L`architettura religiosa nel Chianti e nella Berardenga dall

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L`architettura religiosa nel Chianti e nella Berardenga dall
APPENDICE
Fabio Gabbrielli
L’ARCHITETTURA RELIGIOSA NEL CHIANTI E NELLA BERARDENGA DALL’ALTO MEDIOEVO AL PERIODO GOTICO
in ben quattro diocesi: Fiesole (pievi di Spaltenna, S. Leonino in
Conio, S. Polo in Rosso, S. Maria Novella e S. Giusto in Salcio),
Arezzo (pievi di S. Maria a Pacina, S. Marcellino in Avane, S. Vincenti e S. Felice in Pincis), Siena (pievi di S. Agnese, S. Cristina a
Lilliano e S. Maria di Asciata) e in minima parte Firenze 553. I confini politici, ovvero i confini entro i quali le rispettive città esercitavano, nominalmente o di fatto, il controllo, corrispondevano
solo in parte con quelli religiosi. Già nell’alto Medioevo i gastaldi
di Siena avevano esteso il loro potere su una parte del territorio incluso nella diocesi aretina, e i vescovi avevano cercato, ma inutilmente, di estendervi il controllo anche sul piano religioso, rivendicando, fin dai primi dell’VIII secolo, le pievi di Pacina e di S. Felice. Nel 998 tale rivendicazione si estese anche alla pieve di
S. Marcellino e nel 1177-1180 a quella di S. Vincenti 554. Ma a
partire dal XII secolo fu Firenze a estendere il dominio politico su
aree incluse nelle diocesi confinanti, innanzi tutto a danno di Fiesole, il cui territorio entrò completamente a far parte del contado
fiorentino, ma anche a danno di Arezzo (pivieri di S. Marcellino e
S. Vincenti) e di Siena (pivieri di S. Agnese e Lilliano, situati in
una “enclave” inserita nelle diocesi di Fiesole e di Firenze). Il confine politico tra Firenze e Siena, sancito nel 1176 e poi definitivamente confermato nel 1203, venne così a dividere l’attuale territorio dei quattro comuni in due parti: quella fiorentina (Castellina,
Gaiole e Radda, i cui territori nei primi del Trecento furono organizzati nella cosiddetta Lega del Chianti) e quella senese (Castelnuovo Berardenga) 555. L’architettura religiosa medievale del territorio corrispondente al Chianti “storico” (comuni di Castellina,
Gaiole e Radda), prevalentemente collocabile tra l’XI e il XIII secolo, è caratterizzata da una dominante di fondo, consistente nella
massima semplificazione degli elementi architettonici, nella chiarezza spaziale e compositiva, nell’adozione di volumetrie semplici,
quasi sempre a copertura piana (ma non mancano ambienti coperti a volta) e nella quasi totale assenza di elementi scultorei e decorativi, anche dei più comuni, come quello degli archetti pensili.
Semplicità e robustezza che si esprimono pure nelle possenti torri
campanarie, anch’esse totalmente prive di qualunque cedimento
alla pur minima decorazione, quasi a testimoniare, con la loro presenza, il ruolo di terra di frontiera, carattere, quest’ultimo, che
trova una più esplicita evidenza nelle pievi e nelle abbazie fortificate. Se tale atteggiamento può essere, almeno in parte, visto come
il risultato di minori possibilità economiche rispetto alle zone più
1 – Il quadro storico e culturale.
Il territorio di tre dei quattro comuni in oggetto, ovvero quello di
Castellina, Gaiole e Radda, costituisce il Chianti “storico”, cioè la
zona che è denominata come tale nella documentazione medievale
e che solo recentemente è venuta a costituire, soprattutto per ragioni commerciali, la parte centrale di un’area molto più vasta che,
dilatandone i confini, l’ha trasformata in un’entità territoriale
tutt’altro che omogenea e definita 550. Il territorio di Castelnuovo
Berardenga, situato immediatamente a sud del Chianti “storico”,
risulta geomorfologicamente affine a quello degli altri comuni
nella zona settentrionale, mentre assume caratteri decisamente diversi, in buona parte simili a quelli della zona delle Crete, nell’area
meridionale. Sul piano storico, inoltre, tutta la zona est del comune di Castelnuovo costituisce la Berardenga propriamente
detta, cioè il territorio che nel Medioevo era controllato dalla famiglia dei Berardenghi e che è denominato come tale a partire
dalla metà del secolo XII 551. A ragione possiamo quindi parlare, in
termini storici, di architettura del Chianti e della Berardenga, per
quanto un esame non condizionato dagli attuali limiti amministrativi avrebbe potuto includere, come del resto è stato indicato in
precedenti studi, alcuni edifici situati in aree confinanti, edifici che
comunque non avrebbero modificato i risultati emersi dall’architettura esaminata 552.
Zona di frontiera per eccellenza, l’area dei quattro comuni ha costituito nel periodo medievale occasione di incontro – e di scontro – di realtà politiche, religiose e culturali facenti capo, oltre al
feudalesimo laico ed ecclesiastico, a tre grandi città: Firenze,
Arezzo e Siena. In particolare dagli elenchi delle decime della fine
del Duecento e dell’inizio del Trecento, ma la situazione registrata
è valida anche per i secoli precedenti, il territorio risulta suddiviso
550 Ringrazio il prof. Italo Moretti per alcune indicazioni sull’architettura chiantigiana e la revisione del dattiloscritto, e Aldo Favini per avermi fatto consultare il
suo materiale fotografico e le schede delle chiese preparate per questo volume. Gli
edifici oggetto dell’intervento sono le chiese in quanto tali; per ragioni di tempo è
stata esclusa dall’esame l’edilizia a esse collegata (case canonicali, chiostri, ambienti
monastici, strutture fortificate). I titoli (pievi, abbazie ecc.) e i santi titolari si riferiscono alla documentazione medievale. Le indicazioni bibliografiche nelle note si
limitano ai dati essenziali, rimandando, per una più ampia bibliografia, alle schede
degli edifici religiosi pubblicate, a cura di Aldo Favini e del sottoscritto, in questo
volume. Per le planimetrie e le fotografie degli edifici trattati, che solo in minima
parte è stato possibile allegare a questo articolo, si può vedere, per il Chianti, MORETTI, STOPANI, 1966 e, per la Berardenga, GABBRIELLI, 1990a.
Sull’identificazione del Chianti “storico” e sulla sua recente espansione si vedano i
contributi di MORETTI, 1986; ROMBAI, 1986; BOGLIONE, 1988; STOPANI, 1988;
MORETTI, 1991, pp. 11-17, ai quali si rimanda anche per una più estesa bibliografia.
551 Ma già dalla metà del secolo XI si trova l’espressione terra Berardinga (CAMMAROSANO, 1969, pp. 260-261). Sull’identificazione topografica della Berardenga si
veda ibidem, pp. 260 ss.
552 Per il Chianti cfr. MORETTI, STOPANI, 1966; STOPANI, 1987b.
Cfr. GIUSTI, GUIDI, 1942, carta allegata.
PASQUI, 1899, pp. 6, 120, 562. Sulla secolare controversia tra Siena e Arezzo e
sulle diverse motivazioni che ne sono state date si può vedere la sintesi di MARONI,
1973, in particolare pp. 160-161, a cui rimandiamo anche per alcune indicazioni
bibliografiche.
555 Sull’espansione di Firenze e sulla formazione del confine chiantigiano si veda in
particolare SANTINI, 1900, DAVIDSOHN, 1958-68, I, e i recenti interventi di BALESTRACCI, 1986, BOGLIONE, 1986 e CARDINI, 1989. Circa il rapporto tra i confini diocesani e politici di Siena, Arezzo e Firenze cfr. anche STOPANI, 1986, pp. 30-32, 43.
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ricche della campagna Toscana, nonché dell’assenza di strade di
grande comunicazione internazionale – una variante della Francigena attraversava solo un breve tratto del territorio di Castellina –
è comunque innegabile l’esistenza di uno stretto legame con i caratteri culturali di aree ben precise, ovvero con quell’austerità di
linguaggio presente in numerosi edifici romanici dell’Aretino ma
soprattutto propria dell’edilizia religiosa di gran parte del contado
di Firenze; in contrasto con quel melting pot culturale, incline verso
un linguaggio più articolato e decorativo, che invece costituisce
una delle principali caratteristiche dell’architettura romanica del
contado senese 556. Tra l’altro le due sole eccezioni, ovvero la facciata della canonica di S. Michele a Rencine e l’interno della pieve
di S. Maria Novella, dove il rigore strutturale si stempera nell’impiego di sculture ed elementi decorativi, non contraddicono il legame con l’architettura del contado fiorentino. La prima, infatti, è
situata lungo una variante della Francigena, proprio in corrispondenza del confine con il contado e la diocesi di Siena (e in ogni
caso la soluzione adottata, come vedremo, si riscontra anche nella
diocesi di Fiesole), mentre la seconda si riallaccia a un gruppo di
edifici fiorentini situati nel Valdarno e nel Casentino.
Del resto il legame culturale con l’architettura del contado di Firenze trova, analogamente a quanto è stato possibile verificare in
altre situazioni 557, significative consonanze sul piano storico.
Come è stato sottolineato, infatti, il territorio del Chianti “storico”
era in gran parte inserito nella diocesi di Fiesole, interamente sottoposto – almeno a partire dal XII secolo – al dominio politico fiorentino e controllato da famiglie, come i Guidi e i Firidolfi-Ricasoli, proiettate verso Firenze e il suo contado.
