La vendetta dell`isola

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La vendetta dell`isola
La vendetta dell’isola
Guadalupa
Una strana avventura sulle montagne della Guadalupa
Foto: Roberto Moiola
di Fabrizio Ottaviani
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VIVERE LA MONTAGNA
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno
in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie
che mi giungono si fanno sempre piú rare.
(Dino Buzzati, I sette messaggeri)
movimentare quei giorni. E allora in famiglia decidemmo di effettuare la traversata
dell’isola, o meglio di una parte di essa,
quella chiamata Basse Terre (anche se
in realtà è l’unica con le montagne!). Ve
la racconto com’è successa davvero, mischiando qualche frase buzzatiana e tutt’al
piú romanzando un paio di passaggi. Ma, vi
assicuro, la vicenda è vera.
Foto: Roberto Moiola
La vacanza in spiaggia
Molti anni fa, proprio nei primissimi giorni
degli anni Ottanta, ero reduce dagli esami
di laurea e mi trovavo in vacanza con la mia
famiglia sull’isola di Guadalupa, nelle Antille Francesi. In spiaggia, mi stavo godendo
la pace del giusto: infatti avevo appena
trascorso un anno e mezzo durissimo, di
studio e di esami, di rinunce e di paure.
Per fortuna tutto era andato per il meglio e potevo dire di aver compiuto, fino a
quel momento della vita, il mio dovere. Mi
sprofondavo nella lettura, tranquillo, sotto
l’ombrellone: avevo iniziato nuovamente
“I sessanta racconti” di Buzzati, la raccolta
con i suoi pezzi migliori: “I sette messaggeri”, “L’assalto al grande convoglio”, “Sette
piani”, e tanti altri. Poi gironzolavo per la
spiaggia, cercando di conoscere qualche
ragazza. Mio fratello studiava ancora, gli
esami lo attendevano nei mesi seguenti.
Un bagno, un’immersione in quell’acqua
tiepida e stupenda e infine era ora di cena.
Ma passata una settimana - bello il mare,
sí, però dopo un po’ che noia il sole e la
sabbia! -, serviva inventare qualcosa per
La partenza e la salita
Partiti in auto dall’albergo Novotel di Pointe-à-Pitre, il capoluogo dell’isola, stabilimmo che ad effettuare l’impresa fossimo
mio padre ed io, mentre la mamma e mio
fratello sarebbero restati e ci avrebbero
recuperati all’arrivo, sulla costa opposta.
Concordammo di iniziare l’attraversata
nel villaggio di Sainte Rose, verso il nord
dell’isola, di superare lo spartiacque a circa
800 metri sul livello del mare e di giungere
nel golfo di Baille-Argent, dall’altra parte.
In realtà era già quasi mezzogiorno, non
proprio l’ora giusta per andare in montagna ma, sapete com’è, eravamo in vacanza
al mare. La via era ben segnata, una sorta
di stradicciola si inerpicava nella campagna
alle spalle del paesino e transitava dalla località Sofaïa, poco distante. Qui il cartello
Il mistero della costa
che si allontanava
Finalmente – erano ormai trascorse almeno tre ore dalla partenza, il pendio si
fece meno ripido e noi giungemmo in cima,
sullo spartiacque. Questo era formato da
una piccola radura, attorniata da piante che
non lasciavano intravedere se non qualche
sprazzo del territorio attorno: troppo poco per potersi orientare. Su un cartello,
piuttosto primitivo, stava scolpito: “BailleArgent, 5 ore”. Cosa dire, cosa fare? Ormai
eravamo rassegnati: piú camminavamo e il
tempo passava, piú la costa si allontanava.
E con lei si allontanavano le nostre forze, la
gioia dell’escursione, le nostre speranze di
giungere per tempo al traguardo, le certezze della nostra vita. Mi ricordai degli anni
© Panguana - Fotolia.com
sentire. Camminavamo ormai da un paio
d’ore e non eravamo ancora giunti allo
spartiacque, mentre il paesaggio si faceva
sempre meno attraente. Improvviso, dopo
una curva, apparve un cartello, che cominciò a far vacillare le nostre certezze. Era
simile ai precedenti, sempre di legno, con
intagliato il nome del villaggio da raggiungere, e come gli altri segnalava il tempo
necessario; ma ora riportava una cifra che
ci fece trasalire: tre ore e quaranta minuti.
