Un ritratto di Francesco Biamonti
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Un ritratto di Francesco Biamonti
24 24-27 Biamonti - Testa.indd 24 23/01/15 10.34 arte e cultura un ritratto di francesco biamonti di Enrico Testa I l mare, il sentimento della solitudine, l’attesa montaliana dei cenni di una trascendenza intermittente e precaria che fa la sua comparsa simile ad un brillio sulla disastrosa distesa del nulla, la coscienza dell’uomo come «l’essere delle lontananze»2 e, perfino, un segno, con il richiamo di suoni tra «faro» e Il «romanzo-paesaggio» «lontano», delle peculiarità ritmiche e poetiche della sua prosa. Di quest’ultimo aspetto, la «naturale «Lo scrittore oggi non può propensione per i toni lirici e sospesi»3, si accorse, che fare il guardiano oltre che di tanto altro, Italo Calvino quando pubdel faro, aspettare blicò nella collana einaudiana dei “Nuovi Coralli” anch’egli un messaggio che L’angelo di Avrigue, il libro dell’esordio narrativo di può venire da lontano». In Biamonti. Era il 1983 e si tratta dunque, contrariaqueste parole, pronunciate mente ai correnti costumi editoriali, di un esordio alla presentazione piuttosto tardivo, essendo Biamonti nato a San Biadi un suo libro nel 1988, gio della Cima nel 1928. All’Angelo di Avrigue sec’è la sintesi – quasi un guiranno poi, sempre da Einaudi, altri tre romanzi: sigillo – della scrittura Vento largo nel 1991, Attesa sul mare nel 1994 e Le narrativa di Francesco parole la notte nel 19984. Biamonti o almeno di alcuni Differenziandosi pure in questo dalla disinvoltura dei suoi nuclei essenziali1. esibizionistica di tanti narratori d’oggi (pronti ad offrire al pubblico anche i più minuti particolari delle loro giornate), Biamonti non ha mai amato parlare molto di sé e della sua vita (i terreni a San Biagio, i viaggi, i rapporti con i pittori, il lavoro da bibliotecario all’Aprosiana di Ventimiglia) e ha opposto alla curiosità degli interlocutori solo scabre notizie o addirittura scarti laterali e recisi come questo: «Mi piace non dire niente. Io sono da cancellare. La mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante. Si fa della letteratura perché non si è contenti della propria vita»5. Se i fatti dell’esistenza sono pur sempre, per un narratore o un poeta, dei dati accidentali da cui germinano poi, nel terreno dell’invenzione, forme, ossessioni o trasfigurate allucinazioni consegnate alle qualità della scrittura, è però difficile negare l’importanza 25 24-27 Biamonti - Testa.indd 25 23/01/15 10.34 vale quasi da straziata musica dell’universo): «Gregorio [ … ] salì ai bordi del ritano. Gli ulivi erano sempre più scarni, di una bellezza quasi minerale, mano a mano che saliva. Sul crinale le ramosissime e spinose calycotome: vi affiorava la roccia e non vi cresceva altro che quel rigido arbusto. Su quegli spini s’era arenato un gabbiano con le ali larghe. Si avvicinò a guardarlo. Le palpebre erano incartapecorite, orlate di piume gialle di pianto, le zampe rigide, il becco aperto in uno dei suoi gridi gutturali e soffocati. Era stecchito e insieme al ramo spinoso faceva da chitarra nell’aria che tirava, un suono rauco e lontano». Tra pietà e disastro del paesaggio in un autore come Biamonti: la realtà concreta dell’estrema Liguria di ponente, tra mare ed entroterra, al confine con la Francia. Al punto che sempre Calvino usò per L’angelo di Avrigue la categoria di «romanzo-paesaggio». Si tratta però, fuori da ogni facile documentarismo, di una geografia ora esatta ora inventata, sempre sul punto di aprirsi nella percezione di una luce vicina alla vertigine e talvolta contigua alla morte (Vento largo inizia con «Nella luce distesa tra ulivi e solitudini