Ed è altrettanto significativo che, al contrario, nel territorio del comune di Castelnuovo Berardenga, nel Medioevo appartenente politicamente al contado senese, spartito tra le diocesi di Siena e di
Arezzo e in buona parte soggetto alla consorteria “senese” dei Berardenghi, insieme a un’architettura religiosa, soprattutto minore,
che si riallaccia a quella del Chianti “storico”, si trovino alcune testimonianze architettoniche non riconducibili alla cultura fiorentina. Mi riferisco in particolare alla pieve di Pacina, ubicata nella
diocesi di Arezzo ma in territorio politicamente senese, il cui campanile cilindrico è da collegarsi a un gruppo di edifici situati nella
diocesi aretina, e l’abbazia della Berardenga 558, i cui forti connotati lombardi e pisani richiamano l’architettura tardo-romanica del
contado aretino e soprattutto senese. Nel comune di Gaiole, ma
sempre nella diocesi di Arezzo e forse costruita quando il suo territorio non era ancora sottoposto al controllo politico di Firenze,
si trova, infine, la pieve di S. Vincenti la quale, insieme a una semplificazione di forme riconducibile anche alla cultura fiorentina,
sembra conservare alcuni retaggi della più antica tradizione costruttiva del territorio di Arezzo.
In definitiva, nell’architettura protoromanica e romanica si assiste
a una omogeneità di fondo (austerità, rigore, semplificazione) che,
nella zona del “Chianti storico” diventa totalizzante e decisamente
connessa con i caratteri più diffusi dell’architettura romanica del
contado fiorentino, mentre nell’area senese-aretina (comune di Castelnuovo Berardenga) si confonde con episodi legati ai contadi e
alle diocesi di Siena e di Arezzo.
Ben più modesto peso, sia in senso quantitativo che qualitativo, presenta l’architettura religiosa del periodo gotico. Non a caso in tutto
il territorio esaminato gli insediamenti mendicanti di origine medievale sono assenti o comunque di modesta entità, a testimonianza
della scarsa consistenza demografica che dovevano avere i più grossi
centri del Chianti e della Berardenga: un ospedale domenicano, situato all’interno di Castelnuovo, e un eremo francescano (“il Romito”) a poca distanza dal castello, ambedue documentati almeno a
partire dal 1532. Il convento francescano di Radda venne istituito su
una preesistente chiesa soltanto nel 1708. Più complesso è per tali
edifici individuare precisi collegamenti con determinate aree culturali ma non è fuori luogo segnalare, prescindendo momentaneamente dai problemi cronologici, come la canonica di Avenano, situata nel Chianti, sia stata messa in relazione con l’architettura urbana fiorentina, mentre le strutture in laterizi della cappella di
Dofana, situata nella Berardenga, presentino soluzioni tipiche dell’architettura urbana senese del XIII-XV secolo 559.
2 – Architettura preromanica e protoromanica (VII-XI
secolo).
Estremamente problematica, come quasi sempre del resto, è la datazione, o anche il semplice riconoscimento, di strutture architettoniche religiose anteriori al secolo XII, cioè alla maturità del romanico. E spesso incerto è il collegamento tra le strutture esistenti
e le notizie documentarie inerenti la costruzione o la consacrazione
degli edifici, una volta tanto – per la verità – nemmeno troppo
avare per quanto concerne il territorio in esame.
In un documento del 715 si attesta che nella seconda metà del
VII secolo l’oratorius di S. Ansano a Dofana era stato restaurato
dalle fondamenta dal gastaldo di Siena Willerat e dal figlio
Zotto 560. L’attuale cappella, ubicata sul luogo dove secondo la
tradizione sarebbe stato martirizzato S. Ansano, è un piccolo edificio a pianta ottagonale con scarsella rettangolare nel lato di
fronte all’ingresso. Fino a circa due metri di altezza essa presenta
un rivestimento murario a corsi sub-orizzontali di bozze sommariamente lavorate di travertino, rinforzate negli spigoli da grosse
lesene “a libro” formate da grandi conci che, nelle strutture originali, legano stratigraficamente con il paramento. Per i caratteri
della tecnica muraria e per l’impianto ottagonale, sebbene quest’ultimo sia diffuso, senza soluzioni di continuità, in un arco di
tempo amplissimo che va dall’età romana a tutto il Medioevo e
oltre, tali strutture potrebbero appartenere a una fase costruttiva
pre o protoromanica, una fase comunque anteriore alla maturità
del romanico (intorno al secolo XII) quando i paramenti murari,
compresi quelli delle chiese chiantigiane, assumono una maggiore
accuratezza formale 561. Ad una fase posteriore, di cui tratteremo
559 Sull’insediamento dei Francescani a Radda vedi BENSI, LAZZERI, 1985, p. 9.
Sulla presenza degli ordini mendicanti a Castelnuovo rimando al volume, di prossima pubblicazione, a cura di F. ROTUNDO e del sottoscritto, sui beni architettonici
di Castelnuovo Berardenga. Per Avenano vedi MORETTI, STOPANI, 1978a, 1, p. 5,
e MORETTI, 1985, p. 11. Su Dofana avrò modo di tornare.
560 PASQUI, I, p. 9. Al 650 circa risale il primo documento riguardante la ecclesia
sancti Amsani (ibidem, p. 4). Secondo il FATUCCHI, 1977, p. 94, n. 1, tali notizie
non sarebbero da riferire alla cappella ottagonale ma alla vicina chiesa di Dofana,
anch’essa intitolata a S. Ansano. Vedi Schedario topografico, F.120 II, n. 8.
561 Sulla diffusione degli edifici a pianta ottagonale in epoca romana e medievale si
Sull’architettura romanica del Chianti cfr. MORETTI, STOPANI, 1966, e STOPANI, 1987b; per il contado fiorentino si veda MORETTI, STOPANI, 1974; per il contado di Siena, MORETTI, STOPANI 1981; per la diocesi di Arezzo, GABBRIELLI,
1990a. Circa il rapporto tra l’architettura romanica del Chianti e la viabilità vedi
MORETTI, 1985; STOPANI, 1984b; STOPANI, 1985.
557 Mi riferisco ai risultati di un’indagine svolta sul territorio aretino e su una parte
del territorio senese (vedi GABBRIELLI, 1990a, in particolare le conclusioni alle
pp. 120-122).
558 Vedi Schedario topografico, F.114 III, n. 17.
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Fig. 122 – Cappella, S.Ansano a Dofana-Castelnuovo Berardenga; puddinga, ciottoli
e sottofondazione in laterizio
in seguito, appartiene invece tutto il restante edificio, interamente
realizzato in mattoni e coperto da una cupola a padiglione. Anche
l’impianto originario doveva concludersi con un’abside poiché il
paramento a bozze di travertino prosegue, senza soluzioni di continuità, in alcuni tratti dell’attuale scarsella. Quest’ultima è prevalentemente formata da un rivestimento in laterizi, interrotto, a
circa due metri dal suolo, da un tratto di muratura a corsi suborizzontali di ciottoli di fiume e da due grandi blocchi di “puddinga” appartenenti a uno strato geologico affiorante a pochi metri di distanza dalla cappella (fig. 122). Non è da escludere che in
origine la struttura absidale fosse almeno parzialmente scavata
nella “puddinga” e che in un secondo momento, forse con i lavori
cinquecenteschi, sia stata liberata, abbassando il livello del suolo e
realizzando una sottofondazione in mattoni, secondo una pratica
di cui abbiamo più di una testimonianza nell’architettura urbana
senese 562.
All’anno 867 risale la fondazione dell’abbazia della Berardenga 563.
L’edificio attuale presenta caratteri tardoromanici riferibili a una
ricostruzione del XII-XIII secolo, ma al di sotto della navata si
conserva una cripta appartenente a una precedente chiesa. Si tratta
di un piccolo vano a pianta quadrata, spartito in tre navatelle da
quattro colonne in cui sono reimpiegati materiali classici, e concluso da un’abside più che semicircolare. La copertura è realizzata
con volte a crociera a sesto rialzato prive di sottarchi (fig. 123).
Certe analogie con la cripta dell’abbazia di S. Antimo in Val d’Orcia, riguardanti la tipologia delle volte, l’assenza dei sottarchi e la
distribuzione spaziale (ma diversa è la tecnica muraria), sembrano
suggerire un’attribuzione all’alto Medioevo, da collegarsi proprio
alla fondazione dell’867. Ma ciò contrasta con la tendenza di una
buona parte della critica a rifiutare, per questo tipo di cripta (a navatelle, con copertura a crociere prive di sottarchi), una datazione
anteriore al X secolo 564. Potrebbe in questo caso entrare in gioco
l’anno della rifondazione del monastero, avvenuta nel 1003. Del
Fig. 123 – Abbadia a Monastero-Castelnuovo Berardenga; cripta.
resto il carattere della tecnica muraria, a corsi sub-orizzontali di
pietre grezze o sommariamente lavorate miste a qualche frammento di laterizi, negli anni intorno al Mille è ampiamente diffuso
in vaste aree dell’Italia centro-settentrionale, e il reimpiego di materiali classici, spesso disordinato e casuale, risulta tipico delle
cripte italiane del X-XI secolo 565.
Più consistenti strutture conserva la pieve di Pacina, altra testimonianza situata nel comune di Castelnuovo Berardenga, un edificio
basilicale a tre navate, in origine spartite da soli tre archi di valico
su pilastri rettangolari e attualmente concluse da due sole absidi. Il
ritmo e la tecnica di realizzazione degli archetti pensili che ornano
i fianchi, la presenza di volte a botte antistanti le absidi e l’irregolarità della tecnica muraria (ciottoli, frammenti di laterizi, pietre
spaccate), presentano forti legami con l’architettura protoromanica
lombarda dei primi dell’XI secolo 566. La presenza di un campanile
565 Per la rifondazione del 1003 vedi CASANOVA, 1927, n. 2. Circa i caratteri della
tecnica muraria impiegata nelle chiese del X-XI secolo in vaste aree dell’Italia settentrionale sono ancora molto utili gli studi dell’Arslan, della Magni e del Verzone
(per le indicazioni bibliografiche si veda ancora GABBRIELLI, 1990a, p. 125, n. 23).