Ma come, all’inizio eran due ore e mezza e
ora ce ne vogliono quasi quattro? La bella
mulattiera dei primi passi aveva lasciato
da tempo spazio ad un sentiero mal tracciato e non curato; lo si sarebbe detto
quasi abbandonato, anche se ancora lo si
individuava senza troppe difficoltà, aiutati
anche dalle strane palme con i ciuffi secchi, che sembrava ci accompagnassero
nella nostra impresa. Mio padre inoltre
iniziava ad avere qualche problema, causato probabilmente da una mancanza
di zuccheri: soffriva infatti di diabete e i
medicamenti che assumeva, insieme con
lo sforzo inusuale compiuto, avevano abbassato troppo la glicemia. Ci arrestammo per uno spuntino, mangiando quelle
poche cose che avevamo portato con noi,
un paio di arance, che nelle ore seguenti
si sarebbero rilevate fondamentali per la
sua salute.
Foto: Roberto Moiola
indicatore (di legno inciso) spiegava che
la meta, il villaggio di Baille-Argent, distava
due ore e mezzo. Anche l’oste dell’Oie perdue ci confermò che un buon camminatore
in circa due ore sarebbe arrivato a destinazione. Calcolando di passeggiare lentamente e di fermarci per uno spuntino, contavamo di arrivare verso le quattro, prima
del buio, che in inverno ai tropici piomba
improvviso a metà pomeriggio.
Nel frattempo eravamo saliti di un buon
tratto e, voltandoci indietro, ci stupimmo di
vedere il paese, la spiaggia, il mare, già cosí
piccoli e lontani. Ai margini della mulattiera un altro segnale indicava la via, ma stranamente riportava ancora lo stesso tempo
del primo, mentre era già piú di un’ora che
salivamo. Mah, stravaganze dei Caraibi!
Inoltre, nonostante la bella giornata, provavamo uno strano senso di disagio: avevamo sperato che l’escursione transitasse
in una bella valle, nel mezzo di una foresta
tropicale, piena di fiori variopinti e recinta da grandi pareti. Era invece una valle
di mezza montagna, chiusa da cime tozze,
che parevano desolate e torve. Gli alberi
erano banali, ogni tanto dal bosco spuntava
una palma, piú alta delle altre piante, sormontata da strani pennacchi gialli, forse
vecchie foglie rinsecchite. Continuavamo
a salire, tra muri di vegetazione sgraziata
e deforme, e la fatica cominciava a farsi
di studio appena trascorsi, della giovinezza
che non avevo ancora vissuto abbastanza, dell’adolescenza e dell’infanzia ormai
lontane. Forse senza accorgerci eravamo
tornati indietro? Forse giravamo in tondo?
O una forza ignota e terribile allontanava
da noi sempre di più la nostra meta? Ci
domandammo cosa ci dominasse in quella
terra lontana e ostile e quale entità misteriosa e scellerata governasse il nostro
destino. Eravamo forse preda di un infernale rito voodoo? Si faceva strada in noi il
dubbio che la costa opposta non esistesse,
che la foresta si estendesse senza limite
alcuno, e che, per quanto fossimo avanzati,
non avremmo mai raggiunto la fine. Erano
le quattro passate, il sole era già basso e le
preoccupazioni aumentavano. Una leggera
traccia si dipartiva dallo spiazzo erboso,
addentrandosi nel folto. Il terreno era argilloso e viscido e allora vedemmo delle
impronte, unico segno di presenza umana
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in quel luogo. Erano però orme di piedi
nudi, piccoli, che poco ci ricordavano le nostre escursioni nelle Alpi. Ma come? Noi ticinesi montanari, abituati a salite impervie
e lunghe, sopra i tremila metri, tra rocce e
nevai, ci trovavamo ora in difficoltà su una
collinetta da nulla, in un boschetto ridicolo? E noi, che avevamo sempre guardato
con compatimento e dileggio i turisti che
si avventuravano sui nostri monti senza
esperienza e con equipaggiamento inadatto,
eravamo partiti a mezzogiorno, senza maglione e papà addirittura
coi sandali? Oltre a ciò,
il mio canuto genitore
(come si definiva lui)
non stava per niente
bene, era debole, provava giramenti di testa,
scivolava continuamente, il fango gli si infilava tra la pianta dei piedi e i suoi inadatti
calzari. Ci scambiammo quindi le scarpe,
cosí almeno lui, con quelle da ginnastica,
aveva maggior stabilità. La traccia di sentiero presto sparí e ci trovammo a dover
decidere cosa fare. Si intravedevano solo
le solite palme con l’assurdo pennacchio.
