie mentali sembravano
individuare nella follia il responsabile giuridico di crimini sia banali che efferati al di fuori dalla
responsabilità del soggetto. La psichiatria, allora nascente, acquistava credito e potere funzionando non
solo come cura dell'individuo, ma soprattutto e meglio come intervento di prevenzione e igiene
pubblica: la crescita demografica, le strutture urbane, la manodopera industriale, il nuovo ordine della
nascente società borghese doveva essere governato. La psichiatria e la medicina di allora si offrirono a
svolgere questo compito. Il corpo sociale, non più una semplice metafora giuridico-politica, era
diventato una realtà biologica e un campo di intervento privilegiato della medicina. È il medico il
tecnico di questo corpo sociale, la psichiatria diventa garante consapevole di fronte
all'incomprensibilità e alla pericolosità della follia dell'ordine sociale minacciato.
La psichiatria forense e il manicomio giudiziario nascono all'inizio del secolo XIX da un incrocio,
assolutamente chiaro oggi, tra la necessità di costruire nuovi codici penali e civili determinata dal
nuovo assetto politico ed economico e l'affermazione dell'etica liberale che sostiene culture della
sanzione legata a concetti di rieducazione che si adattano alla natura del criminale. I crimini senza
ragione o il quotidiano disturbo che vedono nella follia il responsabile giuridico rendono sempre più
ampio l'intervento della psichiatria.
La cura e la custodia del folle-reo, come strumento separato e speciale di punizione, rispondono alla
necessità di adeguare i trattamenti penali al folle. La finalità di trasformazione individuale e di
contenimento della sragione sociale sono evidenti. La malattia mentale, in questo quadro, è omologata
in tutto e per tutto a una visione clinica biologica naturalistica.
Il disturbo mentale, in una visione oggi storica, relazionale, contestuale, istituzionale, psicologica, non
è più rappresentabile come frattura assoluta, soluzione di continuità nell’esistenza, condizione statica e
immutabile. Il disturbo mentale assume valore e spessore in una dimensione relativa (in relazione alla
persona) dinamica, dialettica, tanto contraddittoria con la vita, quanto ad essa sempre riconducibile.
Sarebbe stato inutile il lavoro di critica alle istituzioni totali, e dotarsi di una legge come la 180, se oggi
non fossimo in grado di raccogliere queste affermazioni sia in termini teorici che etici e di
trasformazione pratica.
La legge per l’assistenza psichiatrica, di cui peraltro ricorrono vent’anni dalla sua promulgazione,
proprio in questo quadro ha avviato modalità di intervento molteplici e differenti. Ha costruito un
quadro che può apparire confuso nella sua de-regolazione regionale e territoriale, ma risulta certamente
positivo se visto come affermazione di diritto di cittadinanza a tutto campo, per tutte le persone,
ancorché affette da disturbo mentale. Non parliamo qui dei ritardi, delle resistenze e di tante stupidità
amministrative e tecniche che comunque hanno prodotto e continuano a produrre danni, ma di un
confronto, incontro, scontro tra cittadini sani e cittadini malati al di fuori di schemi interpretativi
precostituiti, al di fuori delle istituzioni.
IL MANICOMIO RIPRODUCE LA MALATTIA
Il senso della chiusura degli ospedali psichiatrici potrebbe cogliersi proprio in questa affermazione: il
luogo letterale e metaforico (il manicomio) che conteneva la malattia e così contenendola la
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riproduceva, viene oggi a trovarsi all'interno di quel tessuto sociale che avrebbe dovuto proteggere. La
critica alla categoria della malattia mentale, ovvero della malattia mentale come categoria che tutto
determina, introduce a un rapporto vero quanto mai conflittuale con le persone malate, con i soggetti,
con gli individui sofferenti, con i cittadini che, ancorché malati di mente, vivono (devono vivere) la
pienezza del loro diritto.
L'accettazione acritica della concezione naturalistica della malattia mentale, la priorità del patologico,
spinta all'estremo è arrivata, e arriva, a invalidare i gesti pratici, le scelte, la vita concreta delle persone
perché tra esse – le persone – e la malattia resta un vuoto, un salto, sia in senso logico che analitico.
Affermare che la malattia non totalizza l’individuo corrisponde a dire che egli è un soggetto: una realtà
concreta con la quale nelle pratiche terapeutiche e giudiziarie è necessario confrontarsi. In estrema
sintesi, non è più possibile totalizzare la persona attraverso la categoria della malattia, ma si deve
giocare su ogni piano la contraddizione tra questa e la normalità e la salute della persona stessa.
La nuova legge ha introdotto tutto questo, e tuttavia è stato lento il processo di integrazione delle
persone affette da disturbo mentale, ora cittadini a pieno titolo, con le altre istituzioni sociali, ma
soprattutto con le istituzioni giuridiche, penali, civili e penitenziarie.
IL GIUDIZIO COME GARANZIA
Molto in breve: mutuando dalla legislazione francese del 1838, in Italia, in caso di reato, se vi sia
sospetto di malattia mentale, il giudice ordina una perizia psichiatrica; se questa si conclude con un
giudizio di incapacità di intendere e di volere dell'imputato, lo si proscioglie senza giudizio; se
riconosciuto pericoloso socialmente, lo si avvia a un ospedale psichiatrico giudiziario (articolo 88 c.p.)
per definiti/indefiniti periodi in relazione alla pericolosità sociale (sempre presunta). Anche se positive
modificazioni sono state introdotte dal nuovo codice di procedura penale nel 1989, la sequenza
descritta è tuttora automatizzata: reato apparentemente incongruo – malattia mentale – incapacità – non
imputabilità – proscioglimento – pericolosità sociale – manicomio criminale.
Questa sequenza pratica, dove è prevalente la presenza totalizzante della malattia mentale, ha
determinato anche le modalità di esecuzione della pena, della detenzione nel caso di malattia mentale
sopravvenuta. In breve, e altrettanto automaticamente, fino a non più di un decennio fa: detenzione –
insorgenza di disturbo mentale – sospensione della pena – invio “per cure” al manicomio giudiziario.
Un diverso affrontamento di questa non ineluttabile sequenza è stato discusso e tuttora praticato dal
gruppo di lavoro triestino ed ora trova riscontro nella cosiddetta proposta di legge Corleone che, come
detto, consiste nella rivisitazione profonda del criterio di imputabilità. La malattia mentale non deve più
ritenersi idonea a esimere dalla responsabilità soggettiva per il fatto commesso; l’autore deve avere la
garanzia di stare in giudizio; in caso di condanna, la pena deve essere espiata in apposite strutture
adeguate alla situazione di salute del condannato. E noi aggiungiamo: in rapporto costante e
programmato con i servizi di salute mentale di quel territorio. Siamo consapevoli della radicalità di
questa scelta e tuttavia continuiamo a pensare che il folle, di norma, è capace di intendere e di volere e
pertanto deve restare in giudizio. Vogliamo così sottolineare tanto la sua responsabilità individuale,
quanto illuminare i contesti, la storia collettiva di violenze e di abbandoni, i passaggi istituzionali, la
ricerca del significato e delle ragioni dei comportamenti proprio nelle relazioni. Non per volontà di
escludere e punire il colpevole ma perché si possano includere e riconoscere le realtà, anche le più
estreme, che ci circondano.
Nella nostra esperienza abbiamo valutato quanto la possibilità di stare in giudizio e la conseguente
sanzione (alla quale non necessariamente deve seguire la detenzione) abbia prodotto percorsi di
riappropriazione e di consapevolezza dell’evento, in definitiva terapeutici.
In realtà, la “condanna esemplare”, ovvero la sanzione e la successiva sospensione della pena, può
essere la soluzione nella maggioranza delle situazioni di cui in genere ci occupiamo. La società non ha
interesse a che l'autore di reati minimi sconti una qualsiasi pena, ma conserva la necessità di sanzionare
questi comportamenti facendo seguire alla sanzione una giusta quanto simbolica e rituale retribuzione.
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Il limite del discorso sembra così spostarsi verso l'esecuzione della pena in conflitto con la necessità di
cura, per una presunta intenzione punitiva da parte. di chi propone questi percorsi.
L'ESPERIENZA DI TRIESTE
Nella nostra esperienza abbiamo messo a fuoco e analizzato proprio questo aspetto, cercando con fatica
strategie alternative di intervento. Oggi non un solo cittadino di Trieste è internato in ospedale
psichiatrico giudiziario, malgrado reati gravi e gravissimi per mano di persone affette da disturbo
mentale siano comunque accaduti nella nostra città. Pensiamo che l'uso critico della perizia, il lavoro in
carcere, la vicinanza con i magistrati nel corso delle indagini assieme all'autore del reato abbiano
prodotto notevoli ed evidenti cambiamenti di percorso. Naturalmente, è la presenza del servizio di
salute mentale, capace di incontrare le persone e i conflitti senza pre-selezioni e in aree di riferimento
delimitate, che produce quella “presa in carico”, che diventa di per sé critica della pericolosità sociale e
del rischio di percorsi istituzionali invalidanti. Esiste una specularità tra mancanza di servizi, relazioni,
capacità di ascolto e anomia, solitudine, conflitto, rischio.
Dal 1978 appositi accordi col ministero di Grazia e Giustizia conducono in carcere gli operatori del
servizio di salute mentale di Trieste, a salvaguardia del diritto alla cura del detenuto e della continuità
terapeutica per il detenuto già malato di mente. Spesso, il servizio di salute mentale, il centro di salute
mentale 24 ore, si è offerto come luogo di cura in corso di custodia cautelare e in attesa della fine del
procedimento giudiziario; in alcuni casi, come modalità di alternativa alla detenzione per il detenuto al
termine dei tre gradi di giudizio, concordata dal servizio con i magistrati di sorveglianza e le autorità
carcerarie.
La persona che abbia commesso un reato grave e che presenti seri problemi psichiatrici, laddove tale
condizione sia incompatibile con la detenzione, viene trattata secondo un progetto terapeutico
riabilitativo articolato e per un periodo di tempo prestabilito, ovvero fino al raggiungimento di un
equilibrio psichico adeguato, all'interno del centro di salute mentale 24 ore o di strutture residenziali
comunitarie in regime di detenzione domiciliare, di libertà vigilata o di sospensione della pena. In ogni
caso, le misure alternative alla detenzione e tutte le modalità di flessibilizzazione del regime detentivo
(visite, lavoro in carcere, corsi di formazione) costituiscono un canale preferenziale attraverso il quale i
servizi di salute mentale, col magistrato di sorveglianza e gli operatori del carcere, cercano di trattenere
nel tessuto sociale (e cittadino) la persona che deve scontare una pena.
Si capisce, dunque, quanto sono d'accordo con la proposta di legge Corleone e quanto ci sia comunque
bisogno di discutere, sia nel merito delle premesse, che nella pratica attuativa. La soppressione del
manicomio criminale passa attraverso una profonda revisione dell'istituto dell'incapacità, della pratica
peritale, dell'abolizione degli automatismi che da questa derivano, da una riconsiderazione del destino
istituzionale del soggetto in forme sempre più articolate, al di fuori della contrapposizione tra sanzione,
misure di sicurezza e cure. È questo il punto di partenza dal quale possono discendere pratiche e
soluzioni sicuramente difficili e conflittuali, ma anche le uniche che possano riguadagnare
faticosamente senso a una socialità, a un sistema di scambi sociali e di valorizzazione dei
comportamenti: senza esclusione alcuna. Se la discussione intorno alle proposte di legge contribuirà ad
illuminare la fragilità dei confini tra delinquenza e follia e di queste con la norma individuale, se
stimolerà coraggiose alternative nella considerazione del fallimento dell'utopia positivista che ha
fondato la psichiatria e la perizia psichiatrica e quanto altro, la fatica della discussione non sarà stata
inutile e gli uomini e le donne in questo Paese avranno fatto un piccolo passo avanti.
Per questo contributo sono debitore a tutti gli operatori che in questi anni hanno lavorato a Trieste
intorno a questi problemi e, in particolare, a Franco Rotelli e Roberto Mezzina.
*Direttore del Dipartimento di salute mentale, Trieste
Da Fuoriluogo, aprile 1998
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Il superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario è improcrastinabile
LE INSOSTENIBILI
MISURE DI SICUREZZA
La riforma Basaglia, negando all’istituzione manicomiale ogni valore terapeutico, faceva cadere
anche l’ipocrisia dettata dal prevalere di esigenze di difesa sociale L’abolizione della non imputabilità
per gli infermi di mente autori di reato è una proposta coerente che offrirebbe loro maggiori garanzie
GIUSEPPE CASCINI
«Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione
mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non
possano ess e r e convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Queste disposizioni
(poste all’inizio dell’art. 1 della legge 14/2/1904 n. 34, “legge sui manicomi e gli alienati”)
riassumevano l’impostazione dell’ordinamento rispetto al problema dell’infermità psichica.
L’istituzione manicomiale era considerata, anche dalla scienza psichiatrica, come l’unica risposta
possibile al disagio mentale. Il sistema penale e processuale penale introdotto dal legislatore del 1930
corrispondeva coerentemente a tale impostazione.
In definitiva il sistema si presentava con una sua intrinseca coerenza. Se l’istituzione manicomiale
corrisponde alle esigenze terapeutiche della malattia mentale, può ben assolvere anche alla funzione di
tutelare la collettività dai rischi derivanti dalla libera circolazione di soggetti infermi di mente che
abbiano commesso un reato. Ma la successiva legge 13/5/1978 n. 180 capovolge completamente
l’impostazione della normativa previgente, negando ogni validità terapeutica all’istituzione
manicomiale, di cui decreta l’abolizione.
La legge in sostanza nega ogni associazione tra malattia mentale e pericolosità sociale e soprattutto
esclude qualsiasi funzione di difesa sociale dei trattamenti sanitari, cui restituisce piena ed esclusiva
funzione terapeutica. Questa, sul piano teorico, è forse la novità più interessante della riforma. La
condizione di infermità psichica non autorizza alcuna presunzione di pericolosità sociale e non è
ragione sufficiente per l’adozione di provvedimenti di custodia. Cade, in sostanza, l’ipocrisia che
pretendeva di attribuire finalità terapeutiche a provvedimenti di limitazione della libertà personale del
malato, chiaramente dettati dal prevalere di esigenze di difesa sociale.
L’approvazione della legge del 1978 avrebbe dovuto portare a una immediata revisione dell’intera
disciplina delle misure di sicurezza, al fine di adeguare gli interventi penali alle novità introdotte sul
piano sanitario e terapeutico. Negli anni molte delle disposizioni penali e processuali che contrastavano
in maniera evidente con le disposizioni costituzionali e con le novità introdotte dalla riforma sanitaria
sono cadute per opera della Corte costituzionale o del legislatore ordinario. Ma si è trattato di interventi
settoriali che non hanno modificato l’impostazione di fondo del sistema, nel quale permangono
contraddizioni ed incertezze tra istanze di difesa sociale ed esigenze terapeutiche, ma soprattutto
permane, a dispetto della scelta radicale della legge n. 180, l’istituzione manicomiale, oggi denominata
Ospedale psichiatrico giudiziario, come prevalente risposta penale all’infermità di mente.
Le correzioni operate dalla Corte, pur condivisibili, risolvono solo parzialmente le contraddizioni
rilevabili nel sistema delle misure di sicurezza. Ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza
personale nei confronti dell’infermo di mente che abbia commesso un reato, afferma in sintesi la Corte,
è condizione necessaria la attuale e persistente pericolosità sociale dell’autore. Tale pericolosità sociale
è definita dall’art. 203 del codice penale come probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla
legge come reato.
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La pericolosità sociale è dunque condizione necessaria per l’applicazione di misure di sicurezza, ma
anche condizione sufficiente (ed è qui il limite degli interventi della Corte). E quindi la pericolosità
sociale della persona ne consente il ricovero in ospedale psichiatrico indipendentemente dalla gravità
del reato commesso, essendo sufficiente la commissione di un reato punito con la pena della reclusione
superiore nel massimo a due anni; e indipendentemente dalla gravità dei reati che si presume la persona
potrebbe commettere. E senza limiti di tempo e quindi in ipotesi anche per un tempo superiore al
massimo edittale previsto dalla legge per il reato commesso.
In particolare sul punto dell’assenza di un limite massimo di durata della misura di sicurezza applicata
provvisoriamente, si è pronunciata più volte la Corte costituzionale, rigettando le censure prospettate
dai giudici di merito. Il principio enunciato è quello della non assimilabilità delle misure di sicurezza
detentive alla carcerazione “per la diversità della natura e delle finalità delle due forme restrittive della
libertà personale: rieducativa (e per taluni anche retributiva) la prima; curativa e precauzionale la
seconda” (sentenza n. 96 del 4/6/1970).
Finalità curativa e precauzionale dunque da tenere ben distinta anche dalle finalità tipicamente
processuali della custodia preventiva, il che porta a escludere l’applicabilità dell’art. 13 della
Costituzione alle misure di sicurezza (sentenza n. 74 del 30/5/1973).
In verità con la legge n. 180 del 1978 è caduto definitivamente ogni alibi di una pretesa finalità curativa
e terapeutica delle misure manicomiali. Per cui proprio alla luce della legislazione vigente l’unica
finalità residua delle misure di sicurezza è quella precauzionale, che però è perfettamente
sovrapponibile all’esigenza (processuale) fissata nell’art. 274, lettera c) del codice di procedura penale
(relativo alle misure cautelari). Solo che, mentre per l’applicazione provvisoria di una misura di
sicurezza (detentiva) è sufficiente la sussistenza di gravi indizi di reato e il pericolo di commissione di
ulteriori reati, per l’applicazione di misure cautelari detentive è necessario anche che il reato per cui si
procede sia punito con pena non inferiore nel massimo a tre anni e che il pericolo di commissione di
ulteriori reati riguardi «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti
contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quelli per
cui si procede». Inoltre la custodia cautelare non può protrarsi oltre i termini rigorosi fissati dal codice,
mentre la misura di sicurezza può essere mantenuta fino a che permanga la pericolosità sociale
dell’imputato.
Ora appare difficile giustificare come la medesima esigenza di difesa sociale venga in un caso
fortemente bilanciata in favore del diritto di libertà della persona accusata; e in un altro invece prevalga
sempre e comunque sui diritti di libertà dell’accusato. Venuto meno, si ripete, l’alibi terapeutico la
situazione normativa appare francamente insostenibile. L’esigenza di una riforma del sistema delle
misure di sicurezza è ampiamente condivisa sia dai giuristi che dagli operatori del settore.
Il progetto più coerente con la impostazione della legge del 1978 è quello, diciamo così, più radicale,
che prevede l’abolizione della non imputabilità. È un progetto che si fonda su una intelligente
provocazione. Dal momento che il sovrapporsi di istanze di custodia e di istanze terapeutiche può
determinare per gli infermi di mente autori di reato un trattamento deteriore rispetto agli autori di reato
imputabili, l’abolizione della non imputabilità diventa una garanzia per l’infermo di mente.
Ovviamente il progetto non dimentica la particolarità della situazione dell’infermo di mente, per cui la
fictio iuris della assimilazione con i soggetti imputabili in sede cognitiva viene meno nella fase
esecutiva, per la quale si prevede l’assegnazione in appositi istituti. La proposta è condivisa anche da
una parte della scienza psichiatrica che contesta la validità scientifica della nozione di non imputabilità.
Ma piace meno alla scienza penalistica.
Una diversa impostazione si ritrova nel progetto di riforma del codice penale elaborato dalla
Commissione ministeriale presieduta dal prof. Grosso. In questo progetto si conferma la nozione di non
imputabilità e il sistema delle misure di sicurezza, ma si realizza comunque la necessaria
armonizzazione con la normativa sanitaria. In particolare si prevede come eccezionale la misura di
sicurezza del ricovero in una struttura chiusa, che potrà essere applicata solo nei confronti di chi abbia
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commesso un delitto contro la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, l’incolumità pubblica o
comunque commesso con violenza o minaccia contro la persona e quando vi sia il concreto pericolo
che il soggetto commetta nuovamente uno di tali delitti. Per tutte le misure di sicurezza, inoltre, si
prevede una durata massima di cinque anni. Limite che può essere eccezionalmente superato per il
tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di
atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone.
Da Fuoriluogo, gennaio 2002
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Irresponsabili
per eccellenza
GRAZIA ZUFFA
Questa pagina affronta le delicate questioni sollevate dalla proposta di riforma del codice penale della
cosiddetta “Commissione Pisapia” sugli Ospedali psichiatrici giudiziari e più in generale sui soggetti
“non imputabili”. Nell’intento condivisibile di superare gli Opg, la commissione ha proposto che gli
autori di reati affetti da disturbi mentali siano «curati e controllati» in strutture sanitarie. Si propone
cioè la “sanitarizzazione” della pena (la medicalizzazione della devianza?), ovvero la sostituzione della
pena con una forma di terapia coatta (formula che meglio risponde alle intenzioni del riformatore).
Rimane inalterato il principio di non imputabilità, conseguente all’assunzione che il reato sia stato
commesso da persone non responsabili. Anzi, detto principio si allarga, fino a comprendere i soggetti
che abbiano agito «sotto intossicazione da alcol e da sostanze stupefacenti»: che dunque non sarebbero
più incarcerati per consumo al di sopra delle dosi stabilite dalla Fini-Giovanardi, oppure per spaccio,
rapina e quant’altro; bensì sottoposti a misure di «cura e controllo» in strutture terapeutiche,
presumibilmente in comunità.
La soluzione non è nuova: il governo britannico, ad esempio, ha da tempo introdotto i Drug and
Testing Orders, ovvero “ingiunzioni terapeutiche” comminate direttamente dal giudice in sede di
processo. Tanto meno è fresca l’idea che sia la droga a “causare” il comportamento (delittuoso) del
“drogato”. Come spiega Stanton Peele, nel bellissimo testo di storia e teoria delle droghe (The meaning
of addiction), la concezione tradizionale di tossicodipendenza presuppone che una serie di fenomeni
biologici legati alla sostanza (tolleranza, astinenza e craving) non diano all’organismo altra scelta che
comportarsi in maniera stereotipata. Scendendo all’immaginario popolare, suscita
esecrazione/commiserazione il tossico che scippa la vecchietta perché non può fare a meno della dose.
Proprio l’anomalia comportamentale del “drogato” spiega la storica associazione col malato di mente,
tanto più viva oggi con l’ossessiva focalizzazione sulla “doppia diagnosi”.
La solidità scientifica di tale concezione (così come della “coazione terapeutica”) è più che dubbia.
Tuttavia, in quanto rappresentazione sociale, essa serve egregiamente ad un duplice scopo: da un lato
sorregge la proibizione, in virtù della supposta pericolosità intrinseca della droga; dall’altro,
paradossalmente ma non tanto, la medicalizzazione offre un’alternativa umanitaria al rigore punitivo.
Il dilemma, anche etico, non è dappoco. Se viene meno la battaglia per superare le strategie antidroga
ad alta penalità, se si appanna, anche nei riformatori, l’idea che sia soprattutto la proibizione (più che la
chimica) a spingere il consumo in un contesto criminale; come far sì che i consumatori non paghino
fino in fondo il conto salato delle norme criminogene che non vogliamo/non possiamo cambiare?
Carcere versus ricovero coatto, perdere l’anima per salvare il corpo, la dignità umana non ha prezzo,
quella del tossico chi lo sa.
Da Fuoriluogo, luglio/agosto 2007
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Dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle strutture sanitarie di cura e custodia estese ai
tossicodipendenti, due proposte in campo
Quella tutela pagata al prezzo dei diritti
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA
Si vede ancora bene, nel parco dell’ex manicomio di Trieste, il murale La libertà è terapeutica
disegnato dal pittore Ugo Guarino in un pomeriggio d’estate del 1973, all’inizio del lavoro di Franco
Basaglia e del suo gruppo. Tutto sommato, quello slogan ha messo radici nella società italiana, anche
se, in realtà, in modo parziale, distorto. Se infatti è passato il rifiuto del manicomio, è invece rimasta in
ombra l’altra faccia di quell’idea: la libertà è terapeutica in quanto il suo riconoscimento restituisce, o
meglio non toglie più, capacità e responsabilità alla persona malata, che quindi mantiene diritto di
parola sul “suo bene”, in nome del quale la sua libertà non deve essere compressa, né la sua dignità
offesa o il suo punto di vista ignorato. La libertà terapeutica mette quindi in questione ogni forma di
tutela pagata al prezzo dei diritti, ogni “statuto speciale” che riconoscendo una malattia, una disabilità,
una minorità collochi la persona malata, disabile, minore fuori dalla cittadinanza, col suo corollario di
diritti e responsabilità.
È un processo complesso, difficile includere e mantenere tutti, specie le persone più deboli o in
difficoltà, nella cittadinanza. Esige trasformazioni profonde nell’organizzazione dei servizi, nei saperi
specialistici, nel senso comune. L’Italia è tra i paesi europei quello che ha fatto i maggiori passi in
questa direzione: abbiamo chiuso i grandi manicomi pubblici e le scuole speciali; si sono radicate e
diffuse le imprese sociali in cui persone con problemi mentali fanno lavoro vero e non ergoterapia; la
legge sull’amministratore di sostegno agevola l’esercizio dei diritti civili e riduce il ricorso
all’interdizione, che peraltro si sta cercando di abolire. Ma molto resta ancora da fare per eliminare
dall’ordinamento e dalle politiche le tutele che sottraggono i diritti: la più grave, resta la legislazione
sul malato di mente autore di reato e sugli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), nati per sottrarre il reo
malato alla punizione ma rivelatisi poi punizioni peggiori del carcere. Ma proprio su questo tema due
proposte recenti sembrano invertire il percorso che in questi anni si è fatto strada. Le due proposte
delineano infatti, su piani diversi, un regime speciale che prevede istituti sanitari di cura e custodia del
tutto simili, anche se su scala ridotta, ai manicomi che la “legge 180” ha voluto abolire.
La prima proposta fa parte delle linee per la riforma del codice penale predisposte dalla “Commissione
Pisapia” che suggerisce, all’art.22, che «vengano considerate cause di esclusione dell’imputabilità
l’infermità, i gravi disturbi della personalità, l’intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti se
rilevanti rispetto al fatto commesso». Ai non imputabili va applicata «una misura di cura e controllo»
che «tenga conto della necessità della cura» e che non superi in durata la pena che si applicherebbe a
una persona imputabile. Lo stesso articolo indica diverse modalità e sedi di esecuzione della misura. In
alcuni casi si tratta di strutture residenziali sanitarie (sono indicate «strutture terapeutiche protette o con
finalità di disintossicazione e comunità terapeutiche»), in altri sembra invece prevista una dissociazione
tra sfera terapeutica e controllo, in quanto quest’ultimo si può declinare come obbligo di presentazione
all’autorità di polizia.
Nell’insieme, sembra affermarsi, in questa proposta, una linea opposta a quella cui era arrivato, alla
fine degli anni ‘80, il dibattito in tema di imputabilità, che tendeva a prefigurare dispositivi che
restringessero in modo rigorosamente eccezionale l’ambito in cui poteva essere riconosciuta questa
condizione, da cui discendeva il disinteresse dello Stato a punire e l’affidamento a strutture sanitarie
ordinarie. Qui si propone invece un meccanismo che può allargare a dismisura il numero dei potenziali
non imputabili, di coloro cioè cui non è riconosciuto il diritto a essere fatti responsabili dei propri gesti,
e quindi anche puniti, in forme che evidentemente tengano conto del diritto alla salute. In conseguenza,
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si rende necessaria una istituzione che mescola, di nuovo, il curare e il punire, con custodi in camice
bianco che riducono le libertà in nome e in forma di cura.