Analoghi riscontri sono verificabili in numerosi edifici della diocesi medievale di
Arezzo, entro la quale l’abbazia della Berardenga era situata (cfr. ibidem, pp. 4286). Sul reimpiego dei materiali classici nelle cripte italiane vedi KUBACH, 1978,
pp. 54-55.
566 Per una dettagliata trattazione di tali rapporti vedi GABBRIELLI, 1990a, pp. 5657 e le note corrispondenti. Circa alcuni caratteri tecnici degli archetti protoromanici lombardi cfr. ibidem, p. 53. Sulla tecnica muraria delle chiese protoromaniche
dell’Italia centro-settentrionale cfr. supra, n. 565.
veda DE ANGELIS D’OSSAT, 1936, pp. 13-24; DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, pp. 1-20.
Sulla possibile attribuzione delle strutture in pietra di Dofana al periodo preromanico
cfr. MORETTI, STOPANI, 1981, p. 73, n. 35.
562 Per i casi individuati nel centro storico di Siena si veda PARENTI, 1991, p. 25 e
figg. p. 28.
563 CASANOVA, 1927, n. 53.
564 Su tale argomento si veda GABBRIELLI, 1990a, pp. 68-69, e le indicazioni bibliografiche contenute a p. 128, n. 97-98.
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cilindrico, inoltre, inserisce l’edificio in un gruppo di chiese protoromaniche della diocesi medievale aretina legate alla cultura architettonica ravennate, mentre la planimetria originaria quasi quadrata richiama la pieve di Arliano, un edificio lucchese di controversa datazione 567.
A tre navate doveva essere pure l’impianto originario della pieve di
S. Maria di Asciata (comune di Castelnuovo), adesso ad aula
unica, che conserva nel fianco sinistro i resti di alcune strutture
molto simili, nella tecnica costruttiva, a quelle di altre chiese della
Toscana orientale e meridionale anteriori al romanico maturo. Si
tratta di tre archi a tutto sesto formati da bozze di una pietra porosa sommariamente lavorata, impostati su pilastri quadrangolari
in bozze di arenaria privi di qualsiasi elemento decorativo. Molto
irregolare è il circostante paramento murario 568.
Interessanti rapporti con l’architettura protoromanica mostra pure
la pieve di S. Vincenti, situata nel comune di Gaiole. La pieve,
molto rimaneggiata, presenta un impianto a tre navate spartite da
cinque pilastri a sezione quadrata, un pilastro cilindrico e due semicilindrici. La zona presbiteriale ha subito una radicale trasformazione, consistente nella distruzione delle tre absidi originarie e
nel successivo prolungamento della chiesa con l’aggiunta di una
stretta campata in laterizi e la ricostruzione di una sola abside 569.
Numerosi elementi collegano l’edificio alle più antiche pievi comprese nella diocesi medievale di Arezzo, della quale S. Vincenti faceva parte: lo scarso sviluppo longitudinale, l’estradossatura degli
archi di valico, i pilastri cilindrici, la morfologia delle mensole
d’imposta. Circa l’impianto originario è da sottolineare la stretta
corrispondenza dimensionale con quello della pieve di Sietina, non
lontano da Arezzo, anch’essa a tre navate e tre absidi: 16 x 11 m la
prima, 16 x 11,5 m la seconda. Da tali edifici S. Vincenti invece si
distacca per la presenza dei pilastri a sezione quadrata, anziché rettangolare, e per una tecnica muraria che, pur non rientrando nelle
più accurate realizzazioni romaniche, è ben lontana dall’estrema irregolarità che caratterizza le pievi aretine 570.
Intorno alla metà del secolo XI potrebbero essere ricondotte alcune
strutture dell’abbazia di Coltibuono, situata nel comune di Gaiole.
Del 1037 è il primo documento riguardante l’esistenza di un oratorio dedicato a S. Lorenzo, precedentemente fondato dai Firidolfi
i quali, con tale atto, si impegnano a risollevarlo dalla decadenza in
cui è caduto 571. All’anno 1053 risale la prima, sicura, attestazione
della presenza di un monastero e di pochi anni dopo, del 1058, è
la consacrazione della chiesa 572. Nel corso dell’XI e del XII secolo
il monastero, che nel 1095 entrò a far parte della congregazione
vallombrosana, raggiunse una notevole consistenza economica, diventando uno dei principali enti religiosi del Chianti e dell’intera
comunità di Vallombrosa 573. L’attuale edificio presenta un im-
pianto a croce latina, a una sola navata, transetto fortemente sporgente e abside semicircolare. Assoluta è l’assenza di elementi scultorei e decorativi. Le strutture dell’abside, del transetto e della
grossa torre campanaria che si eleva in corrispondenza del fianco
sinistro, sono riferibili al romanico maturo. I fianchi della navata,
in parte rimaneggiati, sembrano invece da ricondurre a un edificio
precedente. Un rapido esame stratigrafico ha indicato un rapporto
di anteriorità del fianco sinistro rispetto alla torre campanaria. Vicino allo spigolo sud-ovest del campanile infatti si nota, all’interno
e all’esterno del fianco sinistro della navata, una soluzione di continuità, probabilmente interpretabile in un’azione di taglio e di
riempimento eseguita per l’inserimento del campanile stesso. E in
corrispondenza dello spigolo sud-est, subito prima del transetto,
sono chiaramente visibili, sempre nel fianco della navata, i resti di
un arco tagliato per l’inserimento della torre, probabilmente collegabile a un livello pavimentale molto più basso di quello attuale.
Tracce di un arco analogo, a esso corrispondente e situato alla
stessa altezza, sono presenti nel fianco destro. La navata risulta perciò anteriore alla torre campanaria, la cui datazione è forse da mettersi in relazione con un’epigrafe posta sul lato ovest, indicante
l’anno 1160. Si può quindi ipotizzare, anche se rimangono alcune
perplessità sull’evoluzione complessiva dell’edificio 574, l’appartenenza dell’attuale navata, o almeno dei fianchi, alla prima chiesa
monastica, quella consacrata nel 1053, forse anch’essa caratterizzata da un’icnografia a croce latina, come sembrano suggerire le
tracce dei due archi menzionati, i quali potevano costituire i valichi di accesso ai bracci di un transetto. Con una datazione intorno
alla metà del secolo XI concorda pure la tecnica muraria, a corsi
sub-orizzontali di piccole bozze di arenaria e alberese 575.
Un altro edificio che potrebbe conservare alcune strutture riconducibili all’architettura del X-XI secolo è la canonica di S. Ansano
a Dofana (con tale titolo figura nelle decime due-trecentesche), da
non confondere con l’omonima cappella, situata a pochi chilometri di distanza e di cui abbiamo in precedenza trattato. La chiesa,
che secondo il Repetti sarebbe stata riedificata nel 1380 e poi nel
1529, subì un radicale restauro, su progetto di Egisto Bellini, nel
1929, nel corso del quale vennero rinforzate le strutture murarie e
fu completamente ricostruita la facciata 576. In effetti le murature
esterne non sembrano presentare elementi riconducibili al periodo
medievale e quelle interne sono intonacate. Tuttavia l’impianto a
tre navate spartite da archi a tutto sesto su pilastri rettangolari presenta, nelle forme e nelle proporzioni (rapporti metrici tra le misure delle navate, dei pilastri e degli archi di valico), strette affinità
con quelli di alcune pievi protoromaniche, in particolare con la
pieve di Pacina. Non è perciò da escludere, anche se occorre ribadire la mancanza di più evidenti testimonianze, che negli interventi tre-cinquecenteschi e poi nel restauro dei primi del Novecento siano state riutilizzate alcune strutture originarie, sufficienti
a mantenere un impianto dai caratteri protoromanici 577.
567 Sui rapporti con Arliano cfr. MORETTI, STOPANI, 1981, pp. 41-42. Circa le varie ipotesi di datazione di quest’ultima vedi MORETTI, 1977, p. 487, n. 11-12 e
GABBRIELLI, 1990a, p. 126, n. 53. Sui campanili cilindrici aretini e i rapporti culturali con Ravenna vedi ancora GABBRIELLI, 1990a, pp. 77-80.
568 Cfr. MORETTI, 1977, passim, e MORETTI, STOPANI, 1981, p. 41. Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 59.
569 GABBRIELLI, 1990a, pp. 84-86, 165.
570 Per i legami e le divergenze con le chiese protoromaniche aretine si veda GABBRIELLI 1990, pp. 86, 130 nn. 162-163. Sulla pieve di Sietina cfr. ibidem, pp. 5356. Precedentemente già MORETTI, STOPANI 1978b, pp. 15-16, avevano proposto
di assegnare l’edificio almeno al secolo XI.
571 PAGLIAI, 1909, n. 27.
572 Ibidem, n. 27; PAGLIAI, 1911, p. 19. Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 187.
573 Sulle vicende dell’abbazia di Coltibuono si veda MAJNONI, 1981. Sull’affidamento ai Vallombrosani PAGLIAI, 1909, nn. 200, 201. Secondo MAJNONI, 1981,
p. 16, n. 14, tuttavia, i documenti del 1095, al contrario di quanto generalmente
ritenuto, costituirebbero soltanto l’attestazione formale di un affidamento avvenuto
molti anni prima, addirittura fin dal tempo della fondazione del monastero (105153). Sulla questione cfr. pure PAGLIAI, 1911, p. 15 ss.
