relazione di C. Scardicchio

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relazione di C. Scardicchio
L’ “ADULTERIO DEGLI IO”
“Ciascuno di noi ha un mondo privato:
questi mondi privati sono ‘mondi’
unicamente per il loro titolare,
non sono il mondo.”
M. Merleau-Ponty
Per tanti anni ho cercato nei libri risposte. Di libri e risposte
avevo sempre sete e fame e mi nutrivo di essi come ossigeno e luce.
Cercavo la verità e credevo con tutta me stessa che la scienza e la
filosofia me l’avrebbero indicata. Tutta quella carta mi avrebbe svelato
la “Risposta” 1 : come vivere e sopravvivere all’incompreso ed
incomprensibile, come imparare a conoscere e possedere il Logos in
grado di permettermi di arginare ogni Pathos. Era davvero profondo il
mio “panico epistemologico” 2 . E, come ogni bambino e moltissimi
scienziati, procedevo persuasa - presuntuosa ed ingenua – che il Buono
sarebbe stato tutto da una parte e che la Verità sarebbe stata sola. La
visione del mondo della scienza moderna è, infondo, la medesima dei
cartoni animati che tanto amavo da piccola: i Buoni – l’Episteme - sono
sempre giusti e sono imperturbabili, senza macchia alcuna, mentre i
Cattivi – la Doxa - sono sempre soltanto sbagliati, senza nessuno
spiraglio e altra possibilità. Una epistemologia semplice. La stessa di
Platone e Cartesio, la stessa ingenua fiducia della scienza moderna
fiduciosa di poter scindere il mondo e gli uomini e, soprattutto, di
poterli interamente conoscere e, dunque, possedere 3 . Un desiderio
antico. Quello di onorare il “principio di identità” e quello di ”non
contraddizione”4 della logica aristotelica, per i quali la differenza è un
limite per la conoscenza e la relazione tra gli opposti è blasfema opera
da alchimisti. Visione dicotomizzante che ha poi, pervaso, fino a porsi a
suo fondamento, la biografia della scienza moderna, sorta sulla fiducia
manichea della scissione chiara e trasparente tra logico ed illogico, vero
e falso, giusto e sbagliato: la realtà come dialettica tra due poli sempre
in lotta perché diversi, laddove la vittoria è nella riconduzione –
riduzione – dell’uno all’altro, in virtù della pretesa, persino religiosa,
che il “buono” possa “sconfiggere” il “cattivo”. Proprio come nel “Visconte
dimezzato” di Italo Calvino5: la battaglia tra le due “metà” del Visconte,
diviso in una parte buona – il “Buono” - ed una cattiva – il “Gramo”,
l’una intenzionata a sopprimere l’altra. Laddove la logica latente è,
dunque, sempre bellica: poiché la soluzione ipotizzata per risolvere il
problema
della
contraddizione,
della
differenza,
risiede
nell’annullamento, nella negazione, di una delle due parti (la peggiore o
la più debole).
Cfr. J. HORGAN, La fine cit.
M.C. BATESON, G. BATESON, Dove cit., p. 31
3 Cfr. E. HUSSERL, La crisi cit.
4“ [...] È impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto; e si aggiungano
tutte le altre determinazioni che si potranno aggiungere per evitare difficoltà di carattere dialettico. [...] nessuno può ritenere che la
medesima cosa sia e non sia, come alcuni credono che dicesse Eraclito”, ARISTOTELE, Metafisica, UTET, Torino 1974, pp. 272-273
5 I. CALVINO, Il visconte dimezzato, Mondadori, Milano 1993
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Da studentessa universitaria, ritrovavo quella antica scissione
nella più antica delle questioni pedagogiche, la più profonda tra le
lacerazioni umane: la scissione tra teoria e pratica, la contraddizione
tra ragione e sentimento, la contesa tra cervello ed emozioni, la lotta tra
oggettività e soggettività, regola ed eccezione, uno e molteplice.
Ho così cominciato ad interrogarmi circa la “soluzione” , ho
cercato ragioni e sentimenti per fondare l’una o l’altra scelta,
rinvenendo nella storia della filosofia e della scienza grandi passioni e
grandi idee animati ora per il primato dell’uno ora per la supremazia
dell’altro polo nella antitesi universale vs particolare.
Così, riscoprendo autobiograficamente la mia storia formativa –
che è la storia della “mia scienza”6, ossia, del sistema di spiegazioni e
conoscenze che mi ero faticosamente costruita -, mi è sembrato di
scorgere nell’alternarsi delle mie vicende interiori il medesimo alternarsi
della storia universale degli uomini e delle donne: ho trovato così, un
significativo legame tra il mio “particolare” desiderio di ordine e coerenti
– e dunque statiche, immutabili, eterne ! – spiegazioni per la vita
quotidiana e l’ “universale” anelito di quel sapere scientifico che
funziona come “dispositivo di rassicurazione” per “controllare l’angoscia
della propria precarietà”7.
