La vendetta dell`isola
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La vendetta dell`isola
La vendetta dell’isola Guadalupa Una strana avventura sulle montagne della Guadalupa Foto: Roberto Moiola di Fabrizio Ottaviani 28 VIVERE LA MONTAGNA Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre piú rare. (Dino Buzzati, I sette messaggeri) movimentare quei giorni. E allora in famiglia decidemmo di effettuare la traversata dell’isola, o meglio di una parte di essa, quella chiamata Basse Terre (anche se in realtà è l’unica con le montagne!). Ve la racconto com’è successa davvero, mischiando qualche frase buzzatiana e tutt’al piú romanzando un paio di passaggi. Ma, vi assicuro, la vicenda è vera. Foto: Roberto Moiola La vacanza in spiaggia Molti anni fa, proprio nei primissimi giorni degli anni Ottanta, ero reduce dagli esami di laurea e mi trovavo in vacanza con la mia famiglia sull’isola di Guadalupa, nelle Antille Francesi. In spiaggia, mi stavo godendo la pace del giusto: infatti avevo appena trascorso un anno e mezzo durissimo, di studio e di esami, di rinunce e di paure. Per fortuna tutto era andato per il meglio e potevo dire di aver compiuto, fino a quel momento della vita, il mio dovere. Mi sprofondavo nella lettura, tranquillo, sotto l’ombrellone: avevo iniziato nuovamente “I sessanta racconti” di Buzzati, la raccolta con i suoi pezzi migliori: “I sette messaggeri”, “L’assalto al grande convoglio”, “Sette piani”, e tanti altri. Poi gironzolavo per la spiaggia, cercando di conoscere qualche ragazza. Mio fratello studiava ancora, gli esami lo attendevano nei mesi seguenti. Un bagno, un’immersione in quell’acqua tiepida e stupenda e infine era ora di cena. Ma passata una settimana - bello il mare, sí, però dopo un po’ che noia il sole e la sabbia! -, serviva inventare qualcosa per La partenza e la salita Partiti in auto dall’albergo Novotel di Pointe-à-Pitre, il capoluogo dell’isola, stabilimmo che ad effettuare l’impresa fossimo mio padre ed io, mentre la mamma e mio fratello sarebbero restati e ci avrebbero recuperati all’arrivo, sulla costa opposta. Concordammo di iniziare l’attraversata nel villaggio di Sainte Rose, verso il nord dell’isola, di superare lo spartiacque a circa 800 metri sul livello del mare e di giungere nel golfo di Baille-Argent, dall’altra parte. In realtà era già quasi mezzogiorno, non proprio l’ora giusta per andare in montagna ma, sapete com’è, eravamo in vacanza al mare. La via era ben segnata, una sorta di stradicciola si inerpicava nella campagna alle spalle del paesino e transitava dalla località Sofaïa, poco distante. Qui il cartello Il mistero della costa che si allontanava Finalmente – erano ormai trascorse almeno tre ore dalla partenza, il pendio si fece meno ripido e noi giungemmo in cima, sullo spartiacque. Questo era formato da una piccola radura, attorniata da piante che non lasciavano intravedere se non qualche sprazzo del territorio attorno: troppo poco per potersi orientare. Su un cartello, piuttosto primitivo, stava scolpito: “BailleArgent, 5 ore”. Cosa dire, cosa fare? Ormai eravamo rassegnati: piú camminavamo e il tempo passava, piú la costa si allontanava. E con lei si allontanavano le nostre forze, la gioia dell’escursione, le nostre speranze di giungere per tempo al traguardo, le certezze della nostra vita. Mi ricordai degli anni © Panguana - Fotolia.com sentire. Camminavamo ormai da un paio d’ore e non eravamo ancora giunti allo spartiacque, mentre il paesaggio si faceva sempre meno attraente. Improvviso, dopo una curva, apparve un cartello, che cominciò a far vacillare le nostre certezze. Era simile ai precedenti, sempre di legno, con intagliato il nome del villaggio da raggiungere, e come gli altri segnalava il tempo necessario; ma ora riportava una cifra che ci fece trasalire: tre ore e quaranta minuti. Ma come, all’inizio eran due ore e mezza e ora ce ne vogliono quasi quattro? La bella