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rubrica
INTERVENTO
Tiriamo a Campari
di Amedeo
Ricucci
Corrispondenti di guerra
festeggiano la liberazione
nella residenza di Goebbels.
arà pure un luogo comune – e anche
un po’ vieto – ma il connubio fra alcol e giornalismo esiste, eccome. Se non
altro per chi questa professione l’ha vissuta non restando comodamente seduto a una scrivania, bensì consumando le
suole delle scarpe – secondo l’espres-
sione di Egisto Corradi. In tal caso, infatti, si sarà ritrovato giocoforza a vivere
tutta una serie di situazioni e a frequentare tutta una serie di locali – dai bar dei
grandi alberghi alle bettole più malfamate – dove bere è spesso un dovere, prima
ancora che un piacere e starsene con un
Hulton-Deutsch Collection
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bicchiere in mano può risultare altrettanto utile che avere a portata di mano il taccuino o la penna. D’altronde Faulkner,
forse dopo qualche buona dose di whisky, disse una volta che “civilitazion begins with distillation”. Ma ad ogni modo
l’idillio fra alcol e giornalismo va spiegato, più che celebrato.
E allora partiamo da Mosca. Ogni giornalista che ci sia stato, ai tempi dell’Unione Sovietica, ricorda bene quanto fosse
difficile penetrarne i segreti, senza finire
per impantanarsi nelle sabbie mobili della propaganda. E sa anche che la vodka
– sì, proprio la vodka – era il vero piedistallo su cui si reggeva il regime comunista. “Nell’Urss di quegli anni – scrive ad
esempio Carlo Rossella, ex inviato di Panorama – l’ubriachezza era per molti uno
stato normale dell’esistenza. E la vodka
un lubrificante indispensabile del vivere”. Quando c’era perciò bisogno di avere notizie certe, e non addomesticate, la
vodka era un ponte ardito ma sicuro. Di
cemento armato. Bastava procurarsene
una bottiglia di quelle buone, piazzarsi
di fronte al proprio interlocutore ed aiutarsi con il cibo: nel giro di un’ora si diventava suo fratello e il taccuino magicamente si riempiva di appunti.
Se poi volevi fare bingo, dovevi farti invitare a un matrimonio oppure a una festa privata: qui la vodka scorreva a fiumi,
ma se la tua lingua risultava sciolta ed eri
fantasioso nei brindisi – quelli che, per
intenderci, nei film si concludono col bicchierino scaraventato a terra, dietro le
spalle – potevi star certo di aver trovato
dei contatti giusti e, magari, degli amici
fidati. Che si tratti della vodka a Mosca o
dell’arak a Beirut, del pastis a Marsiglia
o del cognac in Armenia, dappertutto
l’alcol è stato ed è una sorta di passepartout che i giornalisti non disdegnano e di
cui spesso fanno uso (e talvolta abuso).
Per carità, esistono le eccezioni. E sono nobilissime. James Natchwey – probabilmente il più grande fra i fotoreporter di guerra viventi – se ne va in giro con
le sue bottigliette di acqua minerale stivate nello zainetto, riuscendo a scattare
lo stesso delle bellissime foto. L’ho visto
inoltre lavorare in posti, come i Balcani,
dove l’ospitalità è sacra ed è difficile rifiutare un bicchierino di slivovitz quando si entra in una casa. Lui lo fa e i suoi
ospiti glielo perdonano. Allo stesso modo, ci sono fior di inviati speciali che non
hanno mai bevuto un cocktail Martini
eppure hanno vinto il Pulitzer; o che hanno fatto la storia del giornalismo senza
aver mai gustato un ouzo, una caipirinha o un Negroni.
a non vi è dubbio che l’alcool sia
stato un compagno di strada per
tanti giornalisti più o meno famosi, di cui
ha spesso aguzzato l’intelligenza e alleviato la solitudine, un accessorio del mestiere, quasi come la macchina da scrivere, la radiolina a transistor, il coltellino
multiuso e la torcia tascabile. Tant’è che
la fiaschetta – di peltro, cromata e soprattutto bombata, per poterla ficcare
nel taschino della giacca – ha sempre fatto parte del bagaglio dell’inviato speciale british style. Fin dai tempi di William
Russell, irlandese, capostipite della ca-
M
tegoria, “il primo e il più grande” come
recita la sua lapide, spedito nel 1854 dal
Times di Londra a coprire la lontana
Guerra di Crimea.
Anche all’epoca il bagaglio del reporter doveva per forza di cose essere ridotto. “Viaggia leggero e sempre pronto”,
dice Evelyn Vaugh al suo redattore (L’inviato speciale, Guanda), rivelandogli così “le due regole fondamentali del mestiere”. Ma l’improvvisato giornalista si
lascia forse un po’troppo suggestionare
dall’esotismo della sua meta – l’Africa
tropicale – e finisce per portarsi dietro un
set di mazze da polo e uno da cricket,
una canoa ripiegabile, un astrolabio,
una tavola operatoria da campo e un
umidificatore per sigari.
