Ciao Chanel,Oggi la giornata dedicata ai bambini
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Ciao Chanel,Oggi la giornata dedicata ai bambini
Ciao Chanel Oggi non vi racconterò delle mie letture preferite. Oggi vi racconterò una storia triste ma che serve a sorridere alla vita. Prima di decidere se parlarne o meno sul blog ci ho messo un po’. Ma, come già qualche volta vi ho detto, il blog è per me un diario. Un diario dove si annotano le cose belle ma anche, purtroppo, quelle brutte, nell’illusione che la condivisione in qualche modo possa rendere meno pesante il dolore. Ho perso un’amica. Anzi, a dirla tutta, in una settimana ho perso anche altre due persone care. Tutte e tre hanno lasciato un segno nella mia vita e tutte se ne sono andate troppo presto. Quanti pensieri in questi giorni mi hanno riempito la mente e quanto vuoto ho sentito dentro. Come se mi avessero all’improvviso svuotata di tutto, persino delle lacrime. In questi momenti di dolore mi sono chiesta il senso di tutto, persino di un blog che all’improvviso mi è sembrato un mero esercizio di stile. Ha senso scrivere? Chi sono io per dare consigli? Perché dovrebbero leggere le mie parole le altre mamme, cosa so fare di così perfetto o utile, o diverso dalle altre per fare la differenza? Nulla aveva senso. La sera in cui Roberta se ne è andata, Claudia, una delle mie BirbaMamme, una delle mamme che collabora alla riuscita di questo blog mi aveva scritto per scusarsi della sua “assenza”, perché, mi diceva, sentiva che ciò che aveva da dire era inutile. E nel risponderle, sfogando con lei e con le altre in una chat privata la mia disperazione per la perdita della mia amica, ho trovato la risposta alle mie domande. Perché, tra i tanti pensieri, uno ha reso, se possibile, questo vuoto meno assurdo e mi ha spinta a pubblicare questo post. Ho pensato a come queste tre persone avevano vissuto. Perché ci sono quelli che scelgono di essere protagonisti, di vivere appieno la propria vita, quelli di cui tutti si ricordano, e le comparse, chi vive lasciandosi travolgere dagli eventi, chi si lascia vivere. Fabrizio, Momi e Roberta, questi i loro nomi, erano gli attori principali delle loro vite. Tre persone uniche. Momi e Fabrizio erano delle persone abbastanza conosciute a Milano, lui perchè l’inventore dei “podisiti da Marte” di un modo di correre “diverso”, per far del bene agli altri. Lei Momi, una grande giornalista, una donna bella e elegante, conosciuta per il suo stile e il suo modo impeccabile di relazionarsi, ironica come poche, sagace e sempre gentile con tutti. Roberta in molte cose le assomigliava, ma non era così nota, era una ragazza normale. Un’amica speciale. Un’amica di quelle che, tutte noi, nella vita dovremmo averne almeno una. Roberta era una donna solare, divertente, ironica, bella. Era una guerriera. Una che nella vita era abituata a combattere e che non ha mai rinunciato a farlo, nemmeno quando stava per spegnersi… Ci ha provato con tutte le sue forze a reagire, a superare ogni ostacolo e sempre, col sorriso. Nemmeno un anno fa aveva scoperto di avere un brutto male. Oltre alle infinite sofferenze che aveva già dovuto patire per via di una malattia autoimmune. Mi disse «Non so se voglio combatterlo, forse preferisco godermi ciò che mi rimane senza pensarci». Ma alla fine il suo carattere da leonessa aveva avuto il sopravvento e contro tutto e tutte le previsioni nefaste si era messa a lottare. Da grande, come sempre. Tanto che appena decise di fare la chemio mi chiese gli indirizzi per comprare una parrucca, per far sì che nessuno si preoccupasse del suo aspetto, per lottare senza essere compatita. E alla prima foto con il nuovo look mi scrisse: «Che te ne pare, figa no?» Era una di quelle persone capace di dare forza agli altri anche quando non ne aveva per sé. Portava sempre il rossetto. Anche qualche giorno prima di andarsene quando ormai era addormentata in attesa del sonno eterno in un letto d’ospedale. Aveva il rossetto sulle labbra seccate dalle medicine, un fucsia che contrastava col candore della pelle emaciata, e una manicure impeccabile, come sempre. Era la mia Roberta, anche se non era più lei. Era una persona normale, eppure così “speciale” per me e per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerla. E lei mi ha lasciato un insegnamento prezioso: forse nessuna di noi si sente speciale ma, ognuna a proprio modo, lo è. E ognuna di noi può, sempre, fare la