Il documento elaborato dal gruppo di lavoro interministeriale per il superamento degli Opg evidenzia
bene gli esiti istituzionali di una tale linea di riforma dell’imputabilità. Il testo prevede, in una prima
fase, interventi certamente appropriati per ridurre l’accesso agli attuali Opg e la durata dei tempi di
internamento, attraverso la costruzione di progetti personalizzati da parte delle Asl da cui gli internati
provengono. Il documento prosegue però immaginando anche il medio e lungo periodo, in cui, al posto
degli attuali Opg, vi sarebbero: 300 posti letto in tre Opg e 200 in centri di psichiatria penitenziaria
gestiti tutti dall’amministrazione penitenziaria; 300 letti in centri diagnostico terapeutici di 15 letti
ciascuno distribuiti in tutte le regioni; 500 posti letto in «strutture residenziali ad Alta Intensità
terapeutica e media sicurezza» gestiti dalle Asl nelle varie regioni; 500-1000 posti letto in «strutture
residenziali a Media Intensità terapeutica e bassa sicurezza», gestiti anche questi dalle Asl nelle varie
regioni. Come si vede, non solo i circa 1200 letti degli attuali Opg raddoppierebbero, ma andrebbero
alle Asl, e verrebbero riconsegnati a strutture psichiatriche, il controllo di quote di pericolosità sociale e
la responsabilità della custodia.
È una strada già percorsa questa, con esiti come sappiamo non brillanti sul piano dei costi/benefici
sociali. Tuttavia, questo assai discutibile approdo parte, come si è detto, dalla volontà, per ora solo
indicata, di metter mano davvero alla situazione del migliaio di internati nei sei Opg in funzione.
Partendo da qui, dalle persone, dai loro problemi, dai mezzi per affrontarli, dalle “buone pratiche” che
anche in questo campo si sono affermate sarà più facile e produttivo riprendere il dibattito, che si è
interrotto anni fa, sul curare e sul punire, e sui valori e gli strumenti dell’una e dell’altra funzione.
Da Fuoriluogo, luglio/agosto 2007
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La volontà di punire gli stili di vita “devianti” potrebbe riproporsi in forma medicale
Tutti i pericoli della “clinica diffusa”
Mauro Palma
La prima volta che entrai in un Istituto psichiatrico giudiziario – allora detto manicomio criminale –
non era ancora giunto a un esito legislativo il dibattito critico sulla malattia mentale e sulla modalità
con cui essa veniva regolata e trattata nella società italiana: il manicomio. La legge sull’abolizione dei
manicomi non era ancora all’orizzonte, anche se forte era già il vento critico che aleggiava attorno ad
alcune categorie di analisi, in primo luogo quella che fissava l’asse dell’intervento più sulla tutela dei
presunti sani che sulle possibilità vitali dei presunti malati.
Il manicomio criminale non era altro, quindi, che l’epifenomeno di una situazione più ampia, luogo di
sovrapposizione di due sistemi reclusori, quello rivolto alle persone con disagio mentale e quello
rivolto alle persone colpevoli di reati. Come complemento, vi erano trattenute anche le persone non
facilmente governabili nelle istituzioni detentive.
Il vento critico continuò a soffiare e si fece più robusto, fino a portare a un radicale mutamento del
rapporto con la sofferenza psichica e alla sua presa in carico da parte del contesto sociale: la legge
successivamente varata nel 1978 – la cosiddetta 180 – ha significato un’effettiva quanto rara riforma
culturale e ordinamentale nel nostro paese, avaro di vere trasformazioni. E ha resistito negli anni,
seppure tra mille attacchi e con diverse carenze attuative.
Ma, gli ospedali psichiatrici giudiziari non l’hanno seguita a ruota, come forse ci si sarebbe atteso.
Sono rimasti inalterati, assediati dall’incalzare del concetto di pericolosità che si riteneva e si ritiene
caratterizzare coloro che vi sono ristretti.
La categoria della pericolosità del resto pervade il nostro diritto penale “concreto”. Quello, per
intenderci, che non trova spazio nella scienza giuridica accorta, quanto piuttosto in quella fusione tra
opportunità politica e giustificazione giuridica che ricerca nel consenso diffuso la forma della propria
legittimazione, inseguendo gli umori più bassi della collettività.
La pericolosità sociale è una categoria spuria, anomala, prima ancora di essere essa stessa pericolosa,
perché contraddice i presupposti del diritto penale, soprattutto quello che tiene ben distinte
colpevolezza e responsabilità e che ritiene legittima l’azione punitiva solo nei confronti di soggetti
colpevoli in grado di comprendere il significato del fatto commesso. Al contrario, essa sposta
l’attenzione dal fatto a una presunta prognosi sui futuri comportamenti del suo autore, a come egli è
soggettivamente percepito dalla collettività e, quindi, alla richiesta che quest’ultima pone per sentirsi
rassicurata. Il reato commesso non è considerato per ciò che è stato, ma anche come indizio di ciò che
il soggetto potrebbe in avvenire commettere, finendo così non col sanzionare una condotta passata,
bensì col prevenirne una supposta come futura. Da qui nascono le cosiddette misure di sicurezza, cioè
forme di privazione della libertà spesso indefinite nel tempo e non strutturate attorno a quel sistema di
garanzie che contorna l’esecuzione penale. Il nostro codice, a differenza degli altri paesi europei, ne ha
una tradizione ormai quasi ottantenne – per bontà del guardasigilli Rocco che le introdusse nel
ventennio.
Così le persone incapaci di intendere o di volere e dunque non imputabili, non sono prosciolte e basta,
affidandole a interventi di cura, anche coattivi, ma comunque di responsabilità del servizio sanitario,
bensì sono soggette a un intervento di carattere penale anche se di altro tipo: la misura di sicurezza,
appunto, dell’internamento in una struttura psichiatrica di competenza del ministero della giustizia. La
misura si applica anche a coloro che hanno una capacità di intendere o volere ridotta, dopo l’espiazione
di una pena anch’essa ridotta. Non solo, ma il codice prevede la possibilità di determinare «i casi nei
quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non
preveduto dalla legge come reato».
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Nell’attuale fase di definizione di un nuovo codice penale è chiaro che un po’ d’ordine attorno a queste
categorie spurie vada fatto. La direzione sembra essere quella di prevedere misure di cura e controllo
che, sperando ovviamente che non si tratti di mere ridenominazioni, dovranno essere differenziate a
seconda della causa della non imputabilità: dalle strutture terapeutiche protette a quelle finalizzate alla
disintossicazione per i tossicodipendenti o gli alcolisti, al ricovero in comunità.
La delineazione della fisionomia di queste misure non è semplice e se molti punti delle ipotesi che si
stanno avanzando sono condivisibili, è del tutto evidente tuttavia che la riflessione non può restringersi
ai nuovi modelli organizzativi; deve investire i presupposti su cui esse si fondano, per evitare che
ricadano nel gorgo culturale di chi vuole ogni intervento finalizzato alla rassicurazione e al consenso
dei supposti “normali” a scapito dei diritti dei supposti “devianti”.
La questione più a rischio riguarda proprio l’estensione del principio terapeutico coattivo quando, in
particolare, si tratti di consumatori di droghe o alcool. Non sfugge, infatti, la possibilità che
l’attivazione di strutture non penali possa risolversi anche nell’affidamento a esse di un numero sempre
maggiore di soggetti, venendo meno il freno che l’irrogare una misura penale porta con sé. La volontà
rassicurante di punire i comportamenti e gli stili di vita più che i fatti compiuti potrebbe così riproporsi
in forma medicale, attraverso l’estensione di luoghi sicuri a cui affidare le contraddizioni rimosse o i
tanti stili soggettivi che si ritengono turbativi della sicurezza collettiva.
Piuttosto che verso il carcere diffuso, di cui parlava il buon Foucault, andremmo verso la clinica
diffusa, dove la responsabilità, ormai medicalizzata, possa venire trattata con le stesse finalità che
derivano da un non più enunciato, ma sempre vivo presupposto di pericolosità.
Non vi sono certamente antidoti a questo rischio: se non quello di non limitare il dibattito alla
disciplina penale e alla tecnica giuridica, ma aprirlo a più voci disciplinari per costruire attorno a esso
nuove consapevolezze.
Da Fuoriluogo, luglio/agosto 2007
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IL MANICOMIO CRIMINALE DEVE SPARIRE, IN SCENA LA RAGIONE DEI FOLLI CAPACI
DI INTENDERE E DI VOLERE
La favola felice di Marco Cavallo
PEPPE DELL’ACQUA, ANGELA PIANCA, LUCIANO COMIDA
Il 16 e il 17 maggio 2003, nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino si tenne un importante
convegno. In preparazione del convegno, gli internati avevano chiamato un gruppo di giovani attori e
Giuliano Scabia. Costruirono un grande Drago, per affidare a lui le loro ragioni e le loro speranze.
Volevano che le portasse fuori dal manicomio. Il grande Drago di Montelupo chiamò allora Marco
Cavallo, il grande cavallo azzurro che trent’anni prima aveva abbattuto i muri del manicomio di
Trieste. E nel bel mezzo del convegno Marco Cavallo parlò: il Drago e gli internati avevano tante cose
da chiedergli...
Marco Cavallo – Era una limpida domenica di marzo, spazzata dalla bora quando tentai di uscire dal
manicomio. Ormai non potevo più starci, rinchiuso là, ero diventato troppo grande. La mia pancia era
stata riempita dai desideri di tutti i matti di San Giovanni. Dall’orologio dorato di Tinta al porto con le
navi della giovinezza di Ondina, dalle tante Marie al fiasco de vin, dalla casa in affitto alle scarpe
nuove, al volo, al viaggio, alla corsa, all’amico, dalla partita de balòn alla libertà: ero troppo
appesantito da quel carico di bisogni e desideri che mi portavo dentro. Provai ad uscire dalle porte del
reparto, erano strette, provai allora quella del giardino, poi la veranda, pensai di saltare la ringhiera.
Cercai di piegarmi, di mettermi di taglio, mi abbassai pancia a terra, mi ferii. Ma niente. Restavo chiuso
dentro. Eppure tutti erano lì a guardarmi: era quello il mio momento. Cominciai a correre nervoso per il
lungo corridoio del vecchio reparto “P” trasformato in laboratorio, avanti e indietro, avanti e indietro,
proprio come avevano fatto per anni i ricoverati. Giuliano cercò di calmarmi, dicendo che bisognava
aspettare, che forse non era quello il momento, che bisognava avere pazienza. I malati cominciarono a
pensare di avere solo sognato, secoli di grigio tornarono nelle loro teste, urla disumane assordarono le
loro orecchie. Dino Tinta piangeva. Allora io, fremendo e nitrendo, a testa bassa, iniziai una corsa
furibonda, come impazzito, verso la porta principale e, senza più esitazione, oramai a gran carriera,
aggredii quel pezzo di azzurro e di verde oltre la porta. Saltarono gli infissi, si infransero i vetri,
caddero calcinacci e mattoni. Io arrestai la mia corsa nel prato, tra gli alberi, ferito e ansimante, confuso
col blu del cielo. Gli applausi, gli evviva, i pianti, la gioia guarirono in un baleno le mie ferite. Il muro,
il primo muro era saltato.
E subito la libertà: i muri del manicomio frantumati, la fila infinita di matti che dietro a me escono dalla
breccia e si perdono per le vie della città, con Boris che ci accompagna suonando la fisarmonica.
Quante ne ho viste da allora…
Ci aveva fatti così felici, la legge 180. E invece…
Non è stato mica tutto facile.
Quante ne abbiamo passate…
Io, fin da quando sono nato, mi ricordo del caso Savarin. Lo sentivo nominare nelle assemblee a San
Giovanni, nelle riunioni dei dottori, il suo nome era scritto perfino sui giornali. E io mi chiedevo…ma
chi sarà mai, ‘sto Savarin. Così mi sono informato. Era uno che aveva…che aveva fatto…va beh, è uno
che aveva fatto quello che aveva fatto. Uno che poi, dopo aver fatto quello che aveva fatto, era finito in
manicomio criminale, nell’ospedale psichiatrico giudiziario, l’Opg.
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E già in quegli anni…parlo del ‘73, del ‘74…cercavamo di far qualcosa per tirarli fuori di là. Insieme a
Savarin, sparsi nei vari manicomi criminali c’erano più di trentatre triestini, allora, oltre a una baraonda
di italiani. Ma allora…cosa si poteva fare allora? Andarli a trovare, portargli un pacchetto di sigarette, e
poco altro.
Eh sì, quante ne abbiamo passate.
Cosa ho visto, io. Che postacci brutti. E quanta gente rinchiusa che fremeva di vita per uscire fuori.
E adesso che li ho visti praticamente tutti…Perché di manicomi giudiziari non c’è mica solo
Montelupo, eh!
Aversa e Napoli,
Barcellona Pozzo di Gotto a Messina,
Castiglione delle Stiviere a Mantova…l’unico in cui ci stanno anche le signore…poche ma belle. E xe
sempre un piazèr vederle…
Poi Reggio Emilia e Montelupo Fiorentino…
Li ho contati tutti? Sì sì, giusto, non mi sono mangiato la memoria: in Italia sono questi sei, i manicomi
giudiziari. E più di mille persone ci stanno chiuse dentro. Poche? Tante? Mah…
E allora io penso che, e voi pensate che, e tutti pensano che. E tutti dicono che. E anche le buone
signore che propongono le controriforme dicono che:
Ma che cavolo ci fanno ancora in piedi i manicomi criminali? Bisogna chiuderli tutti quanti. E subito.
Ma…ma voi…voi siete qui! (rivolgendosi a un gruppo di ragazzi internati )
E che ci fate?
Tu per esempio…perché diavolo stai qua?
Sandro: Il dolore di quello che ricordo è tanto grande che non riesco a dirlo neanche a te, Marco
Cavallo, neanche a te che pure sei amico mio.
Marco Cavallo – E tu? Tu ce la fai a raccontarmelo?
Charlie: Ah, sapessi che fesso che sono stato, io! Ho combinato ‘na fesseria che se potessi tornare
indietro non la rifaccio più manco morto.
Marco Cavallo – E tu laggiù? Tu che te ne stai in disparte?
Pasquale: È tante luntane, chell’ ch’ aggio fatte cha nu m’arricorde cchiù.
Marco Cavallo – E tu? Tu che ti mangiucchi le unghie tutto il tempo?
Claudia: Io ho fatto una cazzata tale che ancora mi ci mangio le mani.
Marco Cavallo – E allora…Io penso che…
Francesca: E a me? A me non me lo domandi?
Marco Cavallo – Scusami, sai. Ma mi stavo infervorando.
Francesca: Io pensavo di essere un mito quando facevo quello che facevo. Un vero mito. E invece…e
invece eccomi qua.
Pilade: E io? Io ci ho messo più di un anno per riattaccare le mani che…le mie mani alle mie braccia.
Perché non le riconoscevo più, queste mani. Non volevo che mi appartenessero più, dopo quello che
avevano fatto.
Marco Cavallo – E tu che alzi la mano?
Dario: Io pensavo di essere un impunito. Prima cantavo sui vaporetti per Ischia. E mi andava tutto
bene. Poi ho cominciato a fare assegni a vuoto e pensavo che si poteva fare tutto. E comprare una
televisione e costruire un palazzo e fare Zagarolo Due e comprare tutta l’ Italia. Ma poi ho visto che qui
in Italia solo pochi…anzi, solo pochissimi…anzi, forse solo uno…solo uno può fare tutto quello che gli
pare.
E invece io sono qua dentro.
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Marco Cavallo – Caro Drago, care amiche e cari amici di Montelupo Fiorentino, ho accettato questo
vostro invito perché so che voi qui state facendo quello che noi abbiamo fatto a Trieste.
Io penso e tutti i miei amici pensano e anche esimi dottori ed illustri scienziati lo pensano e anche i
ricercatori e gli studiosi lo pensano e anche i giudici e i giuristi lo pensano e anche i poeti e i teatranti e
gli scrittori e gli artisti lo pensano e anche voi lo pensate:
il manicomio criminale va soppresso, buttato giù, sfondato, disfatto, dismesso, distrutto, aperto,
cioè chiuso. Insomma chiuso.
Drago: Ma come si fa?
Marco Cavallo – Voi lo sapete molto bene…quello che i manicomi giudiziari sono.
Luoghi orrendi, sono. Istituzioni che vorrebbero curare la malattia e contenere la pericolosità e la
malvagità degli uomini. Ma che invece, come tutte le istituzioni totali, tutte ma proprio tutte, la malattia
la riproducono e la violenza e la malvagità la moltiplicano.
Perché invece di essere posti di cura, sono fabbriche di malattia.
Perché in manicomio matto sei e matto resti. In carcere criminale sei e criminale resti.
I manicomi giudiziari riproducono il peggio del peggio del manicomio e il peggio del peggio della
galera.
A Trieste, proprio perchè abbiamo rotto i muri, abbiamo scoperto che dietro quei muri c’erano tanti
uomini e donne. E che si può ascoltarli. E abbiamo scoperto che perfino le medicine, fuori dal recinto,
possono essere buone. E che le parole e gli sguardi e le mani permettono di avvicinare le persone. Per
sentire il loro male. Per sperare di guarire, di stare bene. O almeno di stare meglio.
Invece, dietro le mura, tante storie tristi o disperate si confondono. E le persone, le loro storie le
perdono.
Ma come si può pensare di vivere senza la propria storia? Io la mia ve la sto raccontando, se no cosa
potreste capire, di me.
Insomma, non c’è verso. Bisogna aprirli, cioè chiuderli. Punto e basta.
Dario: Ma come, Marco Cavallo?! Cosa diranno fuori? Che si chiude il manicomio giudiziario e
poi…E poi ci lasciano liberi tutti?
Charlie: E che quelli che hanno commesso reati orrendi li mandiamo fuori – diranno.
Sandro: Ma cosa diranno? E chi protegge la società? – diranno.
Francesca: E chi tutelerà i nostri figli da questi pericolosi matti che ne hanno combinate tante? –
diranno.
Marco Cavallo – Capisco queste preoccupazioni ma voglio dire una cosa che ho imparato in questi
anni. Da Basaglia in persona. Altro che mostri gente impaurite e strade deserte! È dietro le mura che
nascono i mostri.
Francesca: E cosa diranno? Che questi pericolosi matti che ne hanno combinate tante staranno fuori
come quei bravi cittadini che hanno sempre osservato la legge? Come quelli che non hanno mai
combinato niente di male? Questo diranno…
Ma ci pensi?
Marco Cavallo – Piano, piano.
Mica è facile affrontare questo problema.
È spinoso e contraddittorio, direbbe un serio professore, contraddittorio! Qua la faccenda si fa davvero
bigolosa, come diciamo a Trieste.
Io sono vecchio. Mi permettete di fare un po’…ma poco poco…di storia?
Tanti anni fa, quando sono nati i manicomi criminali, la psichiatria dei tribunali dava tutta la colpa e la
responsabilità dei crimini alla follia.
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Come se la persona non esistesse nemmeno, come se al posto della persona avesse agito solo la sua
malattia, la sua follia. Come se al posto di Francesca, di Charlie, di Pilade oppure di Pasquale avesse
agito la follia.
Ma io vi chiedo: il pittore Van Gogh, quando dipingeva, era lui che dipingeva o al suo posto dipingeva
la follia? Vogliamo togliere il nome di Van Gogh dai cataloghi delle mostre di Amsterdam e di Firenze
per metterci cosa al suo posto? La follia?
E gli scrittori Proust e Saba e Pavese e Philip Dick e Dino Campana quanti altri ancora non ve li sto a
elencare…, ma sono tanti e tanti…quando scrivevano, erano loro a scrivere oppure la loro depressione
o la loro schizofrenia?
E Antonin Artoud, quando scriveva e recitava, era lui che recitava oppure era la sua follia?
E Schumann, quando componeva, era lui tutto intero, oppure la sua musica era frutto della sua mania,
della sua depressione? E più frutto della sua mania o più frutto della sua depressione? E allora
cancelliamo il suo nome dagli spartiti? Per metterci cosa, al suo posto? Psicosi maniaco depressiva?
Disturbo bipolare? Depressione endogena?
E uno che si mette a picconare e a togliersi i sassolini dalle scarpe…è lui che lo fa oppure…oppure
che?
E santa Teresa D’Avila? E santa Caterina da Siena?
Voi lo sapete meglio di me. In manicomio, in manicomio giudiziario, ti dicono che tu non sei più tu!
Primo Levi…lo conoscete, voi?…è uno che è stato in campo di sterminio nazista ad Auschwitz, ha
scritto: “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue
abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a
sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso
tutto, di perdere anche se stesso”
Beh, Primo Levi scriveva dei campi di sterminio ma è come se parlasse anche dei manicomi. Tu non
sei più tu, Pasquale. Né tu, Francesca. Né tu, Dario. E nemmeno tu, Pilade. E neanche tu, Charlie. Voi
non siete più voi.
Perché qua non ti hanno solo tolto tutto, ma proprio tutto tutto tutto, ma anche quell’azione per quanto
tragica per cui tu sei finito qua dentro. Anche quel gesto te l’hanno portato via, nemmeno quell’azione
ti appartiene più. Qua dentro, qua in questo manicomio, non c’è più la tua vita. Non la trovi più.
E anche se, come stiamo facendo oggi, si aprono le porte per un giorno, tu continui a non esistere.
Pasquale: Ma io, quante (quando) agge (ho) fatte (fatto) chelle agge fatte (quello che ho fatto)…
Marco Cavallo – Cos’hai fatto, Pasquale?
Pasquale: È meglio che nun tt’o ddico. Ma quanne agge fatte…chelle agge fatte…l’agge fatte io o è
state a’ malatia mia?
Francesca: E io allora, quando ho fatto quello che ho fatto…
Marco Cavallo – Cos’hai fatto, Francesca?
Francesca: Meglio che non te lo dico. Ma ero io o era la mia malattia a farlo?
Marco Cavallo – E che malattia avevi?
Francesca: Mal di fegato!
Charlie: Marco Cavallo! Marco Cavallo!
Marco Cavallo -Dimmi, Charlie.
Charlie: Posso rispondere io?
Marco Cavallo – Certo che sì.
Charlie: Beh, secondo me un uomo, se è un uomo, è responsabile di quello che fa…
Claudia: Anche se è una donna?
Marco Cavallo – Beh, sì. Diciamo una persona.
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Drago di Montelupo: Allora, ogni persona è responsabile di quello che fa, anche se ha mal di fegato.
Anche se la pungono fitte tremende che le fanno vedere nero!
Marco Cavallo – Sono d’accordo con te, Drago di Montelupo.
La malattia non siete voi. Anzi: non siamo…perché mi ammalo anche io…non siamo noi. La malattia,
nessuna malattia, può possedere tutta la persona. Nessuna persona diventa solo la propria malattia.
Io non sono studiato, ma andando in giro e frequentando personalmente tutti quei dottori di Trieste,
qualcosa ho sentito anch’io.
Ludvig Wittgenstein, un filosofo, uno che non conosco di persona, ha scritto: “Negare la
responsabilità significa non richiamare l’uomo alla sua responsabilità”
Quanto è vero…
Siamo uomini, no?!
Francesca e Claudia: E donne!
Drago: Persone!
Marco Cavallo – Giusto. Siamo tutti persone.
E oggi, con tutto quello che sappiamo e con tutto quello che abbiamo sperimentato, non si può più
pensare che la malattia, nessuna malattia, può sostituire una persona. Nessuna malattia può rubarti la
vita. Nessuna malattia può togliere il significato delle tue parole. E per di più nessuna malattia è sempre
la stessa malattia.
Io per esempio…Io ieri sera, con l’idea di questo viaggio lungo e scomodo da Trieste fin qua…Ero
depresso, ero nervoso. Quasi quasi prendevo a calci l’autista che mi spingeva sul camion. Io ieri sera
mica ci volevo venire, a Montelupo Fiorentino.
E invece adesso sono contento di essere qua con voi.
Come sarò domani?
Insomma non si può dire: depresso e nervoso ieri sera, depresso e nervoso per sempre.
Così come non si può dire: malato per un momento, malato per sempre.
E nemmeno si può dire: matto per un momento, matto per sempre.
Insomma chiunque di noi, anche se malato, è una persona. E se è una persona vuol dire che ha una
responsabilità per tutto quello che fa: un capolavoro artistico, una spaghettata, una malagrazia, un gesto
gentile. Ma anche un crimine, ancorché efferato e di allarme sociale.
Un altro che gò sentì, neanche questo ho conosciuto di persona, Michel Foucault, filosofo, psicologo e
storico francese…mi pare che gà scritto tanti ma tanti libri. Beh…in uno di questi libri sta scritto: “Lo
stato deve occuparsi dei cittadini per quello che fanno e non per quello che sono“
Così ogni imputato anche se schizofrenico, psicopatico, maniaco, matto, pazzo ha come tutti il diritto di
essere giudicato da un tribunale e, in caso di condanna, di espiare la pena.
Drago: Tutte le persone e sempre?
Marco Cavallo – Io mi sono sempre domandato: ma cosa può voler dire quando i periti scrivono che
“il soggetto era incapace di intendere e di volere”?
Vuol dire demente? Uno che materialmente non ha cervello? Ma tu un cervello ce l’hai! Tu mi vedi, tu
mi ascolti, tu mi capisci.
E volere? Cosa può voler vuol dire che tu non volevi? Che qualcuno voleva al posto tuo? Che dentro la
tua testa avevi il cervello di un altro? Tu forse non volevi, quando hai fatto quella cosa che hai fatto e
che non mi vuoi dire. Mah…chi lo sa.
Forse in quei momenti non sei stato capace di trattenerti. Forse quella cosa che hai fatto ti sembrava la
soluzione più facile.
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Drago: Ma come Marco Cavallo? E la malattia? E il delirio? Le allucinazioni? Non c’entrano niente?
Marco Cavallo – Bella domanda, Drago di Montelupo, davvero una bella domanda.
È difficile rispondere. È doloroso.
Certo, non tutti né sempre capiscono e vogliono. Il delirio non è come l’acqua calda. E
l’allucinazione…
Mi sono spiegato?
Tutti: No!
Marco Cavallo – Scusate, avete ragione. Mi sono espresso male. Mi sono proprio incavallato. Adesso
ci riprovo.
A tutti noi capita che qualche volta siamo sopraffatti dalla rabbia, dal dolore, dalla necessità e non
riusciamo a tenere a freno quelle spine che ci trafiggono, quel demone che soffia fuoco e sputa ghiaccio
dentro di noi, quelle sirene che ci suggestionano e ci invitano.
Altre volte invece…beh, altre volte ce la facciamo, a essere padroni.
Ma mai e poi mai succede che, quando alziamo le mani contro qualcuno, pensiamo che questo sia
bello, che questo gesto, questo pugno o questo schiaffo sia un bene.
Cazzo se lo sappiamo, che gli faremo del male e che vogliamo fargli del male!
E allora quel giudizio di incapace di intendere e di volere può forse, e sottolineo forse, racchiudere
quel momento, quel gesto, quell’azione. Ma mai e poi mai può crocifiggere una persona intera una
volta per tutte.
