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Vorrei innanzi tutto ringraziare la CRUI e il suo Presidente, Stefano Paleari, per avere deciso di dedicare il primo dei Convegni annuali delle Conferenza alle Università non statali. Non era una decisione scontata. È infatti la prima volta che la Conferenza dei Rettori decide di polarizzare la sua attenzione strategica sul sistema delle Università non statali, le quali, pur rappresentando una fascia consistente dell’intera Conferenza, hanno sempre svolto una semplice funzione di sostegno e collaborazione alle politiche e alle strategie della CRUI. La crescita del numero delle Università non statali da un lato e la sconsiderata politica parlamentare e governativa, che ha sempre di più marginalizzato le attenzioni e il contributo statale agli Atenei non statali, fino a farlo diventare quasi un fatto simbolico, hanno reso la “questione Università non statali” politicamente così grave da indurre l’intera Conferenza a farsene carico. Il pluralismo, infatti, delle voci e delle posizioni in materia di alta formazione è una ricchezza inestimabile di un Paese democratico, che – al netto di ogni demagogia ideologica – merita di essere considerata come un plus di sistema. Grazie dunque! Il Convegno di oggi non è e non ha lo scopo di essere una rituale protesta o una presentazione camuffata di richieste a questa o quella istanza politica, ha piuttosto l’orgoglio di presentare al mondo accademico, a quello politico e all’opinione pubblica i risultati delle proprie performances istituzionali sia da un punto di vista istituzionale, sia da un punto di vista economico-finanziario. I dati sono macroscopicamente significativi: a fronte di una stucchevole retorica ideologico-politica che vorrebbe prevalente la tendenza a favorire le cosiddette “Università private” – facendo già nella definizione di tendenza un enorme errore di valutazione giuridico-sociale – la “contribuzione” al sistema non statale dal 1999 ad oggi traccia un diagramma impressionante che passa dai 93 ml. di euro ai 133 ml. del 2005-2007, per precipitare ai 61 ml. del 2013: appostazione irrisoria per tutti gli Atenei non statali, compresi i 14 aderenti alla CRUI! Non faccio riferimenti di alcun genere a valori inflattivi o a potere d’acquisto del 1 periodo di riferimento, dico soltanto che è vergognoso, se il fatto viene messo a confronto con i 7.5 miliardi di euro che vengono trasferiti al sistema statale, che, a sua volta, pur giustamente protesta per la sua progressiva e crescente riduzione. I dati di bilancio invece delle Università non statali aderenti alla CRUI (14 Atenei) per il triennio consolidato 2010-2012 mostrano un movimento in entrata e in uscita che oscilla intorno a un 1.8 milioni di euro all’anno, con una incidenza media del contributo statale su quelle entrate solo del 4.5% nel triennio e, per converso, una interessante costante incrementale media della contribuzione studentesca del 7.5%. In altre parole e fuor dai numeri e dalle percentuali ciò vuol dire che a fronte del calo della contribuzione statale, cresce quasi del doppio la percentuale del consenso dei ragazzi e delle loro famiglie. Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che il sostegno del Paese e di chi vede nei servizi didattici e di ricerca erogati dalle Università non statali un valore importante e significativo c’è tutto, anzi c’è a tal punto che il cittadino italiano comune, laddove ne ha la possibilità logistica ed economica – spesso con grandi sacrifici – preferisce le Università non statali, pagando anche qualcosa di più. Il dato però ancora più interessante lo si può evincere dall’analisi delle voci delle “uscite”. Il sistema non statale è così virtuoso che riesce a tenere i propri bilanci per lo più in pari o talora addirittura con qualche margine positivo, che va ad incrementare le politiche di sviluppo, destinando tutto il ml. 1.8 di budget di entrate in finalità istituzionali: professori e ricercatori di ruolo, personale amministrativo, tecnico e ausiliario, ricerca scientifica, biblioteche, incentivi per i giovani (dottorati di ricerca e assegni di ricerca), edilizia dipartimentale e residenziale, personale e strutture sanitarie per quegli Atenei non statali gravati da responsabilità medico-sanitarie, spese correnti e contributi tributari. In parole più crude – per i più duri d’orecchie, esemplifico – il sistema non statale, in uno stesso periodo, riceve dallo Stato qualcosa come 80 milioni di euro all’anno e “restituisce” allo Stato in servizi e personale qualcosa come 1 miliardo e 800 milioni di euro all’anno (il dato fa riferimento 2 esemplificativamente all’anno 2011). Da notare, infine – per i più maliziosi quod abundat non vitiat – che gli eventuali margini di bilancio non vengono – al netto degli oneri fiscali – liquidati come dividendi a nessuno, ma reinvestiti in scopi istituzionali. La precisazione è d’obbligo, sia per fugare fraintendimenti maliziosi o dolosi, sia per sottolineare la natura giuridica e genetica di queste Istituzioni non statali, che è sempre stata e rimane sociale e non profit. Come è possibile vedere dalla ricerca