differenza. Roberta ha lottato tanto, sempre senza perdere la sua femminilità o lasciarsi andare. E sempre senza piangersi addosso, cosa che io invece faccio anche per le sciocchezze. Anzi, è sempre stata lei a tirarmi su il morale, sempre. Non l’ho mai sentita lamentarsi. E quando proprio stava male, fingeva spudoratamente indossando un rossetto rosso e facendosi le foto da fashion blogger, quello che avrebbe voluto fare rinunciando al noioso lavoro in banca, un giorno, ma non ne ha avuto il tempo… Per noi amici lei era “Chanel” proprio per il suo stile inconfondibile. Lei mi ha sempre sostenuta, anche con BirbaMamme, anche se di figli non ne aveva. E so che mi avrebbe spronata a continuare e che ora non vorrebbe vedere musi lunghi e facce contrite. L’ho scritto a Claudia, alle mie mamme. E loro con le loro risposte mi hanno dato la conferma che tutto ha un senso. Come quella qui sotto: “E allora, da un certo punto di vista è vero… che importanza può avere un blog per noi o per le altre mamme…o che cosa possiamo dare noi come contributo che altre non possano fare meglio? Perché perdere tempo facendo qualcosa che nemmeno ci viene pagato? La risposta, secondo me, sta proprio nel nostro essere diverse e uguali nei nostri disastri quotidiani, perché nella nostra fallibilità siamo bravissime a cavarcela e anche noi riempiamo un posticino (grande o piccolo) nella vita di qualcun altro…” Oggi questo post è dedicato a una grande donna, della bellezza aveva fatto il suo motto. A lei brillare sempre. A lei che da lassù spero continui sempre, volteggiando tra le nuvole con indosso le Choo. Ciao Roby, grazie di tutto. a lei che che amava sorridere, sue Jimmy Oggi la giornata dedicata ai bambini mai nati Ho scoperto che oggi, il 15 ottobre è la “Giornata della Consapevolezza sulla Morte Infantile e sulla Perdita in Gravidanza”. Non credo fosse necessario ricordare cosa significhi la morte perinatale per una donna, ma stamattina ho letto un post di un’altra mamma e queste parole me le sono portate dentro per tutto il giorno. Poi, stasera, ho deciso di condividere i mie pensieri con voi. Io ho tre figli. I primi due però non vivono con me, hanno scelto di rimanere un po’ distanti e sono in un posto bellissimo, un asilo enorme pieno di altri bei bimbi allegri e sorridenti che fanno le capriole tra le nuvole. Hanno scelto loro, forse non si sentivano pronti per questa Terra. E così mi sono dovuta rassegnare. Certo non è stato facile salutarli, ci conoscevamo ancora così poco mentre io ero desiderosa di tenerli con me, abbracciarli, annusarli. E invece hanno preferito andarsene lassù. Ci ho sofferto un sacco, oh, quanto ci ho sofferto! Ho chiesto loro in tutti i modi di tornare ma mi dicevano: “Sta tranquilla mamma, qui stiamo bene, noi ti amiamo e non ti dimenticheremo mai”. Poi, evidentemente mi hanno visto troppo affranta e sconsolata, così hanno deciso di mandare giù un loro amichetto, uno dalle spalle forti, capace di affrontare il viaggio da lassù e resistere a questa vita sul pianeta Terra. Non me lo aspettavo più. E invece è arrivato il #Ribelle. Uno capace di entrare subito in sintonia, così empatico che non c’è stato bisogno di presentazioni, lui era già parte di me. Penso spesso ai suoi fratellini. No, non avevano un nome, ancora non eravamo così in confidenza anche se a dire il vero io avevo un sacco di nomignoli carini con cui li chiamavo. Ancora adesso quando li penso non ho bisogno di dare loro un nome. Non li ho mai nemmeno visti in faccia, ma che importa? L’amore ha forse un volto? Quei bimbi non erano pronti e rispetto la loro decisione. Però ogni tanto, mi capita di incontrare altre mamme che hanno, anche loro, i propri pargoli nel grande “asilo celeste” e allora ci raccontiamo le nostre paure, ciò che abbiamo passato, il difficile momento della separazione. Dire addio a un piccolo, a tuo figlio, anche se è ancora un semplice agglomerato di cellule non è mai facile. Alcune mamme poi hanno tenuto quei piccoli tra le braccia solo per pochi minuti e questo rende ancora più aberrante dovergli dire addio. Quelle mamme lì le riconosco sempre, sono quelle che hanno una piccola fiammella negli occhi, che quando parli con loro scopri che hanno un cuore sconfinato, enorme, immenso e con un buco nero che nessuno potrà mai riempire. Alcune sono state fortunate perchè, come me, hanno avuto un altro bimbo mandato da lassù a far loro compagnia. Altre invece restano in attesa con gli