mulattiera dei primi passi aveva lasciato da tempo spazio ad un sentiero mal tracciato e non curato; lo si sarebbe detto quasi abbandonato, anche se ancora lo si individuava senza troppe difficoltà, aiutati anche dalle strane palme con i ciuffi secchi, che sembrava ci accompagnassero nella nostra impresa. Mio padre inoltre iniziava ad avere qualche problema, causato probabilmente da una mancanza di zuccheri: soffriva infatti di diabete e i medicamenti che assumeva, insieme con lo sforzo inusuale compiuto, avevano abbassato troppo la glicemia. Ci arrestammo per uno spuntino, mangiando quelle poche cose che avevamo portato con noi, un paio di arance, che nelle ore seguenti si sarebbero rilevate fondamentali per la sua salute. Foto: Roberto Moiola indicatore (di legno inciso) spiegava che la meta, il villaggio di Baille-Argent, distava due ore e mezzo. Anche l’oste dell’Oie perdue ci confermò che un buon camminatore in circa due ore sarebbe arrivato a destinazione. Calcolando di passeggiare lentamente e di fermarci per uno spuntino, contavamo di arrivare verso le quattro, prima del buio, che in inverno ai tropici piomba improvviso a metà pomeriggio. Nel frattempo eravamo saliti di un buon tratto e, voltandoci indietro, ci stupimmo di vedere il paese, la spiaggia, il mare, già cosí piccoli e lontani. Ai margini della mulattiera un altro segnale indicava la via, ma stranamente riportava ancora lo stesso tempo del primo, mentre era già piú di un’ora che salivamo. Mah, stravaganze dei Caraibi! Inoltre, nonostante la bella giornata, provavamo uno strano senso di disagio: avevamo sperato che l’escursione transitasse in una bella valle, nel mezzo di una foresta tropicale, piena di fiori variopinti e recinta da grandi pareti. Era invece una valle di mezza montagna, chiusa da cime tozze, che parevano desolate e torve. Gli alberi erano banali, ogni tanto dal bosco spuntava una palma, piú alta delle altre piante, sormontata da strani pennacchi gialli, forse vecchie foglie rinsecchite. Continuavamo a salire, tra muri di vegetazione sgraziata e deforme, e la fatica cominciava a farsi di studio appena trascorsi, della giovinezza che non avevo ancora vissuto abbastanza, dell’adolescenza e dell’infanzia ormai lontane. Forse senza accorgerci eravamo tornati indietro? Forse giravamo in tondo? O una forza ignota e terribile allontanava da noi sempre di più la nostra meta? Ci domandammo cosa ci dominasse in quella terra lontana e ostile e quale entità misteriosa e scellerata governasse il nostro destino. Eravamo forse preda di un infernale rito voodoo? Si faceva strada in noi il dubbio che la costa opposta non esistesse, che la foresta si estendesse senza limite alcuno, e che, per quanto fossimo avanzati, non avremmo mai raggiunto la fine. Erano le quattro passate, il sole era già basso e le preoccupazioni aumentavano. Una leggera traccia si dipartiva dallo spiazzo erboso, addentrandosi nel folto. Il terreno era argilloso e viscido e allora vedemmo delle impronte, unico segno di presenza umana VIVERE LA MONTAGNA 29 © Flytiger41 - Fotolia.com 30 VIVERE LA MONTAGNA in quel luogo. Erano però orme di piedi nudi, piccoli, che poco ci ricordavano le nostre escursioni nelle Alpi. Ma come? Noi ticinesi montanari, abituati a salite impervie e lunghe, sopra i tremila metri, tra rocce e nevai, ci trovavamo ora in difficoltà su una collinetta da nulla, in un boschetto ridicolo? E noi, che avevamo sempre guardato con compatimento e dileggio i turisti che si avventuravano sui nostri monti senza esperienza e con equipaggiamento inadatto, eravamo partiti a mezzogiorno, senza maglione e papà addirittura coi sandali? Oltre a ciò, il mio canuto genitore (come si definiva lui) non stava per niente bene, era debole, provava giramenti di testa, scivolava continuamente, il fango gli si infilava tra la pianta dei piedi e i suoi inadatti calzari. Ci scambiammo quindi le scarpe, cosí almeno lui, con