Insomma! Se per alcuni imputati si considerano tutte quelle circostanze che.. e mille testimoni che.. e
trecento prove a discarico che.. e seimila elementi probatori che... Se alcuni imputati possono
difendersi per anni e anni, per esempio tre anni e ottantun giorni, con cento o duecento avvocati pagati
mille euro all’ora…e ricusare i giudici, per esempio otto volte, e poi ricorrere in Corte d’ Appello e in
Corte di Cassazione e in Corte di Parlamento e in Corte di Porta a Porta e non una nè due nè tre nè
quattro ma cento, mille volte…
Voi invece siete stati giudicati una volta per tutte in soli dieci minuti.
Come si può dire con sicurezza assoluta che uno di voi ha:
commesso un reato apparentemente incongruo
dunque è stato sospettato di essere affetto da un disturbo mentale
dunque il giudice ha disposto la perizia psichiatrica
dunque i periti hanno fatto la perizia psichiatrica
dunque è stata riscontrata l’incapacità di intendere e di volere
dunque siete stati riconosciuti non imputabili
dunque siete stati prosciolti
dunque siete stati riconosciuti socialmente pericolosi
dunque siete finiti in manicomio criminale.
Come si fa a dire una cosa del genere?
Come si fa a togliervi la vostra vita e le vostre azioni?
Drago di Montelupo: Allora tu, Marco Cavallo, dici che il matto è, di norma, capace di intendere e di
volere e che ha diritto a stare in giudizio in tribunale?
Marco Cavallo – Beh, finalmente sono riuscito a spiegarmi.
Certo che sì. E ha diritto di stare in giudizio con tutta la sua responsabilità individuale. Ma anche con la
possibilità di poter illuminare, di conoscere e di far conoscere ciò che gli è accaduto intorno: il
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contesto, la storia, le violenze, gli abbandoni, la sofferenza, i bisogni. Ricercare il significato e le
ragioni dei suoi comportamenti. Anche quando sono così estremi e all’apparenza oscuri.
Sapessi io…Quante volte m’hanno fatto incazzare questi dottori dei manicomi che…
Sapessi io…Cos’ho visto io in giro per l’Italia e per l’Europa! Li avrei presi a zoccolate in testa, quei
dottori, li avrei bastonati e…
E avrei commesso un reato? Sì, certo.
E se fossi stato giudicato colpevole, sarei stato condannato.
Drago di Montelupo: Ma allora, Marco Cavallo, ci stai dicendo che tutti, anche se sono malati, devono
espiare la pena? E che, anche se stanno male, devono andare in galera? Ma come possono andarci se
sono malati? E se non vanno in prigione, dove vanno?
Marco Cavallo – Tu lo sai bene, perché lo hai chiesto tante volte a quelli che stanno chiusi dentro i
manicomi giudiziari. E tutti ti hanno risposto che è meglio la galera che il manicomio.
Ti è sempre sembrato strano ma…vedi…è proprio così.
Intanto, in carcere bene o male hai dei diritti, sai perché ci sei entrato, sai quanto tempo ci resterai, hai
diritto a visite e a telefonate.
In manicomio giudiziario no: non hai più diritti, non sai perché ci sei entrato, né quanto tempo ci
resterai. Sei alla mercè della psichiatria, dell’onnipotenza dello psichiatra e della sua immensa bontà e
infinita misericordia.
Il tuo tempo è sospeso all’infinito.
Invece tutte le persone vogliono che gli venga riconosciuto il diritto al loro tempo, alla loro vita. Il
diritto di essere persone.
Drago di Montelupo: Parole sante, Marco Cavallo, parole sante. Ma…ma in concreto come si può
fare?
Marco Cavallo – Adesso vi racconto cosa facciamo noi, a Trieste.
Scusatemi se parlo sempre di Trieste. Non è perché da noi tutto funziona bene. Ma Trieste è la città che
conosco di più perché ci vivo.
Intanto diciamo che ogni cittadino detenuto ha diritto alla cura, alla continuità terapeutica: se era curato
prima di entrare in prigione, deve continuare ad esserlo anche dopo. E da quegli stessi centri di salute
mentale che lo curavano prima.
Quando funzionano ventiquattro ore su ventiquattro, i centri possono essere un luogo di cura per quelle
persone che stanno male e sono in attesa del processo. Intanto gli operatori possono concordare col
magistrato progetti per permettere a chi sta male con la testa di andare a vivere ed essere curati altrove.
Agli arresti domiciliari, nel centro stesso, in strutture residenziali oppure anche a casa propria.
Niente di più e niente di meno delle misure alternative alla detenzione che valgono per tutti. Per tutti i
cittadini, anche per quelli malati e anche per quelli matti. E così anche le visite, il lavoro, i corsi di
formazione, i laboratori artistici, le cure psichiatriche… Insomma, tutti quei modi per rendere non del
tutto inutile e disumana la detenzione. Per mantenere la persona vicino a casa propria, vicino a quelli
che la curano, vicino alla sua famiglia, ai suoi amici. Per non farla schizzar via come una biglia
imbizzarrita che si perde nel nulla.
Per garantire alle persone tutti i diritti. Tutti. Anche quello di essere condannati, se colpevoli, di avere il
diritto di scontare la propria pena, di avere il diritto di pagare il proprio debito.
Certo, è molto difficile trovare idee, pratiche e soluzioni. È molto più semplice chiudere la gente in
cella e buttar via le chiavi, ma dobbiamo provare. Provare a ragionare senza contrapporre cura e
punizione, cura e sorveglianza.
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E allora proviamo a farlo. E la fatica della discussione che stiamo facendo anche oggi non sarà stata
inutile. E tu, Drago di Montelupo, non mi avrai invitato per niente.
Con quello che sappiamo adesso…
La malattia mentale non è una malattia del cervello. E il malato mentale non è per ciò stesso pericoloso
e, anche se pazzo, è soprattutto un cittadino. Non un oggetto. Da rinchiudere, legare, torturare con
l’elettroshock e intossicare con farmaci in dosi da cavallo. Appunto…
Adesso ci sono medicine umane, terapie buone e il lavoro. Adesso si possono ascoltare le persone e le
loro storie. Adesso dalla malattia mentale si può guarire e i gesti più oscuri e misteriosi possiamo
raccontarli, illuminarli e comprenderli.
Oggi non possiamo più negarlo: tutto ciò che è umano ci appartiene.
E così possiamo riuscire a liberarci della necessità…ma chi l’ha detto poi, che è una necessità?…del
manicomio giudiziario. E se ce la facciamo a liberarci del manicomio giudiziario, chi ci dice che un
domani non potremmo liberarci anche della necessità del carcere?
Io c’ero, in quel lontano mattino di marzo del 1973. Io c’ero quando contro i muri del manicomio di
Trieste ululava il vento di bora e dentro si sentivano i lamenti e le urla dei ricoverati.
Cazzo, se c’ero! Io c’ero quando i manicomi erano ancora in piedi. E oggi non ci sono più.
E tra qualche anno mi piacerebbe tanto poter dire: pensate, io c’ero quel giorno a Montelupo
Fiorentino, quando i manicomi giudiziari erano ancora in piedi.
E sembrerà una favola perché i manicomi giudiziari non esisteranno più e anche il significato di quelle
parole si sarà perduto e quella frase suonerà strana, ridicola e senza senso e tutti rideranno di me.
Montelupo Fiorentino, 16/17 maggio 2003
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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II. Culture manicomiali
1. Grazia Zuffa, “Servizi di cura e custodia”, Fuoriluogo, gennaio 2004
2. Maria Grazia Giannichedda, “Luoghi di segregazione”, Fuoriluogo, gennaio 2004
3. Franco Marcomini, “Un distillato di filosofia manicomiale”, Fuoriluogo, gennaio 2004
4. Grazia Zuffa, “Siamo uomini o ‘malati’?”, Fuoriluogo, novembre 2004
5. Giuseppe Dell’Acqua, “Quelle esistenze ridotte al silenzio”, Fuoriluogo, novembre 2004
6. Grazia Zuffa, “Curare/punire, idee dai ‘cantieri’ di Cagliari”, Fuoriluogo, ottobre 2007
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Servizi di cura e custodia
GRAZIA ZUFFA
Per cogliere appieno la svolta del governo sul versante dei servizi, è utile partire dai trattamenti previsti
per i consumatori che provengono dal circuito penale. È lì che si coglie appieno il senso della cura, in
una proposta di legge che giustifica l’inasprimento punitivo quale via maestra per la terapia “espiativa”.
Cruciale è perciò l’articolo 89: nel testo attuale della legge, esso sancisce che non possa essere disposta
la custodia cautelare in carcere «quando imputata è persona tossicodipendente che abbia in corso un
programma di recupero», presso i servizi pubblici o le comunità. Nella rielaborazione governativa, si
stabilisce che il programma si svolga sempre in regime di arresti domiciliari. Inoltre, nel caso in cui
«sussistano particolari esigenze cautelari», il programma può essere svolto solo «in struttura
residenziale», leggi comunità. Ancora: è il giudice a stabilire non solo i controlli per accertare la
prosecuzione del programma, ma anche «gli orari e i giorni in cui (il tossicodipendente) può assentarsi
per l’attuazione dei programmi». Insomma, alla (pur ambigua) “alternativa terapeutica”, si sostituisce
tout court la “detenzione terapeutica”.
Come nota Alessandro Margara in queste stesse pagine, molte comunità non accettano persone agli
arresti domiciliari. O sarebbe meglio dire: non le accettano le comunità i cui programmi tendono al
reinserimento delle persone, e non a isolarle, in nome di esigenze di pura contenzione. Per fare un
esempio: in molte comunità, la prima forma di responsabilizzazione degli ospiti è la gestione della
struttura con conseguenti uscite a rotazione per fare gli acquisti. O per partecipare a qualche corso
professionale, o magari a qualche evento sociale o culturale, così come avviene nella vita “normale”.
Insomma, la libertà (di movimento) è terapeutica, ed ecco perché la detenzione in comunità è
incompatibile, o estremamente difficoltosa. Di fatto, i detenuti sono esclusi da buona parte della vita
dei pari, e quanto questa discriminazione sia “terapeutica”, è facile immaginare.
Con ogni evidenza, non è la cura delle persone che sta a cuore al legislatore, quanto la garanzia che
queste siano ben sorvegliate. Perciò sono privilegiate le comunità, rispetto ai servizi territoriali. Non
tutte le comunità, ripeto, bensì quelle a vocazione custodiale. E che costituiscono, guarda caso, il punto
di riferimento ideale, politico e clientelare del governo. La sovrapposizione fra logica carceraria e
terapeutica è completa: non è un caso che alla comunità/ carcere, si affianchi la novità del
carcere/comunità. Così il privato entra trionfalmente, anche in Italia, nella gestione degli istituti
penitenziari. La svolta del governo sta nell’abbandonare la retorica trattamentale, ridotta appunto a
niente più che retorica. Perché “le alternative” alla pena non sono affatto alternative, ma assomigliano
tanto a quelle istituzioni segreganti auspicate dalla controriforma psichiatrica del governo, come ci
spiega Maria Grazia Giannichedda (a pag. 8). Si ritorna insomma alla logica manicomiale, della “cura e
custodia”, appunto. L’impronta di segregazione sociale che presiede alla legge risalta ancora di più, se
si pensa che il target dei nuovi utenti è costituito dai giovani consumatori di droghe leggere. È una
platea assai vasta, visto che in Europa, così come negli Usa, circa la metà degli studenti delle superiori
sperimenta la canapa. Nella stragrande maggioranza, si tratta di giovani che studiano, o che si avviano
a trovare un lavoro, inseriti socialmente, perlopiù. Ragazzi “normali”, si potrebbe dire. Che di sicuro
“normali” non saranno più, quando dovranno abbandonare la scuola per un soggiorno “obbligato” in
comunità, o troveranno ostacoli nel lavoro o nel tempo libero, grazie alle sanzioni del Prefetto (più
severe di prima e non più evitabili). È proprio la “normalizzazione” di certi tipi di consumo,
compatibili con la vita sociale, che la legge vuole contrastare, “invalidando” i consumatori, con
punizioni vere o mascherate. Cade il velo della “riabilitazione” per il “ragazzo drogato e emarginato”, e
la proposta Fini mostra il viso truce dell’autoritarismo puro, senza l’orpello ipocrita della “solidarietà”.
Da Fuoriluogo, gennaio 2004
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Riprende l’iter parlamentare della controriforma psichiatrica
LUOGHI DI SEGREGAZIONE
Offende la sfacciata riproposizione della pericolosità sociale del malato di mente, evocata anche per il
tossicodipendente
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA
In commissione affari sociali della camera è appena approdato il nuovo testo della controriforma
psichiatrica (ddl n.152) che dovrebbe essere discusso in marzo, a quanto annunciato dalla relatrice
Burani Procaccini (Fi). Il nuovo articolato glissa sulla prescrizione di strutture, in ossequio
all’autonomia delle regioni che avevano contestato il testo precedente. Resta confermato invece
l’attacco radicale ai diritti della persona e alle garanzie sul trattamento psichiatrico, con l’istituzione di
forme di trattamento obbligatorio di medio e lungo periodo in strutture «residenziali con assistenza
continuata» (Sra), anche private, per persone con «evidenti alterazioni psichiche e comportamentali» e
per «i malati destinati agli ospedali psichiatrici giudiziari».
Contro questa evenienza si è formato, a partire dal testo del 2001, un fronte di dissenso vasto e inedito
nella sua composizione, che include associazioni di psichiatri e psicoterapeuti dei più diversi
orientamenti, la quasi totalità delle associazioni di familiari, gran parte del mondo associativo e del non
profit, nonché esponenti autorevoli della maggioranza. L’elemento che accomuna questo variegato
dissenso non è tanto l’idea basagliana che “la libertà è terapeutica”, ancora ostica ai più. È piuttosto il
rifiuto della segregazione assistenziale, ovvero della creazione di istituzioni esplicitamente finalizzate a
offrire, anche in forma obbligatoria, assistenza, residenza e riabilitazione (cos’è una riabilitazione
obbligatoria?) per persone definite croniche, disabili, gravi. Preoccupa inoltre l’associazione “disturbi
psichici e comportamentali”, chiarita, nel suo significato, dalla proposta di inviare nelle Sra le persone
destinate ai manicomi giudiziari.
Un passo indietro rispetto ai manicomi, hanno detto in molti, definendo “pre-pineliane” queste
istituzioni, dal nome del medico francese Pinel cui la storia della psichiatria attribuisce la liberazione
dei folli dalle catene del carcere e la consegna della follia alla medicina, e quindi all’utopia della
guarigione. I manicomi, è noto, hanno poi usato proprie catene, fisiche e chimiche, che tutt’ora la
psichiatria non disdegna, e non hanno mai guarito nessuno, ma la psichiatria e il più vasto mondo “psy”
non offrono solo manicomio, e anche questo è ben noto. Perciò fa scandalo, e offende la gran parte
degli psichiatri, questa sfacciata riproposizione della pericolosità sociale del malato di mente e la sua
disperante consegna a una galassia di contenitori assistenziali, con ore d’aria nel verde e fatue «attività
occupazionali». Il tutto naturalmente pagato con denaro pubblico, quello che si sottrae o si lesina ai
servizi di salute mentale comunitari, ai progetti di riabilitazione, alle reti sociali, in cambio di istituzioni
che vivono sulla certificazione del disagio e sulla segregazione di chi lo patisce.
Potremmo riflettere a lungo sull’idea di salute, di politiche sociali, di professioni sanitarie e sociali, e
anche di società e di umanità che stanno alla base di un progetto come questo, e potremmo anche
rintracciare evidenti consonanze con quanto il centrodestra propone per le tossicodipendenze, con
quanto fa sui problemi di anziani e disabili, o con la cultura che sottende il progetto di trasformare in
parcheggio assistenziale anche il “tempo pieno” della scuola dell’obbligo. Riflessioni tutte che vanno
fatte, per capire a fondo e combattere davvero questa destra, che sta in parlamento ma anche nella
società, accanto a noi e talvolta fra di noi, che pure in via di principio vogliamo altro.
Sto pensando ad A.M., un giovane uomo abbastanza matto, un po’ insufficiente mentale e purtroppo
per lui grosso e forte, che sta da quattro anni legato in un servizio pubblico di Roma dove lavorano
diverse brave persone, che infatti non lo hanno finora deportato in uno dei contenitori compiacenti di
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cui abbonda il privato profit della regione Lazio, la cui giunta sta in queste settimane disponendo un
contestato accordo che rivaluta le rette delle cliniche private, anticipando nei fatti ciò che la
controriforma vorrebbe istituzionalizzare. A.M. costa moltissimo oggi, in un servizio che gli fa male. Si
dovrebbe portarlo fuori di lì, e con gli stessi soldi, e qualche supporto di Comune e Provincia si
potrebbe costruire un progetto personalizzato. Il quadro normativo c’è, oltre la “180” è la legge n.328
del 2000 sulla riorganizzazione dell’assistenza, uno dei prodotti buoni del centrosinistra al governo. Ma
dove sono gli strumenti di attuazione della 328? Quante regioni, quante Asl, quanti servizi hanno in
questi anni risposto alla cultura disperata e disperante del contenitore assistenziale, del parcheggio,
della segregazione costruendo i progetti e i budget personalizzati? Certo, oggi è più difficile con le
attuali politiche di tagli ma il problema di fondo è che occorre rompere le inerzie dei servizi e magari le
comodità del personale, e cambiare la testa e gli strumenti degli amministratori, e anche in luoghi e con
gente di centrosinistra la cosa non è affatto facile. Ma non c’è altra strada per battere la destra, in
parlamento e nella società, e per governare domani in modo davvero diverso.
Da Fuoriluogo, gennaio 2004
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IL CONSUMATORE E’ UN MALATO, GLI ESPERTI DA BAR IN SOCCORSO DEL GOVERNO
UN DISTILLATO DI FILOSOFIA MANICOMIALE
FRANCO MARCOMINI*
La casa nella quale si vogliono sequestrare tutte le libertà, nella veste di una persona che annovera il
fascismo sia nel suo patrimonio personale, come sistema di valori, che in quello culturale e politico,
batte la gran cassa mediatica suonando un motivetto che recita in questo modo: 1. il consumo di droghe
è illecito, 2. applicheremo la linea dura: o carcere o comunità, 3. finirà la linea permissiva cara alla
sinistra. Questa proclamazione virtualmente rassicura l’opinione pubblica e converge con le posizioni
di uno sparuto gruppo di luoghi residenziali, attenti più all’impatto di immagine che alla concretezza
dei risultati. Contemporaneamente si profilano presunti esperti che individuano una teoria quanto meno
bizzarra, ma pericolosa nei confronti delle droghe. Hanno scoperto che i consumatori di droghe, che
loro chiamano tossicodipendenti dimostrando un rigore scientifico assimilabile alle chiacchiere da bar,
sono affetti da una vulnerabilità biologica che ineluttabilmente declina verso una incapacità decisionale
che impone l’obbligatorietà della cura.
Su questo aspetto vantano una mole di lavori scientifici, soprattutto nel campo della genetica, delle
neuroimmagini e della psichiatria nell’ambito specifico della doppia diagnosi. Dimenticano tuttavia
un’evidenza scientifica che è nota a tutti coloro che amano la libertà della scienza rispetto alla
cortigianeria compiacente che assicura vantaggi se si paludano di scientificità le grossolane opinioni
dei principi di turno. Molto semplicemente, ogni abitudine, ogni comportamento consolida modelli
neurobiologici che rimangono inscritti nel patrimonio mnestico e che nel caso specifico dei delicati
meccanismi che sovrintendono la modulazione emozionale del rapporto piacere, sofferenza, dolore
assumono una forza reiterativa che attiene ai modelli personali e culturali che cercano di mediare tra
soddisfacimento del bisogno e costruzione del desiderio.
Nulla di strano e nulla di patologico, ma espressione autentica ed esistenziale di un soggetto che per un
momento o per sempre desidera sottrarsi a quella devastante condizione obbligatoria di homo
economicus, con il suo insieme cinico di gioco di interessi che osano chiamare valori e che devastano
l’intimità della persona in una prospettiva anedonica ed anestetica di fronte alla quale i presunti esperti
o giullari farebbero bene ad interrogarsi vista l’entità dell’evidenza scientifica sia nel campo neuro
fenomenologico che in quello cognitivo comportamentale. Sia chiaro, le droghe possono fare male.
Tutte le droghe e prima fra tutte l’alcol dal quale il monopolio liberista trae profitti legali e indecenti.
Ma questa non è una ragione sufficiente per ridurre, patologizzando, il diritto del singolo, e quindi la
sua libertà, di sperimentarsi nella ricerca tra piacere e sofferenza. Anche la malattia mentale è prima di
tutto sofferenza esistenziale che non può essere sequestrata nei manicomi, ma gestita amorevolmente in
un rapporto empatico che per sua natura evita il giudizio, ma fa vibrare in sé la comprensione dell’altro.
Dire decisamente no alla proposta Fini significa pertanto dare un contributo fondamentale a evitare una
manicomializzazione che non ridurrà i consumi di droghe, ma ne aumenterà i danni rinforzando quel
terreno di omertà che piace tanto alle mafie, con le quali secondo un virtuoso ministro di questo
governo dovremmo imparare a convivere. Noi dobbiamo imparare a convivere con i consumatori di
droghe e con le loro domande di senso che la droga non risolve, ma indica in modo paradossale.
Potremo ridurre i danni e forse anche i consumi solo se sapremo trovare altre strade esistenziali a quelle
domande non certo immorali ed illegittime, ma inscritte nel codice etico di ciascuno.
*Responsabile alcologia, Dipartimento per le dipendenze Padova
Da Fuoriluogo, gennaio 2004
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SIAMO UOMINI
O “MALATI”?
GRAZIA ZUFFA
Non è la prima volta che Fuoriluogo affronta il tema della filosofia neomanicomiale alla base sia del
disegno governativo sulle droghe che della bozza di controriforma psichiatrica. Ciò che le accomuna è
la “segregazione assistenziale”, come scriveva Maria Grazia Giannichedda (gennaio 2004). Nel caso
della salute mentale, ciò si traduce nella creazione di istituzioni destinate a offrire “cura”, anche coatta,
a categorie ampie di soggetti definiti “cronici” e disabili (mentre perpetua la logica, nonché l’esistenza,
della vecchia istituzione del manicomio giudiziario). Nel caso dei consumatori di droghe, una delle
novità sta nella (rozza, ma non per questo meno insidiosa) torsione custodiale della comunità
terapeutica, che si configurerebbe come un “trattamento” sotto coercizione, destinato, nei fatti, a
rinchiudere e isolare le (tante, tantissime) mele marce.
In questo numero iniziamo un viaggio (che continuerà nel prossimo) di approfondimento a monte, sui
processi e sulle tendenze culturali che fanno da sponda a questo rilancio a tutto campo di servizi ispirati
alla “cura e custodia”.
Abbiamo individuato un primo filo di riflessione, che tentiamo di seguire, senza perdere, speriamo,
l’insieme della ingarbugliata matassa. Quello cioè della progressiva patologizzazione di
comportamenti, ma anche di sentimenti e di esperienze di vita. O per meglio dire, la riduzione a
“malattia”, con la conseguente medicalizzazione e “farmacologizzazione” di ciò che in altri contesti,
storici e/o sociali, era inquadrato piuttosto nelle problematiche esistenziali. Come spiega acutamente
Michael Gossop nel suo bel libro Living with drugs, sempre più ci si rivolge al medico per il “male di
vivere”: il medico offre la sua risposta di repertorio (lo psicofarmaco) e ciò consacra l’idea che si abbia
a che fare con una patologia “oggettivata”, trattabile in scienza (se non in coscienza). Quanto poco in
tutto ciò ci sia di “oggettivo”, per non parlare di scientifico, è bene illustrato dalla vicenda dei bambini
curati col Ritalin, qui affrontata. Nel caso delle droghe illegali, la patologizzazione dei (differenti)
comportamenti di assunzione è un processopiù antico e di complessa valenza, portato storico della
proibizione: proprio per questo il farmaco metadone, e più in generale il trattamento, sono
profondamenteinfluenzati dal significato, socialmente attribuito al consumo (e individualmente
interiorizzato). Il che dovrebbe rendere particolarmente accorti sul ruolo dell’ambiente nell’evoluzione
(e prima ancora nella definizione) della “malattia” della tossicodipendenza, senza rifugiarsi nella
biologia, interpretata (appunto) come regno della “certezza”.
Qui sta il punto, e non tanto nella parola “malattia”. Poiché di per sé, la distanza fra “male di vivere”,
malessere, malattia, potrebbe non essere così grande. A condizione di mantenere uno sguardo critico
sul sottile crinale che distingue i termini. A condizione di non perdere il senso del continuum fra salute
e malattia, il filo dell’oscillazione fra “normalità” e “disturbo”, indispensabile per comprendere la
sofferenza umana. Dando, di conseguenza, parola a chi soffre. Al contrario, nelle culture neoautoritarie
la parola malattia è usata con valenze di definizione, catalogazione, distinzione certa fra normali e
malati, segregando gli ultimi. E sottraendo loro le famose “parole per dirsi”.
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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QUELLE ESISTENZE
RIDOTTE AL SILENZIO
Per acquisire dignità, la psichiatria
assume i modi del determinismo
biologico e il lessico delle neuroscienze
GIUSEPPE DELL’ACQUA
La legge 180 per il momento è al sicuro. Gli accanimenti riformatori sembrano dare tregua. Ma
ricompariranno non appena le circostanze interne alla maggioranza di governo saranno più favorevoli.
Sul fronte delle tossicodipendenze proposte di legge e culture restrittive agiscono di concerto. E mentre
si discutono i servizi per le persone e con loro i diritti, la solidarietà, le opportunità, le libertà, la
cittadinanza corrono rischi reali. Si affacciano con prepotenza stili operativi che alludono a modelli
culturali che sembravano superati o quanto meno ridotti nelle loro forza oggettivante, forme
organizzative che polverizzano i servizi pubblici, sistemi “liberisti” che intendono valorizzare
l’imprenditorialità privata e la competizione fantasticando una presunta libertà di scelta che finisce per
privare di opportunità i soggetti più deboli e più esposti. Molte sono le evidenze ormai di come il
sistema pubblico rischi, in questi nuovi scenari, di essere ridotto a una funzione di raccolta delle
“scorie”, degli scarti del privato, sociale o mercantile che sia. Di come queste scelte di campo tendano
sempre più a riprodurre l’intervento specialistico e a separarlo dai problemi legati all’esistenza delle
persone, ai loro contesti, alle condizioni di vita, alle storie. E di come modelli scientifici e culturali,
siano essi biologici, clinici, psicologici, alimentano lo scollamento dei servizi e degli operatori dalla
realtà cercando di conquistare il monopolio del mercato. Il problema dello “scollamento” tra realtà e
modelli, tra modelli causali di malattia, codici diagnostici e presenza concreta di singolari persone è
ampiamente riconosciuto da tutti gli operatori del campo. Esso è pane quotidiano nelle discussioni dei
gruppi di lavoro più attenti.
Poco tuttavia la psichiatria sembra riflettere sulla questione: da un lato è impegnata ad accreditare la
sua improbabile legittimità scientifica omologandosi ai modelli biologici, dall’altro la infinita
variabilità del quotidiano, la infinita ruvidezza delle esistenze e dei conflitti delle persone sembrano
essere un disturbo, un accidente che la stessa psichiatria inutilmente tenta di scotomizzare, ignorare,
accantonare, silenziare, delegare.