occhi al cielo e ogni volta che cade una goccia di pioggia pensano che è una lacrimuccia dei loro bimbi mai nati. A tutte quelle mamme va oggi il mio pensiero. Ciao piccolini miei, la mamma vi pensa sempre e stasera accenderà una candelina perché voi la possiate vedere da lassù! Ciao Lorenzo Torno saluto perché al mio e dire a parlare di Lorenzo Toma. A poche ore dall’ultimo a questa giovane vita. Torno a parlarne da giornalista, troppe cose sono state dette a vanvera e per rispetto mestiere, che ho sempre amato, mi piace cercare di dare la verità a chi mi legge. Ne parlo su BirbaMamme perché, anche se questo blog si occupa di bambini molto piccoli, sono loro che saranno i futuri uomini e donne di domani. E mi scuso già per chi troverà troppo personale questo post. Torno a parlarne perché qualcuno ha definito cattivi genitori il padre e la madre di Lorenzo, e come madre mi sento chiamata in causa. E come amica di questa famiglia ho il dovere di difenderla. Un ragazzo di 18 anni è morto. In discoteca. Facile pensare che fosse drogato. Poco importa se consciamente o meno. Facile dire colpa dei genitori che ce l’hanno mandato. Facile aggiungere che se sei di buona famiglia e hai i soldi per drogarti allora ti devi essere per forza drogato. Facile fare polemica sui locali notturni, i giovani allo sbando, i genitori con poco autorità nell’educazione, etc etc. In 48 ore ne ho sentite di tutti i colori. Soprattutto dai colleghi giornalisti, spesso sottopagati come me che cercano la “sensazionalità” della notizia. E vuoi mettere un morto in discoteca ad agosto? Niente di più allettante per i giornali che in questo periodo sono alla ricerca di notizie anche solo interessanti, altro che sensazionali. E così, un dolore assurdo e straziante è stato reso ancora più feroce, se mai possibile, dalle illazioni della gente, dal pressapochismo di tanti, dalle dichiarazioni (folli!) di persone che dovrebbero riportare l’equilibrio in certe situazioni e non gettare Gallipoli). Sciacalli. anatemi (come il sindaco di Lorenzo, come vi ho già scritto, era un ragazzo “normale”. Un ragazzo sano nell’accezione più globale del termine. Innamorato della sua famiglia, legatissimo al padre, alla madre, alla sorella e a i giovani zii. Non sono parole dette a caso, l’ho visto crescere e diventare pian piano adolescente. Conosco la sua famiglia da sempre, persone per bene e con valori antichi. Vincenzo, padre di Lorenzo, mio amico, è sempre stato un genitore modello, moderno e aperto. Ha cresciuto suo figlio dandogli i giusti divieti e qualche concessione. Suo figlio aveva in lui un padre ma anche un confidente e un amico. E prima di puntare il dito, forse sarebbe stato meglio attendere. Stamattina i primi risultati dell’autopsia parlano di un problema al cuore. Infarto. Lorenzo poteva morire in qualsiasi momento. Forse ha bevuto accelerando la concatenazione di eventi ma, secondo il medico legale, poteva succedere ovunque. In 48 ore i genitori sono passati da pessimi esempi a coppia sfortunata e inconsapevole della malformazione cardiaca del figlio. Questo renderà forse meno accecante il loro dolore? forse lo renderà solo più “pulito” e normale agli occhi benpensanti: poteva succedere a chiunque. O forse renderà accettabile il dramma da parte di chi i figli in discoteca ce li manda. No, dei più non Tutta questa premessa perché io per prima sono spesso precipitosa nel giudicare, nel fare assiomi infondati che, per la mia professione a volte sono doverosi (pensate a eventuali titoli: giovane muore stroncato da infarto a 18 anni. Importa forse a qualcuno? Ma se muori in discoteca, anche lasciar semplicemente supporre che ti sei drogato è già uno scoop perchè interessa tutti, potrebbe riguardare anche tuo figlio). Ma ora io sono madre e come tale ritengo doveroso difendere tutti i genitori chiamati a svolgere il compito più difficile e spesso ingrato, quello di dare regole e farle rispettare ai propri figli. Io ho avuto un’educazione rigidissima. A 18 anni mi era proibito andare in discoteca. Alla sua età io non potevo andare da nessuna parte. Ho messo piede in discoteca a 21 anni, quando vivevo lontana da casa, all’Università. Quando nelle disco già giravano droghe e fiumi di cocaina. E ho visto gente sfatta ovunque. Prima ancora, nel mio paesino, avevo visto i miei compagni di liceo morire per l’eroina. E da “grande” ho recuperato il tempo perso, sono stata al Cocoricò, all’Echoes, al Guendalina tutti