Amare_(incapacita_di)_files/Incapacità d`amare

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Amare_(incapacita_di)_files/Incapacità d`amare
Incapacità d’amare
1. Incapacità appresa di amare
2. Visione olistica, non duale
3. Rifiuto della responsabilità
4.
Consapevolezza
1. Incapacità appresa di amare
La definizione attuale di depressione è:
stato di impotenza appreso.
Per analogia, possiamo definire la nevrosi come:
stato di non amore appreso
o
potenziale d’amore non espresso.
Ogni problema psicologico, ogni sofferenza emotiva,
trova qui la sua radice.
La domanda:
quale è il tuo problema?
può essere tradotta in:
A che cosa ti stai attaccando?
Che cosa vuoi assolutamente ottenere?
Che cosa stai rifiutando?
Che cosa cerchi di allontanare?
Che cosa non ti va giù?
Per che cosa sei in lotta?
Ovvero: che cosa rifiuti di osservare da una
prospettiva più grande?
In sintesi: a che cosa neghi il tuo amore?
Gli esseri umani sono dotati di una naturale capacità
di amare, così come sono dotati di una naturale
capacità di muoversi, camminare, vedere, ascoltare,
parlare. Ogni capacità ha però bisogno di essere
esercitata. Ha bisogno del contesto adatto, ove
siano disponibili esempi e modelli da imitare.
Tutti i problemi umani sono varianti di un unico
tema:
l’incapacità appresa di amare
Si apprende a vedere, riconoscere, amare se stessi,
facendo l’esperienza di essere visti, riconosciuti,
amati.
Se, quando eravamo piccoli, alcuni nostri aspetti,
bisogni, sentimenti non sono stati visti e
riconosciuti, crescendo impariamo a non vederli e
riconoscerli. Se siamo stati criticati, impariamo a
criticarci. Se siamo stati derisi, impariamo a
svalutarci. La ferita originaria viene così aggravata
dal nostro comportamento appreso: ripetiamo
continuamente al nostro interno gli schemi
relazionali che ci hanno fatto soffrire.
Anziché sostenerci, incoraggiarci, amare noi stessi in
modo incondizionato, impariamo a criticarci e
rimproverarci:
Non sopporto il mio aspetto fisico.
Detesto la mia timidezza.
Sono troppo fragile. Sono poco intelligente.
o impariamo ad approvarci e ad essere contenti,
solo se si soddisfano certe condizioni:
essere in forma, essere prestanti,
avere una perfetta salute
avere successo esteriore, eccellere
impegnarsi sempre al massimo,
fare in fretta e bene
non avere difetti, limiti, mancanze,
saper sfidare ogni difficoltà
dare continuamente prova a se stessi di saper
realizzare i propri sogni e desideri,
compresi quelli difficili o irrealizzabili
ottenere che gli altri soddisfino
i nostri desideri
essere oggetto di ammirazione, riconoscimenti,
giudizi positivi
essere al centro dell’attenzione
essere ineccepibili, non sbagliare mai
essere sempre calmi e sereni,
non arrabbiarsi per nessun motivo
essere sempre allegri, scherzosi,
di buon umore
non creare mai problemi a nessuno
soddisfare i bisogni altrui,
anche a scapito dei propri
rendersi utili, essere sempre generosi, oblativi
non chiedere nulla, essere autosufficienti
in ogni circostanza
non manifestare
i propri bisogni e desideri
non avere paura di nulla
Queste condizioni che poniamo a noi stessi,
diventano degli imperativi, dei doveri, dei
presupposti, che dobbiamo soddisfare per sentirci al
sicuro e degni d’amore. Il prezzo che paghiamo è la
perdita della libertà e dell’innocenza. Diventando
prigionieri di noi stessi, diventiamo cattivi, violenti,
colpevoli, e perciò degni di punizione (cattivo viene
da captivus, prigioniero). Paradossalmente, più
cerchiamo di renderci degni d’amore, più creiamo le
circostanze per allontanare l’amore dalla nostra vita.
La via è la meta. La via che porta all’amore è la
pratica dell’amore stesso. Amore senza presupposti,
senza condizioni da soddisfare. L’innocenza, la
liberazione dalla captivitas, può essere recuperata
solo se diventiamo consapevoli, e vediamo con
chiarezza i muri e le sbarre della prigione in cui ci
siamo rinchiusi. Comprendiamo così che, da un certo
tempo in poi, abbiamo fatto tutto da soli: siamo
diventati i nostri carcerieri ed aguzzini. E’ quindi in
nostro potere, con l’aiuto necessario, imparare ad
abbandonare questa pratica violenta.