Ed è proprio questo il punto. La psichiatria appare, ritiene di assumere spessore e dignità soltanto
quando si presenta con i modi del determinismo biologico, della neuropsicologia, della biologia
molecolare, della genetica, col lessico delle neuroscienze. Ritiene di essere credibile quando diventa
ricerca del farmaco “che cura la malattia”.
In realtà il campo della ricerca biologica sempre più correttamente sta evidenziando la limitatezza dei
modelli biomedici, in rapporto alla vastità delle ormai infinite correlazioni tra innumerevoli mediatori
chimici. Le conoscenze in questo campo vogliono essere messe in relazione con la persona con altre
strade, con differenti strategie. Devono, possono, alimentare la dialettica e costruire tensioni intorno
alla persona. Tuttavia questa sensata posizione sembra essere impraticabile per la psichiatria.
E si moltiplicano i tentativi di spiegare riducendo a molecole emozioni, sentimenti, guarigioni, abilità,
scelte singolari. La potenza dell’industria farmaceutica sostiene questi modelli che finiscono per
diventare predominanti e totalizzare tutto il lavoro psichiatrico. Basterebbe pensare al recente
congresso mondiale di Firenze del Wpa (World Psychiatric Association) e al gigantesco dispiegamento
di forze di tutte le multinazionali del farmaco associate.
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È evidente invece quanto articolato debba oggi essere il lavoro terapeutico-riabilitativo (e comunitario)
e quanto poco appropriato finisce per essere l’intervento centrato su scelte monoculturali. Che siano
biofarmacologiche, cliniche, psicologiche, sociologiche restano sempre terribilmente riduttive. Dopo
più di vent’anni di sperimentazione del lavoro comunitario sia con i matti che con i tossici è possibile
riconoscere le miserie prodotte da scelte e interventi monoculturali.
La riduzione dei servizi in luoghi di psicoterapia, per esempio, ha impedito la crescita di reti, di
partecipazione; ha permesso l’affermazione di modelli privatistici; ha limitato la potenzialità del
cambiamento avviato dal processo di riforma.
Soltanto per chiarezza e ancora per esempio una breve digressione sulla questione del modello
psicofarmacologico.
Gli psicofarmaci – com’è possibile negarlo? – sono strumenti fondamentali nel trattamento del disturbo
mentale: sono utili a far fronte a sintomi drammatici, a contenere lo scompenso, a lenire insondabili
dolori personali, a sopportare le astinenze, a consentire più rapido accesso a percorsi di rimonta di
abilitazione di emancipazione. Eppure quando il modello prende il sopravvento e diventa lo strumento
per la lettura della realtà costringe ad operazioni tragicamente semplificatorie. Più banalmente di
impoverimento quando accosta e confonde ambiti e dimensioni inconfrontabili. Dimensioni
incompatibili tra loro in quanto riguardano la vita, la singolarità dell’esistenza, i sentimenti, gli affetti,
le scelte individuali che vivono sempre in un loro singolare contesto, in una loro irripetibile
temporalità. E intanto il modello influenza il rapporto tra le persone, la crescita e lo sviluppo dei
servizi, le scelte organizzative, i programmi terapeutici.
Se la psichiatria continuerà a non riflettere su questo dato, si costringerà sempre più a modelli di
estrema povertà. I farmaci in questo senso sono sottrattivi. Si collocherà nel campo delle scienze
biologiche con adesione ancora maggiore delle altre discipline mediche, continuerà a proporre
spiegazioni, misurazioni, definizioni a costo della perdita del senso e della dimensione singolare
dell’esperienza. Le medie, le scale, le oggettive ed evidenti osservazioni, altri direbbe lo sguardo freddo
e distante della clinica, poco hanno a che vedere con le persone, con i soggetti, con le singolari e
molteplici identità. Perfino chi fa ricerca nel campo delle neuroscienze sa bene che il cervello medio è
cosa ben diversa dalla singolarità del cervello, sa bene che ambiti differenti, diverse stimolazioni
sviluppano reti neuronali e modalità di funzionamento differenti.
È paradossale peraltro che il modello biopsichiatrico continui a svilupparsi su un assunto mai
dimostrato: la lesione del cervello. Nancy Andreasen, in un classico intervento del 1997 sull’American
Journal of Psychiatry, nel descrivere il modello biopsichiatrico articola tutte le deduzioni, sviluppa
tutto il discorso, fino alle più significative indicazioni terapeutiche, a partire dalla premessa che le
lesioni del cervello seppur non dimostrate saranno sicuramente scoperte. Sulle lesioni da scoprire, to be
discovered lesions, si fonda dunque il modello della ricerca. Fin qui, se si resta nel terreno delle ipotesi
di ricerca, va tutto bene; è paradossale invece che sulle to be discovered lesions si fondino le
organizzazioni dei servizi psichiatrici e per la salute mentale, le pratiche di intervento e i destini delle
persone.
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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Curare/punire, idee dai “cantieri” di Cagliari
GRAZIA ZUFFA
Curare/punire: questo il tema, assai pregnante, di uno dei “cantieri di lavoro” di Strada Facendo 3, il
grande appuntamento di elaborazione sulle politiche sociali promosso dal gruppo Abele a Cagliari. Il
dibattito nel “cantiere” (coordinato da me, Stefano Regio e Maria Grazia Giannichedda) è stato intenso,
mi limito perciò a qualche spunto di riflessione.
Il senso del “punire” nella moderna visione securitaria. La parola “sicurezza” ha ultimato la parabola
di rovesciamento di significato. Fino a qualche decennio fa evocava la “sicurezza sociale”, ossia quelle
politiche pubbliche di welfare che dal dopoguerra in poi si sono sviluppate in Europa. Politiche di
approccio “universalista”, che hanno promosso diritti sociali per tutti e sostegno ai più deboli per
ridurre le disuguaglianze. Politiche di coesione sociale, in una parola. Oggi, “sicurezza” evoca politiche
penali per difendere la main stream society da individui e gruppi sociali, percepiti come “socialmente
pericolosi”. Politiche di intolleranza sociale, in una parola.
Si dirà (qualcuno l’ha ripetuto anche a Cagliari) che la solidarietà non c’entra, che si tratta di “rispetto
della legalità”. Non è vero, anzi faccio notare che gli atti più simbolici delle campagne sicuritarie
lanciate da alcuni sindaci sono contro le leggi vigenti. Così è per l’ordinanza del Comune di Firenze
con misure a carattere penale contro i lavavetri, bocciata (per ben due volte) dalla Procura della
Repubblica. Perché si vorrebbe equiparare a reati le cosiddette “condotte disordinate”, i disorderly
behaviours (dei drogati e degli accattoni, delle prostitute e degli “illegali”). Gente che – si lamenta
qualcuno – offende il nostro “decoro”. Dimmi come parli e ti dirò chi sei.
Il “rispetto della legalità” è invocato anche da un’ampia schiera di paladini della morale pubblica:
quelli che l’altro ieri hanno tuonato contro l’indulto («nessun sconto a chi ha commesso un reato»);
quelli che ieri «fuori gli ex terroristi dagli incarichi pubblici»; quelli che oggi «via i condannati dal
Parlamento». Magari in nome della giustizia «contro i potenti». È bene non farsi ingannare: ciò che
accomuna questi proclami è l’idea di pena, che non ha più di vista il reinserimento del condannato, anzi
lo aborre. La pena non si estingue, diventa marchio, stigma morale per sancire l’allontanamento
perpetuo del condannato dal consesso civile. La lettera scarlatta, insomma. Ancora un movimento di
espulsione sociale e un’idea di “legalità” assolutamente al di fuori del dettato costituzionale.
Cura e custodia. Dopo l’abolizione dei manicomi, l’unica istituzione di cura e custodia che rimane è
l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Ma la cultura manicomiale persiste: ne sono tristi esempi alcune
residenze per anziani che applicano la contenzione (certi medici arrivano a prescriverla sul ricettario
del Servizio sanitario nazionale, si è detto); così come le “alternative terapeutiche” per detenuti
tossicodipendenti da “scontare” agli arresti in comunità (così il dettato della legge Fini Giovanardi).
Quanto all’Opg, l’augurio è che si inizi dalle buone pratiche (per spianare la strada – si spera – ad una
buona legge): le regioni riportino sul territorio gli internati giudicati non più pericolosi; i servizi si
impegnino a fornire valide cure in carcere ai condannati con problemi di salute mentale. La Sardegna lo
sta facendo e gli internati negli Opg si sono ridotti di oltre un terzo.
Da Fuoriluogo, ottobre 2007
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III. Droghe, patologie psichiatriche e doppia diagnosi
1. Daniel Lukes, “Il tempo delle ‘eresie’”, Fuoriluogo, marzo 2002
2. Marina Impallomeni, “Evidenze e pregiudizi”. Intervista a Lester Grinspoon, Fuoriluogo,
dicembre 2002
3. Grazia Zuffa, “La scienza tra miti e fatti. La campagna contro la canapa: scende in campo il
Consiglio Superiore di Sanità” (scheda), Fuoriluogo, ottobre 2003
4. Maria Grazia Cogliati Dezza, “Tante porte girevoli per scivolare ai margini”, Fuoriluogo,
maggio 2004
5. Henri Margaron, “Gli Harquis della psichiatria e dei Sert”, Fuoriluogo, giugno 2004
6. Stefano Vecchio, “Sofferenze tossiche, una sfida ai servizi”, Fuoriluogo, luglio/agosto 2004
7. Grazia Zuffa, “Doppia diagnosi, una giubba rivoltata”, Fuoriluogo, dicembre 2004
8. Leopoldo Grosso, “Pazienti gravi e utenti gravosi”, Fuoriluogo, dicembre 2004
9. Giorgio Bignami, “Canapa e tabelle, inglese è meglio”, Fuoriluogo, febbraio 2006
10. Giorgio Bignami, “La giravolta dell’Independent”, Fuoriluogo, marzo 2007
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Regno Unito, sì alla tolleranza sulla canapa in due rapporti commissionati dal governo
IL TEMPO DELLE “ERESIE”
Daniel Lukes
LONDRA
Nell’ottobre 2001 il ministro degli Interni David Blunkett annunciava di voler riclassificare la cannabis,
portandola da droga di classe B a classe C, sullo stesso livello di steroidi e psicofarmaci: in tal modo le
infrazioni per uso personale della sostanza non sarebbero più passibili di arresto (cfr. Fuoriluogo,
novembre 01). Da allora ci sono stati eventi e passaggi chiave che mostrano chiaramente un’apertura
verso la legalizzazione e la depenalizzazione nella classe politica inglese, nonostante la linea ufficiale
del governo continui a rifiutare passi in questa direzione.
Tra gli sviluppi più recenti, ci sono due rapporti commissionati dal governo Blair, l’uno della Joseph
Rowntree Foundation, l’altro dell’Advisory Council on the Misuse of Drugs, che sono stati pubblicati a
metà marzo: ambedue concordano nel suggerire lo spostamento della canapa nella classe C. Il primo
rapporto giustifica la proposta soprattutto con motivazioni economiche e sociali, sottolineando gli
effetti negativi provocati dall’illegalità della droga; il secondo adduce invece ragioni di carattere
scientifico, argomentando che la classificazione attuale nella B, insieme ad amfetamine e barbiturici,
non corrisponde al livello minore di danni causati dall’uso di cannabis. Tutto ciò segue a brevissima
distanza la conferenza primaverile a Manchester del partito liberale di opposizione, i Liberal
Democrats di Charles Kennedy: il 10 marzo 2002 l’assemblea ha votato una mozione per legalizzare
l’uso e il possesso di cannabis, e per depenalizzare il possesso di droghe più pesanti come la cocaina,
prendendo atto del fallimento della war on drugs. Questo pacchetto di riforme rappresenta la proposta
più radicale mai sostenuta da un partito politico inglese. Secondo la nuova linea ufficiale dei liberali, la
cannabis verrebbe venduta nei negozi come le sigarette, mentre il possesso per uso personale di
qualsiasi droga, anche eroina e cocaina, non comporterebbe alcuna sanzione penale.
Altre novità per la canapa si sono registrate lo scorso febbraio: il Dipartimento per la Salute ha
annunciato che entro il 2004 potrebbero essere prescritti a carico del Servizio sanitario nazionale degli
antidolorifici a base di cannabis. Centinaia di malati di sclerosi multipla vengono già trattati con
medicine a base di cannabis in esperimenti clinici finanziati dal Medical Research Council (Consiglio
di ricerca medica), ma le nuove proposte riguardano il possibile utilizzo della droga anche in altri
campi, come quello del dolore postoperatorio. Lord Hunt, del ministero della Sanità, ha negato che ci
sia una contraddizione tra l’uso medico della cannabis e l’attuale illegalità della droga. «Penso che sia
importante fare una distinzione tra le droghe usate per trattare la sclerosi multipla e l’uso della cannabis
fumata per piacere» ha detto.
La casa farmaceutica britannica GW Pharmaceuticals, che sta lavorando a medicinali a base di
cannabis, ha reso pubblico il progetto di ampliare la sperimentazione già in atto al trattamento di malati
di cancro. Intanto la ditta sta sviluppando un anti-dolorifico a base di cannabis che si spruzza sotto la
lingua, con risultati positivi, a quanto pare. Varie associazioni hanno accolto molto positivamente
l’annuncio del Dipartimento della Sanità, e la Medicinal Cannabis Research Foundation (Mcrf) ha
sottolineato la necessità di studiare l’utilizzo della canapa anche per i malati di artrite ed epilessia.
Intanto a Londra, nel quartiere di Lambeth, è in atto da sei mesi il progetto-pilota ideato dal
Comandante di Polizia Brian Paddick: la polizia non arresta per l’uso personale di canapa, ma si limita
a emettere un avvertimento informale. Ciò permette alla polizia di concentrare le risorse su altre forme
di crimine e sullo spaccio di droghe pesanti. Il progetto è ben accolto sia dalla popolazione del luogo,
sia dal capo della Metropolitan Police (la polizia di Londra), Sir John Stevens, che sta pensando di
estendere il progetto a tutta la città. Di recente ci sono state polemiche perché il Comandante Paddick
ha fatto dichiarazioni poco ortodosse che sono apparse su un sito internet di stampo anarchico: tra
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l’altro ha detto che una grande fetta di «membri normali e benestanti della società» che usano
saltuariamente droghe come la cannabis e l’ecstasy con i soldi che hanno guadagnato onestamente, non
causano alcun danno sociale. Ma Brian Paddock non è l’unico poliziotto che ha reso pubbliche le sue
opinioni scomode sulle politiche anti-droghe. Il Constable Richard Brunstrom, del Galles del Nord, ha
detto recentemente che il danno maggiore non viene provocato dalle sostanze, bensì dal sistema legale
inglese. «Perché non consumare droghe, se non si commettono commetti crimini violenti contro altri e
non si scippano le vecchiette?» si domanda Brustrom, paragonando le politiche attuali al
proibizionismo americano degli anni ‘20. Nonostante la cautela del governo Blair, prese di posizioni di
questo genere da parte delle autorità stanno contribuendo a creare un clima di dibattito sempre più
aperto, in cui quelle che per lungo tempo sono state considerate “verità” possono oggi essere messe
apertamente in discussione.
Da Fuoriluogo, marzo 2002
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Il British Medical Journal rilancia l’allarme sulla canapa. Parla lo psichiatra Lester Grinspoon
EVIDENZE E PREGIUDIZI
Tre studi sostengono un nesso fra uso di canapa, schizofrenia e depressione. In realtà lo spinello è
usato perché allevia i sintomi delle due patologie
Marina Impallomeni
Recentemente, nel Regno Unito, il British Medical Journal ha pubblicato alcuni studi secondo cui la
cannabis, a distanza di anni dal consumo, accrescerebbe le probabilità di sviluppare schizofrenia,
nonché depressione e ansia. Su questo tema abbiamo chiesto un parere a Lester Grinspoon, psichiatra e
docente presso la facoltà di medicina dell’Università di Harvard, che alle proprietà della cannabis ha
dedicato alcuni libri fondamentali tra cui Marihuana Reconsidered e Marihuana, the Forbidden
Medicine.
Professor Grinspoon, che cosa pensa degli studi pubblicati dal British Medical Journal?
Ho cominciato a studiare la schizofrenia nel 1968, ho pubblicato il mio primo libro sulla schizofrenia
Schizophrenia: pharmacotherapy and psychotherapy nel 1972, ho dedicato un sacco di tempo ai
pazienti schizofrenici, e non ho mai trovato alcuna prova che la cannabis possa causare la schizofrenia.
La schizofrenia è una malattia mentale, e una sostanza come la marijuana non può certo provocarla.
Nel mio primo libro, Marihuana Reconsidered uscito nel 1971, ho preso in considerazione i diversi
miti riguardanti la marijuana dimostrando che erano effettivamente tali, e che molte delle critiche che
venivano fatte erano infondate. Nel novembre 1971, poco dopo l’uscita di Marijuana Reconsidered, la
rivista Lancet pubblicò uno studio del ricercatore britannico A. M. G. Campbell in cui si sosteneva che
la marijuana danneggerebbe il tessuto cerebrale. La cosa interessante è che, quando altri ricercatori
hanno tentato di replicare quella ricerca, non ci sono riusciti. In seguito nessuno ha cercato di sostenere
che la marijuana possa danneggiare il tessuto cerebrale, e per Lancet aver pubblicato quello studio fu
motivo di imbarazzo. Le faccio anche un altro esempio. Come è noto, in taluni casi può accadere che
un ragazzo abbia un rigonfiamento temporaneo delle mammelle dovuto a fenomeni ormonali. Ebbene,
si è cercato di sostenere che questo potesse dipendere dal consumo di marijuana. Fu fatta una grossa
ricerca nell’esercito, che accertò l’infondatezza di questa teoria. Oggi nessuno sostiene più una tesi del
genere. Così, a una a una, tutte queste teorie si sono dimostrate false. Per quanto riguarda le ricerche
pubblicate sul British Medical Journal, non ritengo che vadano prese sul serio.
Perché?
Le spiego. Prendiamo i pazienti schizofrenici. Loro usano sostanze di tutti i tipi in grandi quantità:
soprattutto alcool, ma anche tabacco, caffè e marijuana. Ora, perché consumano cannabis? Per le stesse
ragioni per cui usano caffè, tabacco e alcool, soprattutto l’alcool: la schizofrenia li fa sentire così male,
che vogliono modificare la loro coscienza con l’alcool o con qualunque altra sostanza che possa servire
a questo scopo, compresa la marijuana.
E per la depressione?
Le persone che hanno sviluppato la depressione all’età di 26 anni – si sostiene sul British Medical
Journal – non presentavano ansia o depressione all’epoca in cui avevano cominciato a fumare
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marijuana. Ma è molto difficile riconoscere precocemente la depressione, perché nei giovani può essere
del tutto invisibile. Il fatto è che per moltissime persone la marijuana è un ottimo antidepressivo. In
molti casi le persone che erano già avviate a diventare depresse o schizofreniche praticano di fatto una
forma di automedicazione. Ho incontrato molti pazienti che usavano la marijuana in questo modo. Se
gliela sospendevo per un mese, come facevo in genere, loro tornavano a sentirsi esattamente come
prima di cominciare l’assunzione. C’è poi un altro aspetto. Dato che il consumo di marijuana si è così
diffuso tra i giovani, non crede che, se questi ricercatori avessero ragione, i casi di schizofrenia
sarebbero aumentati?
E invece?
Invece non è accaduto. Nel 1974 Nature, la più prestigiosa rivista scientifica, pubblicò uno studio
secondo cui la marijuana avrebbe compromesso il sistema immunitario. Dunque ci si doveva aspettare
un aumento di malattie, in particolare tra i giovani, considerato anche il fatto che passarsi lo spinello
favorisce la trasmissione di virus o germi. Aumento che invece non c’è stato. Quello che voglio dire è
che nel corso degli anni sono state pubblicate ricerche su riviste scientifiche importanti i cui risultati si
sono dimostrati completamente sbagliati.
Esiste il pericolo che la marijuana possa provocare l’emersione di una schizofrenia latente?
È stato dimostrato che se lei prende i filmati fatti in casa di bambini (parlo di bambini di tre o quattro
anni) che hanno poi avuto una crescita perfettamente normale, e quelli di bambini che invece hanno in
seguito sviluppato la schizofrenia, e li mostra a un gruppo di esperti, questi riusciranno a identificare i
bambini che avevano le maggiori probabilità di diventare schizofrenici.
Lei sta dicendo che se una persona ha un disturbo mentale latente come la schizofrenia, questa è
destinata a emergere in ogni caso?
Sì, questo accade a prescindere dal consumo di cannabis. È possibile che alcuni usino la marijuana
perché si sentono male senza sapere il perché, e si sentono male perché portano dentro si sé il seme
della schizofrenia.
Secondo lei, perché persiste questo atteggiamento isterico nei confronti della marijuana?
La responsabilità è del governo degli Stati Uniti che dette avvio alla proibizione negli anni ‘30, con il
Federal Bureau of Narcotics. Il suo direttore, Harry J. Anslinger, decise che avrebbe dimostrato agli
americani la pericolosità della marijuana e lanciò quella che lui chiamava una grande campagna di
informazione. In realtà fu una campagna di disinformazione. Il film Reefer Madness (uscito in America
nel 1930, ndr) era pura propaganda di governo. Da allora si è sempre cercato di dimostrare la
pericolosità della marijuana. Se lei pensa che negli Usa sono stati arrestati a causa della proibizione 16
milioni di americani, capirà che è molto difficile che adesso dicano “oops, scusate, ci siamo sbagliati”.
Un secondo motivo è che a partire dagli anni ‘60 il consumo di marijuana è stato associato alla crescita
dei movimenti per i diritti civili e di contestazione. Penso che ancora oggi molte persone abbiano paura
di questo. C’è poi un terzo motivo, ed è che intorno alla proibizione ruotano molti soldi. Pensiamo solo
a tutti i poliziotti, alle carceri e al personale penitenziario che ci lavora, a tutte le compagnie che fanno i
test antidroga, ecc. Sono veramente tanti soldi, e un sacco di persone hanno interesse a che la
proibizione continui. Devo però dire che la gente non ha un atteggiamento isterico. Anzi, per quanto
riguarda la marijuana sta diventando sempre più preparata, e questo non solo perché ci sono state
41
persone che come me hanno cercato di fare chiarezza sull’argomento, ma soprattutto grazie al
diffondersi degli usi medici.
Come spiega allora i risultati piuttosto deludenti dei recenti referendum?
Secondo me gli organizzatori hanno fatto il passo più lungo della gamba, mentre questa questione va
affrontata con gradualità. In Nevada era stato proposto il possesso personale fino a tre once (circa 85
gr., ndr). Era troppo! Io e lei sappiamo che la proibizione è sbagliata, ma questo risultato non si può
ottenere dalla sera alla mattina.
Spesso si sostiene che la cannabis fumata oggi sarebbe molto più forte in termini di Thc rispetto a
quella che si fumava negli anni ‘60 e ‘70. Lei che ne pensa?
È un’assurdità per due ragioni. Prima di tutto, la marijuana oggi è effettivamente un po’ più forte
rispetto al passato, perché le persone hanno imparato a coltivarla, ma non è affatto da 20 a 30 volte più
forte, come sostiene il nostro governo. Vorrei che lo fosse, ma non lo è! Diciamo che il Thc presente
negli anni ‘60 poteva essere il 2-3%, mentre oggi si aggira intorno al 4-5%. Il secondo punto, come ho
spiegato nel mio libro Marihuana, the Forbidden Medicine, è che se la cannabis è più potente, è più
sicura dal punto di vista dell’eventuale danno polmonare. Infatti alcune ricerche hanno dimostrato che,
se il livello di Thc è più alto, si tende a fumare meno spinelli. Comunque non credo che chi fuma
marijuana in quantità ragionevole si esponga a un grosso rischio per la salute. Se fumo uno spinello, sto
esponendo i miei polmoni a un rischio inferiore che se passassi una giornata a Houston, Texas, dove
c’è molto inquinamento. La cannabis è semplicemente una pianta. Gli esseri umani hanno sempre usato
le piante sottoponendole a combustione, lo fanno da 200.000 anni. Prendiamo invece il tabacco. Le
sigarette contengono tutte le sostanze chimiche che ci mettono le società produttrici. E poi, quale
consumatore di marijuana fuma venti spinelli al giorno?
A mio parere quest’idea che oggi la marijuana sia molto più forte che negli anni ‘60 è dettata da
un intento politico ben preciso. I genitori di oggi, che magari da ragazzi fumavano la marijuana e
ne conoscevano gli effetti, ora dovrebbero dire ai loro figli di non farlo... Lei cosa ne pensa?
Ma certo, sono perfettamente d’accordo! È esattamente questo l’uso che si intende fare di questa falsa
informazione.
Secondo lei è casuale che gli studi vengono pubblicati adesso, proprio quando in Gran Bretagna
si decide la riclassificazione della cannabis?
No, penso di no. Sarebbe bello poter credere che la scienza sia assolutamente al di sopra della politica e
del pregiudizio, ma spesso non è così. Per esempio il National Institute of Drug Abuse (Nida) ha
investito molti soldi in ricerche il cui scopo ultimo era dimostrare la tossicità della marijuana, così da
giustificare la proibizione di marijuana e l’arresto di 740.000 persone all’anno negli Usa. Perciò non mi
sorprende che il British Medical Journal abbia pubblicato queste ricerche.
Da Fuoriluogo, dicembre 2002
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La campagna contro la canapa: scende in campo il Consiglio Superiore di Sanità
LA SCIENZA TRA MITI E FATTI
Nella seduta dell’8 settembre 2003, il Consiglio Superiore di sanità approva un parere su richiesta del
Ministro della salute. Il Consiglio ritiene che l’uso di cannabis sia gravato da pesanti effetti collaterali
quali dipendenza, possibile progressione all’uso di altre droghe quali cocaina e oppioidi, riduzione
delle capacità cognitive e di memoria... disturbi psichiatrici quali schizofrenia, depressione, ansietà,
possibili malattie broncopolmonari... Il Consiglio ritiene pertanto che la cannabis non debba
considerarsi una droga leggera... Il Consiglio auspica che le autorità competenti provvedano a dare
ampia e incisiva informazione agli adolescenti riguardante gli effetti collaterali della cannabis e in
particolare sui rapporti diretti fra uso di cannabis e sviluppo di problemi alla salute mentale, quali
depressione, ansietà, schizofrenia.
IL MITO: LA MARIJUANA PUÒ CAUSARE UNA PERMANENTE MALATTIA MENTALE
È l’argomento usato dai sostenitori della proibizione in America fin dagli anni ’30. Nonostante
l’asserzione sia stata contestata sin dagli anni ’70 per carenza di prove scientifiche, l’argomento è
periodicamente risollevato. Così nella sua relazione Garattini afferma che dallo studio realizzato su
50.000 reclute svedesi seguite per 15 anni... e ripreso con un periodo di osservazione più lungo... i
risultati dimostrano che la cannabis è responsabile della comparsa della psicosi..
IL FATTO: MANCANO LE EVIDENZE SCIENTIFICHE
Non ci sono evidenze scientifiche che la marijuana causi danni psicologici o malattie mentali sia negli
adolescenti che negli adulti (Zimmer e Morgan, 1997); Fino ad oggi, non esiste un corpus di studi
comparabili e metodologicamente solidi circa il legame fra uso di canapa e psicosi (Cannabis 2002
Report).