Ad esser sinceri, la fiaschetta nel romanzo di Waugh non viene nominata.
Ma siamo sicuri che c’era. Anche perché
le bevute saranno un ingrediente fisso
delle memorabili giornate del suo war
correspondent nello Stato immaginario
di Ismaelia. E d’altra parte, non può essere un caso se per una lunga stagione,
nei film hollywoodiani, quella fiaschetta
ha identificato i giornalisti al pari del taccuino e del cappello messo di sguincio.
Non sappiamo se Luigi Barzini senior
avesse una fiaschetta al seguito quando, nel maggio del 1904, fremeva per poter seguire la guerra russo-giapponese.
Ma è sicuro che bevessero, e tanto, i 79
corrispondenti di guerra alloggiati con
lui all’Imperial Hotel di Tokyo, prima di
essere portati al fronte. “Da due mesi –
scrive Barzini sul Corriere della Sera –
non conoscono altro campo che il tappe-
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Il corrispondente di guerra Ernest Hemingway
e suo figlio Patrick con Connie Ernst allo Stork Club nel giugno del 1945.
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di un mojito all’Ambos Mundos o al National dell’Avana, di una vodka fredda al
Metropol di Mosca?
Può darsi anche che la scrittrice newyorkese Fran Leibowitz abbia esagerato nel dire che “è nei bar, nelle conversazioni al bar, che si è svolta negli ultimi
sei, sette decenni la storia delle idee”.
Ma – come ebbe a dire Sandro Viola,
grande inviato dell’Espresso – in quella
affermazione c’è anche del vero. Lui di
bar e di cocktail se ne intende. Almeno
quanto si intende di politica internazionale. E non l’ha mai nascosto. Anzi, è sua
l’ode più romantica che un giornalista
abbia mai dedicato al mondo dei bar, visti come una sorta di tempio del bere bene: “Quale piacere nel sistemare la scarpa sinistra sulla sbarra poggiapiedi di un
buon bar, accendere una sigaretta, pun-
tellare il gomito destro sul banco e attendere trepidi che il barman mescoli il nostro Martini. E quanta compassione per
gli astemi”.
La verità è che gli inviati speciali fanno
dei bar la loro seconda casa e al tempo
stesso l’ufficio mobile. Ci si va per incontrare collaboratori preziosi e per liquidare scocciatori petulanti, per scrivere il
pezzo o per telefonare in redazione, per
sondare gli umori della gente e per scroccare qualche informazione utile, ma soprattutto per ingannare il tempo nelle
lunghe ore di attesa, la vera bestia nera
di questo mestiere. In attesa erano Tiziano Terzani e un nutrito drappello di giornalisti internazionali alloggiati all’Hotel
Royal di Phnom Phen, nell’aprile del
1975, mentre la città si svuotava per l’imminente arrivo degli Khmer Rossi. E nel-
l’attesa – snervante, dice Terzani, perché
ogni giorno sembrava dovesse essere
l’ultimo – quei giornalisti davano fondo
alle riserve di vino francese e di champagne rimaste in cantina e gentilmente
messe a disposizione.
na bottiglia di vodka accompagna
invece Ettore Mo in Cecenia, nel dicembre 1994, mentre batte a macchina
sulla sua Lettera 22, asserragliato con gli
uomini di Dudayev nel suo bunker di
Grozny, in attesa della battaglia finale. È
inverno, d’altronde, e fa un freddo cane.
Chi scrive, infine, ha dovuto scolarsi in
compagnia di un ufficiale dei servizi segreti un’intera bottiglia di brandy albanese, il micidiale Skenderbeu, aspettando per un’intera notte l’agognata convocazione a palazzo per un’intervista con il
presidente Sali Berisha, durante i disordini del 1997. Per il mio interlocutore era
una prova di virilità. E io non volevo perdere l’intervista.
Vittorio Dell’Uva, mitico inviato speciale del Mattino di Napoli, nei suoi tanti pellegrinaggi non ha mai dimenticato
a casa la moka, che ha sempre fatto degli ottimi caffè, regalando a molti giornalisti italiani un piacere immenso, ricambiato da infinita gratitudine.
Ma le bottiglie di whisky oppure di
grappa sono un must per molti, soprattutto quando si è diretti in Paesi di religione islamica: purché le si sappia ben
camuffare, in modo da poter passare
senza intoppi la dogana. In Afghanistan,
nell’ottobre 2001, ho visto con i miei occhi un mujaheddin dell’Alleanza del
U
Bettmann / Corbis
to verde, altri proiettili che le palle d’avorio, altre armi che le stecche”. Giornate
intere, insomma, passate fra il bar e la
hall dell’albergo. Barzini aggiunge che,
per placare la noia e curare la loro impazienza, le autorità giapponesi li coccolavano con una festa dietro l’altra. Ovviamente a base di sake, il liquore di riso.