Poco distante, di fianco a noi, si indovinava
una zona meno fitta; per curiosità lasciammo allora la direzione di prima e, facendo-
Foto: Roberto Moiola
La vendetta dell’isola
ci strada tra i cespugli, raggiungemmo un
costone. Là dietro, sottratto agli sguardi
di chi seguiva la via normale, si apriva un
selvatico valloncello, dai fianchi di terra
rossa, ripidi e cadenti. Qua e là un macigno che affiorava, un cespuglio di felci, un
ciuffo secco di una palma; un rigagnolo
d’acqua scorreva sul fondo, contribuendo
a render viscido il terreno. Una cinquantina di metri piú in basso il canalone piegava a destra e spariva, tuffandosi nel fianco
della montagna. Un posto da serpenti, silenzioso e indecifrabile.
fatica a penetrare tra le immense chiome
degli alberi. Mi fermai un attimo, come
assorto. Improvvisamente non c’era piú il
valloncello che avevamo intravisto, né le
solite cime tozze dei dintorni, né piú sotto
si vedeva la regione amica, né le casupole
del villaggio, né il mare. Vidi sotto di me
sterminati dirupi, diversi da ogni ricordo,
che precipitavano senza fine verso maree
di foreste, vidi piú in là il tremulo riverbero
dei mari deserti e piú in là ancora altre luci, altri confusi segni denotanti il mistero e
il confine del mondo.
Ad un tratto udimmo delle voci poco lontane e scorgemmo un gruppo di ragaz-
Gua
I ragazzi della foresta
Piccoli bisbigli provenivano dalle piante
intorno, che formavano biechi baldacchini verdastri a strapiombo e il sole faceva
Cima
del
Monte Soufrière (1’467
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
m).
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zini del posto, seminudi, che vedendoci
tacquero di colpo. “Ehi, ragazzi, sentite,
dov’è il sentiero? Ecoutez, attendez,
Baille-Argent, s’il vous plait”. Tutti fuggirono, tranne il piú grande - avrà avuto
diciassette anni - che si fece coraggio e
si avvicinò. In seguito alle nostre domande, si mostrò molto stupefatto. Non capiva cosa ci facessimo lí e cosa volessimo
da lui. Però fu molto gentile. No, di lí non
si andava a Baille-Argent, non aveva mai
nemmeno sentito quel nome, né tantomeno quello del villaggio di Sainte Rose,
da cui eravamo partiti. Disse che lui con
i suoi amici era partito anni prima dalla
cittadina di Capesterre-Belle-Eau e ne
doveva trascorrere molti altri nella foresta, per una sorta di prova di iniziazione
(cosí almeno ci sembrò di capire) che
tutti i giovani dovevano superare; ma che
quel rito durava molto, ben oltre la loro
gioventú, la loro vecchiaia, la loro stessa
vita. In ogni caso per lui era escluso nella maniera piú assoluta che si potesse
raggiungere una qualsiasi località prima
di diversi mesi o forse anni di cammino.
Infine il ragazzo, cosí com’era apparso,
svaní tra le fitte piante. Eravamo di nuovo
soli, allibiti piú che mai. Chi erano quei
ragazzi? Esistevano veramente? Erano
forse dei nègres marrons - le cui gesta
raccontavano i vecchi cantastorie - ossia
gli schiavi scappati nel corso del millesettecento dalle piantagioni di caffé, che
si erano rifugiati sulle montagne, dove
nessuno piú li andava a cercare? Non un
segno di vita attorno a noi, solo le strane
fronde giallastre in cima alle palme, mosse dal vento. Calma e solitudine. Eppure
l’intera foresta, l’intera isola aveva saputo subito di noi. Dalle tetre profondità
dell’abiezione, della miseria e dell’odio
razziale erano spuntati con inquietante
precisione quei pennacchi sulle palme,
giallastri e desolati, sventolando misteriose minacce. Da ogni parte i mille e
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adalupa
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Uno dei famosi cartelli.
La cena della salvezza.
Nella penombra della sera.
La partenza per la gita.
Il provvidenziale spuntino.
P a u s a p r e o cc u p a t a .
Il Tarzan dei Caraibi.