che presentiamo oggi in modo analitico, la responsabilità e il carico che il sistema non statale ha verso lo Stato, verso il Sistema dell’Istruzione Superiore nel suo complesso, ma anche verso le Famiglie e verso la società civile, è enorme: i nostri docenti, i nostri ricercatori – retribuiti con i parametri retributivi uguali a quelli del personale statale, ma sui fondi di bilancio degli Atenei –, i nostri dirigenti, il nostro personale non docente – contrattualizzato in modo diretto e non regolato dall’ARAN – i nostri dottorati di ricerca, ma anche le nostre attività assistenziali, edilizie, di supporto al diritto allo studio, sono tutte spese – ma investimenti netti per il Paese! – che gravano esclusivamente sul bilancio degli Atenei non statali. Mi sia consentito segnalare due chicche: in materia di diritto allo studio e in tema di edilizia universitaria, sia dipartimentale che residenziale. La prima. Il DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), che regola il diritto alla studio, prevede che agli studenti “capaci e meritevoli”, alla concorrenza di certe condizioni di reddito, vengano restituite le tasse scolastiche: lo Stato fino a qualche anno addietro rifondeva agli Atenei non statali quanto essi restituivano ai ragazzi aventi diritto. Oggi questo non accade più: il paradosso potrebbe verificarsi nel caso in cui un Ateneo avesse studenti tutti tanto bravi e quindi tanto “capaci e meritevoli”, ma altrettanto “indigenti” da dovere loro rimborsare le tasse. Quell’Ateneo sarebbe privato della sua fonte principale di entrate, ma dovrebbe ugualmente continuare ad erogare il servizio solo con la…contribuzione ministeriale, pur essendo – come credo di avere 3 ampiamente dimostrato – la sua principale fonte d’entrata la contribuzione studentesca! La seconda. Gli Atenei non statali sono sempre stati, inspiegabilmente, esclusi da qualunque ripartizione finanziaria tra Università che riguarda fondi per l’edilizia dipartimentale e residenziale. Tutte le strutture edilizie su cui grava l’attività didattica e scientifica degli Atenei non statali sono state realizzate con risorse proprie degli Atenei stessi o di altri soggetti contributori, mai dello Stato. Decisione tanto bizzarra, quanto incomprensibile e, a mio avviso, probabilmente suscettibile di censura costituzionale. In qualche città – dove la gestione amministrativa è fortemente sostenuta da motivazioni ideologiche – si è arrivati pure al punto di richiedere agli Atenei non statali – definiti con una punta di iattante diffidenza “privati” – il pagamento dell’ICI, l’imposta comunale sugli immobili!! Consentitimi di invitarvi, amici e giornalisti, a visitare le nostre Sedi, dal Policlinico “A. Gemelli” della Cattolica di Roma alla sua sede storica di Milano, o alla “città sotterranea”, che vorremmo iscrivere nel Registro della “Memoria del Mondo” dell’UNESCO, del Suor Orsola Benincasa di Napoli, dalle nuove bellissime strutture della Bocconi di Milano alla storica sede della LUMSSA di Roma, e ancora – me lo permetterete! – dal bellissimo e tecnologicamente molto impegnativo Campus dell’Università IULM di Milano all’attrezzatissima struttura sanitaria del Campus Biomedico di Roma a Trigoria, dalla prestigiosa sede della LUISS di Roma alla modernissima struttura sanitaria del San Raffaele di Milano, e così via – non posso elencarle tutte, ma per tutte, proprio per tutte è così. Mi direte dopo se non sono meritevoli di un qualche riconoscimento, anche per il livello della loro tenuta qualitativa, compresa la manutenzione ordinaria: merito degli Atenei, ma anche dei nostri eccezionali ragazzi, che sanno rispettare impareggiabilmente i loro beni! Sedi dignitose, alta qualità della didattica e della ricerca e, in sintesi, tutela della qualità della vita: è questa la “cifra” distintiva delle nostre Università. 4 Siamo e ci sentiamo comunque, con orgoglio e in piena scienza e coscienza – come recita il titolo di questo Convegno – al servizio del Paese. Vogliamo però con forza che il Paese riconosca questo servizio sia moralmente, che giuridicamente. Non dico con ciò che sdegnosamente rifiutiamo gli aiuti economici, ma dico con forza che lo Stato deve trovare una soluzione politica radicale al pluralismo culturale presente nella gestione dell’Alta Formazione. Non è più tollerabile essere trattati da soggetti pubblici solo nella richiesta sempre più ossessiva e incalzante di “requisiti necessari” da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dell’ANVUR, l’Agenzia di Valutazione, e dall’altro lato essere maltrattati in modo così forte sul versante della contribuzione economico-finanziaria. Le nostre risorse finanziarie – e sottolineo le nostre, per dire quelle che le Università non statali mettono in campo insieme ai loro ragazzi, alle loro ragazze e alle loro Famiglie – non sono infinite, ma soprattutto i nostri Atenei non sono più in grado di affrontare vessazioni gratuite, senza alcuna contropartita, né morale, né giuridica, né politica, né economica. La nostra resistenza sembra ispirarsi più allo storico “resistere, resistere, resistere” di Vittorio Emanuele Orlando, che non alla