574 Cfr. infra, n. 589.
575 Per una collocazione della navata anteriore al XII secolo, ma in relazione all’ipotesi di una chiesa di tipo basilicale, cfr. MORETTI, 1962, pp. 93 ss., MORETTI,
STOPANI, 1966, p. 17.
576 Queste almeno le indicazioni del BIGI, 1934, pp. 141-143. Per le notizie del
1380 e del 1529 vedi REPETTI, II, p. 15.
577 Intendo tornare più ampiamente sull’edificio in uno studio, in corso di elabo-
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Pochissimi, e di reimpiego, sono i reperti scultorei presumibilmente riferibili all’alto Medioevo. Si tratta di un frammento di travertino decorato ad archetti intrecciati, murato nella recente facciata della chiesa di S. Ansano a Dofana, e di un frammento di
marmo bianco ornato con arcatelle e motivi vegetali, inserito, insieme ad altri due reperti forse più antichi, in un fabbricato della
fattoria di Campomaggio, nel comune di Radda 578.
mali e soprattutto tematici, riguardano il contado fiorentino, in
particolare alcune pievi del Casentino e del Valdarno Superiore
(Cascia, Montemignaio, Romena) assegnate a maestranze lombarde operanti nella seconda metà del XII secolo 582.
Nelle altre pievi le testimonianze scultoree sono veramente ridotte
al minimo. Si tratta di un capitello erratico, scolpito con rosette e
volute e recante incisa la data 1172, trovato presso la pieve di S.
Felice, e un architrave scolpito con una croce e quattro rosette
reimpiegato nel portale laterale della pieve di S. Agnese 583.
Da sottolineare infine la presenza, in quasi tutte le pievi, di massicce torri campanarie a pianta quadrata, talvolta a esse posteriori,
con poche aperture spesso limitate alla sola cella campanaria e
completamente prive del minimo elemento decorativo: S. Agnese,
S. Maria Novella, S. Polo in Rosso 584, S. Giusto in Salcio 585,
S. Maria a Spaltenna, alle quali possiamo aggiungere anche S. Maria di Asciata e S. Vincenti, esaminate nel precedente paragrafo. Si
tratta del tipo di torre campanaria più diffuso nel contado fiorentino, mentre nel territorio politicamente senese sono alquanto comuni i campanili di tipo lombardo, con numerose aperture e ricorsi di archetti pensili 586. In due casi, Asciata e S. Polo, le torri
fanno parte di un vero e proprio sistema difensivo che in un secondo momento ha inglobato l’edificio religioso.
Per quanto riguarda i monasteri abbiamo già parlato dei resti pre
o protoromanici di S. Salvatore della Berardenga, di fondazione altomedievale, e di quelli, probabilmente della metà dell’XI secolo,
di S. Lorenzo a Coltibuono, consacrato nel 1053. Le due abbazie
costituirono i centri monastici più potenti della zona in esame e i
principali esponenti dei due ordini riformistici che nell’XI-XII secolo caratterizzarono il rinnovamento del monachesimo benedettino in Toscana: Camaldolesi e Vallombrosani. Al 1095 risale
l’atto ufficiale di ingresso di Coltibuono nell’ordine vallombrosano
e dell’anno 1098 è la prima attestazione di appartenenza della Badia Berardenga all’ordine camaldolese 587.
Nel pieno periodo romanico, probabilmente nella seconda metà
del secolo XII, dovette essere realizzato un ampliamento della
chiesa di Coltibuono, con il quale essa raggiunse la forma e l’assetto attuale. L’edificio, a croce latina, con unica navata e transetto
fortemente sporgente, presenta la planimetria tipica delle chiese
vallombrosane dell’XI-XIII secolo 588. Al rinnovamento dell’edificio protoromanico, di cui probabilmente si conserva la navata,
sono riconducibili il possente campanile che si eleva in corrispondenza del fianco sinistro, l’abside semicircolare, il transetto coperto
con volte a botte forse originali e una cupola impostata su un tamburo poligonale nascente da quattro pennacchi a tromba su base
quadrata. All’esterno è una singolare soluzione “a pagoda” del tiburio, costituito da tre gradoni quadrati. Il tutto caratterizzato,
3 – Architettura romanica (XII-XIII secolo).
Le principali differenze icnografiche, dimensionali e morfologiche,
tra gli edifici religiosi collocabili nel XII e nel XIII secolo inoltrato,
sono strettamente connesse con la funzione da essi svolta: pievi,
chiese monastiche, chiese canonicali e chiese suffraganee. Le pievi,
come nei casi protoromanici esaminati, presentano quasi tutte un
impianto basilicale, a tre navate concluse da una o tre absidi:
S. Agnese, S. Maria Novella, S. Polo in Rosso, S. Maria a Spaltenna,
S. Giusto in Salcio. A tre navate era forse l’impianto originario della
pieve di S. Leonino in Conio, di cui rimangono soltanto le strutture
della parte presbiteriale, mentre della pieve di S. Cristina a Lilliano,
adesso ad aula unica, sembra essersi conservata con certezza solo la
facciata 579. Occorre tuttavia far presente che proprio le pievi chiantigiane, forse in misura maggiore di quanto è avvenuto in altre zone,
sono state interessate da radicali interventi di “restauro” otto-novecenteschi che in molti casi hanno determinato una totale, o quasi, ricostruzione dell’edificio: pievi di S. Marcellino e di S. Felice (ricostruzione con nuovo impianto), S. Giusto in Salcio e S. Agnese (ricostruzione, probabilmente rispettando, in gran parte, l’impianto
originario), S. Maria Novella (ricostruzione dei muri perimetrali e
conservazione delle colonne e dei capitelli) 580.
Tutti gli edifici sono, o erano in origine, coperti a capriate lignee
a vista, compresa la pieve di S. Polo le cui volte a crociera risalgono a un intervento trecentesco. Le navate sono spartite da archi
a tutto sesto e pilastri a sezione quadrangolare con mensole d’imposta semplicemente modanate. La pieve che meglio conserva le
originali strutture romaniche è quella di Spaltenna, per quanto rimontata nelle prime due campate verso la facciata. È caratterizzata
da archi di valico a tutto sesto fortemente rialzati e impostati su
pilastri di sezione quadrata ornati, come nel coronamento absidale,
con una cornice a semplice smusso. Una cornice simile è presente
pure nell’abside di S. Leonino in Conio 581.
Nella quasi totale assenza di elementi ornamentali, fatto che, come
abbiamo accennato, collega tali edifici con ampie aree del contado
di Firenze e con molte chiese dell’Aretino, spicca l’eccezione, caso
unico in tutto il Chianti, della pieve di S. Maria Novella, caratterizzata dall’alternarsi di colonne e pilastri, quadrati e compositi, e
soprattutto dalla presenza di capitelli scolpiti con motivi vegetali,
zoomorfici e simbolici. Anche in questo caso i collegamenti, for-
582 Cfr. MORETTI, STOPANI, 1966, pp. 69-75; MORETTI, STOPANI, 1971; BOSCHI,
1987, pp. 55-57. L’espressione “contado fiorentino” è da intendersi storicamente,
in riferimento ai confini politici e diocesani medievali e non agli attuali limiti amministrativi; cfr. GABBRIELLI, 1990a, pp. 15-16.
583 Cfr. BOSCHI, 1987, p. 57.
584 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 202.
585 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 185.
586 Si veda MORETTI, STOPANI, 1974, pp. 100 ss., per il contado fiorentino, e MORETTI, STOPANI, 1981, pp. 90 ss. per il Senese. Il rapporto planimetrico tra le torri
campanarie del Chianti e le rispettive chiese si può verificare grazie ai rilievi pubblicati in MORETTI, STOPANI, 1966.
587 Su Coltibuono cfr. supra, n. 573. Sulla Badia Berardenga, SCHIAPARELLI, BALDASSERONI, 1907, n. 607.
588 Cfr. MORETTI, 1990, pp. 11-12.
razione, sui beni architettonici del comune di Castelnuovo Berardenga.
578 Per il primo si veda F ATUCCHI , 1977, pp. 94-95; per il secondo S TOPANI ,
1987a, p. 13.
579 MORETTI, STOPANI, 1966, pp. 106-109; MORETTI, STOPANI, 1974, pp. 205206. Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 98.
580 Sugli interventi otto-novecenteschi nelle chiese del Chianti cfr. STOPANI, 1990.
Circa S. Giusto in Salcio non è da escludere che la chiesa precedente alla quasi
completa ricostruzione del 1929, a giudicare da alcune vecchie fotografie, dalla documentazione parrocchiale (vedi scheda di A. Favini) e da qualche struttura superstite, avesse caratteri protoromanici. Vedi Schedario topografico, F.113 II, nn. 71,
159, 185; F.113 I, n. 22.
581 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 97.
417
nella migliore tradizione degli ordini riformati, da una nudità assoluta delle strutture, prive della minima articolazione di superficie e di ogni elemento scultoreo e decorativo. La stessa copertura
absidale, realizzata a lastre di pietra, si imposta semplicemente su
un filare di conci appena smussati.
Di notevole importanza, pur non essendo stratigraficamente in
fase, è un’epigrafe situata nel lato ovest del campanile, riguardante
l’inizio di non meglio specificati lavori, avvenuto il 1 gennaio
1160. Alla seconda metà del secolo XII può infatti essere ricondotto l’ampliamento dell’edificio, trovando una conferma sia nell’accuratezza della tecnica muraria, almeno di quella del paramento esterno, sia nelle vicende storiche dell’abbazia che proprio
intorno al 1160 raggiunse il culmine della potenza economica 589.