Riguardo i disturbi psicotici e la schizofrenia, in ambedue i casi la metodologia è debole, i dati
contraddittori e le interpretazioni spesso basate su modelli semplicistici di causalità... È vero che il
consumo di cannabis ha più alta prevalenza fra i soggetti schizofrenici rispetto alla popolazione
generale, ma alcuni ritengono che sia usata a scopo di autoterapia (Rapporto Nolin, 2002).
Non c’è prova di una correlazione diretta fra patologie mentali e il sovraconsumo di cannabis, il che
distingue questa sostanza da psicostimolanti come il MDNA, la cocaina o l’alcol, il cui consumo
pesante e ripetuto può far insorgere sindromi psicotiche caratteristiche. Analogamente, non sembra
che la cannabis precipiti l’insorgenza di preesistenti disfunzioni mentali, quali schizofrenia e
depressione bipolare (Roques, 1999).
Circa il legame fra consumo di canapa e malattie psichiatriche a lungo termine, l’evidenza più
significativa sembra provenire da uno studio svedese su 50.000 reclute... e ce ne sono altri simili... ma
questi studi mostrano solo una associazione statistica e non provano alcuna relazione di causa e effetto
con la canapa. Il consumo di canapa è solo uno dei molti fattori... nello studio svedese i consumatori di
canapa provenivano da un background sociale svantaggiato, un altro fattore di rischio per la
schizofrenia... Se l’uso di cannabis precipitasse la schizofrenia, dovremmo aspettarci un notevole
aumento di persone affette da questa patologia, visto che negli ultimi 30 anni il consumo di canapa si è
diffuso in occidente: eppure non esiste un’evidenza epidemiologica in tal senso (Iversen, 2003).
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CHE COSA È BENE SAPERE
Alcuni consumatori di marijuana, in seguito all’assunzione della sostanza, sperimentano un disagio
psicologico che può includere sentimenti di panico, ansietà, e paranoia. Queste esperienze possono
spaventare, ma gli effetti sono temporanei. In dosi molto elevate, la marijuana può causare una psicosi
tossica temporanea: ciò capita di rado,e quando capita, quasi sempre la marijuana è stata assunta nei
cibi. E’ difficile consumare alte dosi di THC fumando, mentre è facile quando la sostanza è ingerita
(Zimmer e Morgan, 1997).
CHE COSA È BENE LEGGERE
Grinspoon L., Bakalar J.B. (1997), Marijuana, the Forbidden Medicine, Yale University Press
(edizione riveduta e ampliata). Vedi in particolare il cap. 5, “Come misurare i rischi”. Edizione
italiana: Marijuana, la medicina proibita. Editori Riuniti 2002. Il libro si basa purtroppo sulla prima
edizione americana del 1993 e non su quella del 1997.
Zimmer L., Morgan J.P. (1997), Marijuana Myths, Marijuana Facts (A review of the scientific
evidence), The Lindesmith Center.
Roques B. (1999), La dangerosité des drogues (Rapport au secrétariat d’Etat à la Santé),Editions
Odile Jacob.
Iversen L., (1999), “Marijuana: the myths are hazardous to your health”, in Cerebrum, 1 (2), .37-49;
Cannabis 2002 Report, documento tecnico scientifico internazionale promosso dai ministri della
Salute del Belgio, Francia, Germania, Olanda, Svizzera (www.trimbos.nl).
Report of the Senate Special Committee on illegal drugs (2002), Cannabis, our position for a
Canadian Public Policy, (Pierre Claude Nolin, chair).
Iversen L., (2003) “Cannabis and the brain”, in Brain, 126, 1252-1270.
a cura di Grazia Zuffa
Da Fuoriluogo, ottobre 2003
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Una denuncia contro la tragica inerzia del manicomio diffuso
Tante porte girevoli per scivolare ai margini
La diagnosi, sia doppia che singola, è sempre una sottrazione di senso alla vita delle persone, agita in
maniera difensiva da quei servizi che allontanano da sé il problema cercando di dislocarlo altrove
MARIA GRAZIA COGLIATI DEZZA*
L’utilizzo che oggi viene fatto della “doppia diagnosi” nei confronti di quei tossicodipendenti che
presentano rilevanti sintomi sul piano psicopatologico è il frutto del ritorno acritico di culture
biologiche. La conseguente riproposizione di classificazioni, definizioni e regole, piuttosto che
facilitare la lettura della realtà tende a filtrarla, mascherarla, occultarla.
La diagnosi, “doppia” o “singola” che sia, è sempre una sottrazione di senso alla vita della persona:
omologa, riduce, classifica sottraendo valore e senso alla storia personale, ai vissuti, alla soggettività.
Il processo diagnostico, in psichiatria, è sempre falsamente deduttivo: sovrapporre schemi e definizioni
agli oggetti della sua osservazione e costruisce poi i relativi nessi causali.
L’uso della diagnosi, qui “doppia”, piuttosto che offrire strumenti per la lettura e la comprensione della
storia delle persone, risponde, in maniera difensiva, al bisogno di quei servizi che, attraverso pratiche
che separano bisogni diversi in una stessa persona, perseguono l’obiettivo di allontanare da sé il
problema e di dislocarlo altrove. Questo è il modo attraverso cui si sono strutturati e si alimentano
circuiti infiniti che rinviano ad altro senza mai offrire una risposta esauriente e concreta; ciascun
servizio dà una risposta, sempre parziale, e si garantisce rispetto al suo compito istituzionale.
Risponde ancora all’interesse delle case farmaceutiche che riducono e semplificano la vita delle
persone per suggerire l’uso di farmaci per altro particolarmente costosi. Le anfetamine per bambini
disattenti, gli antipsicotici di nuova generazione per gli adolescenti burrascosi; gli antidepressivi a
“fiume” per le umane infelicità della vita quotidiana; e per gli anziani nelle case di riposo, sedativi e
contenzione.
Su due elementi di riflessione vorrei fermare l’attenzione:
1. È del 1975 il divieto di ricoverare in manicomio i tossicodipendenti. La legge 685/75, evitando il
ricovero del tossicodipendente in ospedale psichiatrico, cercava soprattutto di avviare percorsi sanitari
e sociali non più fondati sulla istituzionalizzazione violenta delle persone. La legge, però, vietando il
ricovero in manicomio, non voleva di certo dire che le persone che assumono sostanze non possono
vivere anche situazioni di disagio assimilabili al disagio psichico.
2. Ha ragione Marcomini (cfr. Fuoriluogo, aprile 04) quando ricorda il peso della “illegalità del
mercato” nelle storie di sofferenza di giovani tossicodipendenti. L’illegalità l’avevamo identificata,
anni fa, con il “doppio del problema” ovvero quella maschera, quelle incrostazioni, quelle modalità
comportamentali stereotipate e stili di vita “istituzionalizzati” simili nelle diverse persone
tossicodipendenti, necessitati, condizionati non dal problema in sé, ma dal suo “doppio” ovvero dalla
illegalità. E abbiamo sempre saputo che, se quel “doppio” non fosse esistito, ovvero il carcere, la pena,
il nascondimento, la coesione gruppale difensiva, la difesa fatta sistema di vita, la marginalità, e molto
altro ancora, il problema sarebbe apparso per quello che era. E meno difficile sarebbe stata la ricerca di
“percorsi di normalità”. Ma, e qui la mia opinione è difforme da quella di Marcomini, si sarebbe
comunque evidenziato un problema.
La tossicodipendenza non è soltanto la ricerca di nuove modalità di vivere, di rompere i limiti della
normalità, di provare sensazioni particolari, forme di piacere e di introspezione speciali; spesso, e i
servizi pubblici per le tossicodipendenze lo registrano tutti i giorni, i tossicodipendenti portano storie di
vita condizionate dalla marginalità, dalla fragilità, dall’abbandono, dalla miseria anche culturale e
relazionale! Poco hanno a che vedere con la libertà e il desiderio di radicalità. In questi casi quello che
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interessa non è la questione della “doppia diagnosi”, ma la presenza o meno di servizi sanitari e sociali,
pubblici e del privato sociale, in rete ed integrati, in grado di sviluppare buone pratiche, mettendo al
centro la persona, tentando di trovare tutte le possibili soluzioni ai suoi molteplici bisogni. Anche se
serve, e perché no!, in collaborazione con i servizi di salute mentale.
Quando invece i servizi intervengono catalogando e classificando con la finalità di separare bisogni e
persone, producono la vera pericolosità sociale. Spingono le persone nell’area della marginalità e
limitano di fatto il loro potere e la loro autonomia attraverso cattive pratiche fondate sul rinvio,
sull’abbandono piuttosto che sul sostegno e l’accompagnamento.
Credo che oggi non si possa più parlare della psichiatria in termini di controllo sociale. L’esercizio del
controllo si attua piuttosto attraverso meccanismi diffusi ed eterogenei talvolta sotterranei, impalpabili.
La psichiatria non mi sembra più al centro della scena.
Il controllo oggi mi pare si materializzi piuttosto attraverso l’abbandono, la negazione. Le forme
dell’esclusione si concretizzano, quasi per inerzia, in un processo progressivo di periferizzazione degli
individui. La cittadinanza finisce silenziosamente per scivolare via.
Inclusione è la parola d’ordine delle democrazie mature. Se ieri gli psichiatri garantivano e
confermavano (attraverso il certificato medico) l’esclusione, era questo il senso del mandato, oggi è per
includere che si deve lavorare. Tuttavia sotto la copertura delle politiche per l’inclusione,
periferizzazioni, frammentazioni, lesioni quotidiane di diritti costruiscono circuiti manicomiali
sotterranei, giganteschi mondi di marginalità, assenza di democrazia, sottrazione di senso e di diritto
alla vita di uomini e donne. È questa la piattezza, l’opacità, il mondo che conferma la psichiatria. Lo
psichiatra, quello della “doppia diagnosi e non solo, oggi è di fatto complice (acritico) di questi
meccanismi.
In altre parole la psichiatria clinica, ma anche nella sua declinazione comunitaria, territoriale, finisce
per confermare questi percorsi di scivolamento verso il margine. Diventa una delle tante stazioni del
declino, con le sue porte girevoli, le sue dichiarate competenze, insieme al carcere, alla stazione di
polizia, all’alloggio popolare, l’ospedale, la panchina della metropolitana, l’associazione di
volontariato. Sono certa che oggi bisogna rifiutarsi di giocare questo ruolo. In questo senso ritengo
assai rischioso il ricorso alla “doppia diagnosi”. Bisogna rifiutare di costruire la tragica inerzia del
manicomio diffuso così come ci rifiutammo di essere complici della violenza delle istituzioni totali. Il
rifiuto può attuarsi soltanto cercando di sviluppare intenzionalmente strategie di contrasto a questi
meccanismi di silenziosa periferizzazione. Più che distruzione di istituzioni il tecnico deve avvertire la
necessità di costruire istituzioni, di inventare percorsi nuovi e alternativi, intrecciare instancabilmente
reti di significato intorno alle persone. I servizi centrati sulle persone possono essere i luoghi di queste
invenzioni dove può prendere forma, inverarsi, assumere il significato trasformativo il mandato
dell’inclusione. Questo mi sembra antagonista.
Per chi ha lavorato per superare forme di istituzionalizzazione a tutela della cittadinanza e della
soggettività e lavora oggi per costruire percorsi innovativi, non può non risultare evidente la necessità
di superare non solo l’uso delle classificazioni e della “doppia diagnosi” ma anche la poetica e la
mistica delle “alterazioni dello stato di coscienza”. E non può non apparire altrettanto evidente la
necessità di costruire nella ruvidezza della vita quotidiana davvero “percorsi di normalità” che
sostengano la diversità, nel concreto, producendo inclusione sociale.
*Responsabile Distretto 2 Azienda per i Servizi Sanitari n.1 Trieste
Da Fuoriluogo, maggio 2004
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Gli “Harquis” della psichiatria e dei Sert
Questa reificazione della sofferenza umana con la diagnosi asseconda la tendenza dei due servizi, già
oberati di lavoro, a sminuire il problema di propria competenza e a esaltare quello altrui
HENRI MARGARON*
Da qualche anno si moltiplicano pubblicazioni, seminari, convegni sul tema della doppia diagnosi. Non
esiste incontro tra specialisti, tanto nel campo della tossicodipendenza quanto in quello della psichiatria
che non preveda almeno una comunicazione sull’argomento. Ma più che un invito alla collaborazione
tra psichiatria e servizi per la tossicodipendenza sembra spesso, per lo meno nella pratica quotidiana,
un terreno di scontro! In effetti i pazienti ai quali viene assegnata questa etichetta possono essere
considerati gli harquis dei nostri servizi. Per un lettore non francese che non ha conosciuto direttamente
il dramma della guerra d’indipendenza dell’Algeria, gli harquis sono gli algerini che collaborarono con
i francesi durante la guerra di liberazione e che una volta firmati gli accordi di Ginevra si trovarono a
dovere vivere isolati, poiché rifiutati sia dai loro connazionali che dai francesi i quali non riuscivano a
distinguerli dagli arabi contro i quali avevano combattuto!
Inserita nella nosografia psichiatrica ufficiale, la tossicodipendenza ha sempre dato alla psichiatria più
di un motivo di “irritazione”. Oltre a non adattarsi ai sistemi di cura che questi servizi propongono
(farmacoterapia, psicoterapia, attività riabilitative), i tossicodipendenti hanno messo in evidenza le
fragilità dell’edificio nosografico tradizionale basato sulle strutture patologiche della personalità
obbligando la psichiatria a ripiegare su un assetto di tipo descrittivo che si vuole privo di qualsiasi a
priori teorico. In realtà rimanda all’idea che ad ogni quadro elencato e descritto debba corrispondere
inevitabilmente un’alterazione, una fragilità o una vulnerabilità biologica o genetica, specifica. I Sert
per conto loro, dopo essere riusciti in qualche modo a dare una risposta anche ai “doppiadiagnosi”, i
casi più difficili, sicuramente aiutati in questo dal trattamento metadonico e da un approccio integrato,
si ritrovano degli ospiti ingombranti e difficili da gestire e dai quali non riescono più a liberarsi!
La prima delle due diagnosi suggerita dall’etichetta doppia-diagnosi riguarda quindi la dipendenza da
sostanze di cui il Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, il manuale di
riferimento dell’Associazione psichiatrica americana, ndr) offre una descrizione puntigliosa e
sicuramente di grande utilità, sebbene nessun operatore abbia mai avuto bisogno di ricorrervi per
sentirsi autorizzato a firmare una tale diagnosi. La seconda in teoria potrebbe essere qualsiasi altra
diagnosi psichiatrica, in realtà si limita ai disturbi di personalità, ognuno dei quali corredato da un ricco
elenco di sintomi di cui si deve calcolare la frequenza di apparizione nell’ultimo periodo, giorno,
settimana, mese. Per cui il medico nel momento della diagnosi si trova a fare come il confessore
quando con la sua domanda che ha spaventato generazioni di adolescenti – “quante volte figliolo?” –
concede maggiore importanza alla frequenza del peccato che alla ricerca dei motivi che hanno spinto il
penitente a commetterlo!
Pretendere di misurare la gravità ed il significato di un sintomo sulla sua frequenza potrebbe
effettivamente essere trattato con un certo umorismo, se non fosse per il fatto che un tale sistema
descrittivo suggerisce l’idea pericolosa secondo cui, come lo abbiamo appena ricordato, ad ogni
elemento corrisponde una causa sinaptica, mediatoriale, genetica, come la si voglia immaginare la
quale, sebbene sia sicuramente in parte vero, elude l’esigenza di prendere in considerazione la
sofferenza umana come una condizione generale che va compresa ed affrontata globalmente. Le due
“diagnosi” sono solamente alcune delle diverse espressioni che può assumere la sofferenza anche se
possono complicarsi a vicenda o se il ricorso alla sostanza rappresenta a volte un tentativo di risposta
alle difficoltà di stabilire rapporti adeguati con gli altri.
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Questa reificazione della sofferenza umana oltre a favorire delle risposte parziali ed inefficaci nei
confronti di situazioni così sfaccettate e complesse, favorisce la tendenza da parte dei servizi, già
effettivamente oberati di lavoro, a sminuire il problema di propria competenza e ad esaltare quello di
competenza dell’altro servizio. Aquesto gioco, naturalmente il Sert è perdente poiché è difficile negare
una condizione di dipendenza a chi si prescrive del metadone, al quale per altro il paziente stesso non
vuole rinunciare. Diversamente non è raro incontrare psichiatri chiamati a consulenza diventare
confessori particolarmente distratti nella conta dei peccati, pur di evitare una diagnosi che li
impegnerebbe!
Intendiamoci, non vogliamo negare la dimensione fisica o somatica che si può nascondere dietro certi
comportamenti, nemmeno negare che certi comportamenti “antisociali” possono derivare da processi
patologici e meno ancora che è difficile per un servizio che sia di psichiatria o di tossicodipendenza,
immaginare programmi a lungo termine per tali pazienti. Estremamente adeguati nel trovare soluzioni
immediate a certi problemi, questi portatori di disturbi di personalità si dimostrano generalmente
completamente incapaci di valutare le conseguenze a lungo termine delle loro azioni e ciò rende
difficile immaginare forme di protezione che possano essere loro utili ed accettate.
A Livorno nella realtà in cui operiamo, tra Sert e psichiatria abbiamo concordato un protocollo di
collaborazione per questi casi. Siamo riusciti a farlo perché, sulla base di una cultura comune, abbiamo
volutamente saltato di pari passo il problema categoriale per accettare di sottoscrivere l’impegno da
parte di ognuno dei due servizi di rispondere, per valutarla ed eventualmente criticarla, ad ogni
richiesta dell’altro qualora il primo dovesse ritenere che un paziente abbia bisogno di un aiuto
supplementare e di concordare allora un programma specifico che coinvolga entrambi i servizi!
Non è limitandoci a ricomporre seppure in modo sofisticato e puntiglioso dei quadri comportamentali
con la speranza di abbinarci il serotoninergico giusto che potremmo rispondere ai bisogni di questi
pazienti, tutt’al più potremmo fare felici qualche casa farmaceutica alla ricerca di una fascia di mercato
per una nuova molecola! Dobbiamo ripensare l’organizzazione e l’operatività dei nostri servizi, tanto
quelle della psichiatria che quelle delle dipendenze. I nostri servizi sono animati da culture, da logiche,
da modalità operative a volte molto diverse l’uno dall’altro ma tale diversità può essere una ricchezza,
se rispettandosi reciprocamente, riescono ad attivare un confronto costruttivo alla ricerca di approcci
innovativi per pazienti il cui avvicinamento alle droghe ha indubbiamente cambiato le problematiche.
*Direttore del Dipartimento dipendenze, Asl 6 Livorno.
Da Fuoriluogo, giugno 2004
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APPUNTI PER UNA DIAGNOSI RISPETTOSA DELL’UNICITÀ DEL SOGGETTO
SOFFERENZE TOSSICHE
UNA SFIDA AI SERVIZI
Cosa accade a chi vive allo stesso tempo un’esperienza di consumo e una di follia? Il fenomeno può
sembrare riducibile o a una dipendenza o a una malattia mentale, in realtà non è né l’una né l’altra,
né ambedue insieme
STEFANO VECCHIO*
Il mondo dei consumi di droghe e delle sostanze psicoattive si è negli ultimi anni fortemente
diversificato. È sempre più difficile formulare una immagine univoca del tossico o del consumatore,
mentre d’altra parte i modi di consumare e di soffrire insieme, si sono moltiplicati. Anche se non è
possibile stabilire una corrispondenza consumi di droghe/sofferenza (si pensi ai consumi collegati con
il loisir notturno) è però vero che, da un po’ di tempo, molte “storie tossiche” si sono intrecciate con
esperienze di sofferenza particolarmente intense. La bagarre terminologica che si è sviluppata per
cercare di dare senso a queste storie: se si debba parlare di doppia diagnosi o di comorbilità, rischia di
avvitarsi su se stessa e di sottrarre piuttosto un senso. Di fatto parlare di doppia diagnosi significa
mettere in evidenza la nostra ignoranza di fronte a un fenomeno che non può non essere unitario nella
persona, mentre parlare di comorbilità tossico-psichiatrica (e non solo psichiatrica) significa ammettere
che le due modalità di diagnosi e i due saperi in generale devono provare a dialogare per incontrare le
persone e per comprendere cosa provano, cosa sentono e in cosa ci chiedono aiuto.
Ma prima ancora di porci il problema di come classificare o definire, è opportuno capire e cioè chiarire
a noi stessi la natura e i caratteri di questa sofferenza tossica (come preferisco chiamarla), cercare di
afferrarla così come ci appare immediatamente (senza mediazioni) attraverso i nostri sguardi semplici
ma esercitati di operatori dei servizi… prima che queste esistenze si dissolvano nel mare delle dispute
classificatorie o delle psicopatologie, dei riduzionismi bio-psico-socio…
Partiamo dal disorientamento (o se si preferisce dal carattere “perturbante”) che proviamo al cospetto
del tossico-folle: cosa accade a una persona che vive contemporaneamente un’esperienza di consumo
di sostanze psicoattive e una esperienza folle? L’aspetto inedito sta in questo: in apparenza il fenomeno
sembrerebbe riducibile o a una tossicodipendenza o a una malattia mentale. In realtà quando si incontra
quella persona ci si accorge che non è né l’una né l’altra e né tutte due insieme ma qualcosa di nuovo,
di inedito che noi non dobbiamo avere la pretesa o la presunzione di conoscere già. Ciò che possiamo
fare è utilizzare gli elementi della nostra cultura dell’incontro per iniziare a descrivere (co-descrivere
tra operatori dei due sistemi di servizi e tra operatori ed utenti, per quanto è possibile), scambiarsi punti
di vista, riflessioni, nella consapevolezza del carattere evolutivo, provvisorio e pragmatico di questa
operazione. In tal modo si ricercherà l’aspetto inedito di quella sofferenza e la domanda di aiuto e le
richieste di relazioni che eventualmente esprime. È singolare e significativo come in tutta la
discussione che si è sviluppata sull’argomento sia stato completamente ignorato il pensiero di Franco
Basaglia per il senso che ha rappresentato di liberazione non solo dei matti dal Manicomio ma anche
dei nostri pensieri dalle gabbie di culture chiuse ed autoreferenziali.
«Ed è per questo che la diagnosi psichiatrica ha assunto il significato di un giudizio di valore, di un
etichettamento… Ciò significa che il malato è stato isolato e messo tra parentesi dalla psichiatria,
perché ci si potesse occupare della definizione astratta di una malattia, della codificazione delle forme,
della classificazione dei sintomi, senza temere possibili smentite da parte di una realtà che, in questo
modo veniva ad essere negata. Ora, sommersi sotto un castello di entità morbose, etichettamenti,
definizioni, siamo costretti a mettere fra parentesi la “malattia” come classificazione nosografica se si
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vuole riuscire a vedere in faccia il malato e il suo disturbo reale» (Franco Basaglia). L’avvertimento di
Franco Basaglia ci deve accompagnare e aiutare a non ricadere nell’errore di riprodurre meccanismi di
esclusione di nuova sofferenza. Ma proprio quelle riflessioni ci spingono a utilizzare gli elementi della
nostra cultura di operatori per procedere per interrogativi intesi come gli elementi di base per procedere
a chiarire l’inedito del fenomeno. Indico alcune di queste domande possibili:
Cosa accade nell’incontro tra una dinamica psichica che allenta i nessi psico-esistenziali e li disgrega
ed una dinamica che li ricostituisce nella sua relazione reiterata (o provvisoria) con l’effetto di una
sostanza stupefacente? Tra il farsi corpo della droga ed il dis-farsi della follia? Tra due stati modificati
di coscienza (entrambi contraddizioni non ospitate dalla ragione dominante e perciò ritenute non
conoscibili di per sé) che danno luogo a una nuova dinamica psico-esistenziale (sociale-interpersonale)
che si costituisce e ri-costituisce nell’incontro tra due esperienze di sofferenza. L’interazione continua
tra i due processi, cioè, quali formazioni di esistenza costituisce, quali mondi fonda?
Come accade nella psiche-esistenza, così anche nei saperi e nei sistemi di servizi è necessario adottare
un approccio unitario rispettoso dell’autonomia e specificità del fenomeno che si esprime, appunto, in
modo unitario nella persona. Una comorbilità può risultare dalla combinazione diversa di elementi
(tipologia di sostanze, tipologie del consumo, precedenti psichiatrici, storia di tossicodipendenza, fase
del ciclo della vita, famiglie multiproblematiche…) sempre considerando la “interpretazione unica” del
soggetto protagonista che non recita nessun copione precostituito. Ogni persona racconta una nuova
“teoria” della comorbilità. Questo aspetto misterioso rappresenta anche il fascino del nostro lavoro.
La dia-gnosi, seguendo questo percorso, si sviluppa continuamente attraverso (dia) un processo di
conoscenza (gnosis) di brani della storia di quella persona con la quale si prova a ricostituire il senso ed
i significati che il consumo assume nell’intreccio con una psicopatologia. All’interno di questo stile
può diventare stimolante anche reinterrogare le categorie nosografiche e psicopatologiche (nei diversi
dialetti nei quali vengono declinate).
La diagnosi deve saper riflettere sulla gravità dei casi, sulla loro multiproblematicità. Una diagnosi
orientata all’intervento deve considerare le risorse a disposizione (quelle della persona e quelle dei due
sistemi di servizio implicati). Questo approccio può essere considerata una sfida per i due sistemi di
servizi: Salute Mentale e Tossicodipendenze (e consumi di sostanze in generale) ai nostri saperi, alle
nostre concezioni organizzative, alle nostre pratiche operative e discorsive diverse, divergenti in alcuni
casi e convergenti in altri. n
*Psichiatra, direttore Dipartimento farmacodipendenze Asl Na1
Da Fuoriluogo, luglio/agosto 2004
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Doppia diagnosi,
una giubba rivoltata
GRAZIA ZUFFA
È tossicodipendente o psicotico? È l’assunzione di droghe alla base del disturbo psichiatrico, o, al
contrario, chi ne è affetto usa le droghe come automedicazione, per alleviare la sofferenza? Il secondo
quesito è perlopiù oggetto di furiose contese fra i farmacologici, quando si disquisisce sulla nocività
delle droghe illegali, nessuna esclusa: l’associazione droga/follia è da sempre un cavallo di battaglia dei
proibizionisti più duri.
Il primo invece è assai popolare presso buona parte degli operatori, anche se ormai si è sedimentato in
maniera apparentemente neutra: «È una doppia diagnosi», si dice con un sospiro. In effetti le dispute
eziologiche sono vane agli occhi degli operatori, poiché la “doppia diagnosi” allude perlopiù ad una
doppia prognosi di “incurabilità”. Ciò spiega come mai questi doppi pazienti non siano in realtà
pazienti di nessuno, perché nessuno li vuole, come già denunciava Henri Margaron (Fuoriluogo,
giugno 2004). Al contempo, la rassegnata esclamazione svela il significato profondo della definizione:
le persone che non si sanno trattare, rientrano (o meglio riescono) dalle porte girevoli dei servizi come
“intrattabili”, anzi come “doppiamente intrattabili”. Con ciò il malato “cronico recidivante” è
condannato, ma la medicina è salva.
Per meglio comprendere le odierne fortune di tanto accanimento diagnostico, è bene riandare agli
albori dell’intreccio tra tossicodipendenza e disturbo mentale. Si scoprirà così che la doppia diagnosi
non è altro che una vecchia giubba rivoltata: alle origini della cura delle dipendenze (e della
proibizione) tutti i tossici erano visti come malati “incapaci di intendere e di volere”, tanto che la legge
del 1954 prevedeva il ricovero coatto.