di rocce arrivò il suono della campana mediana. Varì ne contò i viaggi: erano tre, era per un uomo») oppure pronta a mutarsi in uno scenario che alternativamente risponde, a seconda della nota dominante, a ragioni tanto storiche, antropologiche e sociali, quanto – in una parola – metafisiche: a messaggi oscuri con cui «le potenze del dolore» si riversano sul reale6. In un intreccio in cui è difficile sciogliere i fili di una componente da quelli di un’altra, Biamonti è riuscito, raffigurando anche la violenta distruzione delle antiche travature umane e paesistiche della sua geografia, a comporre «un canto d’addio per una Liguria che entra nell’Erebo, cioè che se ne va; per una terra bella e sventurata, piena di luce e nello stesso tempo aspra e violenta»7; e, insieme, a dar conto, piegando i dati naturali al ruolo di reperti allegorici, di una sostanziale desolazione cosmica. Un esempio dall’Angelo di Avrigue (dove decisivi sono «le palpebre» del gabbiano «orlate di piume gialle di pianto» e il «suono rauco e lontano» che L’elemento ‘paesaggio’ così importante nei libri di Biamonti non deve però oscurare il loro aspetto romanzesco: sia vicende e trame (forse insoddisfacenti per gli adoratori del plot e dell’ ‘azione’) sia quanto del romanzo è il cardine: i personaggi e le loro relazioni. Ecco, in sintesi e in ordine, i protagonisti dei suoi libri: Gregorio, il marinaio tornato al paese d’origine e in attesa di un nuovo imbarco a Marsiglia; Varì, uomo di frontiera e passeur che conduce clandestini di varia etnia in Francia; Edoardo, comandante, all’ultimo viaggio, di una nave carica d’armi diretta in Bosnia; Leonardo, oggetto in principio di romanzo di un tentato omicidio, che trascorre le sue giornate nell’entroterra di Ponente (ormai travolto da criminalità e loschi traffici) e che alterna alla riflessione sul male i rapporti con un’umanità babelica e frantumata. Sono figure che rispondono, in sostanza, ad un medesimo tipo: offeso dalla vita, venato di tristezza, deluso ma non cinico, gentile, solitario, meditativo e laconico. Una caratterizzazione che, in fondo, erode e rende aperta la categoria classica (e pure, in certi casi, moderna) del personaggio8; il quale, sempre sulla soglia della sparizione, è qui esitante o, per usare le parole dell’autore, «frammentario»9, totalmente esposto al ‘fuori’, destinato ad un altrove che coincide spesso con nessun luogo. Questi aspetti dei protagonisti di Biamonti emergono tanto più nelle relazioni e nei dialoghi, incisi di pause e reticenze, che tessono con i personaggi 26 24-27 Biamonti - Testa.indd 26 23/01/15 10.34 femminili: in fuga da sé stessi o dal passato, sensuali e malinconici, sono «i più attenti e solleciti al limitare di passaggio tra vita e morte»10. E proprio per questo le donne agiscono qui, spesso nell’alveo e nel segno di un’irrimediabile incomunicabilità, come un orizzonte mutabile e straniante sulla sorte del protagonista, indebolendone ogni presunta monotonia e rendendolo sempre più sensibile a quanto si estende al di fuori dei suoi confini, fisici e psichici. A proposito della Veronique de Le parole la notte Biamonti ha scritto: «Veronique ogni tanto è viaggio, ogni tanto è sogno, ogni tanto è riposo, ogni tanto è terra, ogni tanto invece è morte, e c’è questa oscillazione continua anche verso l’inutilità, che poi diventa solo conciliazione con l’eternità della morte»11. Un’«oscillazione continua» resa attraverso uno stile unico, in cui essenzialità, ricorrenza metaforica e moduli della ripetizione creano una scansione ritmica assai vicina a quella di Casa d’altri, il capolavoro di Silvio D’Arzo12; e che, sul piano tematico, coincide in ultima analisi, proprio per la