2. Visione olistica, non duale
Se guardiamo in profondità (vedi pagina
metamodello 2), ci accorgiamo che non esiste la
critica di A contro se stesso o nei confronti di B:
esistono la critica, il giudizio, la violenza, come
danze relazionali, processi impersonali, flussi
circolari, qualità energetiche.
Le emozioni stesse – gioia, rabbia, tristezza, paura,
invidia, disgusto -, che consideriamo così
intimamente nostre; i bisogni – di sicurezza, di
affetto, di riconoscimento - in realtà sono aspetti,
evidenze, di una trama relazionale.
Così come non esistono “il mio do maggiore”, il “mio
rosso” o “il mio moto rettilineo”, nello stesso modo
non esistono “la mia rabbia”, “la mia paura”, “il mio
bisogno di sicurezza” o “la sua violenza”. Esistono la
rabbia, la paura e la violenza, come danze
relazionali, processi impersonali e universali, ai quali
io posso partecipare o non partecipare.
Nello stesso modo, non esiste una differenza
sostanziale tra attivo e passivo, tra soggetto e
oggetto. Chi critica se stesso, partecipa alla danza
del criticismo: tutte le persone intorno ne sono
coinvolte.
Chi pratica gli inquinanti non ama, né sé né gli altri.
Praticando danze distruttive, tutti ne pagano il
prezzo. Nuovi semi di infelicità vengono sparsi nel
mondo.
3. Rifiuto della responsabilità
Amare è favorire la propria e l’altrui crescita
spirituale.
Responsabilità è la capacità di rispondere alle
circostanze, capacità che presuppone un’avvenuta
crescita.
Chi ama è responsabile; chi è responsabile ama.
Simmetricamente, incapacità di amare e rifiuto della
responsabilità sono due aspetti dello stesso
fenomeno. Si implicano reciprocamente: dove c’è
uno, troviamo anche l’altro.
Il rifiuto della responsabilità, è il rifiuto di diventare
adulti, completi, integri: è la pretesa che altri o il
destino facciano al nostro posto. C’è dietro la
pretesa di risarcimento, o il desiderio di punire chi ci
ha fatto soffrire.
L’attaccamento a questi desideri, di solito inconsci,
impedisce ogni evoluzione.
Responsabilità è capacità di rispondere in modo
flessibile, funzionale alle circostanze, utile al
contesto; mancanza di responsabilità è limitarsi a
reagire. Reagire è meccanico, guidato dai centri
sottocorticali; rispondere è mentale e spirituale,
sotto il governo dei lobi frontali.
Rifiuto della responsabilità è rifiuto di compiere un
passo evolutivo che ci porta nella dimensione di
piena umanità.
La migliore definizione di responsabilità che conosco
l’ha fornita una ragazza dopo aver compiuto un
lavoro sul suo nucleo narcisistico:
responsabilità = occuparsi della realtà con amore
Prima del lavoro, la sua definizione di responsabilità
era:
sforzarsi, faticare, prendere pesi su di sé che non si
vorrebbero
Quindi, responsabilità, secondo questa equivalenza
complessa, significherebbe vivere in un perenne
conflitto tra le forze del piacere e quelle del dovere.
Chi vede il mondo in questo modo, trova continua
conferma ai suoi presupposti: la profezia si
autoadempie.
La pretesa di non faticare, la pretesa delle cose facili
e senza sforzo, in una parola, la pigrizia, è il
maggior ostacolo alla propria evoluzione e
guarigione.
Ci sono sempre ottime scuse che l’Ego è pronto a
fornire per il proprio disimpegno:
non mi piace, non è per me, non sono in grado,
non adesso, non mi avete capito
Per questa ragione, nelle scuole spirituali serie gli
allievi non possono essere ammessi se non superano
prove in cui mostrano la volontà di impegnarsi con
tutto se stessi.
4. Consapevolezza
La crescita personale è crescita di visione e
consapevolezza, non di sforzo fisico e psicologico.
Non è crescita di peso e dimensione, ma di
leggerezza, libertà e profondità.
La via è la meta: se per raggiungere l’adultità mi
autocostringo, non raggiungerò l’adultità, ma un
crescendo di costrizioni e conflitti.
L’autoindulgenza è altrettanto negativa
dell’autocostrizione: le cose non avvengono da sole.
Occorre perciò distinguere l’autocostrizione, figlia
dell’Ego, dal retto sforzo, figlio dell’anima, e radicato
nella gioia di fondo.
Senza libertà non si dà responsabilità, così come
non si dà amore.
Le qualità dell’essere cessano di essere tali se non si
tengono tutte insieme. Appena una ne viene
esclusa, le altre si trasformano in inquinanti.
Il secolo scorso ha visto a livello macrosociale lo
scontro tra due principi: libertà e solidarietà.
Entrambi si sono trasformati in tirannie individuali e
collettive.