Papà e mamma sulla spiaggia.
mille occhi del passato ci avrebbero dunque spiati, sapevano tutto di noi, non ci
avrebbero piú dimenticato un istante.
La discesa per il canalone
e il torrente senza fine
Ripresici dallo stupore, dovevamo reagire.
Vuoi perché il canalone che ci stava davanti
era l’unico passaggio, vuoi perché pensammo che prima o poi tutte le valli portano
al mare, imboccammo quella via e scendemmo guardinghi, scivolando spesso sul
terreno umido. Venivamo giú adagio, quasi
attardati da una speranza estrema. Il papà
era proprio in crisi, dovevo sostenerlo per
la vita, camminando al suo fianco mentre
lui si appoggiava alla mie spalle. Cosí abbracciati scendevamo per quella specie
di scivolo, sperando di giungere presto ad
un sentiero segnalato. In basso al canale,
ormai all’imbrunire, sbucammo in un’altra
valle, solcata questa da un piccolo torrente.
Avevamo ormai le traveggole e ci sembrò
addirittura di scorgere una figura umana
che attraversava il ruscello appeso ai rami,
una specie di Tarzan locale. Seguendo il
corso d’acqua, ci abbassavamo sempre di
piú, ma l’avanzare non era per niente agevole. Proseguivamo lentamente, superando
le cascatelle ed i grossi blocchi arrotondati
dalla corrente, a volte nell’acqua, a volte
aggirando gli ostacoli sulle rive o sui fianchi
della valletta, calandoci a vicenda dai risalti
rocciosi: il canyoning l’abbiamo inventato
noi! Si era fatta notte ormai, e le difficoltà
della situazione del terreno erano ingigantite dal buio. Per la prima volta in vita mia
mi domandai se fosse arrivato per noi il
momento. Poi subito scacciai quel pensiero con il ragionamento, dicendomi che alla
peggio si sarebbe trascorsa lí la notte e l’indomani si avrebbe avuto tutto il tempo per
trovare la via giusta. Piú di tutto, piú del nostro stato, ci preoccupava però il pensiero
dei nostri familiari, che ci aspettavano e coi
quali non potevamo comunicare. Volavamo
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La vendetta dell’isola
di ed eravamo stanchissimi: decidemmo
allora di fermarci per la notte. Scelto un
lembo di sabbia sulle rive del ruscello, stavamo per coricarci, quando vedemmo zampettare nella penombra, tra i nostri piedi,
un grosso insetto, o forse un granchio
o proprio un ragno. Brrr, niente da fare,
avanti, via di qui. Un poco avanti notammo
una specie di canaletto, che attraversava
obliquamente il corso d’acqua e che se
ne dipartiva verso sinistra. Pensammo che
quello fosse davvero un indizio di presenza
umana. La luce della luna che filtrava tra i
rami ci permetteva almeno di vedere dove
mettevamo i piedi, anche se le ombre disegnate sul suolo ingannavano i sensi, mostravano gradini dove non esistevano e al
contrario nascondevano i buchi e i sassi.
Grazie a quella flebile luce iniziammo a
seguire il misero manufatto, che sembrava portare ad una entità amica. In una
radura ci fermammo a riposare un momento, il papà barcollava senza energie
residue. Decidemmo che lui si sarebbe
fermato ed io sarei proseguito per esplorare ancora un tratto di sentiero.
che potevano venire a recuperarci. Cosí,
verso le undici di sera, terminò la nostra
avventura.
La vendetta della Guadalupa
Nei giorni seguenti ci informammo, cosí
per curiosità, sulla via giusta che avremmo dovuto seguire, ma tutti, anche i piú
esperti del luogo, negavano che ci fosse
la possibilità di attraversare la montagna in quel punto. Addirittura nessuno
conosceva quel sentiero, nessuno ne
aveva sentito parlare, né tanto meno ci
dava una spiegazione di quei misteriosi
cartelli che ci avevano ingannato. Una
settimana dopo conobbi Mariannick, una
ragazza francese, figlia del capo della polizia locale, che studiava all’università di
Pointe-à-Pitre. Parlando con lei, le narrai
delle mie imprese in Svizzera, sulle Alpi,
vantai le nostre montagne, enormi, bianche e accessibili solo da chi, come noi,
era nato ai loro piedi. Le raccontai anche
la mia avventura della settimana prima ed
ella mi rispose che sí, sapeva già quanto
ci era successo. Pensai che fosse perché
la mia mamma, quando ci stava cercando,
aveva chiesto aiuto alla polizia o perché
si erano avverati quegli strani presentimenti legati ai ragazzi della foresta e
ai pennacchi delle palme. “No, no, - mi
spiegò la ragazza - “non è per quello. È
perché siamo abituati: i gendarmi di mio
padre sempre devono correre a salvare
qualche svizzero che si è perso sulle nostre montagne.” Touché!