È da notare che nel campanile e nel paramento esterno dell’abside e del transetto si adotta la stessa tecnica muraria, a corsi orizzontali e paralleli di conci di alberese, privi del nastrino e spianati
ad ascettino.
Simili all’abbazia di Coltibuono sono l’icnografia e l’assetto volumetrico di Abbadia a Monastero, ma completamente diversa è
l’articolazione delle superfici. L’attuale edificio, rinnovato in
epoca più tarda, nel XIII secolo, quando probabilmente si era ormai allentata la morsa rigoristica dei primi tempi dell’ordine camaldolese, presenta un impianto a croce con transetto e abside
semicircolare, cupola ellittica nascente da quattro pennacchi sferici (a differenza di Coltibuono copre uno spazio rettangolare e
non quadrato) e un tiburio ottagonale irregolare. Archi a sesto
acuto introducono nei bracci del transetto, coperti con volte a
crociera, mentre la navata, abbattuta nell’Ottocento e solo parzialmente ricostruita, è coperta a capriate lignee. Ciò che distingue profondamente l’abbazia della Berardenga dall’architettura
chiantigiana è la ricca articolazione delle superfici murarie (losanghe gradonate, protomi umane, tratti di bicromia, monofore
modanate con ghiere e toretti, arcate ciliate, archetti pensili),
un’articolazione chiaramente derivata dalla cultura architettonica
pisana, così come la scultura dei capitelli di imposta degli archi e
probabilmente anche la forma ellittica della cupola. Alla cultura
lombarda sono invece riconducibili la copertura a volte, il tiburio e soprattutto la torre campanaria, in origine posta in corrispondenza della facciata, ma non in asse, e adesso separata dalla
chiesa 590. Quest’ultima, caratterizzata da monofore e trifore con
ricorsi di archetti pensili, è l’unico campanile di forme lombarde
della zona in esame ed è riconducibile ad analoghe soluzioni presenti nel territorio senese 591. La sua datazione potrebbe non
coincidere esattamente con quella della chiesa, sia per le differenze sul piano formale che per la diversa lavorazione del materiale (i conci sono rifiniti con minore accuratezza).
Un altro monastero apparteneva alla congregazione camaldolese.
Si tratta di S. Pietro a Montemuro, situato nel comune di Radda.
La chiesa venne consacrata nel 1058 ma è solo con la bolla di
Onorio II del 1125 che risulta per la prima volta negli elenchi dei
monasteri sottoposti a Camaldoli 592. Pochi resti si conservano dell’edificio: il braccio sinistro del transetto, molto rimaneggiato, e
forse un tratto della controfacciata. Tali strutture sembrano anche
in questo caso indicare un impianto a croce latina con copertura a
volte nei bracci del transetto (si conservano i resti dei pennacchi),
analogamente a quanto riscontrato nelle abbazie di Coltibuono e
della Berardenga. Fino a circa venti anni fa si trovavano, nei pressi
dell’edificio, due capitelli in arenaria uno dei quali raffigurante
quattro aquile 593.
Diverso era l’impianto di un altro monastero, questa volta sede di
una comunità benedettina femminile, quello di S. Maria in Colle,
situato nell’attuale località La Badiola. Il primo ricordo risale al 1089
quando i signori di Trebbio cedettero il monastero all’abbazia di
Montecelso 594. Nel 1265 è ancora documentato come monastero,
mentre pochi anni dopo, a partire dal 1276, figura come canonica
negli elenchi delle decime 595. Attualmente si presenta a navata unica
ma l’impianto originario era di tipo basilicale, a tre navate con transetto non sporgente. L’edificio, molto rimaneggiato, in buona parte
interrato e con strutture assai deformate a causa di cedimenti, presenta alcuni archi di valico a tutto sesto, i resti della navata sinistra,
il braccio destro del transetto con i relativi archi impostati su pilastri
quadrangolari e un’abside semicircolare rifatta nel paramento
esterno. La netta soluzione di continuità, determinata da due spigoli, visibile nella facciata, tra la navata centrale e quella sinistra, può
forse essere spiegata, tenendo presente l’identità della tecnica costruttiva, nell’esistenza di una torre campanaria, poi crollata, posta in
corrispondenza della prima campata a sinistra 596.
Sia la Badia a Coltibuono che la Badia Berardenga, come le pievi
di Asciata e di S. Polo, nel tardo Medioevo vennero munite di fortificazioni. Altrettanto avvenne per un altro monastero, quello di
San Giusto a Rentennano (o S. Giusto alle Monache) 597, dipendente, nel XII-XIII secolo, dall’abbazia di Montecelso e della cui
chiesa si conservano modeste tracce.
Tra le canoniche sono da segnalare quelle di S. Michele a Rencine
e di S. Lorenzo a Mello 598. La prima, a una sola navata, presenta
nella facciata, rimontata nella parte destra, i resti di un motivo decorativo formato da un riquadro orizzontale ricassato entro cui si
sviluppano alcune colonnine e un ricorso di archetti pensili. Un
motivo decorativo con impostazione analoga, entro un riquadro
orizzontale, frutto dell’elaborazione di uno schema di matrice pisana, si ritrova, oltre che in varie chiese della Toscana nord-occidentale, nella facciata di una pieve del contado fiorentino (Cascia),
in due edifici del contado senese (eremo del Vivo, pieve di Corsano) e in origine nella chiesa di S. Vigilio a Siena, poi completamente rifatta nel Settecento 599.
592 KEHR, 1908, p. 103; SCHIAPARELLI, BALDASSERONI, 1909, n. 866. Vedi Schedario topografico, F.113 I, n. 37.
593 Cfr. MORETTI, STOPANI, 1972c, pp. 95-97. I due capitelli si conservano attualmente presso la fattoria di Monte Vertine.
594 GHIGNOLI, 1992, nn. 7, 46. Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 226.
595 Ibidem, n. 28; GIUSTI, GUIDI, 1942, p. 34.
596 Di torri campanarie situate in corrispondenza della prima campata di una delle
navatelle si potrebbero fare numerosi esempi. Un caso analogo di due spigoli determinati da una torre campanaria che non lega con la facciata è quello dalla pieve
di Lucignano in Val d’Arbia. L’ipotesi del campanile era già stata suggerita in MORETTI, STOPANI, 1966, pp. 130-135.
597 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 97.
598 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 153; F.114 III, n. 151.
599 Una raffigurazione della facciata di S. Vigilio prima del rifacimento è pubblicata
in CATONI, 1991, p. 53. Per la canonica di Rencine vedi MORETTI, STOPANI, 1966,
pp. 118-121.
Cfr. MAJNONI, 1981, pp. 28-29. Nel XIII secolo iniziò la crisi economica dell’abbazia (ibidem, pp. 33 ss.). Qualche perplessità sulle fasi evolutive dell’edificio è però
sollevata da due questioni: la datazione del campanile (nel lato corrispondente alla
navata è presente un grande arco a sesto acuto che sembra a esso coevo; anche se si
conoscono numerosi casi di archi acuti in chiese del secolo XII è fuori dubbio che tale
tipologia si diffonda soprattutto a partire dal secolo successivo); il paramento murario del transetto e dell’abside (all’esterno è estremamente accurato mentre all’interno
è molto meno regolare, pur differenziandosi da quello della navata).
590 Cfr. MORETTI, STOPANI, 1970; GABBRIELLI, 1990a, pp. 115, 175-176.
591 Cfr. MORETTI, STOPANI, 1981, p. 90.
589
418
La canonica di Mello è formata da un piccolo edificio ad aula che
conserva, delle strutture originali, soltanto i muri perimetrali della
parte presbiteriale. L’aspetto più interessate è costituito dalle tracce
di una copertura anteriore a quella attuale a capriate, consistenti
nei resti di due pennacchi di una volta a crociera posta sul presbiterio. Quest’ultimo, inoltre, è introdotto da un grande arco trasversale a tutto sesto, all’esterno rinforzato da semilesene e all’interno preceduto da due mensole scolpite a testa di bue e da due riseghe orizzontali che potrebbero anch’esse indicare, ma in questo
caso la soluzione è incerta, l’attacco di una volta a botte a copertura della navata o di una parte di essa 600.
Forme e strutture estremamente semplici e modeste presentano le
altre canoniche, gli ospedali e tutte le chiese suffraganee del territorio in esame, caratterizzate da un impianto ad aula rettangolare
con o senza abside. Sono coperte con travature lignee a vista e
prive, o quasi, di elementi decorativi. Tipica ad esempio è la cornice semplicemente smussata del coronamento absidale della
chiesa di S. Leonardo a Catignano, una delle suffraganee che, almeno all’esterno, meglio conserva le strutture originali. Una massiccia torre campanaria in buona parte integra, dagli stessi caratteri di quelle riscontrate in tante pievi del Chianti, si eleva in corrispondenza del fianco sinistro della canonica di S. Pietro a
Cerreto 601, mentre della torre della canonica di S. Angelo a
Campi, ma in questo caso facente parte di un ampio sistema di
fortificazioni, si conserva soltanto la parte inferiore. Sulla base dei
dati documentari a disposizione e di quelli di un’indagine architettonica così sommaria, priva di specifiche e sistematiche ricerche di carattere cronotipologico, è difficile indicare, per tali edifici, collocazioni meno generiche, anche perché molti di essi
hanno subito notevoli rimaneggiamenti e restauri in stile e quindi
richiederebbero accurate indagini monografiche. È comunque da
segnalare la presenza, in alcune chiese, di elementi diffusi nell’architettura tardo-romanica e gotica, tali da suggerire collocazioni
cronologiche presumibilmente non anteriori al secolo XIII, come
nel caso degli archi ribassati di S. Giusto alle Monache e di S. Stefano a Cerreto e degli archi dentati di S. Fedele a Paterno 602 e S.