Ma, soprattutto, ho scoperto che questa ansia di risposte che io
avevo interpretato come esigenza costitutiva e propria dell’essere
umano, in realtà è connaturata solo ad una pars che, tuttavia, appare
come pro toto, per via della nostra storia di apprendimenti: è il nostro
emisfero sinistro. Sua è l’esigenza di ridurre la complessità per
scomporla analiticamente e studiare di poterla così possedere, sua la
fiducia di scrivere l’intero universo in linguaggio matematico, suo è lo
sguardo che vede gli alberi e non la foresta.
Allora ho compreso che il vero problema era nella mia domanda:
tesa, come da naturale anelito del nostro emisfero sinistro, alla
scoperta di risposte univoche, stabili, definitive.
Inizialmente, ho così creduto di dover intraprendere una battaglia
pedagogica contro una tale polarizzazione del processo di
apprendimento: e così, era cominciata la mia avventura alla scoperta
dell’emisfero destro. Suo è lo sguardo che coglie la foresta e non solo la
‘somma’ degli alberi, sua è l’esigenza di cogliere la globalità, sua la
capacità di concepire la contraddizione come possibile e persino vitale.
Ma continuavo ad utilizzare un pensiero per antitesi! Battaglie.
Ancora una volta, stavo pensando per negazioni e non per relazioni:
cambiava l’emisfero da spodestare, ma sempre di vittorie e di primati si
trattava.
Cercavo l’unità nella in-differenza, la pace nella assenza di
diversità, sfumature, ambiguità. Come Linneo perseguivo il mio delirio
manicheo: la classificazione.
Cfr. G. A. KELLY, The psychology cit.; M. POLANYI, La conoscenza cit.
F. PINTO MINERVA, Pedagogia e biologia, in F. FRABBONI, F. PINTO MINERVA, Manuale di Pedagogia Generale, Laterza, Roma-Bari, 1994,
pp. 172-173
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QUEL PARADOSSO “COMICO E SIGNIFICATIVO”
“Deprivated of a mother to love him,
Descartes divorced
Mind from Matter.”
W.H. Auden
Finché non mi ritrovai, ancora, dinanzi a quella storia.
Reincontrai il “Visconte dimezzato”. Non ne avevo mai letto la fine.
O, forse, non la ricordavo (capita di rimuovere quello che non siamo
pronti ad accogliere): quando le sue due metà, il Buono ed il Gramo, si
sfidano a duello e combattono per eliminarsi, accade che ognuna,
lottando contro l’altra, si accorge di stare combattendo contro se stessa.
L’arguzia di Calvino rivela che la qualità della vita del visconte - ed
anche dei mesti abitanti del suo villaggio che subivano le conseguenze
di quel conflitto - non avrebbe potuto essere conquistata neppure se il
Buono fosse riuscito a “sconfiggere” il Gramo, né se l’avesse messo a
tacere o avesse fatto finta che non ci fosse. Perché “che queste due
metà fossero egualmente insopportabili, la buona e la cattiva, era un
effetto comico e nello stesso tempo significativo…”8 .
La storia, allora, si conclude con la decisione degli abitanti del
villaggio - che sperimentano come le due “metà” del visconte siano
entrambe fastidiose ognuna con la sua mania di erigersi a “intero” - di
ricucire le parti “strettamente assieme; il dottore aveva avuto cura di far
combaciare tutti i visceri e le arterie dell’una parte e dell’altra, e poi con
un chilometro di bende li aveva legati…”; così, il visconte “ritornò uomo
intero, né cattivo né buono, un miscuglio di cattiveria e di bontà…”9
E’ proprio questo “miscuglio”, che tanto avevo fuggito alla ricerca
dell’ordine e della linearità, solo allora mi è finalmente apparso come
“comico e nello stesso tempo significativo…”:
Di questa contraddizione, la mia ansia di risposte lineari e
definitive non era mai prima di allora riuscita a cogliere né la
significatività né alcunché di anche lontanamente comico. Anzi: ricordo
chiaramente la sensazione di disorientamento e la destrutturazione
vissute nello scoprire persino un audace elogio dell’ “adulterio degli io”
tessuto da Duccio Demetrio 10 : mi sembrò così scabroso rispetto a
cotanti storici elogi alla fedeltà a se stessi, all’essere coerentemente
sempre uno, laddove la molteplicità non era che dispersione, scandalo,
vergogna !
Ho capito solo allora come e quanto la mia storia di apprendimenti
- dalle tabelline che mi stressavano in prima elementare alla filosofia
dell’educazione che all’università mi aveva infiammato il cuore - fosse
sempre stata bisogno di conoscere per… controllare-ordinare-definire.