Nell’incontro che si è svolto sul tema del consumo di droghe il 16 dicembre, nell’ambito del Secondo
Forum della salute mentale, Giuseppe Dell’Acqua ha rievocato la battaglia di molti psichiatri negli anni
‘70, perché i tossicodipendenti e gli alcolisti non fossero più ricoverati in manicomio (che al tempo,
com’è noto, esisteva ancora). All’ospedale psichiatrico, col suo eccesso di stigma, si sostituivano
strategie di ascolto e di presa in carico della persona nell’unitarietà, e unicità, delle sue problematiche.
Lo stesso percorso che avrebbe portato all’abolizione dell’istituzione totale anche per i matti.
A nessuno sfugge che, dietro quel mutamento di strategia, stava un diverso modo di leggere la malattia.
Si può vederla dal punto di vista soggettivo di chi soffre, e allora la parola del paziente è fondamentale
per “dire” (definire) lo “star male” e lo “star bene”, il disturbo e la guarigione. E si può cogliere e
apprezzare anche lo “star meglio”: così la cura costruita intorno al soggetto si arricchisce di nuovi
obiettivi, magari parziali, ma non per questo meno significativi.
Oppure si può scegliere lo sguardo esterno, della classificazione e catalogazione dei disturbi. Che è
stigmatizzante perché rischia di ridurre l’individuo che soffre alla malattia. E che ad essa lo inchioda
irreparabilmente, poiché solo la malattia quello sguardo è in grado di vedere, solo con la malattia quello
sguardo è in grado di interloquire: «Tu non sei più tu, al tuo posto parla il disturbo. Tu non sei più tu, al
tuo posto parla la droga». Come dire che la prognosi di “cronicità” è una profezia che si autoavvera,
innanzitutto. E, in secondo luogo, annulla la linea d’ombra fra salute e malattia, discriminando, alla
lettera, fra sani e malati.
Il conflitto intorno al doppio sguardo (centrato sulla soggettività del paziente, oppure sull’oggettività
definitoria della malattia) oggi si ripropone con forza. E quale sia più consono alle politiche di
segregazione assistenziale, che oggi si tenta di rilanciare, è facile immaginare. E quanto queste
politiche si nutrano della paura diffusa del “diverso”, dell’intolleranza sociale per “l’altro”, perfino
dell’odio verso ciò che è sconosciuto e che non si vuol conoscere, anche questo è facile immaginare.
Atal proposito, mi è capitato di recente un episodio che mi è apparso illuminante. Sull’autobus, un
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viaggiatore, non più giovane e assai modestamente vestito, parla fra sé e sé, a voce alta, ma non troppo.
Un delirio ben “strutturato”, sui pregi e i difetti dell’eterno femminino, ma senza recare disturbo a
chicchessia. Arrivato alla fermata, il viaggiatore scende. Allora un secondo viaggiatore, giovane e di
bella presenza, alza la voce. Lamenta che le autorità lascino girare indisturbate persone come il primo
viaggiatore, «che prima o poi faranno del male a qualcuno». E lamenta che le stesse autorità se la
prendono invece coi bravi cittadini: quelli come lui, ad esempio, denunciato (a piede libero) dai
carabinieri per aver picchiato di santa ragione un marocchino. Che se le meritava tutte, visto che lui lo
aveva scoperto a mettere le mani nella borsetta «di una connazionale». E sarebbe stato pronto a rifarlo,
nonostante la “connazionale” non lo avesse difeso come si sarebbe aspettato, anzi aveva dichiarato di
non essersi accorta del tentato furto.
Nessun commento, ma una sola domanda. Chi ragiona e chi delira? Chi è sano e chi è malato?
Da Fuoriluogo, dicembre 2004
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Le comunità e la comorbilità tossico-psichiatrica
PAZIENTI GRAVI
E UTENTI GRAVOSI
Oggi ai servizi si rivolgono gli eroinomani “invecchiati” e malati, che vivono in un marcato
isolamento sociale e con la paura del futuro: la domanda di aiuto si esprime in maniera aggressiva,
sotto forma di pretesa e minaccia
Leopoldo Grosso
La percezione di un aggravamento delle persone che fanno uso di eroina per via endovenosa è un dato
condiviso sia dagli operatori dei Sert che delle comunità. Per altro verso, l’utilizzo più massiccio dei
test psicodiagnostici nei servizi ed i primi studi italiani in merito, pur con differenze di non poco conto,
indicano una prevalenza assoluta della comorbilità psichiatrica all’interno della popolazione
tossicodipendente. In tutte le ricerche condotte emerge che, nelle situazioni di comorbilità, la
dipendenza da sostanza stupefacente si associa sopratutto ad un disturbo della personalità. Il sistema
dei servizi per le tossicodipendenze è pertanto criticato per aver sottovalutato per troppo tempo, e di
trascurare ancor oggi la problematica psichiatrica retrostante ai comportamenti additivi. Per contro, chi
da più tempo lavora con le persone che fanno uso di eroina, teme che, accanto alla concezione
riduzionistica di tipo bio-farmacologico già affermatasi, si aggiunga, tramite una progressiva
psichiatrizzazione della tossicodipendenza, un’indebita patologizzazione dei comportamenti di
consumo.
Quali sono i cambiamenti che inducono gli operatori dei servizi ad una rappresentazione di maggiore
gravità del fenomeno? Innanzitutto la “gravosità” dei loro comportamenti come utenti. Il concetto di
gravosità non è sinonimo di gravità. Un “paziente” può essere grave ma non necessariamente gravoso,
e viceversa. La gravosità riguarda in particolare il dover fare i conti, da parte degli operatori, con un
crescendo di impulsività, di aggressività, e di imprevedibilità di comportamenti. C’è spiegazione per
tutto ciò?
Un dato di riscontro ormai comune, nelle comunità e nei Sert, quale “l’invecchiamento” dell’utenza
eroinomane, forse può offrire qualche primo elemento. Persone tossicodipendenti che oggi hanno 35-40
anni (la fascia di età più rappresentata nelle comunità, ma con punte .no a 55-60), hanno accumulato
sulle loro spalle interi decenni d’abuso di eroina. Sono, in molti casi, persone sopravvissute ai loro
“compagni di buco”, anche grazie agli interventi di riduzione del danno. Sulla loro strada hanno
incontrato spesso il carcere, esperienze “fauste” di overdose, altri svariati “incidenti” di percorso,
talvolta l’Hiv e l’Aids, quasi sempre l’Hcv. Le loro cartelle cliniche, presso i Sert, sono ormai spesse
quanto il cassetto che le contiene. Hanno anche provato, spesso più di una volta, ad emanciparsi dalla
dipendenza, ma senza successo. L’uso duraturo della sostanza si è coniugato con il procedere del ciclo
della vita, con il venir meno degli aiuti della famiglia d’origine, con le richiesta di assunzione di
maggiori responsabilità nei confronti dell’eventuale famiglia acquisita, con l’emergere di differenti
bisogni connessi al deperimento ed alla mancata risoluzione delle esigenze di “sopravvivenza”
quotidiana, in particolare allorché l’habitat è costituito dalla strada. Stress, conflitti, perdite e
sofferenze, in tali situazioni, finiscono per pregiudicare ed interferire con equilibri psichici già precari.
Ciò non comporta, né signi.ca, alcun approdo automatico alla malattia mentale, ma può rendere più
fragili le difese usuali, irrigidirne i meccanismi, incrementare le reattività, indurre a far ricorso a
modalità di funzionamento sociale ancor meno adeguate, a farsi cogliere in crisi d’ansia, di panico e di
esasperazione.
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A ciò si deve aggiungere lo stato permanente di marcato isolamento sociale, l’angoscia della solitudine
e la paura del futuro. Ne deriva una più evidente conflittualità relazionale, una progressione di
comportamenti aggressivi, una domanda di aiuto che assume sempre più la forma della “pretesa”, della
“sassata sul vetro”, della minaccia. Sono queste le persone che vengono classificate oggi, nella
stragrande maggioranza, come personalità antisociali e borderline, la cui “comorbilità” è il risultato
della combinazione tra una dipendenza dura ed illegale, mai risolta, e scelte di vita che hanno radici
lontane, che hanno anche a che fare con le culture ed i codici dei gruppi dei pari, con il ruolo di
“tossico”costretto a comportamenti illeciti per via di un’abitudine a cui non intende o non riesce a
rinunciare.
Ma la sostanza, l’eroina in particolare, non dovrebbe contenerlo, tranquillizzarlo, sedarlo, quantomeno
nella fase “alta” del consumo? Ed è sul piano delle mutazioni del mercato dell’offerta di sostanze che si
rintraccia un altro elemento a spiegazione dell’aggravamento dei comportamenti. L’immissione
massiccia della cocaina, trasformata da prodotto d’elite a prodotto di massa, ha comportato per le
persone tossicodipendenti per via endovenosa, un uso “misto e combinato” di eroina e cocaina in varie
forme. Le stesse confezioni d’eroina per la vendita al dettaglio oggi presenti sul mercato illegale
sembrano più cocainizzate ed anfetaminizzate. Tale composizione chimica stimolerebbe meno le
modalità di estraneazione e di passivizzazione tipiche del consumatore di eroina, con le cui
caratteristiche gli operatori dei servizi hanno ormai acquisito pratica ed esperienza, ma indurrebbe
comportamenti antitetici, aumentando l’irrequietezza, l’ansia, gli sbalzi repentini d’umore,
l’imprevedibilità, la rabbia e l’aggressività.
Infine merita attenzione un ultimo aspetto: c’è una nuova affluenza ai servizi, soprattutto di giovani e
giovanissimi, a volte minorenni, caratterizzati da situazioni di forte sofferenza psichica, che, dopo aver
sperimentato più o meno tutte le sostanze in circolazione, “scelgono” l’eroina perché rappresenta il
“farmaco” maggiormente rispondente ad un bisogno ed una funzione di autocura.
L’utenza eroinomane per via endovenosa rappresenta ancora l’85% dell’utenza dei Sert.
Comunità terapeutiche al bivio
La domanda di comunità è calata dal 1996 ad oggi dalle 24.000 alle 16.000 presenze. In seguito ad una
confluenza di fattori, oggi l’utenza in trattamento in comunità riabilitativa è circa l’8% del totale
dell’utenza trattata dai servizi. Le comunità si sono generalmente trasformate in un più ampio sistema
di strutture residenziali allo scopo di rispondere con maggiore efficacia alla differenziazione dei
bisogni di aiuto e di cura dell’utenza, abbandonando una logica di tipo autoreferenziale che tendeva a
renderle avulse dal contesto territoriale e da uno stretto collegamento con la rete dei servizi. Molte delle
comunità, in base al principio della massima individualizzazione possibile degli interventi, si sono
orientate ad accogliere gruppi omogenei d’utenza, cercando di meglio declinare gli obiettivi dei
trattamenti a seconda delle caratteristiche e delle specificità dei diversi raggruppamenti. Sono nate così
le comunità per madri e bambini, per le coppie, le case alloggio per le persone in Aids conclamato, le
comunità per minori, per l’alcoldipendenza. In una prospettiva di servizio, all’interno del più ampio
sistema di cura, sono invece stati creati i centri-crisi, le pronte accoglienze, le strutture di osservazione
e diagnosi, gli alloggi a convivenza guidata finalizzati al reinserimento, tutta la rete della residenzialità
e semiresidenzialità a bassa soglia.
Nel pieno corso di questo processo si è inserita la proposta di creare delle comunità per pazienti
comorbili, persone tossicodipendenti con una problematica psichiatrica riconosciuta. Per quale
comorbilità tossico-psichiatrica, quella grave o quella gravosa? Per i depressi gravi, per coloro che
sentono le voci, per gli schizofrenici e per coloro che vedono nemici dappertutto, oppure per i
“borderline” e gli “antisociali”, che pur conservano un senso della realtà e per i quali, nonostante le
loro dinamiche oppositive, si rende praticabile un contesto riabilitativo? Il dibattito si è
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immediatamente aperto, forse più nei fatti che nel confronto teorico delle possibili opzioni, che si
riducono sostanzialmente a due.
Nel primo caso la comorbilità tossico-psichiatrica, così come determinata dal sistema dei servizi
inviante, dovrebbe rappresentare, e non solo in virtù dell’etichetta diagnostica, un insieme omogeneo di
persone con bisogni simili ed obiettivi almeno parzialmente analoghi, per il quale viene declinata una
speci.ca modalità di intervento. Ne consegue la creazione di una ulteriore comunità specialistica, che
privilegia la presenza di professionalità psichiatriche al suo interno e fa congruo uso di psicofarmaci.
Il programma si articola in un insieme di trattamenti individuali in cui l’eccezione diventa la regola,
perdendo necessariamente di vista la finalità di fare gruppo e di renderlo protagonista del proprio
percorso riabilitativo. La forza del gruppo, il codice fraterno è il vero motore della comunità per
persone tossicodipendenti, che, in una comunità psichiatrica è uno strumento più fragile e debole. In
quest’ordine di considerazioni si basa la seconda opzione che, invece di creare comunità specialistiche
dall’etichettamento “pesante”, integra, all’interno delle diverse comunità già esistenti e differenziate, le
situazioni compatibili con la capacità della struttura di poterle gestire al meglio.
Le persone gravi e gravose vengono stimolate e fruiscono del “traino” del gruppo che, viceversa,
impara a praticare nei loro confronti la necessaria tolleranza. Diversa è la situazione per quei pazienti
psichiatrici conclamati, che sono utenti del Dipartimento di salute mentale e che abusano di sostanze e,
nella maggior parte dei casi, non sviluppano una vera e propria dipendenza. Per loro appare
tendenzialmente più indicata la comunità psichiatrica tout-court, così come concepita dal modello
inglese di T. Maine e M. Jones.
Da Fuoriluogo, dicembre 2004
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Canapa e tabelle, inglese è meglio
GIORGIO BIGNAMI
«La cannabis è nociva e il suo consumo può condurre a una serie di rischi fisici e psicologici.
Cionondimeno il Consiglio non raccomanda che la classificazione dei prodotti contenenti cannabis sia
cambiata sulla base dei risultati delle recenti ricerche riguardanti gli effetti sullo sviluppo di malattia
mentale [corsivo nostro]». Queste le conclusioni apparentemente contraddittorie nell’ultimo rapporto
sulla cannabis dell’organo consultivo del governo inglese (Advisory Council on the Misuse of Drugs,
Acmd). In precedenza, l’Acmd aveva raccomandato la discesa della cannabis dalla Classe B
(pericolosità intermedia: amfetamine, barbiturici, codeina) alla Classe C (pericolosità minore:
benzodiazepine, anabolizzanti, Ghb) e la raccomandazione era stata accolta in normativa nel 2004. (Qui
va notato che la legge inglese prevede per la classe C il carcere sino a 2 anni e/o una multa in caso di
detenzione di sostanze, il carcere sino a 14 anni e/o una multa in caso di spaccio; ma apparentemente,
dati gli ampi margini di discrezionalità e data la diffusa ostilità – compresa quella della polizia – alla
persecuzione dei consumatori, nessuno finisce in galera per tre piantine di marijuana, come è accaduto
proprio in questi giorni vicino a Roma prima dell’entrata in vigore della nuova legge). Poco dopo
(marzo 2005) il ministro dell’interno aveva chiesto un ulteriore parere a seguito della grande pubblicità
sui dati, pur ampiamente criticati da parti autorevoli, che accusavano la cannabis di causare disturbi
mentali e persino la schizofrenia.
Andando più in dettaglio nel parere, si constata che l’Acmd effettua una curiosa manovra: cioè mostra
di condividere, da un lato, le preoccupazioni dei politici, mentre dall’altro procede a un cauto ma
sistematico smantellamento delle evidenze di pericolosità della cannabis. Non è vero, si afferma, che vi
sia stato un generale aumento del tasso di cannabinoidi nei prodotti venduti: l’aumento (circa un
raddoppio lungo l’arco di diversi anni) è solo nei prodotti a base di infiorescenze di piante femminili
non fertilizzate e cresciute in coltura intensiva, per lo più idroponica e in ambienti chiusi (sinsemillia e
skunk). Inoltre i dati che apparentemente depongono per un’azione psicopatogena della cannabis non
possono essere automaticamente interpretati come un rapporto causa-effetto. Infatti è noto che una
parte del consumo riguarda soggetti con sofferenza psichica iniziata prima dell’assunzione, i quali
tentano di automedicarsi, ovvero (udite udite!) di combattere i gravi effetti collaterali degli
psicofarmaci somministrati dalla medicina ufficiale. L’aumento del rischio di schizofrenia, seppure
esiste, è «molto basso»; comunque la nocività della cannabis è sostanzialmente minore di quella delle
sostanze in classe B (quindi, a maggior ragione, molto minore di quella delle sostanze in classe A:
eroina, cocaina, ecstasy, Lsd); e per buona giunta la cannabis, a differenza per esempio dall’alcool, non
aumenta i comportamenti a rischio.
A questo punto, senza andare tanto per le lunghe, possiamo immaginarci lo stupore e lo sgomento degli
illustri colleghi inglesi – per esempio il professor Michael Rawlins, presidente dell’Acmd, e il professor
Leslie Iversen, massime autorità mondiali rispettivamente nei campi della farmacologia clinica e della
neuropsicofarmacologia sperimentale – di fronte agli assurdi (tabella unica che assimila tutte le droghe,
ecc.) imposti con vari imbrogli ed escamotage dal governo agonizzante di un paese confratello della
Unione Europea. Il governo si è impegnato a varare entro le elezioni la tabella unica con le dosi che
corrispondono alla soglia del carcere: e staremo a vedere quanti e quali esperti valorosi e nostalgici,
ministeriali e/o altri, risponderanno all’appello del camerata Storace a farsi avanti per tirare l’ultima
raffica di questa barbara guerra, squalificandosi agli occhi della comunità scientifica internazionale,
rendendosi complici di un’infamia sul piano umano, sociale e civile.
Da Fuoriluogo, febbraio 2006
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La giravolta dell’Independent
Giorgio Bignami
Non sorprende il voltafaccia del britannico The Independent (18 marzo), il quale chiede scusa per la
propria decennale campagna antiproibizionista. Il pretesto che cela la reale motivazione politica di tale
“pentimento” è la presunta escalation di pericolosità della cannabis in versione skunk. Né sorprende la
risposta di alcuni dei nostri media, con un record di clamori proibizionisti nel Corriere della Sera e
nella Stampa. Sembra quasi che anche loro vogliano chiedere scusa (emettere le relative toppe) per
l’incidente di percorso dell’erede Fiat, e magari anche per quello meno recente della
superdotata/superdopata squadra aziendale. Non potendo esaminare prima della chiusura di questo
numero i dati pubblicati sul Lancet del 24 marzo, nulla si può aggiungere a quanto già detto da Grazia
Zuffa sul piano “tecnico” e da Franco Corleone su quello politico, rispettivamente sul Manifesto e su
Liberazione del 20 marzo. Va piuttosto notato come i vari articoli del quotidiano inglese siano infarciti
da intercalari furbeschi, tongue in the cheek (cioè come quando nei loro giochi i bambini possono
permettersi false affermazioni facendo di nascosto un gesto convenzionale); e questo, verosimilmente,
a fini di riduzione dei danni di inevitabili smentite o almeno di un prevedibile ridimensionamento del
“grido di dolore”. È molto aumentato il numero di ragazzi in trattamento per abuso di cannabis, dicono,
ma va notato che negli scorsi anni è notevolmente cresciuta l’offerta dei relativi programmi; e
l’aumento dell’offerta, si sa, eccetera eccetera. È molto aumentato il numero di casi di patologia
mentale in consumatori di cannabis, aggiungono, ma va ricordato il confondimento che può avvenire
tra psicopatogenicità della sostanza (rapporto causa-effetto) e ricorso alla medesima come
automedicazione per una sofferenza psichica non riconosciuta (o comunque non portata
tempestivamente all’attenzione dei tecnici del ramo). E ancora: suggeriamo di riportare la cannabis
dalla Tabella C alla B, cioè proprio quella assai più penalizzante sconsigliata circa un anno fa
dall’autorevole Advisory Council on the Misuse of Drugs, in risposta a una richiesta di riesame dello
status della sostanza avanzata dal governo inglese (vedi Fuoriluogo, febbraio 2006); ma per carità di
Dio, non confondeteci con i proibizionisti. La giravolta dell’Independent costituisce comunque un altro
preoccupante segnale del dilagare di un foucaultiano Sorvegliare e Punire: come il clamore scientifico e
mediatico sulle nuove macchine che leggono il pensiero e le intenzioni; come le nuove leggi
statunitensi per la sorveglianza elettronica indiscriminata; come il moltiplicarsi dei pretesti – non
ultima la droga – per la carcerazione in massa di soggetti delle “classi pericolose”; come la
legittimazione – e peggio, la acclamazione da parte dell’opinione pubblica – della tortura dei sospetti
terroristi; come la fiacca resistenza alle spinte per il ripristino dello stato teocratico, islamico,
evangelico o cattolico che sia. Insomma, è il caso di dirlo, mala tempora currunt.
Da Fuoriluogo, marzo 2007
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IV. Dipendenze e medicalizzazione
1. Susanna Ronconi, “La trappola dello sguardo medico”, Fuoriluogo, novembre 2004
2. Henri Margaron, “Scienza e falsi profeti”, Fuoriluogo, novembre 2004
3. Stefano Vecchio, “Psicoparadossi”, Fuoriluogo, novembre 2004
4. Maurizio Bonati, “Il burattino ribelle e i bambini mancati”, Fuoriluogo, novembre 2004
5. Maria Grazia Giannichedda, “Come ‘trattare’ l’alunno terribile”, Fuoriluogo, novembre 2007
6. Daniela Cerri, “La bassa soglia sotto assedio”, Fuoriluogo, dicembre 2004
7. Gianni Tognoni, “L’epidemia che piace al mercato”, Fuoriluogo, dicembre 2004
8. Giorgio Bignami, “L’industria del farmaco e il far west italiano”, Fuoriluogo, dicembre 2004
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La trappola dello sguardo medico
SUSANNA RONCONI
Sarà forse sfuggito ai più, perché si è trattato di un dibattito a ridosso di ferragosto, ma vale la pena
ricordarlo. Uno scambio di battute intergovernativo a ridosso della (buon per noi) tramontata ipotesi di
creare un “ministero delle droghe” metteva in scena, a suo modo, lo scontro tra due paradigmi, quello
morale e quelle medico, e lo faceva per bocca del ministro leghista Calderoli e della sottosegretaria al
welfare Sestini. Calderoli, con qualche lacuna su un dibattito in corso da decenni: «Quel che non si è
mai avuto il coraggio di dire è che le tossicomanie sono il sintomo di una malattia e quindi che la droga
dovrebbe essere riconosciuta come una malattia. Dovrebbe esserci per il tossicodipendente l’obbligo di
curarsi». Sestini, con qualche simpatia per l’approccio morale: «La medicalizzazione ha già creato
degli zombie schiavi del metadone. La tossicodipendenza non è una malattia» (il manifesto, 8/8/2004).
Ciò che è interessante è che ambedue le posizioni portano acqua alla legge Fini: morale o medico che
sia il paradigma, comunque l’esito è il codice penale e il trattamento sanitario obbligatorio. Che a
questo porti l’approccio morale o dell’uso di droghe come comportamento deviante e “malattia
dell’anima”, non stupisce nessuno; che a questo porti anche l’approccio desease è questione che forse
va meglio analizzata, come propone questo numero di Fuoriluogo. Anche perché l’approccio medico è,
nella riduzione del danno (rdd), uno sguardo presente e importante – ne abbiamo ragionato molte volte
anche su queste pagine – non foss’altro perché essa si occupa anche e molto di chi dal consumo
problematico ha riportato danni, e dunque di uno sguardo anche medico e di una cura ha spesso
bisogno.
Cosa ci indispone e cosa ci interroga nel dialogo Calderoli-Sestini? L’alleanza, soprattutto, o meglio il
rinnovo dell’alleanza – che questa è fatto vigente da decenni, da sempre, sebbene con mix diversi – tra i
due paradigmi nel disegnare un orizzonte neoautoritario e di nuovo ammutolimento dei consumatori, di
nuovo e sempre “detti” dalle parole dei paradigmi forti, e sezionati, nella loro esperienza, in fette da
assegnare a questo o quel potere. E qui una domanda che sarebbe bene continuare a porsi, magari
azzardando qualche risposta: quanto la rdd è debitrice al modello medico e quanto, invece, il modello
medico ha preso linfa dalla rdd? Insomma: la rdd ha saputo proporre un paradigma in grado di
“relativizzare” le pretese onnivore dell’approccio medico, dopo aver combattuto a scena aperta quello
morale? Ha saputo “tenerlo dentro” una visione del consumo problematico all’insegna della
complessità e “tenerlo fuori” dal consumo ludico, non problematico? Domande urgenti, di fronte a un
doppio processo in atto: da un lato, la psichiatrizzazione dei consumi problematici, che avviene, tra
l’altro, in un contesto preoccupante di ritorno a un neo-riduzionismo biologico; dall’altro, la
patologizzazione dei consumi ludici, come testimonia la rinata tesi della pericolosità della cannabis,
che trova oggi tra gli addetti ai lavori uno spazio che pareva impensabile solo qualche tempo fa. Una
questione, questa, emblematica del circolo assai poco virtuoso che si può creare tra senso comune,
clima politico e culturale e scienza. Un circolo vizioso dentro cui la scienza non fa da grimaldello laico
per la conoscenza di un fenomeno, ma finisce per funzionare da puntello per una costruzione sociale
del fenomeno che va verso nuovi lidi autoritari.
È solo l’adesione a un paradigma della complessità che può salvare anche lo sguardo medico da questa
trappola: farsi un po’ più debole, farsi relativo, ricordarsi la propria natura comunque indiziaria e
provvisoria, è, al contrario di quanto si possa pensare, un punto di forza, non di debolezza. Questa forza
potrebbe e dovrebbe essere peculiare della rdd, e in parte in questi anni lo è stata. Ma, spesso abbiamo
fatto come si fa qualche volta a sinistra: non si critica in modo troppo radicale per non dar spago e
occasioni alla destra. Un errore: per difendere il metadone come farmaco utile ed efficace, su cui è
insensato fare ideologia e a cui le persone dipendenti da eroina hanno diritto, non serve fare del medico
che lo prescrive l’unico depositario della verità. C’è un bel libro, scritto da Anne Coppel, che è tra
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quanti hanno costruito la rdd in Francia, che significativamente si intitola Peut-on civiliser les
drogues?. Dove “civilizzare”, secondo l’autrice, vuol dire sia uscire dalla guerra alle droghe, dalla
repressione dei consumatori, sia, però e non ultimo, anche uscire da ogni pretesa monolitica e
unilaterale di rappresentazione del consumo. Questa pretesa, ammesso che non serva a reprimere i
consumatori, li rende muti. Il che non è poi molto diverso.
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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Le diverse logiche nell’uso dei farmaci sostitutivi per le tossicodipendenze
SCIENZA E FALSI PROFETI
La scoperta del ruolo dell’eroina sull’attività dopaminergica ha indotto ad una lettura riduttiva della
dipendenza
HENRI MARGARON*
Il ricorso alle terapie sostitutive così diffuso all’interno dei servizi per le tossicodipendenze risponde,
da parte degli operatori, a logiche diverse che spesso si sovrappongono, contribuendo a rendere confuso
il quadro delle motivazioni che portano alla scelta di un trattamento sostitutivo sia per coloro che lo
ricevono sia per coloro che lo prescrivono. Alcuni operatori, anche se non lo ammettono sempre
apertamente, prescrivono il farmaco sostitutivo semplicemente come modo di by-passare la proibizione
dell’eroina o dei prodotti da cui essa deriva, poiché giudicata ingiusta e pericolosa. Sono gli stessi che
sostengono, accompagnata da misure di protezione adeguate, la possibilità di ricorrere all’eroina
all’interno dei servizi.