quelle da ginnastica, aveva maggior stabilità. La traccia di sentiero presto sparí e ci trovammo a dover decidere cosa fare. Si intravedevano solo le solite palme con l’assurdo pennacchio. Poco distante, di fianco a noi, si indovinava una zona meno fitta; per curiosità lasciammo allora la direzione di prima e, facendo- Foto: Roberto Moiola La vendetta dell’isola ci strada tra i cespugli, raggiungemmo un costone. Là dietro, sottratto agli sguardi di chi seguiva la via normale, si apriva un selvatico valloncello, dai fianchi di terra rossa, ripidi e cadenti. Qua e là un macigno che affiorava, un cespuglio di felci, un ciuffo secco di una palma; un rigagnolo d’acqua scorreva sul fondo, contribuendo a render viscido il terreno. Una cinquantina di metri piú in basso il canalone piegava a destra e spariva, tuffandosi nel fianco della montagna. Un posto da serpenti, silenzioso e indecifrabile. fatica a penetrare tra le immense chiome degli alberi. Mi fermai un attimo, come assorto. Improvvisamente non c’era piú il valloncello che avevamo intravisto, né le solite cime tozze dei dintorni, né piú sotto si vedeva la regione amica, né le casupole del villaggio, né il mare. Vidi sotto di me sterminati dirupi, diversi da ogni ricordo, che precipitavano senza fine verso maree di foreste, vidi piú in là il tremulo riverbero dei mari deserti e piú in là ancora altre luci, altri confusi segni denotanti il mistero e il confine del mondo. Ad un tratto udimmo delle voci poco lontane e scorgemmo un gruppo di ragaz- Gua I ragazzi della foresta Piccoli bisbigli provenivano dalle piante intorno, che formavano biechi baldacchini verdastri a strapiombo e il sole faceva Cima del Monte Soufrière (1’467 Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. m). 4 2 3 1 zini del posto, seminudi, che vedendoci tacquero di colpo. “Ehi, ragazzi, sentite, dov’è il sentiero? Ecoutez, attendez, Baille-Argent, s’il vous plait”. Tutti fuggirono, tranne il piú grande - avrà avuto diciassette anni - che si fece coraggio e si avvicinò. In seguito alle nostre domande, si mostrò molto stupefatto. Non capiva cosa ci facessimo lí e cosa volessimo da lui. Però fu molto gentile. No, di lí non si andava a Baille-Argent, non aveva mai nemmeno sentito quel nome, né tantomeno quello del villaggio di Sainte Rose, da cui eravamo partiti. Disse che lui con i suoi amici era partito anni prima dalla cittadina di Capesterre-Belle-Eau e ne doveva trascorrere molti altri nella foresta, per una sorta di prova di iniziazione (cosí almeno ci sembrò di capire) che tutti i giovani dovevano superare; ma che quel rito durava molto, ben oltre la loro gioventú, la loro vecchiaia, la loro stessa vita. In ogni caso per lui era escluso nella maniera piú assoluta che si potesse raggiungere una qualsiasi località prima di diversi mesi o forse anni di cammino. Infine il ragazzo, cosí com’era apparso, svaní tra le fitte piante. Eravamo di nuovo soli, allibiti piú che mai. Chi erano quei ragazzi? Esistevano veramente? Erano forse dei nègres marrons - le cui gesta raccontavano i vecchi cantastorie - ossia gli schiavi scappati nel corso del millesettecento dalle piantagioni di caffé, che si erano rifugiati sulle montagne, dove nessuno piú li andava a cercare? Non un segno di vita attorno a noi, solo le strane fronde giallastre in cima alle palme, mosse dal vento. Calma e solitudine. Eppure l’intera foresta, l’intera isola aveva saputo subito di noi. Dalle tetre profondità dell’abiezione, della miseria e dell’odio razziale erano spuntati con inquietante precisione quei pennacchi sulle palme, giallastri e desolati, sventolando misteriose minacce. Da ogni parte i mille e 5 7 6 8 adalupa 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. Uno dei famosi cartelli. La cena della salvezza. Nella penombra della sera. La partenza per la gita. Il provvidenziale spuntino. P a u s a p r e o cc u p a t a . Il Tarzan dei Caraibi. Papà e mamma