Com-prendere: conoscere per possedere. Una sorta di presuntuoso
delirio del piccolo al cospetto del grande, ma anche una ingenua
modalità di sopravvivenza. Ero incapace di contemplare soltanto, di
guardare senza prendere, accettando anche di essere io stessa
I. CALVINO, Il visconte cit., p. VI
Ivi, p. 89
10 D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Meltemi, Milano 1999
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guardata, in una certa strana misura… io stessa appresa persino.
Capire era la mia unica arma, l’unica strategia a mia disposizione per
difendermi dall’ignoto e dall’imprevedibile. Ma una tale ansia di
monitoraggio e controllo non aveva fatto altro che, paradossalmente,
impedirmi di ascoltare. Di lasciare che le cose del mondo non fossero
da me possedute ma fossi io ad entrare in loro e viceversa, in
un’alchimia in cui tra conoscente e conosciuto non c’è più battaglia ma
danza.
Soltanto quando, grazie all’arrivo del mondo senza parole di mia
figlia, sono rimasta io stessa senza, è avvenuto quel per me inedito ed
inaudito apprendimento “double-loop” : è cambiato il contenitore, non più
solo il contenuto.
Lo spaesamento, la vertigine, l’inquietudine del non-poter-spiegaretutto, ti spoglia. L’inintelligibile ti ammutolisce. Senza gli artifici della
conoscenza definitiva e definitoria, al cospetto del non-conosciuto e
dell’indecifrabile, sono rimasta proprio nuda. Povera. Vera. Perché
soltanto allora, smettendo di parlare-definire-spiegare la mia ragione ha
saputo della sua ignoranza.
E’ su questa strada, dissestata, in questo deserto, esodo fuori e
dentro, che ho incontrato sapere e non-sapere, analisi e sintesi, scienza
e gioco, episteme ed arte, al medesimo convivio. E li ho ritrovati
inscritti, insieme, nel mio stesso corpo, nella differenziazione
interemisferica, nell’ umano, troppo umano essere sempre “due”, sempre
io ed altro, uguale e diverso, conosciuto e misterioso, e, infine, nella
consapevolezza filosofica di Simone Weil a proposito dell’abitare la
contraddizione11 ed in quella poetica ed epistemologica:
“Mi sento multiplo.
Sono come una stanza dagli innumerevoli
specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi
un’unica anteriore realtà
che non è in nessuno ed è in tutti”
F. Pessoa
“Non ricerco la complicazione; essa è in me.
Ogni gesto nel quale non riconosca
tutte le contraddizioni che mi abitano,
mi tradisce.”
Gide
“In certe occasioni avverto
la presenza accanto a me
del mio doppio,
che è estraneo a me e tuttavia è me stesso;
altre volta, al contrario, estraneo a me stesso,
mi osservo dal punto di vista del mio doppio.
Infine, riconosco la presenza di un abisso insondabile
che, pur specificatamente mio,
11
Cfr. S. WEIL, Abitare cit.
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è allo stesso tempo comune a tutti.”
E. Morin
“In realtà, nessun io, nemmeno il più ingenuo, è un’unità,
bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato,
un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità…
Come corpo ogni uomo è uno, come anima, mai.”
H. Hesse
“Due anime, ahimè,
dimorano nel
mio petto”
J. Elster
“Dio non ha unità,
come potrei averla io?”
F. Pessoa
Così, per la prima volta nella mia vita, avevo compreso che tutta
quella ricerca di risposte definitive, quel tentativo di rabbonire
l’inquietudine, quel bisogno di arginare l’incertezza, quella paura di
restare ammutolita erano oltremodo… comiche e significative.
E questa coesistenza, anzi, questa corrispondenza isomorfica, tra il
comico ed il significativo della mia conoscenza è stata… una forma
speciale di epifania.
Perché il comico, scriveva Bergson, è l’apparenza di ciò che è
rigido.
E più io cercavo d’essere stabile, più rendevo mobili le mie radici.
Finché il maremoto del silenzio eloquentissimo di mia figlia, il suo
mondo indicibile, inintelligibile, non riconducibile ad alcuna
grammatica o matematica…mi ha tolto tutto.
Mi ha tolto la ‘ragione’. Il bisogno di ‘aver ragione’. Ridandomi,
forse, il senno. Giacché la mia ricerca – tanto personale quanto
scientifica - di risposte religiosamente inconfutabili12 altro non era se
non“un’indulgente protezione rispetto alla realtà vera del mondo”. 13
Ho così smesso, al cospetto del mistero, di cercare risposte. Ho
imparato il silenzio che guarda e si lascia guardare.
Ora resto – sospesa – dentro una domanda.
Zoppico. Eppure ho imparato a saltare.
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Cfr. M.C. BATESON, G. BATESON, Dove cit.
J. HILLMAN, Le storie cit., p. 134
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