Tale posizione si sovrappone in parte ad un’altra, molto più diffusa tra gli operatori, quella della
cosiddetta politica della riduzione dei danni. Quelli dai quali si vuole proteggere il tossicodipendente
sono indotti, si sa, non solamente dalla sostanza e dai modi in cui essa viene assunta, ma anche dai
problemi legali a cui va inevitabilmente incontro il tossicodipendente, per il fatto stesso che la sostanza
è proibita. Infatti i problemi legali non sono indotti da proprietà “delinquentogene” della sostanza come
alcuni vogliono fare credere, ma dal fatto che essa è proibita come era stato annunciato già nel 1955 da
un comitato di esperti ufficialmente interrogato sull’argomento dal governo americano. Nelle loro
conclusioni furono concordi all’unanimità che la proibizione avrebbe indotto un processo circolare, per
cui le conseguenze del provvedimento (nel nostro caso la spinta alla delinquenza) sarebbero state
presentate successivamente come effetti autonomi e quindi come giustificazioni del provvedimento
stesso.
Presentato in sciroppo che non può essere iniettato, ed avendo un effetto molto più prolungato nel
tempo rispetto all’eroina, il metadone può garantire una migliore copertura ricettoriale ed evitare, con
una sola somministrazione quotidiana, la comparsa di stati astinenziali che possono svegliare dei
desideri (craving) ai quali il tossicodipendente ha difficoltà a resistere.
La scoperta del ruolo dell’eroina sull’attività dopaminergica nei processi che sono alla base del
desiderio, così come quella della maggiore concentrazione di alcuni ricettori della morfina in varie
strutture cerebrali, hanno indotto alcuni autori a dare una lettura biologica, secondo noi riduttiva, della
dipendenza da eroina. Secondo tale lettura l’aumento dei ricettori comporterebbe una maggiore
sensibilità agli effetti dell’eroina e quindi una vulnerabilità al desiderio o craving che tali effetti
possono indurre. La risposta più logica a tale interpretazione è la necessita di proteggere l’individuo dal
rischio di ricadute o dal desiderio per la sostanza, coprendo tali ricettori con il metadone o la
buprenorfina!
Recentemente la genetica ci ha confermato le dinamiche intuite da Donald Hebb in un libro del 1949,
L’organizzazione del comportamento, secondo cui, quando il neurone è stimolato aumenta le sue
connessioni o le sinapsi con le cellule vicine affinché la stessa azione possa essere ripetuta più
facilmente. Ora sappiamo che quando un neurone è sottoposto ad una stimolazione di una certa
intensità, le sue sinapsi inviano dei messaggeri nel nucleo centrale per sollecitare dei geni chiamati
“interruttori” ad attivare quelli principali, affinché producano le proteine destinate alla formazione di
nuove associazioni con le cellule all’origine della stimolazione. Possiamo misurare l’importanza di
queste dinamiche epigenetiche (cioè dinamiche di interazione tra il patrimonio genetico e l’ambiente,
61
ndr) pensando che la nostra corteccia è costituita da circa dieci miliardi di cellule neuronali e da un
milione di miliardi di sinapsi, e che questa cartografia sinaptica “più grande del cielo” evolve
continuamente in funzione delle attività delle cellule e quindi del comportamento dell’individuo! Nel
suo ultimo libro di cui abbiamo appena ricordato il titolo, Gerald Edelman, premio Nobel 1972, ha
applicato queste dinamiche alla sua teoria della selezione dei gruppi di neuroni ed ha chiamato
repertorio secondario, la dimensione sinaptica del nostro sistema nervoso individuale (ed alla base della
nostra personalità), per differenziarlo dal repertorio primario che rappresenta l’organizzazione stabile e
codificata del cervello secondo regole proprie dell’individuo e della specie.
Possiamo ora spiegare il motivo delle nostre riserve precedenti. La genetica e le dinamiche
epigenetiche insegnano che il nostro sistema nervoso non deve essere considerato una organizzazione a
sé stante, la quale una volta raggiunto un certo livello di maturazione ci permette di confrontarci con
l’esterno, ma una organizzazione la cui costituzione è guidata dalla storia e dalle esperienze che
potranno, a seconda dei casi, orientarlo sia in senso positivo che negativo. Più che una condizione
squisitamente innata ed inamovibile, il maggiore numero dei ricettori alla morfina evidenziato in
soggetti tossicodipendenti da eroina è più probabilmente il risultato di dinamiche epigenetiche,
condizionate dalle abitudini (contatto ripetuto di alcuni ricettori con la sostanza), ma anche dalla storia
precedente del soggetto, anche se alcune caratteristiche del repertorio primario possono avere reso
particolarmente sensibile l’organismo agli effetti dell’eroina e favorito il ripetersi della condotta
tossicomanica.
Poiché le dinamiche epigenetiche non si applicano solamente agli effetti delle sostanze e alle condotte
tossicomaniche, i servizi per le tossicodipendenze devono essere attenti a garantire ogni forma di
trattamento o di sostegno suscettibile di aiutare i dipendenti da eroina a cambiare contesto ed a vivere
esperienze alternative a quelle patologiche. Infine, se è vero che spesso il metadone o la buprenorfina
sono indispensabili per garantire l’equilibrio necessario ad ogni programma riabilitativo, occorre fare
attenzione che l’enfatizzazione del trattamento sostitutivo non releghi in secondo piano, come troppo
avviene, l’importanza di tutte le altre forme di aiuto.
*Direttore del Dipartimento dipendenze, Asl 6 Livorno
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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CONTRO IL PENSIERO UNICO DELLA FARMACOLOGIZZAZIONE
PSICOPARADOSSI
STEFANO VECCHIO*
Uno dei paradossi degli interventi sulle tossicodipendenze in Italia lo si può ritrovare nella storia
dell’uso dei farmaco sostitutivo: all’inizio è stato fortemente demonizzato ideologicamente come droga
di stato, successivamente almeno in parte riabilitato dalla comunità scientifica e dagli operatori è stato
elevato a chiave di lettura principale di ogni aspetto della tossicodipendenza e di ogni intervento
terapeutico.
Sartre diceva: «Le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Anche nella
psichiatria italiana si è determinato un paradosso, diverso nella sua genesi ma con risultati analoghi:
partita da una forte spinta critica e creativa, che ha influito positivamente su tutti noi, ha fornito un
metodo ed una prassi per il disvelamento delle ideologie sottese alla supposta scientificità ed
oggettività delle tecniche, ivi comprese quelle psicofarmacologiche, indicando con ciò anche la loro
utilità pratica ma all’interno di un processo complesso. Ma oggi assistiamo a un indebolimento di
questa funzione critica e all’affermarsi confuso e subdolo di una ideologia e di una pratica sempre più
diffuse dello psicofarmaco, ammantate di un nuovo scientismo che pretende di spiegare e curare la
“malattia” della follia e che si impone come strumento principe dell’azione territoriale.
Ma è avvenuto di più: sulle zone di confine tra i due sistemi di servizi, tossicodipendenza e salute
mentale, tenuti ben delimitati dalle esigenze identitarie delle rispettive organizzazioni, dilagano invece
gli psicofarmaci rompendone gli argini. Così alla comorbilità tossico-psichiatrica, ai consumi di
cocaina, di alcool, alle nuove droghe e ai nuovi stili di consumo, e in generale a qualunque nuovo
fenomeno, si tende a rispondere attraverso il paradigma psicofarmacologico. Ciò, naturalmente,
nonostante le revisioni sistematiche ne neghino spesso l’utilità ed importanti psicofarmacologi non a
caso non tradotti in Italia – come F. Breggin e D. Healy – abbiano dimostrato i danni da antipsicotici e i
rischi suicidari degli antidepressivi della famiglia del Prozac, tra i più quotati nel nostro contesto.
Ma non ci preoccupa il fatto in se stesso quanto la cultura che costruisce e che informa questa
situazione: una cultura riduzionistica che riponendo nell’uso del farmaco la parte prevalente di ogni
intervento, sostanzialmente dice che la tossicodipendenza è una malattia per di più cronica per cui non
solo la cura è biologica, in quanto la natura del disturbo è biologica, ma anche che non guarirà mai. E
attraverso questo paradigma di lettura, questa visione, questo pensiero unico dice che qualunque
consumo anche non dipendente (vedi consumi voluttuari di sostanze giovanili) determina malattia con
tutte le conseguenze di allarme sociale e di etichettamento ulteriore che ne conseguono.
Questo processo crea un interesse comune tra i Servizi per le dipendenze e i consumi di droghe e i
Servizi della salute mentale, che si genera all’interno delle stesse ideologie e a partire da un rischio
comune. Sono chiari i rischi rispetto alla visione del problema per la quale le persone, faticosamente
scoperte attraverso le pratiche dell’incontro, svaniscono insieme alle loro sofferenze o problemi,
occultati dall’opacità dello sguardo unico della medicalizzazione e della psicofarmacologizzazione; i
servizi tendono a specializzarsi e a separare l’equipe (tutto ciò che non è psicofarmologizzabile è
secondario) a spostare verso il privato specialistico, a riproporre un controllo sociale non del fenomeno
ma delle persone, secondo una logica di sicurezza e di ordine pubblico. Naturalmente qualunque logica
riduzionistica che impone un’unica visione del problema (sia essa psicopatologica, sociale…) scambia
la parte con il tutto e tende a riprodurre nuove ideologie, ad occultare le persone in carne ed ossa con i
loro problemi ed i linguaggi reali con i quali li esprimono.
La questione ha una portata vasta, considerando che la logica della psicofarmacologizzazione, intesa
come semplificazione della lettura dei fenomeni e degli strumenti di intervento (cioè di neoetichettamento dei disagi e delle differenze oltre che di giustificazione dello status quo delle istituzioni
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e delle relazioni interpersonali) tende ad essere sempre più pervasiva, basti pensare al caso della
sindrome, importata dagli Usa, detta Adhd (disturbo da deficit dell’attenzione), all’uso del Ritalin per
la cura dei bambini “affetti” e ai danni determinati.
Proprio per questo dobbiamo contenere gli argini rotti dalla diffusione degli psicofarmaci e realizzare
una ricerca verso un sentire comune, ma anche un’alleanza che senza annullare le nostre identità, e
soprattutto le specificità dei fenomeni, realizzi una strategia di decostruzione di ogni logica
riduzionistica che recuperi e dia nuova voce a quanto diceva Basaglia: «il nostro sistema sociale tende a
negare le proprie contraddizioni, il nostro compito diventa quello di renderle più esplicite e non di
occultarle sotto nuove ideologie» cercando di creare le condizioni per «una ragione ospitale ed
espansiva – più umile ma non per questo meno rigorosa» (R. Bodei).
*Psichiatra – Direttore Dipartimento farmacodipendenze Asl Na1
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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Cresce anche in Italia il numero di minori in terapia con psicofarmaci
IL BURATTINO RIBELLE
E I BAMBINI MANCATI
L’Adhd, il Disturbo di Deficit di Attenzione, è caratterizzato dalla triade iperattività, impulsività,
scarsa concentrazione: un profilo che assomiglia al simpaticissimo Pinocchio.
MAURIZIO BONATI*
Il prossimo 30 novembre presso la Sala Cenacolo della Camera dei Deputati sarà presentato il terzo
Rapporto sulle prescrizioni dei farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale ai bambini italiani
non ricoverati in ospedale. Da oltre cinque anni un milione di bambini e adolescenti, e le rispettive
famiglie, costituiscono la popolazione di un progetto epidemiologico (unico, per dimensioni e durata, a
livello nazionale e internazionale) coordinato dall’Istituto “Mario Negri” di Milano e dal Consorzio
interuniversitario di Bologna. Quali i risultati principali? La conferma che la quasi totalità dei contatti
tra un medico e un bambino termina con una prescrizione di farmaci: ai rimborsabili dal Servizio
sanitario nazionale vanno aggiunti anche quelli a carico della famiglia. Che la maggior parte dei
farmaci prescritti sono per le comuni affezioni dell’infanzia, molte delle quali non necessiterebbero di
trattamento farmacologico. Che sebbene 20 farmaci sarebbero sufficienti per rispondere all’81% dei
bisogni terapeutici dei bambini ne vengono invece utilizzati 645 per un totale di 2813 specialità
farmacologiche. Che molti di questi farmaci sono esclusivi del mercato italiano (non ci sono in altri
Paesi) e che almeno un terzo sono i cosiddetti off-label: farmaci la cui efficacia e sicurezza nei bambini
non è documentata da prove di evidenza. Ma i nuovi risultati più importanti e preoccupanti sono
rappresentati dall’aumentato uso degli psicofarmaci. Tre minori ogni mille (circa trentamila in Italia)
risultano in terapia con psicofarmaci, gli Ssri, un tipo di antidepressivi che bloccano il riassorbimento
(reuptake) della serotonina. La prevalenza maggiore è per le adolescenti di 14-17 anni: pari all’1%.
Prevalenze d’uso ancora lontane da quelle documentate per gli Stati Uniti, il Canada, ma di poco
inferiori a quelle olandesi. Sicuramente preoccupanti se si considera che le prescrizioni di
antidepressivi nei bambini italiani sono triplicate nel corso degli ultimi cinque anni. Farmaci che non
dovrebbero essere prescritti prima dei 18 anni (con l’eccezione della sertralina per la sindrome
ossessiva compulsiva) come ribadito anche nel corso di quest’anno, sia a livello internazionale (Food
and Drug Administration) che nazionale (Agenzia Italia sul Farmaco) dopo la notizia comparsa anche
sulla stampa di larga diffusione che la GlaxoSKB aveva celato i gravi effetti avversi (aumentato rischio
di suicidi e tentati suicidi) nei minori depressi in terapia con paroxetina.
Un nuovo psicostimolante
La preoccupazione a livello nazionale circa un potenziale abuso di psicofarmaci ai minori è motivata
anche dalla necessità di considerare il consistente “sommerso” rappresentato dall’uso di
benzodiazepine, che in Italia non sono rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale e quindi
“sfuggono” al monitoraggio. Una forma contenitiva al già ampio impiego di psicofarmaci per i bambini
è rappresentato dalla mancanza sul mercato nazionale degli psicostimolanti (p.es., amfetamina,
pemolina, metilfenidato). Questo però ancora per poco. Lo scenario sarà presto mutato con
l’annunciato arrivo in farmacia del metilfenidato (Ritalin® della Novartis) dopo che nel 1989 la ditta
(allora era la Bayer) decise di sospenderne la commercializzazione. Una procedura iniziata il 16 ottobre
2000 con una petizione di alcuni pediatri di famiglia e neuropsichiatri infantili presentata all’allora
Ministro Veronesi affinché si adoperasse per rendere disponibile il farmaco. Il metilfenidato, uno
psicostimolante che aumenta il rilascio e il riassorbimento della dopamina, rappresenta oggi il farmaco
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di scelta per il trattamento del Disturbo da Deficit di Attenzione con Iperattività (Adhd). Sebbene oggi
ci sia un consenso nella comunità scientifica nel definire la Adhd, ampia diversità c’è invece nel
valutare la gravità dei sintomi e nel giudicare la rilevanza clinica delle loro molteplici manifestazioni.
Due sono i criteri diagnostici oggi utilizzati per inquadrare e valutare i sintomi associati all’Adhd:
l’Icd-10 (sistema diagnostico proposto dall’Organizzazione mondiale della sanità) e il Dsm-IV
(proposto dall’American Medical Association). Il primo presenta criteri più restrittivi del secondo, e
consente quindi di identificare un numero minore di bambini: quelli con Adhd di maggior gravità.
Seguendo un’impostazione fondamentalmente gerarchica l’Icd-10 tende infatti ad escludere diagnosi
multiple; così, ad esempio, applicando il Dsm-IV, un bambino potrebbe essere diagnosticato con Adhd
e disturbo della condotta, mentre applicando l’Icd-10 gli verrebbe diagnosticato solo il disturbo di
condotta. Ed ancora: per la diagnosi di disturbo ipercinetico l’Icd-10 prevede la presenza sia di
inattenzione che di iperattività e impulsività. Quindi bambini con Adhd con deficit prevalentemente
dell’attenzione o di tipo iperattivo/impulsivo vengono considerati sub-clinici secondo l’Icd-10. Alla
scelta del sistema diagnostico da utilizzare, che è condizionata anche da attitudini scientifico-culturali
(ad esempio, in Europa si preferisce il primo, negli Usa il secondo), conseguono quindi differenze
consistenti nell’iter complessivo diagnostico-terapeutico a cui il bambino può essere sottoposto.
Le difficoltà diagnostiche
Numerosi sono i potenziali fattori eziologici associati all’Adhd e tra questi, quelli genetici, perinatali,
psicosociali, ambientali, dietetici, strutturali cerebrali e neurobiologici. È per questi ultimi tuttavia che
sono disponibili oggi maggiori evidenze circa un loro ruolo nel caratterizzare le manifestazioni cliniche
dell’Adhd. In particolare, a livello della corteccia frontale e dei nuclei della base, le cui funzioni sono
modulate da dopamina, noradrenalina e serotonina, in pazienti con Adhd sono state dimostrate
anomalie strutturali e funzionali del sistema dopaminergico. Il ruolo della dopamina supporta infatti le
manifestazioni di scarsa attenzione e iperattività, come la serotonina l’impulsività, e un eccesso di
noradrenalina le manifestazioni di aggressività. Esistono, infatti, numerose evidenze che farmaci in
grado di modulare i sistemi dopaminergico e noradrenergico sono in grado di migliorare iperattività,
impulsività e attenzione. Non esiste invece nessuna evidenza di efficacia clinica sui sintomi dell’Adhd
degli antidepressivi SSRIs.
Sebbene l’Adhd sia ritenuto, a livello internazionale, uno dei più frequenti problemi comportamentali
dell’età evolutiva, le stime della prevalenza variano considerevolmente (da 1 a 24%) a seconda del
contesto geografico e sociale, dell’età e del sesso della popolazione osservata (è più frequente nei
maschi che nelle femmine con un rapporto 5-9/1), dei criteri diagnostici utilizzati e dall’esperienza
degli operatori. Indipendentemente dall’età di insorgenza, anche presunta, dell’Adhd il bambino arriva
all’osservazione dello specialista solo in età scolare: sono proprio gli insegnanti che segnalano
l’anomalo comportamento dell’alunno nel contesto scolastico. Acasa e nelle relazioni famigliari invece
le difficoltà risultano meno evidenti, anche se non scompaiono del tutto. I sintomi sono quindi
facilmente influenzati dall’ambiente in cui il bambino si trova. Non disponendo di misurazioni
biologiche per l’Adhd la diagnosi è basata su criteri clinici di valutazione dei sintomi comportamentali.
Essendo questi ultimi una pletora le difficoltà diagnostico-differenziali sono numerose, come pure
differenti possono essere le valutazioni dei singoli operatori. Atale proposito sono stati stilati appositi
protocolli diagnostici che prevedono, oltre alla visita medica e neurologica, all’esame psichico e alla
valutazione delle capacità cognitive e di apprendimento del bambino, anche un’intervista strutturata ai
genitori e agli insegnanti, ed eventualmente anche ad altri adulti con cui il bambino ha rapporti
relazionali prolungati. In tale contesto, risulta quindi essenziale l’esperienza dell’operatore che si
prende cura di un bambino con sospetto Adhd, proprio a partire dall’inquadramento diagnostico, che
necessita di più di un incontro per essere correttamente effettuato.
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La malattia proiettata sul mondo
Due sono le modalità terapeutiche per l’Adhd: farmacologica, con psicostimolanti; comportamentale,
con vari interventi psicosociali. Anche per quanto concerne gli approcci terapeutici vi sono differenze
tra Europa e Usa. In Europa, dove le possibilità prescrittive sono inferiori, anche per le normative
regolatorie vigenti, le linee-guida prevedono inizialmente interventi psicosociali (modifiche
comportamentali, terapia cognitiva, terapia di famiglia, etc.). Negli Usa invece prevale, sin dall’inizio,
l’indicazione per il trattamento farmacologico. Per entrambi gli approcci risulta tuttavia ampia la
variabilità per quanto concerne la durata della terapia, l’osservazione, il tasso di efficacia e i criteri
utilizzati per la sua stima.
Con l’imminente introduzione sul mercato italiano del metilfenidato per prevenirne un uso irrazionale,
il ministero della Salute ha dato mandato all’Istituto Superiore di Sanità di istituire un registro
nazionale per il monitoraggio dell’impiego del farmaco e ha istituito un apposito comitato scientifico
(che si è insediato all’inizio di novembre) affinché garantisca la qualità dell’operato e stili un
protocollo diagnostico-terapeutico di riferimento (essenziale per la prescrizione del farmaco) che
preveda l’interazione concordata e partecipata dei vari operatori sanitari, dei servizi territoriali, dei
centri di riferimento, dei genitori e degli insegnanti. La durata prevista per il registro è di due anni: poi
si vedrà.
Nel 1979 Susan Sontag con Malattia come metafora ci rese edotti che per alcune condizioni morbose,
in particolare quelle che per la loro complessità non conosciamo-controlliamo e che affrontiamo con
percorsi diagnostico-terapeutici scarsamente basati sulle prove di efficacia (come si dice oggi), chi è
coinvolto «proietta sulla malattia-disagio ciò che pensa del male» e «proietta sul mondo la malattia
stessa». È forse questo che sta accadendo anche per i disturbi dell’età evolutiva e non sarà certo il solo
psicofarmaco a prevenire e ancor meno a curare questa distorsione tra richiesta e offerta di aiuto di un
bambino o adolescente e la sua famiglia.
La follia che riscatta
Forse tutto è già stato scritto su Pinocchio, un libro imposto più che scoperto, a cui solo un’attenta e
non convenzionale rilettura può restituire una freschezza: proprio quell’approccio seguito da Giovanni
Jervis nella prefazione della edizione di Le avventure di Pinocchio edito nel 1968 da Einaudi e che da
allora è rimasto unico. «... Pinocchio è un ribelle mancato ma anche, perpetuamente, un bambino
mancato: ciò che può riscattarlo è la sua follia... Gli si può attribuire scarsa intelligenza e capacità
critica, debolezza di carattere, patologica miopia nelle previsioni, limitatissima elaborazione dei dati
dell’esperienza... Egli somiglia per certi lati a una personalità psicopatica, a un delinquente minorile, ad
uno di quei bambini ipercinetici e simpaticissimi che vengono chiamati anormali del carattere, a un
tipico, terribile problema educativo caratterizzato da difficoltà insormontabili nella introiezione della
moralità, da un carattere infantile, impulsivo, cordialmente irresponsabile, attaccabrighe...».
Iperattività, impulsività, e deficit di attenzione-concentrazione costituiscono la triade che caratterizza
oggi l’Adhd.
*Epidemiologo clinico, responsabile del Laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’Istituto
“Mario Negri” di Milano, advisor dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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Arriva in Italia il Ritalin, le diverse voci in campo
COME “TRATTARE”
L’ALUNNO TERRIBILE
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA
«Rilevato che nella scuola è presente un alto numero di alunni con deficit di attenzione con iperattività
che lasciano prevedere effetti d’insuccesso scolastico, l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio e il
Presidio “La Scarpetta” A.S.L. Roma A, hanno concordato strategie di azione al fine di arginare
l’insorgenza del fenomeno dell’Adhd». Inizia così la lettera che i dirigenti delle scuole di Roma e
provincia si sono visti arrivare lo scorso 4 giugno dalla Regione, impegnata, in questi mesi che
precedono l’arrivo del Ritalin in farmacia, in una serie di attività che esemplificano molto bene ciò che
in sociologia si chiama “costruzione sociale di un problema”, nel caso concreto del problema Adhd. La
comunicazione è generica («alto numero»), allarmante («arginare l’insorgenza») ma rassicurante: la
Regione offre con questa lettera un kit informativo che illustra «la diagnosi di Adhd; il bambino
iperattivo a scuola; i trattamenti psicoeducativi nei casi di Adhd e le testimonianze dell’Aifa,
Associazione italiana famiglie con Adhd. Questi materiali provengono da un ciclo di seminari sulla
Adhd organizzati, in marzo, aprile e settembre, dall’assessorato all’istruzione della Regione Lazio, il
cui Consiglio regionale ha patrocinato il convegno Aifa del 20 novembre, che ha raccolto 800 iscritti
tra insegnanti, familiari e operatori socio sanitari.
È realistico attendersi da queste iniziative una crescita della domanda di intervento da parte di
insegnanti e genitori verso gli esperti di Adhd. Come sarà interpretata questa domanda? Significa che
emergerà l’alto numero di bambini con Adhd ipotizzati dalla Regione Lazio, oppure che sarà incanalata
verso i territori della Adhd una quota delle difficoltà, sofferenze e solitudini, di bambini, genitori e
insegnanti, che non trovano ascolto e presa in carico altrove e altrimenti?
Scommette sulla prima ipotesi l’Aifa, associazione nata nel 2002 sul modello delle variegate sigle che,
partendo da Stati uniti e Inghilterra, hanno animano negli ultimi decenni la cultura dell’Adhd, fondata
su due capisaldi: certezza che l’Adhd sia una sindrome organica misconosciuta e mobilitazione delle
famiglie per promuoverne il riconoscimento. Nell’associazione italiana si aggiunge una specifica
cultura religiosa: il presidente e fondatore, il pediatra D’Errico, fa parte del Movimento per la Vita,
come Olimpia Tarzia, eletta per il Ccd nel consiglio regionale del Lazio, sostenitrice dell’associazione
e, come presidente dell’osservatorio regionale sulle famiglie, relatrice al convegno di novembre,
insieme a Tonino Cantelmi, responsabile dell’aera psichiatria della regione Lazio, estensore per la on.
Burani Procaccini (Fi) del primo progetto di abrogazione della “legge 180”, e anche presidente
dell’associazione psichiatri e psicologi cattolici, che patrocina il convegno con diverse sigle del mondo
della pediatria e con l’Istituto superiore di sanità, incaricato del registro sull’uso del Ritalin.
Su posizioni opposte, all’insegna dello slogan Non etichettare tuo figlio, parlagli!, si colloca la
campagna Giù le mani dai bambini, patrocinata dalla Rai-Radio televisione italiana (Direzione
Segretariato Sociale), promossa da un cartello di enti in gran parte cattolici, (Associazione volontari
ospedalieri, Acli, Cisl, Movimento studenti cattolici, Associazione Giovanialcentro), sostenuta da
“testimonial” come Ray Charles, Beppe Grillo e il sindaco di Torino Chiamparino, validata da un
comitato scientifico che include i pediatri Pavesio e Sciolla, gli psichiatri Antonucci e Cancrini, il
farmacologo Portaleone e il direttore della Citizen Commission for Human Rights (Cchr), Cestari.
Quest’ultima organizzazione è legata alla chiesa americana di Scientology, e su questo elemento si è
incentrata la polemica frontale dell’Aifa contro questa campagna, accusata di oscurantismo e
antiscientificità. Accuse difficili da condividere a fronte della serietà con cui il sito Giù le mani dai
bambini documenta il dibattito scientifico in tema di Adhd, lanciando allarmi fondati, anche se spesso
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argomentati da posizioni riconducibili alla antipsichiatria di Thomas Sazs, quella, per intenderci, che
irritava tanto Franco Basaglia quando si vedeva identificato con quell’etichetta.