sulla spiaggia. mille occhi del passato ci avrebbero dunque spiati, sapevano tutto di noi, non ci avrebbero piú dimenticato un istante. La discesa per il canalone e il torrente senza fine Ripresici dallo stupore, dovevamo reagire. Vuoi perché il canalone che ci stava davanti era l’unico passaggio, vuoi perché pensammo che prima o poi tutte le valli portano al mare, imboccammo quella via e scendemmo guardinghi, scivolando spesso sul terreno umido. Venivamo giú adagio, quasi attardati da una speranza estrema. Il papà era proprio in crisi, dovevo sostenerlo per la vita, camminando al suo fianco mentre lui si appoggiava alla mie spalle. Cosí abbracciati scendevamo per quella specie di scivolo, sperando di giungere presto ad un sentiero segnalato. In basso al canale, ormai all’imbrunire, sbucammo in un’altra valle, solcata questa da un piccolo torrente. Avevamo ormai le traveggole e ci sembrò addirittura di scorgere una figura umana che attraversava il ruscello appeso ai rami, una specie di Tarzan locale. Seguendo il corso d’acqua, ci abbassavamo sempre di piú, ma l’avanzare non era per niente agevole. Proseguivamo lentamente, superando le cascatelle ed i grossi blocchi arrotondati dalla corrente, a volte nell’acqua, a volte aggirando gli ostacoli sulle rive o sui fianchi della valletta, calandoci a vicenda dai risalti rocciosi: il canyoning l’abbiamo inventato noi! Si era fatta notte ormai, e le difficoltà della situazione del terreno erano ingigantite dal buio. Per la prima volta in vita mia mi domandai se fosse arrivato per noi il momento. Poi subito scacciai quel pensiero con il ragionamento, dicendomi che alla peggio si sarebbe trascorsa lí la notte e l’indomani si avrebbe avuto tutto il tempo per trovare la via giusta. Piú di tutto, piú del nostro stato, ci preoccupava però il pensiero dei nostri familiari, che ci aspettavano e coi quali non potevamo comunicare. Volavamo VIVERE LA MONTAGNA 31 La vendetta dell’isola di ed eravamo stanchissimi: decidemmo allora di fermarci per la notte. Scelto un lembo di sabbia sulle rive del ruscello, stavamo per coricarci, quando vedemmo zampettare nella penombra, tra i nostri piedi, un grosso insetto, o forse un granchio o proprio un ragno. Brrr, niente da fare, avanti, via di qui. Un poco avanti notammo una specie di canaletto, che attraversava obliquamente il corso d’acqua e che se ne dipartiva verso sinistra. Pensammo che quello fosse davvero un indizio di presenza umana. La luce della luna che filtrava tra i rami ci permetteva almeno di vedere dove mettevamo i piedi, anche se le ombre disegnate sul suolo ingannavano i sensi, mostravano gradini dove non esistevano e al contrario nascondevano i buchi e i sassi. Grazie a quella flebile luce iniziammo a seguire il misero manufatto, che sembrava portare ad una entità amica. In una radura ci fermammo a riposare un momento, il papà barcollava senza energie residue. Decidemmo che lui si sarebbe fermato ed io sarei proseguito per esplorare ancora un tratto di sentiero. che potevano venire a recuperarci. Cosí, verso le undici di sera, terminò la nostra avventura. La vendetta della Guadalupa Nei giorni seguenti ci informammo, cosí per curiosità, sulla via giusta che avremmo dovuto seguire, ma tutti, anche i piú esperti del luogo, negavano che ci fosse la possibilità di attraversare la montagna in quel punto. Addirittura nessuno conosceva quel sentiero, nessuno ne aveva sentito parlare, né tanto meno ci dava una spiegazione di quei misteriosi cartelli che ci avevano ingannato. Una settimana dopo conobbi Mariannick, una ragazza francese, figlia del capo della polizia locale, che studiava all’università di Pointe-à-Pitre. Parlando con lei, le narrai delle mie imprese in Svizzera, sulle Alpi, vantai le nostre montagne, enormi, bianche e accessibili solo da chi, come noi, era nato ai loro piedi. Le raccontai anche la mia avventura della settimana prima ed ella mi rispose che