Marilena Pasquali Varie, antiche immagini Tonino Gottarelli è un

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Marilena Pasquali Varie, antiche immagini Tonino Gottarelli è un
Marilena Pasquali
Varie, antiche immagini
Tonino Gottarelli è un artista complesso che accompagna la parola all’immagine come specchiando l’una
nell’altra, per mettere ogni volta alla prova la capacità di riflessione che è in lui, nel doppio significato di questo termine
così intrigante, che vale sia come restituzione poeticamente fedele del dato visivo sia come approfondimento del
pensiero. Verrebbe perciò la tentazione di parlare di lui e della sua pittura citando senza freno i suoi versi e i suoi
pensieri fino a farne man bassa: Ma questo non si può fare, un po’ perché l’ha già fatto lui – e così bene – e un po’
perché viene anche voglia di cimentarsi con quest’arte che, ad una prima occhiata, sembra tutta di sensi, mentre
nasconde ben di più innanzitutto, forse, molto di se stessa.
Gottarelli non è solo un uomo di pensiero che dipinge e scrive, alternando i due linguaggi secondo logica e
sensibilità, perché a volte ama anche usare il segno grafico, la figura stessa della parola nel contesto della pittura come
parte integrante e certo non secondaria dell’immagine. La compresenza dei due termini è per lui esigenza profonda che
può soddisfare come artista del presente grazie alla libertà espressiva sancita dalle avanguardie del XX secolo: basta
pensare alla poesia futurista come ai collage di Schwitters, al microcosmo kleeiano – ove ogni creatura è accompagnata
sul foglio dal suo nome, in una sorta di ininterrotto atto del nascere – e al dilagare di “poesia visiva” che negli anni
Settanta ha rappresentato uno degli esiti più fortunati dell’arte concettuale. Ma Gottarelli ha un modo tutto suo di legare
immagine e parola, perché colora le parole proprio come colora ciò che vede, per sottolinearle, per farle proprie, per non
dimenticarle.
Altri due caratteri di questa pittura vanno subito messi in rilievo: la voluta, completa mancanza di racconto e la
riduzione progressiva degli elementi descrittivi. Se infatti già dieci anni fa nascevano cieli e terre sintetizzati come pure
zone cromatiche, nelle opere più recenti tale processo si è spinto fin verso la soglia dell’astrazione. Ma, attenzione,
Gottarelli ama troppo la natura e tutto il visibile per non conservare e difendere gelosamente anche il minimo appiglio
visivo al reale.
I dipinti di queste ultime stagioni – ancora paesaggi e fiori come impronta dell’ora che scopare – sono
realizzati per zone cromatiche mosse da una vibrazione interna alla pasta pittorica, quasi un’eco del vento che ha
accarezzato quei colli o quelle corolle, dando insieme particolare risalto ai fondi, validi in quanto brani di pittura pura.
Non importa se siano cieli o tavoli e pareti domestiche; ciò che vale è il loro essere innanzi tutto campo sensibile delle e
per le emozioni, luogo dell’incontro con il tempo, radura ove lasciar spaziare lo sguardo alla ricerca della luce.
Se Gottarelli conserva nel dipinto un oggetto o una persona, è perché vuol dar loro il massimo risalto,
facendone i protagonisti dell’immagine: si osservi, ad esempio la grande tela del 1992, Il cielo della neve,
completamente costruita sul rapporto fra la sagoma a spaventapasseri del palo con i segnali stradali e il manto bianco
della neve, che respira piano nell’aria di vetro e si dilata fino a fondersi con le nubi corrusche del cielo.
Ma nn si piò neppure dire che l’inverno con i suoi colori addormentati, in cui la forma delle cose pare
rabbrividire nella gelida trasparenza dell’aria, sia la stagione preferita dell’artista. Anche se i suoi dipinti di neve sono
fra i più emozionanti, quelli in cui la riduzione pare condotta all’estremo, altrettanto densi sono i paesaggi di altre luci e
colori, a volte intensissimi, perfino brucianti, altre volte immersi in un pulviscolo luminoso, quasi una nebbia in cui la
prospettiva come una strada troppo volte percorsa dall’artista – perde la sua consistenza e la distanza diviene
apprensione, timore, ansia di lontananza.
Gottarelli “sente” il colore, ne avverte il profumo, né ascolta la voce, vi immerge occhi e mani per nutrirsi.
Tutte le cromie, tutte le sfumature lo interessano e perciò le usa tutte, tenendo il bianco e il nero – affermazione e
negazione assolute del colore – come punti di riferimento per ogni sua avventura all’interno dell’immagine. Ama i
contrasti (c’è molto di sensuale nei suoi tramonti incendiati o in certe ombre viola arrampicate su per vicoli), ma è
attratto anche dai paesaggi minimi del colore di una foglia, dal verde tenero del primo sbocciare al verde intriso di
umori dei suoi ultimi giorni.