Adieu Mariannick. Adieu Guadeloupe.
Guadalupa
Particolare
all’interno.
con la mente, trasportata dai profumi del
bosco e dalle nostre inquietudini, mescolando la realtà del momento con reconditi
ricordi sconosciuti. Svogliatamente la notte trascorse e la mattina ci rimettemmo in
marcia, procedendo per tutto il giorno, ma
della costa che cercavamo nessuna traccia;
e cosí facemmo l’indomani e il giorno dopo ancora. Ormai non incontravamo piú
nessuno, nessun cartello che dava informazioni, superammo foreste e praterie,
territori sempre piú inospitali e avversi,
oltrepassammo incommensurabili catene di monti e desolate lande desertiche,
spazzate da venti rabbiosi. Passarono le
settimane, passarono i mesi e gli anni; il
papà era ormai vecchissimo, non camminava quasi piú; io stesso per l’età faticavo ad avanzare, ma una speranza nuova
ci traeva sempre piú avanti, verso quella
spiaggia inesplorata che le ombre della
notte stavano occultando per sempre...
No, Buzzati, sta buono! Non andò proprio
come descritto qui sopra.
I segni della civiltà
In realtà erano ancora le sette di sera e
continuavamo ad avanzare con fatica nel
letto del torrente, finché vedemmo poco
sopra una piccola piantagione di banane.
Finalmente un segno dell’uomo, forse eravamo vicini ad un villaggio. Salii a vedere,
scostando le piante, cercando di non pensare a quanto avevo letto, ossia ai grossi
ragni tropicali che si nascondono nei bananeti. Vincendo con fatica il ribrezzo e la
paura di quelle bestie che mi avevano sempre terrorizzato fin da bambino, attraversai
la piantagione e scoprii che si trattava solo
di un orticello abbandonato nella foresta,
senza alcun legame con la civiltà. Era tar32
VIVERE LA MONTAGNA
La fine dell’incubo
Finalmente, sotto di noi apparvero delle
luci. Era probabilmente un villaggio, eravamo salvi. Ritornato sui miei passi, raggiunsi mio padre e gli comunicai la notizia. La
speranza ci diede nuova forza e lentamente proseguimmo verso la via d’uscita della
nostra brutta avventura. Il sentiero era ormai ben segnato, e si ingrandiva man mano
che proseguivamo. Poco oltre scorgemmo
da lontano le prime case di un paesello,
dove entrammo ben presto. Avanzavamo
ciondolanti nell’unica strada, deserta e
poco illuminata. Dovevamo assolutamente
trovare un telefono per avvisare i familiari,
visto che ormai erano le nove di sera. Chiedemmo aiuto in una abitazione, dove finalmente ricevemmo assistenza. La padrona
di casa, una vera maman, come lí chiamavano le donne sposate, ci preparò un’ottima
cena, che a poco a poco ci ridiede le forze.
I tentativi di raggiungere la famiglia al telefono furono drammatici, per l’imprecisione degli operatori del centralino telefonico dell’albergo, che non erano in grado di
riferire nemmeno i messaggi piú semplici.
Finalmente riuscimmo a comunicare con
gli altri, a spiegare che stavamo bene, e
Alcuni brani di questo scritto sono presi e
in parte opportunamente modificati dai seguenti racconti di Dino Buzzati:
Il borghese stregato, pubblicato nella
raccolta “Paura alla Scala”; Il nuovo
questore, pure in “Paura alla Scala”;
La strada, nella raccolta “Sessanta
racconti”; La frana, da “Il crollo della
Baliverna”; I sette messaggeri, dalla
raccolta omonima; Uno strano caso in
montagna, da “Le montagne di vetro”.
Dedico questo scritto a mio padre, che non
c’è piú da oltre dieci anni e che mi ha insegnato per primo l’amore per la montagna
e quello per molti altri modi di vivere, che
oggi non sono piú di moda.
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