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Commentary, 19 luglio 2016
HILLARY HA UNA NEMICA: SE STESSA
MARIO DEL PERO
H
©ISPI2016
illary Clinton si appresta a essere incoronata
candidata democratica alla Presidenza. Per la
prima volta una donna ottiene la nomination di
uno dei due principali partiti e ha una chance molto
concreta di giungere alla Casa Bianca. Si tratta di un
passaggio davvero storico. Che è stato però oscurato:
dal fenomeno Trump; dall’inimmaginabile risultato ottenuto da un socialista 74enne, Bernie Sanders, durante
le primarie democratiche; dal rigurgito di tensioni razziali negli Usa; da Hillary Clinton medesima, controversa candidata dell’establishment che un pezzo
d’America non ama o detesta apertamente. Risiede in
quest’ultimo aspetto uno dei paradossi più marcati di
questo ciclo elettorale: la novità, in sè straordinaria, di
avere una donna candidata è bilanciata dal fatto che
questa donna sembra rappresentare in modo paradigmatico la continuità di una politica oggi accusata e,
spesso, delegittimata. La politica vecchia, autoreferenziale e quasi dinastica dei Clinton, in altre parole.
E allora perché gli elettori democratici hanno scelto
Hillary? Quali sono i suoi elementi di forza e debolezza
in questa campagna presidenziale, che si preannuncia
aspra e, anche, violenta? Che tipo di politiche è lecito
aspettarsi qualora fosse eletta?
Le ragioni della sua vittoria, innanzitutto. Che è stata
più difficile del previsto. E sulla quale ha pesato fino
all’ultimo la spada di Damocle di una possibile incriminazione per la vicenda delle e-mail istituzionali gestite, durante gli anni in cui fu Segretario di Stato, per il
tramite di server privati, violando i più elementari protocolli di sicurezza. Hillary ha vinto per tre ragioni
fondamentali. La prima è stata l’assenza di avversari
credibili e forti. Figure come il governatore di New
York Andrew Cuomo, il senatore del New Jersey Corey
Booker o la stessa senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren, che hanno scelto di non correre anche
perché intimiditi dalla macchina da guerra clintoniana,
capace di raccogliere appoggi diffusi e, soprattutto, finanziamenti massicci. Una macchina contro la quale è
stato più volte dimostrato che è meglio non schierarsi.
La seconda ragione della vittoria della Clinton è la sua
indubbia preparazione. Oscurata dalle caricature che
spesso se ne fanno, l’abilità politica di Hillary si manifesta in realtà anche nel momento elettorale. Non avrà la
Mario Del Pero, Institut d’études politiques, Sciences Po, Parigi
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Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
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straordinaria capacità comunicativa del marito o la
coolness obamiana, ma la Clinton sa vendere un messaggio e una proposta; sa, insomma, trasmettere i suoi
punti di forza, su tutti la capacità rara di maneggiare e
spiegare i diversi dossier di politica interna ed estera. Il
messaggio, potente ma monocorde, di Sanders, tutto
centrato sull’inaccettabile livello di diseguaglianza esistente oggi negli Usa, ha fatto certo breccia
nell’elettorato giovane e idealista, che ha votato in ampia maggioranza per il senatore del Vermont. I dibattiti
televisivi hanno però mostrato un contrasto piuttosto
stridente, con una Hillary Clinton sempre in controllo
della discussione e pienamente a suo agio nel confrontarsi con i dettagli e finanche le minuzie delle policies
discusse. Terzo e ultimo: la demografia e la composizione, plurale e articolata, dell’elettorato democratico,
così diverso da quello mono-razziale e all white che nel
campo repubblicano ha scelto Trump. Un elettorato nel
quale è centrale il voto femminile e delle minoranze,
senza il quale Obama non sarebbe mai giunto alla Casa
Bianca - nel 2012, il Presidente perse il voto maschile
52 a 45 e quello bianco addirittura 59 a 39 - e che la
Clinton ha spesso conquistato nella sua sfida con Sanders.
Tutto sembra convergere a favore dei democratici, insomma. Tutto, con l’eccezione della candidata stessa.
Hillary Clinton è infatti la più pericolosa nemica di sé
stessa. Perché della candidata democratica l’America si
fida poco, pochissimo. E perché il clima odierno, egemonizzato da un discorso anti-politico e populista,
sembra essere il meno propizio possibile per una rappresentante dell’establishment come la Clinton, che
pare anzi rappresentare il miglior bersaglio della demagogia di Trump.
Laddove vincesse, la Clinton si troverebbe a fare i conti
con un quadro politico interno diviso e polarizzato, nel
quale l’insorgenza di un pezzo d’America bianca, spaventata e incattivita, cui Trump ha dato voce e legittimità, probabilmente continuerebbe e, anzi, dalla presenza di una donna liberal alla Casa Bianca trarrebbe
nuova linfa. Difficile immaginare rivoluzioni politiche e
facile, quindi, prevedere una sorta di terzo mandato
obamiano, soprattutto sulle questioni economiche (la
conversione protezionista della Clinton è stata a uso e
consumo degli elettori delle primarie e non durerà che lo
spazio di questo ciclo elettorale). Da più parti si sottolinea come la Clinton abbia una visione di politica estera
diversa da quella di Obama e si preconizzano, soprattutto in Medio Oriente, politiche interventiste centrate
sullo strumento militare. Di nuovo, è più facile prevedere continuità che rottura, vuoi per le costrizioni politiche interne, con una maggioranza dell’opinione pubblica schierata contro nuove azioni militari, vuoi perché
già Obama ha alzato la soglia dell’interventismo nei
suoi ultimi anni di presidenza. Ma la sfida cruciale per
una eventuale amministrazione Clinton sarà quella di
confrontarsi con l’acutizzazione di una frattura interna
che Trump ha usato e alimentato e che, qualunque sia
l’esito del voto, costituirà quasi certamente uno dei lasciti più velenosi di questa campagna elettorale.
©ISPI2016
Tutto ciò, assieme a una mappa elettorale assai favorevole, sembra darle oggi un vantaggio strutturale in vista
del voto di novembre. Perché le donne sono una maggioranza dell’elettorato (circa 52 a 48) e Trump ha ben
pensato di allontanarle ancor più dai repubblicani con il
suo linguaggio misogino e scorretto; perché cresce il
peso degli elettori ispanici anche in alcuni stati in bilico,
gli swing states, come il Nevada, il New Mexico e il
Colorado, che decideranno l’esito delle elezioni; perché,
infine, i sondaggi ci dicono che i repubblicani partono in
svantaggio, poiché il numero di grandi elettori garantiti
dagli stati solidamente democratici è maggiore di quello
degli stati certi di ricadere nella colonnina repubblicana.
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