Giorgio a Grignano 603.
appartengono anche le strutture fortificate dell’insediamento, le
quali hanno coinvolto direttamente la pieve con il rialzamento dei
muri perimetrali, compresa la facciata a terminazione orizzontale,
e dell’abside semicircolare, trasformata in torre di difesa.
Sempre nel comune di Gaiole si trova la chiesa di S. Pietro in Avenano 606. Nel 995 è documentata come pieve mentre in un documento del 1110 il titolo risulta trasferito a S. Maria a Spaltenna 607.
A partire dal 1138 è segnalata come canonica e così figura nelle
decime due-trecentesche 608. Caratteri gotici, con qualche inflessione romanica, presenta l’attuale edificio, a tre navate spartite da
archi a tutto sesto impostati su pilastri poligonali e concluse da una
scarsella quadrata. La copertura, simile a quella di S. Polo in
Rosso, è formata da volte a crociera costolonate impostate su archi
trasversi sestiacuti e lesene che scaricano sui pilastri e sui muri perimetrali. Anche in questo caso le nervature si interrompono in
corrispondenza dei capitelli, depressi e semplicemente sgusciati.
L’attribuzione della chiesa al XIV secolo è stata recentemente rimessa in discussione, proponendo, sulla base di alcune attestazioni
documentarie, una totale ricostruzione, o quasi, nel pieno Cinquecento. In particolare è stata sottolineata l’originalità di un intervento che si qualificherebbe come una cosciente ripresa “neogotica”, determinata dalla volontà di riaffermare una presenza culturale ed economica da parte della committenza Ricasoli e ispirata
alla vicina pieve di S. Polo, di patronato della famiglia 609. Se in alcune realtà, come quella senese, il fenomeno del recupero, o della
persistenza, di un filone gotico in epoca rinascimentale e barocca,
è abbastanza documentato, certo è che per il Chianti, almeno allo
stato attuale degli studi, quello di Avenano sembra un caso alquanto singolare, anche perché non siamo in presenza della sporadica riproposizione di qualche elemento arcaico ma della ricostruzione di un intero edificio in forme medievali. Diverso è il caso di
S. Ansano a Dofana, di cui tratteremo successivamente, il quale,
essendo vicinissimo a Siena, è senz’altro collegabile con l’architettura di questa città, come testimoniano anche l’uso del laterizio e
i caratteri formali dell’edificio. Per quanto riguarda Avenano l’importanza dell’ipotesi proposta meriterebbe, tuttavia, un’attenta verifica attraverso un ulteriore esame delle strutture poiché le basi
documentarie sono piuttosto generiche e non è da escludere che
non si sia trattato di una deliberata invenzione “neogotica”, bensì
della ricostruzione, anche consistente, di alcune parti dell’edificio,
ripristinato sulla base delle forme e delle strutture gotiche preesistenti 610. In tal caso verrebbe in parte ridimensionata la portata
simbolica della scelta medievalistica del committente, per quanto
rimarrebbe comunque significativa la volontà di conservare le
strutture medievali e la decisione di non approfittare dell’occasione
per ammodernare l’edificio. Le fonti documentarie note non offrono indicazioni dettagliate: sostanzialmente sappiamo che nel
1508 la chiesa era “semidiruta” e che nel 1556, in occasione della
visita pastorale del vescovo Camaiani, risultava “quasi de novo
constructa” 611. Inoltre da un rapido esame delle murature esterne
emergono chiaramente più fasi costruttive (l’interno è del tutto intonacato). Con una datazione trecentesca, del resto, potrebbero
4 – Architettura gotica (fine XIII-XV secolo)
Uno dei casi più significativi di interventi gotici su preesistenti
strutture romaniche è quello della pieve di S. Polo in Rosso, nel
comune di Gaiole. Ad un impianto romanico a tre navate, spartite
da archi a tutto sesto su pilastri quadrangolari, nel XIV secolo
venne aggiunta una copertura gotica, costituita da volte a crociera
costolonate impostate su archi trasversi sestiacuti e su semipilastri
addossati alle pareti perimetrali e ai pilastri romanici. I costoloni
sono di sezione semicircolare e i fasci di nervature si interrompono
all’altezza dei capitelli. Questi ultimi, alquanto depressi, sono ornati con semplici modanature, motivi vegetali molto stilizzati e teste umane 604. La presenza di affreschi databili tra la fine del quarto
e l’inizio del quinto decennio del Trecento, costituisce un termine
ante quem per la datazione della copertura 605. Al basso Medioevo
Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 176.
PAGLIAI, 1909, nn. 4, 263.
608 Ibidem, n. 377; GUIDI, 1932, p. 48; GIUSTI, GUIDI, 1942, p. 63.
609 STOPANI, 1989b; ROMBY, 1989.
610 La possibilità che le attuali strutture della chiesa siano state in parte condizionate
dall’edificio preesistente non viene esclusa dalla ROMBY, 1989, p. 30.
611 Per le indicazioni archivistiche si veda ancora ROMBY, 1989 e STOPANI, 1989b.
606
Cfr. MORETTI, STOPANI, 1966, pp. 126-129.
601 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 47.
602 Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 51, 229.
603 Vedi Schedario topografico, F.113 I, n. 4.
604 Cfr. MORETTI, STOPANI, 1966, pp. 43-49; MORETTI, STOPANI, 1969a, pp. 77-79.
605 PERKINS, 1933.
600
607
419
concordare i caratteri di alcune parti del rivestimento murario,
come ad esempio quello della scarsella e delle testate delle navatalle, a corsi sub-orizzontali di piccole bozze di alberese e grossi
conci negli spigoli (richiama il paramento della Certosa di Pontignano). In corrispondenza di tali strutture si aprono tre finestre di
forme gotiche: quella della scarsella sostituita prima da un occhio
e poi da un’apertura quadrata, quelle laterali perfettamente integre. Queste ultime sono molto simili alle due finestre gotiche inserite nell’abside e nella testata della navata sinistra della pieve di
Spaltenna: nella forma (sesto acuto con archetto trilobo), nel materiale (arenaria), nella rifinitura dei conci (subbia o picconcello e
scalpello per il nastrino) e nella struttura degli stipiti (a conci alternatamente disposti in senso verticale e orizzontale).
Alla metà del XIV secolo risale la fondazione di un’importante comunità monastica, la Certosa di Pontignano 612, situata nel comune di Castelnuovo. La fondazione, che seguì di pochi anni
quella di altri due monasteri certosini senesi, Maggiano e Belriguardo, avvenne nel 1343 per volontà di Bindo Petroni, il quale
affidò l’opera a un certosino di Aquitania 613. Fin dai primi anni il
monastero acquisì notevoli beni patrimoniali, sia per le donazioni
dello stesso fondatore che per quelle di altri fedeli, soprattutto
dopo la grande peste del 1348. L’attuale chiesa è costituita da
un’aula rettangolare coperta con volte impostate su archi trasversi
a sesto acuto. Al di sopra si sviluppa un altro ambiente, forse in
origine destinato ad archivio, formato dalla prosecuzione dei muri
perimetrali, tanto che all’esterno l’edificio si presenta come un
corpo unico, di eccezionale altezza, a pianta rettangolare e coperto
con un tetto a due spioventi. Circa l’evoluzione della chiesa sono
ben visibili, nelle murature esterne, almeno due grandi fasi costruttive. Della prima si conserva la facciata di un edificio molto
più piccolo, caratterizzato da un tetto a due spioventi e da un accuratissimo paramento murario a corsi orizzontali e paralleli di
conci di alberese. La seconda consiste nell’ampliameno e nel rialzamento di tale chiesa, realizzato con una tecnica muraria a corsi
sub-orizzontali di piccole bozze sommariamente lavorate di alberese e conci nelle angolate e nelle aperture (fig. 124). La prima fase
dovrebbe costituire la chiesa originaria, corrispondente alla fondazione, per quanto l’accuratezza della tecnica muraria sia più comune alle realizzazioni del XII-XIII secolo che non all’edilizia trecentesca. La seconda fase, quella relativa all’ampliamento, viene assegnata dal Merlotti alla fine del Cinquecento e viene messa in
relazione con una serie di lavori che riguardarono l’intero complesso edilizio e che portarono al completo rifacimento della decorazione e dell’arredo interno della chiesa, tanto che nell’anno 1607
questa venne riconsacrata 614. In particolare il Merlotti indica
l’anno 1588 per la costruzione del campanile e l’anno 1590 per
l’edificazione della “nuova chiesa”. Tali datazioni sono però contraddette dal rapporto stratigrafico tra il campanile e la chiesa
stessa. Il primo infatti si appoggia, anche nella zona più elevata, al
fianco destro di quest’ultima, tanto da tamponare parzialmente
una delle quattro finestre che in origine si aprivano nell’ambiente
soprastante le volte. L’ampliamento della chiesa è quindi anteriore
ai lavori della seconda metà del Cinquecento. Del resto i caratteri
formali e strutturali dell’edificio non sono in contrasto con una da-
Fig. 124 – Certosa di Pontignano-Castelnuovo Berardenga; particolare della facciata
tazione tardo-trecentesca o quattrocentesca: l’ampiezza delle superfici murarie esterne, assolutamente prive di elementi decorativi;
la tecnica muraria a corsi sub-orizzontali di piccole bozze di alberese e conci nelle angolate (tra l’altro diversa dalla tecnica del campanile, più irregolare e ricca di laterizi); la presenza, lungo i fianchi, di cornici in travertino (o alberese?) semplicemente sgusciate,
diffusissime nell’architettura gotica senese (a meno che non si tratti
di un recente restauro); la presenza di dodici finestre, tamponate,
con archi a sesto ribassato, tutte in alberese (al contrario delle modanature rinascimentali della Certosa, dove prevale l’uso del laterizio e della pietra serena) 615. In conclusione è possibile che l’edificio abbia raggiunto le dimensioni attuali già in epoca gotica, alla
fine del Trecento o nel XV secolo, quando sappiamo che a seguito
di ingenti donazioni vennero fatti altri importanti lavori al complesso monastico, comunque anteriormente alla costruzione del
campanile e alla sistemazione tardo-cinquecentesca dell’interno
della chiesa.