sua pendolarità tra gli opposti, con il fondamento d’enigma della condizione umana. Se tutti i romanzi di valore insegnano comunque qualcosa ai loro lettori (anche e tanto meglio se preterintenzionalmente e senza didascalismi), l’opera costituita dai quattro libri di Biamonti adempie a questo compito in una duplice maniera: da un lato, offre una conoscenza, minima e quasi diafana, del mistero e delle contraddizioni dell’esistenza; e, dall’altro, rivolge a chi scorre le sue pagine, una sorta di invito sottovoce. Un invito alla pietà. L’autore e i suoi ‘eroi’ così poco eroici, non s’impancano mai a giudici delle figure via via incontrate. Slavine di errori senza rimedio, passi falsi, eccessi patiti o interpretati, vite monche o fuori squadra, sperdimenti o fughe stanno tutti gli uni accanto agli altri con gli stessi diritti; e senza divenire mai oggetto di sentenza (e neppure occasione di stereotipati compiacimenti ‘trasgressivi’). Quasi che alla rovina contemporanea e alle sue vittime non si potesse opporre o, meglio, riservare nient’altro che la pietà. Forse la clemenza universale è rimasta l’unica risposta al disastro del tempo. E l’unica eco ormai percepibile del remoto orizzonte dell’eternità, di quella patria il cui suolo nessuno ancora ha mai calpestato13. Note 1 La trascrizione di questo intervento è in F. Biamonti, Scritti e parlati. A cura di G. L. Picconi e F. Cappelletti. Prefazione di S. Givone, Torino, Einaudi 2008 (citazione da p. 97); una preziosa raccolta di testi scritti dispersi, editi o inediti, e di trascrizioni di varie comunicazioni orali (da qui in avanti citata come Scritti e parlati). 2 In Scritti e parlati, p. 29. 3 Così Calvino nella quarta di copertina della prima edizione einaudiana de L’angelo di Avrigue. 4 A cui vanno aggiunte le ventinove cartelle del postumo e incompiuto Il silenzio (stampato da Einaudi nel 2003, due anni dopo la morte dell’autore nel 2001). 5 Intervista, in P. Mallone, “Il paesaggio è una compensazione”. Itinerario a Biamonti, Genova, De Ferrari 2001, p. 51. 6 Citazione dalla Prefazione di S. Givone a Scritti e parlati, p. VIII; uno dei saggi più belli apparsi su Biamonti. 7 In Scritti e parlati, p. 80. 8 Sui personaggi di Biamonti si rimanda a G. Ficara, Francesco e la via difficile, in A. Aveto e F. Merlanti, a cura di, Francesco Biamonti le parole, il silenzio, Genova, il melangolo 2005, pp. 17-22. 9 In Scritti e parlati, p. 81. 10 S. Costa, Naufragio con spettatore: frontiera, mito, identità, in Francesco Biamonti le parole, il silenzio, cit., p. 95. 11 In Scritti e parlati, p. 229. 12 Uno scrittore amato da Biamonti. Si veda in Scritti e parlati: «D’Arzo è il prosatore italiano più puro e segreto di questo secolo» p. 55. 13 Su questo possibile tipo di risposta hanno scritto pagine fondamentali, su sponde e per effetto di motivazioni diverse, due tra gli autori più importanti del Novecento: Iosif Brodskij, quando, assumendo la prospettiva della vittima e rovesciando dalla sua parte l’esercizio della clemenza, parla della necessità di sminuire «le pretese del male con una condiscendenza pressoché illimitata che svaluta il danno» e che consente alla vittima la speranza di «essere più inventiva, più originale nel suo modo di pensare, più intraprendente del malvagio» (in Il canto del pendolo, Milano, Adelphi 1987, pp. 17-19); e Winfried G. Sebald, quando, a partire da Hebel, elabora la visione di una «condivisione fraterna» inscritta nel miraggio della «remota terra promessa dell’umanità» (in Soggiorno in una casa di campagna, Milano, Adelphi 2012, pp. 24-25; da qui pure le suggestioni che improntano la chiusura nel nostro discorso). 27 24-27 Biamonti - Testa.indd 27 23/01/15 10.34