Dal mondo della scuola, in particolare dal movimento di resistenza alla riforma Moratti, proviene il
terzo attore collettivo oggi in gioco nella vicenda Adhd, il Coordinamento genitori democratici che con
Psichiatria democratica e il Comitato per la difesa del servizio sanitario nazionale ha promosso un
appello a cui hanno aderito tra gli altri la Cgil Scuola, il Coordinamento delle scuole di Roma e il
Forum salute mentale. L’appello, reperibile nei siti di queste organizzazioni e nel blog non droghiamo i
bambini, pone l’accento sul fatto che i processi di costruzione del problema Adhd si stanno svolgendo
in Italia mentre si sta demolendo la scuola come luogo di vita in favore della scuola azienda, mentre si
abolisce il tempo pieno e si riducono gli insegnanti di sostegno. L’esperto e il farmaco rischiano così di
presentarsi come risposta “facile” a malesseri che non trovano sponda, in parte perché molti servizi
sanitari (e specie i presidi di neuropsichiatria infantile) non hanno maturato la cultura di prendersi cura
della comunità in cui agiscono, in parte perché non sono più in grado di farlo, impoveriti e delegittimati
dai processi di privatizzazione della sanità.
Sullo sfondo, due grandi questioni che la vicenda Adhd ripropone. La prima è la dipendenza della
ricerca dalle case farmaceutiche, oggi così pesante da indurre riviste come Lancet, Nature e Science a
prendere le distanze dagli articoli che esaltano l’efficacia di prodotti farmaceutici in commercio.
Argomento che obbliga a prendere le distanze anche dall’Aifa, che riceve fondi da due colossi
farmaceutici, la Wyeth Lederle, che fa antidepressivi e antipsicotici, e la Eli Lilly, produttrice di un
farmaco simile al Ritalin, che per ora non arriverà nelle farmacie italiane ma un domani non si sa...
La seconda questione è la rinascita del metodo dello screening, alla lettera “passare al setaccio” una
popolazione per cercare i malati mentali (l’ultima versione del progetto Burani Procaccini li prevede
esplicitamente). A monte di questo metodo, l’idea che comportamenti possano essere vagliati con la
stessa oggettività con cui si rileva un’alterazione biologica, e che possano essere isolati dal soggetto e
dall’ambiente come si fa con un batterio. A valle, l’idea che le politiche di salute mentale consistano
nell’etichettare individualmente il disagio, per ridurlo poi, inevitabilmente, alla misura della soluzione
in commercio. Uno screening di bambini, oltre 5000 in sette città, è stato appena fatto dalla ricerca
Prisma promossa dall’Istituto Medea di Lecco, che definisce «clamoroso» il dato sulla Adhd, di cui
soffrirebbe meno del 2% dei bambini italiani, a fronte del 10% dei bambini nordamericani. La ricerca
rileva però che 90 bambini su mille soffrono di disturbi mentali – fobie, depressioni, ansia.
Forse, prima di chiederci cosa fare per questi bambini, sarebbe bene domandarci di nuovo Che cos’è la
psichiatria? come fece Basaglia quarant’anni fa in un utile libro da poco ripubblicato.
Da Fuoriluogo, novembre 2004
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UN INVITO A RIPENSARE UNA STRATEGIA DI RETE
LA BASSA SOGLIA
SOTTO ASSEDIO
Soggetti soli, fragili, con serie patologie concomitanti: sono gli ospiti dei centri di accoglienza, che
rischiano di svolgere una funzione di puro controllo sociale
Daniela Cerri*
Ci vengono a chiamare di corsa. Sta nuovamente male. Arriviamo trafelate, col cuore in gola. È privo
di coscienza, il battito c’è ma è fievolissimo. Sapevamo di trovare Sandro. Subito il Narcan, il farmaco
salvavita: ricontrolliamo il battito e il respiro. Un secondo Narcan. Sandro mischia alcool, eroina e
psicofarmaci e questo è l’ennesimo intervento di overdose che gli stiamo facendo.
È conosciuto dal servizio da sempre. Viene al Centro tutti i giorni, prende le siringhe e velocemente se
ne va. I tentativi fatti per cercare spazi diversi nel rapporto con lui non hanno funzionato. È sempre in
allerta, timoroso, manifesta evidenti tratti paranoici. Ha 41 anni e l’abuso prolungato di diverse
sostanze sembra aver inaridito i suoi processi cognitivi. Questo lo pone nelle relazioni in una stato di
frustrazione che affronta con aggressività reattiva.
Negli ultimi mesi, la situazione precipita e il nostro rapporto con lui si intensifica, sebbene all’interno
degli interventi di pronto soccorso. Ogni volta che prende le siringhe ci informiamo per sapere dove va,
e se dopo un po’ non torna andiamo a verificare che tutto vada bene. Quando poi si riprende dopo il
collasso, riusciamo a farlo venire al Centro per riposarsi.
In questa situazione estrema, Sandro comincia ad affidarsi e decidiamo di forzare la situazione. Gli
proponiamo un contesto più strutturato ma che ipotizziamo più contenitivo. Gli comunichiamo che se
vuole, potrà avere un operatore di riferimento del Centro col quale sarà possibile fare nel tempo il
punto della situazione. Si arrabbia, non capisce, ed eravamo certi di questa reazione, ma attendiamo.
Dopo qualche giorno torna e non per le siringhe. Cosa vuol dire operatore di riferimento? Mi obbliga a
fare qualcosa? Io non ci pranzo qui con voi.
È passato un anno. Il quadro si è trasformato. Sandro ora viene regolarmente al Centro e si affida a
questo spazio, ma le cose non sono facili. Usa le sostanze con più attenzione, manifesta una nuova
consapevolezza per il proprio stato di salute, ha ristabilito un rapporto col Sert, sta sperimentando
nuove dimensioni relazionali-affettive. Allo stesso tempo sta permettendo a se stesso di restituire quella
rabbia autodistruttiva all’interno del nuovo contenitore. Il disturbo psichico appare in tutta la sua
evidenza e non è facile diagnosticare se preceda, si associ o consegua la sua problematica di
dipendenza; un percorso drug-free, fondamentale per sperimentare compatibilità e aderenza ad
eventuali letture e trattamenti, sembra ad oggi ancora lontano. È come se le sue crisi si fossero spostate
da “dentro” a “fuori”, prima era il suo corpo che doveva essere messo alla prova, oggi sono gli
operatori del Centro ad essere costantemente provocati, per sperimentare il contatto, la possibile
alleanza, la tenuta del legame. Escalation aggressive non sempre facili da gestire, si alternano a
momenti in cui la relazione si ricostruisce per assolvere la sua funzione di accoglienza e di “cura”.
Quale diagnosi è possibile? Quale intervento è ipotizzabile? Di persone come Sandro all’interno del
Centro ce ne sono sempre di più: fragili, sole, spesso senza fissa dimora, con gravi patologie
concomitanti, prive di legami, con disturbi psichiatrici sempre meno compensati dall’uso di sostanze.
Per loro, la bassa soglia è spesso l’unica soglia di accesso sostenibile. L’intervento di pronta
accoglienza si sta trasformando di fronte alle nuove pressioni sociali, ai cambiamenti del target, delle
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nuove emergenze. Una complessità che necessita di setting con alta competenza e di una appropriata
integrazione degli interventi.
La collaborazione con i servizi specialistici risulta non sempre efficace e talvolta è resa possibile solo
grazie alle disponibilità di medici e operatori particolarmente sensibili. Inoltre, questi pazienti
manifestano difficoltà ad accettare contesti medicalizzati. La compliance è assai labile e i servizi
mancano spesso di quella flessibilità necessaria all’accettazione di persone che presentano disturbi su
diversi versanti. La bassa soglia corre il rischio di incarnare sempre più la funzione di controllo
sociale, riflettendo spesso caratteristiche di emarginazione e stigmatizzazione di cui sono portatori i
suoi stessi pazienti, troppo frequentemente ritenuti “intrattabili”. È soggetta ad uno stato di isolamento
e di abbandono nella gestione di casi che presentano manifestazioni patologiche molteplici; sempre più
di frequente, si propongono situazione al limite della sostenibilità facendo emergere seri problemi di
sicurezza. Sulla base di una effettiva scarsità di risorse, di sovraccarico e di fatica si è portati
necessariamente ad interrogarsi se alzare la soglia rispetto ad un criterio di massima apertura e
accoglienza. Come scrive Franca Olivetti Manoukian (Animazione Sociale, ottobre 04), «La pressione
cui oggi sono sottoposti i servizi hanno il volto minaccioso dell’assedio. Di fronte all’aumento della
richiesta di aiuto oggi non basta chiedere agli operatori di “fare di più”. Occorre mettere in discussione
la delega esclusiva e onnipotente che la società ha consegnato loro». È necessario più che mai ripensare
ad un modello di servizi in una strategia sociale di contesto, territoriale, capace di mobilitare risorse, di
assumersi responsabilità. È necessario che i Sert e tutti gli altri servizi del territorio, spesso troppo
ingessati nelle loro prassi di intervento, prendano iniziative nuove uscendo da rigidi schemi operativi,
in cerca di strade concrete e concertate: per andare “incontro” al paziente, alla persona, per poter
garantire e condividere una reale responsabilità sociale sui problemi. Assicurando un percorso di
garanzia, di diritti, di cittadinanza e di “cura”.
*Responsabile servizi a bassa soglia Cooperativa Parsec Roma
Da Fuoriluogo, dicembre 2004
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Decollate negli ultimi anni le vendite di antidepressivi e antipsicotici
L’EPIDEMIA CHE PIACE AL MERCATO
Il boom è il risultato di una pressante campagna di informazione-propaganda, non certo del dilagare
di disturbi mentali
GIANNI TOGNONI*
Il modo più diretto per introdurre e per dare una visione d’insieme alla domanda sul se e perché oggi ha
senso una riflessione sull’uso degli psicofarmaci in Italia è senz’altro quello di guardare alle curve che
descrivono l’andamento delle prescrizioni di antipsicotici ed antidepressivi negli ultimi anni. I dati sono
univoci: ad un mercato sostanzialmente costante (ormai da anni) di ansiolitici-ipnotici (le ormai
“vecchie”, intramontabili, benzodiazepine), ha corrisposto nei primi anni del 2000, un aumento di
prescrizioni-consumi di antidepressivi e di antipsicotici, gli incrementi sembrano tanto marcato da
sembrare risposta ad epidemie di depressione e/o di psicosi.
Alla epidemia prescrittiva ha corrisposto un ancor più impressionante salto di livello di spesa per il
servizio sanitario nazionale, con variabilità accentuate tra le Asl e le Regioni.
Per divenire una informazione utile-utilizzabile, specificamente da un punto di vista di salute pubblica,
una constatazione di questo tipo non ha bisogno di molti dati di dettaglio: questi rischierebbero anzi di
rappresentare una trappola che favorisce l’attenzione (più o meno sorpresa o scandalizzata: o
soddisfatta, da parte dei produttori-venditori) ai particolari, e rende più difficile la riflessione.
È meglio dunque proporre alcuni elementi di analisi, che portano poi ad ipotesi di attività-intervento.
1. Non esistono, ovviamente, epidemie di disturbi mentali, né sul versante della “depressione”, né,
tanto meno, su quello della psicosi (a meno di voler suggerire che in Italia si sia verificata a livello
generalizzato una epidemia di “disturbi post-traumatici”, descritti per situazioni di guerra, e/o di
catastrofi sociali, e/o naturali).
2. È in atto, dalla metà degli anni ‘90, a livello internazionale e sempre più anche in Italia, una
campagna medico-mediatica, sostenuta da dati di “epidemiologia proiettiva” (che non è tra le discipline
più rigorose!), per convincere tutti, esperti ed opinione pubblica, che tra i problemi che più pesano, per
rilevanza clinica e carichi assistenziali, la depressione è quello cui dare priorità: per scoprirlo,
diagnosticarlo, trattarlo. La campagna è affiancata da un allargamento costante dei criteri di
riconoscimento di disturbi riconducibili ad un’unica diagnosi lungo uno spettro che va dall’ansia più o
meno generalizzata alla depressione grave-e-a-rischio-prossimo-di-suicidio.
3. Questa pressione epidemiologica (una vera e propria “epidemia auspicata”) è [stata] contemporanea
al lancio di farmaci (di cui la fluoxetina-Prozac è stato come antidepressivo il mitico antesignano)
dichiarati nello stesso tempo iperspecifici per farmacologia ed efficacia clinica, e sicuri per effetti
indesiderati, tanto da permettere di trattare-curare in modo assolutamente innovativo da una parte la
depressione, dall’altra le psicosi.
4. Una pressione di mercato basata su queste caratteristiche tanto attraenti, e ovviamente “vincenti”
(sostenute dalle corrispondenti “indicazioni a livello registrativo) non è [stata] esclusiva del campo
degli psicofarmaci. Basta ricordare ciò che è successo in questi stessi anni per gli antinfiammatori, per i
farmaci broncopolmonari, ...: in un mercato non particolarmente vivace per innovazioni su grande
scala, le novità-basate-sull’immagine sono diventate le vere protagoniste delle strategie di mercato.
5. Non c’è da stupirsi che il passaggio da strategie di immagine a creazione-imposizione di
“immaginari” [ancor] più facilmente manipolabili, non solo a livello di prescrittori, ma anche di
opinione pubblica, sia [stato] più facile per farmaci che promettono meraviglie per i problemi, più o
meno gravi, di comportamento. Ed è ovviamente, molto improbabile (quand’anche ci si provasse sul
serio, a livello di comunicazione pubblica su grande scala) che possa aver successo una informazione
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sobria, realistica, scientificamente aggiornata, non polemica, che ricorda che le autorità regolatorie e
valutative di diversi Paesi (tra i primi gli Usa, dove gli antidepressivi avevano avuto più fortuna) hanno
concordemente rilevato che, nelle più diverse realtà assistenziali e prescrittive, i grandi vantaggi delle
“nuove” classi di antidepressivi ed antipsicotici non si erano confermati, né in termini di efficacia né,
purtroppo, in termini di sicurezza. All’espansione “epidemica” delle prescrizioni (certamente un
fenomeno interessante-redditizio a livello di mercato) è seguita dunque una “regressione alla media”
delle grandi promesse di novità terapeutica. L’immaginario che si è efficientemente costruito ha da un
punto di vista sanitario generale, ha la [in]consistenza di una falsa promessa (con nel sottofondo
sospetti seri di occultamento. Falsificazione dei dati originali sottoposti per l’approvazione
registrativa).
Il danno (in termini tecnici: la sua iatrogenesi-tossicità) è di tipo culturale: più grave, verosimilmente
perché più pervasiva-duratura, della somma dei, più o meno seri effetti collaterali sul 5-10% dei [molto
meno numerosi] pazienti ai quali i farmaci fossero prescritti per bisogni reali, e con una altrettanto
realistica prospettiva di efficacia (sintomatica e curativa).
6. Grazie anche agli investimenti notevoli di una informazione-propaganda sostenuta da gruppifondazioni-società scientifiche (e non solo dalla “normale” pressione dei produttori), è verosimile che
l’“epidemia” continui (stabilizzata, o in progressiva, meno esplosiva diffusione) soprattutto per gli
antidepressivi: per gli antipsicotici la “terra promessa” degli anziani con disturbi di comportamento è
stata [un po’] rimandata, per il riconoscimento tardivo di rischio di eventi cerebrovascolari, mentre
l’area psichiatrica è già sufficientemente “occupata”. Non ha verosimilmente molto senso [continuare
a] denunciare gli eccessi del mercato. È più importante [iniziare-continuare a] sollevare, con molta
insistenza, precisione, pressione la esigenza di avere risposte affidabili, chiare a due domande
complementari:
a) dove sono le documentazioni dei bisogni reali di questi trattamenti [falsamente] innovativi? Chi,
come, dove, fa diagnosi di “depressione”? Quale è il rapporto tra specialisti e medici di famiglia? Chi
“gioca” a [s]caricare responsabilità di “scarsa attenzione “, o “eccessiva prescrizione”? Quando e come
si documenta un bisogno specifico per gli antipsicotici “atipici”?
b) Ancor più importante: chi documenta seriamente quali sono le risposte vere a tutti questi
psicofarmaci? Quanti sono i pazienti che non hanno vantaggi, e/o diventano dipendenti da promesse
farmacologiche? Dove sono le prove che i pazienti psichiatrici trattati con i “nuovi” farmaci hanno
nuova e diversa autonomia di vita?
Le domande non sono astratte: corrispondono a nodi politici, porle e produrre risposte, oltre che
tecnici: è responsabilità diretta, non delegabile, delle Asl, dei medici di famiglia, dei servizi
psichiatrici. Si possono – e perciò di “dovrebbero” – esigere. Per non continuare a dipendere dal
mercato, anche quando, ci si lamenta, senza perché non si producono conoscenze diverse ed
indipendenti.
7. Con una rete non piccola di servizi psichiatrici, con alcune associazioni di familiari, con nuclei
variamente disseminati di medici di famiglia, qualcosa stiamo facendo. Chi vuole sapere nel dettaglio
su che linea di ricerca si sta lavorando, lo faccia sapere.
*Ricercatore, Segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, coordina un progetto del
Ministero della Salute sulla farmacosorveglianza degli psicofarmaci
Da Fuoriluogo, dicembre 2004
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Le manipolazioni, talvolta impercettibili, usate per commercializzare i prodotti
L’INDUSTRIA DEL FARMACO
E IL FAR WEST ITALIANO
Con gli psicofarmaci il gioco risulta più agevole: psichiatrizzare serve a creare ulteriori spazi di
consumo.
GIORGIO BIGNAMI
Molta acqua è passata sotto i ponti dal tempo in cui la commissione ministeriale per il farmaco
approvava sino a 60 “nuove” specialità per ogni ora di seduta, per lo più prodotti di non provata
efficacia (ma magari discretamente tossici) o ennesime copie di farmaci già ampiamente disponibili.
Proprio come nel Far West, le poche operazioni di pulizia raramente si facevano per iniziativa della
autorità competente, ma costituivano piuttosto episodi di giustizia autogestita tramite i vigilantes e i
pistoleri delle aziende, preoccupate di sorvegliare e di espandere i loro verdi pascoli. Negli anni ‘50,
per esempio, una ditta leader nel settore dei cortisonici registrò un vistoso calo delle vendite in una
certa area della Liguria. Attivati i suoi Sherlock Holmes, scoprì che un intraprendente farmacista era
riuscito a registrare sotto diverso nome una copia fedelissima della sua specialità più nota e diffusa:
tanto fedele e garantita che era prodotta in un laboratoriosottoscala macinando le pasticche della
specialità originale, acquistate a prezzo scontato dai grossisti, e riconfezionandole con il nuovo
marchio. Infine, grazie a una rete di prescrittori e farmacisti conniventi, il geniale inventore aveva
conquistato il quasi-monopolio locale delle vendite, realizzando modesti profitti che tuttavia gli
bastavano per una vita più comoda di quella di un piccolo farmacista di provincia.
In una seconda fase, per diversi motivi – cioè per l’esigenza di un minimo di razionalizzazione del
sistema sanitario, dopo la istituzione nel 1958 dell’apposito ministero (sino ad allora la sanità,
considerata un problema di ordine pubblico piuttosto che strumento mirato al benessere della
popolazione, aveva seguitato a dipendere dal ministro della polizia, salvo un superficiale aggiustamento
postbellico con la promozione da Direzione generale ad Alto commissariato); e soprattutto per le
crescenti pressioni delle multinazionali infastidite dalla concorrenza degli innumerevoli pseudofarmaci
e dalle copiature à go go – le operazioni del settore farmaceutico incominciarono a rivestire panni
apparentemente più scientifici; quindi le manipolazioni assunsero carattere via via più sottile e
insidioso. Proprio nel campo degli psicofarmaci si trovano chiari esempi di tale andamento, come il
varo, sulla base di laboriosi pareri degli organi consultivi, delle regole (in realtà alquanto annacquate)
per la prescrizione e il controllo dei nuovi ipnotico-sedativi e ansiolitici benzodiazepinici (per i dettagli
vedi Fuoriluogo, gennaio e febbraio 2002). In sintesi, sfruttando i conflitti tra gli esperti nelle diverse
sedi e una letteratura ancora in parte controversa, l’autorità competente, allora governata dal noto
professor Poggiolini, riuscì ad assecondare le pressioni dell’industria e dei suoi sostenitori del mondo
medico-scientifico, minimizzando i rischi di tolleranza e dipendenza e concedendo di fatto la libera
vendita di questi farmaci. Tale concessione era particolarmente importante in Italia, dove la diffusione
dei prodotti aveva tardato rispetto soprattutto ai paesi anglosassoni, data la sostenuta concorrenza degli
pseudofarmaci “di conforto” ereditati dalla fase precedente di cui si è detto. Ma dal quel punto in poi
l’escalation divenne inarrestabile, sino a collocare gli italiani tra i maggiori consumatori di droghe
legali.
Un altro esempio si trova nel notevole ritardo con il quale, malgrado i ripetuti avvertimenti di una
minoranza di operatori più sensibili, si riconobbe la frequenza straordinariamente elevata di gravi
effetti collaterali (soprattutto ma non soltanto discinesie tardive), nei pazienti trattati a lungo con dosi
elevate di neurolettici come la clorpromazina e l’aloperidolo. Grazie a tale programmata ignoranza
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innumerevoli soggetti – non solo pazienti psichiatrici gravi, ma anche ritardati mentali e altri –
seguitarono a ricevere pesanti trattamenti che aggravavano i loro problemi riducendoli a neurological
wrecks, rottami neurologici (secondo il professor Breggin, tale fenomeno costituisce la più grave
catastrofe iatrogena di tutta la storia della medicina).
Ma anche questo tipo di manipolazioni doveva prima o poi mostrare la corda, quindi gli ingegni
farmaceutici e i loro compagni di strada, accademici e non, si misero alacremente al lavoro per
sostituirli con altri ancora più sottili. (Ciò vale indipendentemente dalle specificità nei vari paesi, data
la crescente globalizzazione; in Italia, l’evoluzione è più vistosamente punteggiata – per dirla col
compianto professor Gould – dalla catastrofe di Sanitopoli/ Farmacopoli dei primi anni ‘90, con le sue
tragicomiche vicende come quella dei pouf di casa Poggiolini imbottiti di banconote e titoli vari). Il
libro recente di Marco Bobbio sul conflitto di interessi (Giuro di esercitare la medicina in libertà e
indipendenza. Medici e industria. Einaudi, Torino, 2004) fornisce un campionario a dir poco
strabiliante della ingegnosità di queste manipolazioni. Infatti, sulla base di quasi impercettibili storture
nella impostazione delle sperimentazioni cliniche finanziate dai produttori (storture accettate dagli
sperimentatori accademici e altri, che altrimenti rimarrebbero a mani vuote), spesso si riesce a
predeterminare in buona misura i risultati. Il cerchio si chiude con una promozione aggressiva che
punta le luci della ribalta sulle informazioni favorevoli lasciando in ombra, senza “sporcarsi le mani”
nascondendole del tutto, quelle meno favorevoli.
Nel caso degli psicofarmaci questo giuoco risulta particolarmente agevole, date le incertezze della
nosografia psichiatrica e la grande variabilità dei sintomi e decorsi che costringono a estrarre le
informazioni da un “rumore di fondo” particolarmente assordante. Rapidamente due esempi. Una
recente rianalisi, condotta da ricercatori non finanziati dall’industria, ha esaminato i dati raccolti in vari
precedenti confronti tra neurolettici classici (clorpromazina, aloperidolo e simili) e neurolettici di
nuova generazione (e quindi notevolmente più costosi), i cosiddetti atipici (risperidone, olanzapina e
altri). Il lavoro solleva fondati sospetti sulla pretesa maggiore efficacia e minore tossicità dei secondi
rispetto ai primi. Infatti in buona parte di queste ricerche i dosaggi dei neurolettici classici usati nei
gruppi di controllo risultavano superiori a quelli equivalenti dei neurolettici atipici, mentre esistono
ampie evidenze che oltre una certa dose critica non solo gli effetti tossici di questi farmaci tendono ad
aumentare, ma anche l’efficacia terapeutica tende a diminuire.
Un’altra rianalisi è stata condotta non solo sui dati pubblicati, che non di rado sono oculatamente
selezionati dagli sponsor, ma su tutti i dati forniti tra il 1987 e il 1999 dalle ditte alla Food and Drug
Administration degli Stati Uniti per la registrazione di sei antidepressivi di nuove generazioni (quelli
che risulteranno in seguito i più frequentemente prescritti). Essa ha mostrato 1) che a prima vista ben
l’80% in media dell’effetto dei farmaci è ascrivibile all’effetto placebo (ma se scarsi sono i benefici,
spesso consistenti sono gli effetti tossici indesiderati); e addirittura 2) che tali minimi benefici possono
considerarsi provati solo nel caso che l’effetto placebo e quello dei farmaci semplicemente si sommino
secondo un modello cosiddetto additivo, cosa tutta ancora da dimostrare. Viceversa tali prove
cadrebbero se il modello dei rapporti tra i due tipi di effetti risultasse diverso (cosiddetto non additivo):
il che esigerebbe di rifare da capo tutte le valutazioni secondo metodologie differenti da quelle sinora
adoperate. Guarda caso questo lavoro è stato pubblicato non su di una rivista psichiatrica o medica, ma
su di una rivista elettronica di psicologia: J. Kirsch et al., Prevention & Treatment, vol. 5, article 23,
2002 (http://journals. apa.org/prevention/volume5/ toc-jul15-02.htm).
Queste sintetiche note non possono esaurire l’argomento delle mistificazioni nel campo della
psicofarmacologia, come mostrano per esempio le frequenti discussioni sulla tendenza a psichiatrizzare
questo o quel comportamento onde creare ulteriori spazi di mercato per questo o quello psicofarmaco
(vedi l’articolo di Agostino Pirella in Fogli di informazione, n. 199, pp. 1-10, 2003 pubbl. 2004). Ma è
doveroso un ultimo avvertimento: prescrittori e consumatori di psicofarmaci spesso cadono nella
trappola di pagare a prezzi di affezione prodotti “griffati” con i nomi di marchio di potenti
multinazionali, ma oramai disponibili come generici, con sconti sino a oltre l’80%: per esempio, i
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tranquillanti lorazepam/Tavor, alprazolam/Xanax e bromazepam/ Lexotan e gli antidepressivi
fluoxetina/Prozac e citalopram/Seropram (vedi ad esempio Giorgia Nardelli su Il Salvagente del 2128/10/2004, pp. 34-38). E per sovrammercato, qualche tempo fa è stata approvata una legge che
estende in Italia la durata dei brevetti farmaceutici. Così, ad esempio, il brevetto dell’antidepressivo
paroxetina, scaduto negli Usa nel 1992 e in vari paesi europei nel 1999, durerà nel nostro beato paese
sino al 2009 (vedi Federico De Rosa sul Corriere della Sera, 1/11/2004). Insomma, avevano ragione
gli antichi quando coniarono l’eternamente valido adagio “Con la pasticca o con la compressa – La
fregatura è sempre la stessa”; o più sbrigativamente, aridàtece Poggiolini.
Da Fuoriluogo, dicembre 2004
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