Di complessa interpretazione, anche in questo caso per problemi
cronologici, sono le strutture in laterizi della cappella ottagonale di
S. Ansano a Dofana. Della parte inferiore dell’edificio, in pietra,
ho già parlato nell’architettura pre e protoromanica. Il resto della
cappella consiste in un completo rifacimento in laterizi di tutto il
corpo superiore e di gran parte della scarsella. Tali strutture sono
caratterizzate da tre finestre circolari, con modanature a sgusci e
tondini e cornice esterna a zig-zag, e da un coronamento, in aggetto, formato da mensole in cotto sgusciate e da filari alterni di
mattoni disposti per fascia e per spigolo (fig. 125). Si tratta di motivi abbastanza diffusi nell’architettura religiosa in laterizi tardo-romanica e gotica, almeno a partire dal XIII secolo 616. Alcune notizie tuttavia sembrano posticipare notevolmente la sua datazione:
nel 1504 la cappella sarebbe stata quasi in rovina e nel 1507-08, il
vescovo di Arezzo avrebbe dato il permesso di riedificarla 617. A
parte l’attribuzione ottocentesca a Baldassarre Peruzzi, che non riLe cornici del campanile sono in cotto e in pietra serena; solo in un tratto si ritrova la stessa cornice della chiesa, forse frutto del reimpiego dei pezzi eliminati nel
punto in cui è stato inserito il campanile. Che le modanature in cotto, presenti pure
nel coronamento della facciata e della parete terminale, appartengano a un intervento successivo, è dimostrato anche dall’occhio, in laterizi, situato nella facciata
stessa, il quale taglia una delle due finestre originarie, in alberese.
616 Cfr. SALMI, 1927, p. 53, n. 58; MORETTI, STOPANI, 1981, pp. 67, 73, n. 35.
617 ALBERGOTTI, Memorie, cc. 445-447; REPETTI, II, p. 15; ROMAGNOLI, 1835,
pp. 32-33.
615
Vedi Schedario topografico, F.113 II, n. 32.
Per le notizie storiche e per una trattazione complessiva della Certosa di Pontignano si veda ROTUNDO, 1990 e ROTUNDO, 1991, con ampia bibliografia.
614 MERLOTTI, 1881, cc. 126-129. Cfr. pure REPETTI, I, p. 674, il quale assegna il
rifacimento ai primi del XVII secolo.
612
613
420
Fig. 128sono
– Badia
a Coltibuono-Gaiole
in Chianti;
del fiancostrumento
sinistro.
conci
accuratamente
spianati
conparticolare
un ascettino,
molto diffuso nell’edilizia medievale 624. Nel caso della Badia Berardenga sono pure riquadrati a nastrino con uno scalpello. Un filare di bugne è inserito nel basamento della torre campanaria di
Coltibuono. Altre bugne sono saltuariamente impiegate nelle angolate del campanile della pieve di Spaltenna.
Nell’architettura gotica continua l’impiego diffuso dell’alberese,
accanto al quale troviamo talvolta l’arenaria, utilizzata in particolari elementi, come nelle monofore a sesto acuto di Spaltenna e di
Avenano e nella lapide del campanile di S. Agnese. Non mancano
tuttavia anche chiese dove l’arenaria è impiegata come principale
componente del paramento murario. Nella chiesa di San Lorenzo
a Volpaia, ad esempio, il rivestimento è prevalentemente in arenaria e la presenza dell’alberese è dovuta al reimpiego di conci provenienti da un più antico edificio. Vi è poi il caso, tutto particolare anche per i problemi di datazione, della cappella di Dofana, in
cui l’uso generalizzato del laterizio è da collegarsi all’architettura
urbana di Siena.
In generale l’edilizia religiosa gotica sembra caratterizzata dall’abbandono dell’accuratezza della tecnica muraria romanica.
Chiese come S. Pietro a Pontignano (seconda fase), S. Pietro in
Avenano (fase presumibilmente più antica) (fig. 130), S. Pietro a
Fig.
127 – S. Ansano
a Dofana-Castelnuovo
Berardenga;
particolare
cappella.
Nell’edilizia
religiosa
del XII-XIII secolo
abbastanza
rarodella
è l’impiego
di pietra calcarea, tra l’altro mista con l’alberese (chiesa di Guistrigona e canonica di Rencine). Altrettanto rara è l’arenaria, anch’essa
mista con l’alberese (canonica di Mello), magari impiegata in percentale minima, come nelle abbazie di Montemuro e Coltibuono, e
spesso utilizzata, per la facile lavorabilità, esclusivamente per la realizzazione di particolari elementi architettonici (i capitelli e le colonne della pieve di S. Maria Novella, i capitelli – scomparsi – dell’abbazia di Montemuro, le mensole gradonate della chiesa di Montemaione, l’architrave e l’arco dentato del portale della chiesa di
Grignano, alcune cornici e archi di monofore e portali della Badia
Berardenga ecc.). Rarissimo è pure il laterizio. Del resto non esistono
nei quattro comuni analizzati, edifici religiosi medievali interamente
in mattoni. Filari di laterizi alternati a corsi di alberese si trovano
nella testata destra del transetto di Abbadia a Monastero, mentre
nella chiesa, ridotta allo stato di rudere, di S. Stefano a Cerreto, i
mattoni sono impiegati negli stipiti della monofora absidale,
nell’arco ribassato del fianco destro e, alternati a conci di alberese,
negli stipiti dello stesso portale e in quelli del portale di facciata. Alcuni di essi sono rifiniti con rigature oblique, secondo una pratica alquanto diffusa nell’architettura medievale dell’Italia centro-settentrionale, presente anche nell’edilizia urbana senese 623. Ma il materiale che svolge un ruolo quasi esclusivo nel periodo romanico e che,
con la sua diffusione generalizzata, contribuisce non poco a uniformare i caratteri dell’architettura chiantigiana, è l’alberese, impiegato,
anche nello stesso edificio, nelle sue varie tonalità, dal bianco al
giallo e al cinerino. Talvolta tali accostamenti producono, come
nella parte inferiore dell’abside della pieve di Spaltenna, magari inconsciamente, singolari effetti di bicromia.
Per quanto riguarda la tecnica muraria gli edifici romanici presentano generalmente un’apparecchiatura a corsi orizzontali e paralleli di conci squadrati. In molti casi, nelle chiese minori, la finitura
dei materiali non raggiunge quella perfezione che invece caratterizza molte chiese romaniche, anche di modeste dimensioni, di altre aree della campagna toscana (specialmente i conci di alberese
tendono spesso ad assumere una superficie “a scaglie”, non spianata). Una maggiore accuratezza nella rifinitura si raggiunge comunque nelle fabbriche più importanti come, ad esempio, nella
chiesa della Badia Berardenga e nella torre e nel paramento esterno
della parte absidale della Badia di Coltibuono (fig. 129), dove i
Fig. 129 – Badia a Coltibuono-Gaiole in Chianti; particolare della torre campanaria.
Cfr. GABBRIELLI, PARENTI, 1992, p. 32, e le relative indicazioni bibliografiche,
alle quali si può aggiungere RAUTY, 1987, pp. 147-148. Per alcuni esempi senesi
vedi GABBRIELLI, 1991, pp. 142-145.
623
624
Per la diffusione dell’ascettino in alcune aree della Toscana si veda BIANCHI, PA1991. Circa il suo impiego a livello europeo cfr. BESSAC, 1986, pp. 58-59.
RENTI,
422
Fig. 128sono
– Badia
a Coltibuono-Gaiole
in Chianti;
del fiancostrumento
sinistro.
conci
accuratamente
spianati
conparticolare
un ascettino,
molto diffuso nell’edilizia medievale 624. Nel caso della Badia Berardenga sono pure riquadrati a nastrino con uno scalpello. Un filare di bugne è inserito nel basamento della torre campanaria di
Coltibuono. Altre bugne sono saltuariamente impiegate nelle angolate del campanile della pieve di Spaltenna.
Nell’architettura gotica continua l’impiego diffuso dell’alberese,
accanto al quale troviamo talvolta l’arenaria, utilizzata in particolari elementi, come nelle monofore a sesto acuto di Spaltenna e di
Avenano e nella lapide del campanile di S. Agnese. Non mancano
tuttavia anche chiese dove l’arenaria è impiegata come principale
componente del paramento murario. Nella chiesa di San Lorenzo
a Volpaia, ad esempio, il rivestimento è prevalentemente in arenaria e la presenza dell’alberese è dovuta al reimpiego di conci provenienti da un più antico edificio. Vi è poi il caso, tutto particolare anche per i problemi di datazione, della cappella di Dofana, in
cui l’uso generalizzato del laterizio è da collegarsi all’architettura
urbana di Siena.
In generale l’edilizia religiosa gotica sembra caratterizzata dall’abbandono dell’accuratezza della tecnica muraria romanica.
Chiese come S. Pietro a Pontignano (seconda fase), S. Pietro in
Avenano (fase presumibilmente più antica) (fig. 130), S. Pietro a
Fig.
127 – S. Ansano
a Dofana-Castelnuovo
Berardenga;
particolare
cappella.