convinzione di una vera competizione per offrire alle nostre future generazioni una qualità sempre migliore della loro formazione e al nostro Paese una palestra di competizione sana e costruttiva per tutti, statali e non statali. L’Italia di Vittorio Emanuele Orlando allora, resistendo, vinse. L’Università italiana di oggi, resistendo, riuscirà a vincere? Io dico solo che se non vince l’Università italiana nella sua composizione unitaria, perde l’Italia. Le difficoltà di dialogo civile e politico del sistema universitario con il sistema-Paese sono la ragione principale della crisi del sistema dell’alta formazione. Io non so se il tempo che abbiamo davanti ci permetterà di recuperare questa relazione in modo virtuoso, risalire la china di questa deriva reale e mediatica sarà molto difficile per tutti, universitari, politici, industriali, imprenditori, giornalisti, opinion makers. È però l’unica forma di recupero di quella centralità dell’educazione, intesa in senso 5 anglosassone. Siffatta centralità non può passare mai dal soffocamento di una parte del sistema, quello non statale, a favore di quello cosiddetto statale: sarebbe un karakiri collettivo. Il sistema non statale ha dato moltissimo al nostro Paese: ovviamente con chiari e scuri, le esperienze non statali hanno non solo compensato situazioni e difficoltà del parallelo sistema statale, alleggerendone spesso anche oneri e costi [si pensi al solo fatto – già evidenziato – che i docenti e il personale tecnicoamministrativo in servizio nelle università non statali non grava sul Bilancio dello Stato, ma su quello delle singole Università non statali], ma hanno consentito, nei casi migliori, anche performances didattiche e formative di alto profilo, spesso aiutate in ciò dalla natura tematica di alcune di esse. In conclusione vorrei essere chiaro e onesto fino in fondo: ritengo infatti giusto e corretto per chi mi ascolta e soprattutto per quanti – stampa compresa – hanno sempre la tromba pronta sulla “privatizzazione delle Università”, sul “privilegio che lo Stato riserva alle Università non statali” e altre stupidaggini del genere, mettere qualche puntino sulle “i”. Mi consentirete, per facilità di comprensione, un esempio soltanto di possibile “infrazione della libera concorrenza”: la parificazione, appena avvenuta tra i due sottosistemi, statale e non statale, in termini di richiesta/verifica di “requisiti necessari” – così si chiamano le risorse umane che lo Stato richiede alle Università statali e non statali per conservare loro il diritto di rilasciare titoli di studio avente valore legale – la parificazione, dicevo, azzerando ogni pur temporaneo beneficio per queste ultime, è stata, per non dire altro, una discutibilissima “manina” data al sottosistema statale. Le risorse che le non statali investono nei corsi di studio – come credo sia ormai chiaro – sono assunte tutte direttamente sui propri bilanci: gli Atenei non statali proprio per questo fanno molta attenzione per un verso alla qualità dei percorsi formativi, per un altro alla loro proliferazione. Ridurre a regime, invece, i “requisiti necessari” anche alle statali – oggettivamente più dotate di risorse umane – permette loro di aumentare – sarei tentato di dire “inflazionare” – le loro offerte formative a “costi” più compatibili nelle economie delle loro risorse finanziarie e 6 umane e quindi “alzare” il potenziale di competitività con il sistema non statale a condizioni, come dire?, di corsa agevolata! Insomma, si potrebbe dire, con una metafora, che è stato un po’ come se la depenalizzazione avesse riguardato tutte le droghe, leggere e pesanti. Tutti liberi, a prescindere dai pesi e dalle dimensioni! Un altro bizzarro esempio di liberalizzazione all’italiana: ad essere penalizzata è la libera imprenditoria, alias le libere università! Chissà cosa accadrebbe se l’Autorità per il Mercato e la Concorrenza se ne occupasse: forse qualcosa avrebbe da dirla a tutti noi, statali e non statali! Concludendo credo che la soluzione sia solo una: lasciare la decisione del futuro dell’Università italiana statale e non statale al libero mercato, senza lacci, lacciuoli, ma anche senza manine di Stato. Noi siamo pronti – come del resto facciamo ogni giorno – ad affrontare il giudizio del mercato, che per noi sono i nostri giovani e le nostre giovani, le loro Famiglie e i nostri stakeholders, con o senza il valore legale del titolo di studio. Meglio senza, certamente, ma va bene anche con. A questo punto della storia, una cosa sola respingiamo con forza, quella di essere intruppati nella Pubblica Amministrazione – come tenta di fare il DDL sulla Riforma della Pubblica Amministrazione o come surrettiziamente ha tentato di fare in queste settimane l’ANAC, l’Autorità per l’ Anticorruzione e la Trasparenza, inserendoci fra gli Enti pubblici costretti a soggiacere alle regole della Pubblica Amministrazione –: la nostra natura “libera” non è barattabile con nessun “risarcimento”, soprattutto quando questo appare come un tranello o, peggio, una beffa. Continueremo in ogni caso a servire il Paese da Università e da uomini entrambi liberi. Giovanni Puglisi 7