Chi abbia seguito la guerra del Kosovo dalle stanze dell’Hotel Hyatt o dell’Intercontinental di Belgrado, nel 1999, ricorderà ad esempio le lunghe notti passate insonni e senza luce elettrica, per
via dei bombardamenti umanitari della
Nato. E, scavando ancora nella sua memoria, ricorderà pure che in quei frangenti un aiuto notevole lo offriva la losa,
la grappa locale, che serviva a non pochi
inviati a restare svegli, chiacchierando,
contando le bombe o scrutando il cielo.
Conosco un giornalista senegalese,
devoto musulmano, il quale, tutte le volte che rientra da un lungo servizio fatto
in brousse, cioè nell’entroterra polveroso e malsano, si serve un doppio pastis
allungato con poca acqua. È la sua unica
trasgressione religiosa, ma lui la giustifica asserendo, serio e compassato, che è
«il metodo più efficace per disinfettarsi
dai germi e dai batteri accumulati».
D’altronde è risaputo infatti che i bar
dei grandi alberghi sono una garanzia e
i barman che ci lavorano sono quasi
sempre professionisti di lungo corso,
che sanno riconoscere i clienti, offrendo
loro il bicchiere giusto al momento giusto. E allora come (e soprattutto perché)
privarsi di un Martini cocktail al Carlyle
di New York oppure al Savoy di Londra,
Nord mettere all’asta una bottiglia di
Johnny Walker da un quarto di litro – sia
pure “etichetta nera” – che in dieci minuti aveva raggiunto il prezzo di 150 o forse
200 dollari. In Bosnia, invece, c’erano inviati italiani che arrivando in macchina si
portavano dietro casse e casse di vino,
birra e superalcolici. Qualcuno, pare,
preferiva addirittura il Tavernello, modesto vino da tavola venduto nelle confezioni in tetrapak.
Ma finite le interminabili attese, quando l’azione finalmente sopraggiunge, c’è
da prendere decisioni rapide in tempi
stretti. Insomma, “una maledetta accidia, intervallata da sprazzi di irrefrenabile frenesia”, secondo l’espressione utilizzata da John Le Carré.
Sapo Matteucci in un suo bellissimo libro (C’era una vodka, Laterza) afferma
comunque che “molti hanno restituito in
disperazione e abbandono quel che whisky, rum, vino e birra avevano loro regalato”. E questa sua nota amara riguarda
anche qualche giornalista, dalla scarsa
“educazione etilica”.
Non appartengono certo a questa categoria Gian Carlo Fusco e Gianni Brera,
entrambi grandi giornalisti (e scrittori),
la cui carriera ha avuto nell’alcol – il vino
per il primo, la grappa per il secondo – un
buon propellente. Inviato del Mondo,
dell’Europeo e del Giorno, Fusco pare
fosse capace – la stima è di Oreste del
Buono – di trangugiare anche trenta bicchieri al giorno del suo liquore preferito.
E ne ordinava quantitativi industriali, per
casa sua. Si narra che una volta lo spedizioniere fu costretto a fare marcia indie-
tro, perché purtroppo all’indirizzo indicato non era riuscito a trovare nessun
Bar Fusco. In ogni caso, la passione per
l’alcool non ne ha mai intaccato le capacità di scrittura. Anzi, deve aver in un certo qual modo contribuito a farlo diventare – sempre secondo Del Buono – non solo uno straordinario giornalista, ma anche il più grande narratore orale italiano
della seconda metà del secolo scorso.
Gianni Brera, invece – di sicuro il più
grande giornalista sportivo che l’Italia
abbia mai avuto – la grappa dovette a un
certo punto abbandonarla, per motivi di
salute. «Ad ogni momento la sua cosa»,
amava ripetere. Non troncò mai, però, i
suoi rapporti con il vino, il suo grande
amore, su cui peraltro ha scritto pezzi da
antologia. “Guardo le mie colline – è l’attacco del suo Il vino che sorride – e ne
sorseggio sovente il vino, per non dubitare dei miei maestri”. E più giù, come a
voler dimostrare che bere, per lui, era un
tutt’uno con la vita: “Bevendo sempre
con molto impegno si può finire fra i virtuosi che non hanno mai sete”.
Con Fusco e con Brera si entra però
nella ristretta cerchia dei giornalisti che
con l’alcool hanno avuto una relazione
strutturale oltre che funzionale. Il più famoso è di sicuro Ernest Hemingway, che
fu inviato speciale sia durante la Prima
che la Seconda guerra mondiale.
Forse è per questo che pensò di rivisitare la ricetta del cocktail Martini, adattandola allo schema di superiorità numerica applicata dal generale inglese
Montgomery sul campo di battaglia: 15
parti di gin e una sola di Martini dry.
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