Nell’edilizia
religiosa
del XII-XIII secolo
abbastanza
rarodella
è l’impiego
di pietra calcarea, tra l’altro mista con l’alberese (chiesa di Guistrigona e canonica di Rencine). Altrettanto rara è l’arenaria, anch’essa
mista con l’alberese (canonica di Mello), magari impiegata in percentale minima, come nelle abbazie di Montemuro e Coltibuono, e
spesso utilizzata, per la facile lavorabilità, esclusivamente per la realizzazione di particolari elementi architettonici (i capitelli e le colonne della pieve di S. Maria Novella, i capitelli – scomparsi – dell’abbazia di Montemuro, le mensole gradonate della chiesa di Montemaione, l’architrave e l’arco dentato del portale della chiesa di
Grignano, alcune cornici e archi di monofore e portali della Badia
Berardenga ecc.). Rarissimo è pure il laterizio. Del resto non esistono
nei quattro comuni analizzati, edifici religiosi medievali interamente
in mattoni. Filari di laterizi alternati a corsi di alberese si trovano
nella testata destra del transetto di Abbadia a Monastero, mentre
nella chiesa, ridotta allo stato di rudere, di S. Stefano a Cerreto, i
mattoni sono impiegati negli stipiti della monofora absidale,
nell’arco ribassato del fianco destro e, alternati a conci di alberese,
negli stipiti dello stesso portale e in quelli del portale di facciata. Alcuni di essi sono rifiniti con rigature oblique, secondo una pratica alquanto diffusa nell’architettura medievale dell’Italia centro-settentrionale, presente anche nell’edilizia urbana senese 623. Ma il materiale che svolge un ruolo quasi esclusivo nel periodo romanico e che,
con la sua diffusione generalizzata, contribuisce non poco a uniformare i caratteri dell’architettura chiantigiana, è l’alberese, impiegato,
anche nello stesso edificio, nelle sue varie tonalità, dal bianco al
giallo e al cinerino. Talvolta tali accostamenti producono, come
nella parte inferiore dell’abside della pieve di Spaltenna, magari inconsciamente, singolari effetti di bicromia.
Per quanto riguarda la tecnica muraria gli edifici romanici presentano generalmente un’apparecchiatura a corsi orizzontali e paralleli di conci squadrati. In molti casi, nelle chiese minori, la finitura
dei materiali non raggiunge quella perfezione che invece caratterizza molte chiese romaniche, anche di modeste dimensioni, di altre aree della campagna toscana (specialmente i conci di alberese
tendono spesso ad assumere una superficie “a scaglie”, non spianata). Una maggiore accuratezza nella rifinitura si raggiunge comunque nelle fabbriche più importanti come, ad esempio, nella
chiesa della Badia Berardenga e nella torre e nel paramento esterno
della parte absidale della Badia di Coltibuono (fig. 129), dove i
Fig. 129 – Badia a Coltibuono-Gaiole in Chianti; particolare della torre campanaria.
Cfr. GABBRIELLI, PARENTI, 1992, p. 32, e le relative indicazioni bibliografiche,
alle quali si può aggiungere RAUTY, 1987, pp. 147-148. Per alcuni esempi senesi
vedi GABBRIELLI, 1991, pp. 142-145.
623
624
Per la diffusione dell’ascettino in alcune aree della Toscana si veda BIANCHI, PA1991. Circa il suo impiego a livello europeo cfr. BESSAC, 1986, pp. 58-59.
RENTI,
422
625, S.particolare
Fig.
130 – S. Pietro
in Avenano-Gaiole
in Chianti;
dellaalla
parete
terminaleS.
sinistra.
Lucarelli,
S. Martino
a Lecchi
Michele
Leccia,
Lo-
Fig. 132 – Spaltenna-Gaiole in Chianti; concio con rifinitura a spina di pesce
renzo a Volpaia, “il Romito” di S. Francesco, presentano, con diversi gradi di irregolarità, un rivestimento costituito da pietre
grezze o bozze sommariamente squadrate, e conci nelle angolate.
Un caso particolarmente evidente è quello della pieve di S. Polo
in Rosso, realizzata intorno al XII secolo con un regolare paramento a conci di alberese (fig. 131) e successivamente soprelevata e fortificata con strutture a corsi sub-orizzontali di piccole
bozze sommariamente lavorate miste a conci di reimpiego.
Un’eccezione è invece costituita dalla parte inferiore della torre
campanaria della pieve di S. Agnese, a regolari conci di alberese,
dove si trova, ben inserita tra i filari del paramento, un’epigrafe
trecentesca che, qualora si dimostrasse coeva alla muratura in cui
è situata, costituirebbe la testimonianza del proseguimento, anche nel XIV secolo inoltrato, di una tecnica muraria tipica del
periodo romanico. Ipotesi che potrebbe trovare una conferma
nell’accuratissimo paramento della facciata della prima chiesa
della Certosa di Pontignano, fondata intorno alla metà del Trecento. È comunque da segnalare che il processo “involutivo” del
rivestimento murario gotico non sembra interessare alcuni elementi architettonici, in particolare le angolate, i portali e le finestre, i quali continuano a essere realizzati con grande accuratezza.
Si vedano, ad esempio, le monofore sestiacute della pieve di Ave-
nano – però di controversa datazione – e quelle della pieve di
Spaltenna, con i conci perfettamente rifiniti per mezzo di una
subbia a punta fine o di un picconcello, altri strumenti molto
diffusi nel Medioevo 626. E altrettanto accurata è la lavorazione
dei resti del portale della ex facciata di S. Martino a Lecchi, così
come doveva essere in origine quella del portale e dell’occhio
della facciata della chiesa di S. Lorenzo a Volpaia, adesso alquanto deteriorati.
Tra i materiali utilizzati almeno un rapido accenno merita il reimpiego di elementi architettonici classici, una pratica che nel
Chianti trova alcuni casi tutt’altro che trascurabili. Il più eclatante
è quello dalla pieve di S. Marcellino. Nella controfacciata dell’attuale chiesa, completamente riedificata nell’Ottocento, sono infatti
reimpiegati due capitelli e sei colonne di marmi pregiati di epoca
romana, già presenti, come ci informa il Repetti, nell’edificio precedente alla ricostruzione 627. Altre due colonne e sei capitelli si
trovano all’interno della casa canonicale e nelle immediate vicinanze. Colonne e basi romane sono state reimpiegate nella cripta
della Badia Berardenga, secondo una pratica ampiamente diffusa
nelle cripte italiane pre e protoromaniche 628. Due fusti di colonne,
infine, sono stati riutilizzati nella pieve di S. Felice, ricostruita nei
primi del Novecento 629.
A conclusione di questo intervento intendo segnalare la presenza di
due conci nei quali il trattamento della superficie, pur essendo realizzato con le normali tecniche di rifinitura dei paramenti murari,
assume caratteristiche tali da suscitare interrogativi sulla sua funzione. Il primo, coevo al circostante paramento murario, è situato in
un lato esterno della torre campanaria romanica della pieve di S.
Agnese (fig. 132). Si tratta di un concio di alberese rettangolare, ben
squadrato e interamente rifinito nella superficie con una lavorazione
a spina di pesce, ottenuta tramite due diverse inclinazioni dello strumento utilizzato. L’unicità del pezzo e la regolarità con la quale sono
Fig. 131 – S. Polo in Rosso-Gaiole in Chianti; particolare del fianco destro.
625
626 Per la loro diffusione in Toscana e in Europa vedi BIANCHI, PARENTI, 1991 e
BESSAC, 1986, p. 114. Alcuni caratteri delle murature delle chiese gotiche chiantigiane (ritorno a rivestimenti murari poco regolari ma accuratezza nella realizzazione
degli elementi architettonici) sono stati riscontrati anche in altre aree della Toscana,
come nell’Aretino e nell’Amiata (cfr. GABBRIELLI, 1990a, pp. 96, 132, n. 190, e
GABBRIELLI, 1990b, pp. 148-149, 153-154).
627 REPETTI, I, pp. 171-173.
628 Per la diffusione dei materiali di reimpiego nelle cripte del X-XI secolo vedi KUBACH, 1978, pp. 54-55.
629 Secondo lo STOPANI, 1987a, p. 11, n. 9, le due colonne proverrebbero dalla
pieve di S. Marcellino.
Vedi Schedario topografico, F.113 II, nn. 112, 189; F.113 I, n. 36.
423
europee 630. Il secondo concio, questa volta di reimpiego, si trova in
un tratto rimaneggiato dell’edificio perpendicolare alla facciata della
chiesa abbaziale di Coltibuono (fig. 133). Anche in questo caso si
tratta di un concio di alberese rettangolare e ben squadrato, ma diversa è la rifinitura della superficie, formante una scacchiera a venticinque riquadri ottenuta attraverso l’impiego di due diversi strumenti, forse la subbia e l’ascettino (la notevole altezza non consente
una sicura identificazione). In entrambi i casi è difficile pensare a un
intento decorativo dato che senza un’accurata osservazione dell’edificio i due conci passano del tutto inosservati.
Fig. 133 – Badia a Coltibuono-Gaiole in Chianti; concio con rifinitura a scacchi
Ad esempio in alcune chiese dell’Alvernia, del Limosino e della Provenza (OUR1986, p. 157). A questa potrebbe essere assimilato, ma anche in questo caso si
tratta di un pezzo unico, un concio situato nel fianco destro della pieve di Spaltenna, dove le rigature a spina di pesce, realizzate con un ascettino, sono molto più
irregolari.
630
SEL,
state realizzate le rigature, ripetute otto volte in senso orizzontale,
escludono che possa trattarsi di una raffinata ma “normale” tecnica
di rifinitura delle pietre, del tipo di quella registrata in alcune aree
424