La sua pittura è sostanzialmente tonale e non mi convince la definizione di “espressionismo” che spesso le è
stata attribuita, perché la sua base non ha nulla di nordico e si rivela piuttosto d’ascendenza classica, cioè costruita sulla
misura, sull’equilibrio, sulla sintesi. Gottarelli non denuncia, non grida, non si agita, non provoca ( se non con la
continua ricerca di bellezza). Cerca piuttosto di fermare il tempo e di registrare lo stupore di fronte la sempre inaspettato
spettacolo della vita.
Sì, lo scorrere del tempo: questo è uno tra i principali nodi esistenziali e culturali che l’artista si trova ad
affrontare, stringendo con questa dimensione inafferrabile un rapporto di odio-amore che gli fa confessare. “Che paura
mi fa il tempo” ( e qui siamo nelle Lettere inutili scritte da Gottarelli nel 1981, ma che lo porta pure ad affermare che
“l’uomo non è nel tempo, ma lo fa nascere” (dai ricchissimi Pensieri in prospettiva di undici anni più tardi). Fra le due
riflessioni non vi è contrasto, dal momento che questa nascita può avvenire solo all’interno del Sé, come scelta di una
propria proiezione all’esterno, come consapevole ed assai ardua ricerca di uno stato elettivo di grazia in cui accogliere
ciò che si vuole salvare, abbandonando però il resto al flusso senza possibilità di recupero del ciclo di vita e di morte.
L’artista diviene in tal modo collezionista di istanti, custode di un tempo presente che non conosce né passato
né futuro ma soltanto la bellezza abbagliante dell’attimo, concluso in se stesso come in una sfera limpida, un’isola di
bellezza che paradossalmente attinge alla dimensione del tempo come durata. L’artista è anche archivista di meraviglie,
di stupori cristallini che possono affiorare soltanto nella contemplazione, nella quiete e nel silenzio. Mi ritornano in
mente alcuni versi di uno dei Sonetti ad Orfeo di Rainer Maria Rilke, laddove questo messaggio del cielo, davvero
inviato in terra a miracol mostrare, scrive: “Ma per noi esistere è ancora incantamento: in cento/ luoghi è ancora origine.
Un giorno di pure forze, che/ nessuno sfiora, senza in ginocchio averne meraviglia”.
Ma c’è un altro illustre compagno di strada cui l’artista può riferirsi nella sua ostinata ricerca di senso
attraverso il visibile. E non mi riferisco tanto a Giorgio Morandi, cui pure Gottarelli si accosta quando riflette che
“disegnare la stessa domanda ogni giorno è l’unico modo per avere una risposta”, quanto a Dino Campana, poeta di
intatte emozioni, innamorato comunque della vita e dell’amore, prennemente in ascolto delle voci della natura e alla
ricerca di varie, antiche immagini “ai cancelli d’argento”, “nel silenzio azzurrino”, nel “frusciar delle nere selve”, tra i
“bagliori magnetici delle stelle”.
Campana cerca l’innocenza, l’integrità, la purezza di un tempo primo, al di fuori della storia degli uomini e pur
totalmente, luminosamente umano. Il 14 dicembre 1917, poco più di un mese prima del suo definitivo ricovero nel
manicomio di Castel Pulci, scrive a Carlo Carrà: “Ora tutto potesse per un momento almeno ritornar divinamente
semplice e uno”.
Ecco, credo che questa invocazione potrebbe esser fatta propria dal nostro artista, che condivide con il suo
grande conterraneo il senso panico della natura, la convinzione che ogni cosa partecipi dell’anima del mondo, in un
abbraccio corale di com-passione che impone un rispetto delle creature e il più umile degli oggetti.
Lo strumento che egli elegge per indagare la comlessità e totalità dell’essere (non a caso Gottarelli frequenta i
filosofi, da Eraclito a Heidegger…) è lo sguardo, grazie al quale può spaziare dalla terra al cielo e spalancare per sé e
per gli altri quel panorama che ritorna a essere, come nel suo significato originario, un “guardare tutto” o, meglio, una
“visione del tutto”: L’uomo deve nutrirsi di orizzonti spalancati per riposare la mente e il cuore, non può vivere solo fra
quattro mura o in spazi soffocati, ha bisogno di natura; ma ha bisogno anche di tra-guardare al di là di una siepe, oltre
un crinale montuoso, dietro l’angolo in penombra di un muro di città. Ha bisogno del limite per donare spazio ben più
vasto all’immaginazione, per figurarsi ciò che c’è al di là, per dar vita a altre creature e ad altri mondi. La finestra
dell’artista si spalanca sull’esterno per scoprire che “il cielo si aprì d’improvviso e scoprì il dorso azzurro di un
uccellino esotico” e si apre ugualmente verso l’interno per “fare le ore piccole con una violetta nel paesaggio della
stanza tra il muro e il bicchiere”.
L’ultima immagine che voglio carpire all’artista è proprio questa dei suoi fiori, da lui osservati con amore, con
la gola secca per l’emozione, nel loro lento disfarsi, in quel loro lieve, intenerito e silenzioso oltrepassare la soglia tra la
vita e la morte, che non è solo metafora dell’esistenza umana ma anche figura fra le più rasserenanti della bellezza.
Marilena Pasquali