sí, sapeva già quanto ci era successo. Pensai che fosse perché la mia mamma, quando ci stava cercando, aveva chiesto aiuto alla polizia o perché si erano avverati quegli strani presentimenti legati ai ragazzi della foresta e ai pennacchi delle palme. “No, no, - mi spiegò la ragazza - “non è per quello. È perché siamo abituati: i gendarmi di mio padre sempre devono correre a salvare qualche svizzero che si è perso sulle nostre montagne.” Touché! Adieu Mariannick. Adieu Guadeloupe. Guadalupa Particolare all’interno. con la mente, trasportata dai profumi del bosco e dalle nostre inquietudini, mescolando la realtà del momento con reconditi ricordi sconosciuti. Svogliatamente la notte trascorse e la mattina ci rimettemmo in marcia, procedendo per tutto il giorno, ma della costa che cercavamo nessuna traccia; e cosí facemmo l’indomani e il giorno dopo ancora. Ormai non incontravamo piú nessuno, nessun cartello che dava informazioni, superammo foreste e praterie, territori sempre piú inospitali e avversi, oltrepassammo incommensurabili catene di monti e desolate lande desertiche, spazzate da venti rabbiosi. Passarono le settimane, passarono i mesi e gli anni; il papà era ormai vecchissimo, non camminava quasi piú; io stesso per l’età faticavo ad avanzare, ma una speranza nuova ci traeva sempre piú avanti, verso quella spiaggia inesplorata che le ombre della notte stavano occultando per sempre... No, Buzzati, sta buono! Non andò proprio come descritto qui sopra. I segni della civiltà In realtà erano ancora le sette di sera e continuavamo ad avanzare con fatica nel letto del torrente, finché vedemmo poco sopra una piccola piantagione di banane. Finalmente un segno dell’uomo, forse eravamo vicini ad un villaggio. Salii a vedere, scostando le piante, cercando di non pensare a quanto avevo letto, ossia ai grossi ragni tropicali che si nascondono nei bananeti. Vincendo con fatica il ribrezzo e la paura di quelle bestie che mi avevano sempre terrorizzato fin da bambino, attraversai la piantagione e scoprii che si trattava solo di un orticello abbandonato nella foresta, senza alcun legame con la civiltà. Era tar32 VIVERE LA MONTAGNA La fine dell’incubo Finalmente, sotto di noi apparvero delle luci. Era probabilmente un villaggio, eravamo salvi. Ritornato sui miei passi, raggiunsi mio padre e gli comunicai la notizia. La speranza ci diede nuova forza e lentamente proseguimmo verso la via d’uscita della nostra brutta avventura. Il sentiero era ormai ben segnato, e si ingrandiva man mano che proseguivamo. Poco oltre scorgemmo da lontano le prime case di un paesello, dove entrammo ben presto. Avanzavamo ciondolanti nell’unica strada, deserta e poco illuminata. Dovevamo assolutamente trovare un telefono per avvisare i familiari, visto che ormai erano le nove di sera. Chiedemmo aiuto in una abitazione, dove finalmente ricevemmo assistenza. La padrona di casa, una vera maman, come lí chiamavano le donne sposate, ci preparò un’ottima cena, che a poco a poco ci ridiede le forze. I tentativi di raggiungere la famiglia al telefono furono drammatici, per l’imprecisione degli operatori del centralino telefonico dell’albergo, che non erano in grado di riferire nemmeno i messaggi piú semplici. Finalmente riuscimmo a comunicare con gli altri, a spiegare che stavamo bene, e Alcuni brani di questo scritto sono presi e in parte opportunamente modificati dai seguenti racconti di Dino Buzzati: Il borghese stregato, pubblicato nella raccolta “Paura alla Scala”; Il nuovo questore, pure in “Paura alla Scala”; La strada, nella raccolta “Sessanta racconti”; La frana, da “Il crollo della Baliverna”; I sette messaggeri, dalla raccolta omonima; Uno strano caso in montagna, da “Le montagne di vetro”. Dedico questo scritto a mio padre, che non c’è piú da oltre dieci anni e che mi ha insegnato per primo l’amore per la montagna e quello per molti altri modi di vivere, che oggi non sono piú di moda. s