quei locali oggi incriminati. La droga? C’era e c’è e c’è sempre stata. Lo sanno tutti da sempre. E se non ci stai attenta, te la piazzano nei bicchieri. Ed è ancora così, è inutile far finta di non sapere. Eppure io non mi sono mai drogata. Non perché fossi meglio o peggio degli altri. Perché più della paura di essere derisa come la scema del gruppo che rifiutava un drink o una pasticca, temevo la reazione di mio padre. Temevo che se mi avesse scoperta, anche a 30 anni, mi avrebbe dato tante di quelle botte che mi avrebbe ammazzata, temevo di star male perché già allora qualcuno ci restava secco. Ma io, oggi, vi dico che sono solo stata fortunata. E che l’educazione mi ha impedito di cedere ma potevo benissimo rimanere una vittima inconsapevole. Sono stata fortunata ad essere codarda. A non aver mai voluto provare, rischiare. Sono stata fortunata ad accontentarmi dell’euforia e a non cercare lo sballo. Sono stata fortunata. Semplicemente fortunata. Perché le cazzate, le bravate come ha scritto un dj che stimo, Maurizio Macrì, le abbiamo fatte tutti. Solo che ogni tanto qualcuno per una distrazione ci resta secco. Perché di questo stiamo parlando, non di tossici o ragazzi assuefatti alle droghe. Di ragazzini incoscienti. E Lorenzo è stato sfortunato. E allora cosa possiamo fare tutti noi? Cosa possiamo imparare da questa tragedia? Possiamo imparare ad apprezzare ogni attimo di vita dei nostri figli, cercando di educarli come meglio possiamo, e soprattutto, imparare a non giudicare mai l’operato di un genitore senza sapere, davvero, quali siano i rapporti all’interno di una famiglia. E poi possiamo chiedere più controlli a chi di dovere. Perché un ragazzo deve essere libero di divertirsi. E i genitori di mandarlo in discoteca se lo ritengono maturo abbastanza per farlo. Chiudere le discoteche non è mai servito. Perché le repressioni tout court non sono mai servite a nessuno, lo dimostra la storia. Ma limitare i danni, forse, sì. LIMITI. Ecco la parola magica. Limitare l’età di accesso, gli orari di chiusura, gli alcolici. Perché a 16 anni non sei maturo abbastanza per poter fare determinate scelte, per restare sino all’alba senza controllo fuori di casa. Non lo sei , forse, nemmeno a 18 per ritirarti dopo una nottata in disco, guidando un auto, anche se non sei drogato ma solo stanco. Controlli e prevenzione. Perché nessuno di questi giovani sa davvero cosa significhi drogarsi e forse a scuola dovrebbero insegnarglielo. Ora andrò a salutare per l’ultima volta Lorenzo. Con tutte queste emozioni di rabbia, sgomento, tristezza infinita nel cuore. Soprattutto per quel padre che non avrà più un figlio da aiutare a realizzare i sogni, per quella sorella che aveva in lui un compagno di emozioni, per quella madre il cui dolore resterà immenso, incolmabile, assurdo per sempre. Ti auguro di stare bene lassù, Lorenzo e di aiutare i tuoi cari a sopportare la tua assenza. L’elaborazione del lutto nei bambini Da dove iniziare? Forse dalla cronaca. Perché io non riesco a capacitarmi delle notizie che ho ascoltato in questi giorni. Come la morte della neonata siciliana a poche ore dalla nascita perché nessun ospedale aveva posti di terapia intensiva dove accoglierla. Non riesco a farmi una ragione che nel 2015 mandiamo la gente nello spazio, usiamo la tecnologia per costruire robot umanoidi e non siamo attrezzati per un’emergenza che poi (pare la bambina sia morta per del liquido nei polmoni) è una circostanza che accade spessissimo nei neonati e quindi prevedibile. Questa notizia ha riaperto in me una vecchia ferita. Quarantanni fa è successo un episodio simile anche nella mia famiglia. Stesso iter, clinica a pagamento, bambina in sofferenza e richiesta di accoglimento in un ospedale attrezzato. Stessa conclusione con neonata deceduta durante il trasporto. Mio padre decise di non denunciare. Io ho scoperto tutto questo che ero relativamente grande, avrò avuto forse 10 anni. Mia madre ne stava parlando con un’amica. Non mi era mai stato detto nulla direttamente. Ma… Da grande tante cose hanno assunto un significato diverso. Una bimba piccola non può avere ricordi nitidi ma, se è vero che i bambini assorbono come spugne gli stati d’animo dei genitori, non è difficile capire come potesse essere mia madre in quel periodo. E si spiega anche perché non ho mai avuto un rapporto ottimo con mio fratello, arrivato dopo questa tragedia e dopo una gravidanza di mia madre passata quasi per tutti i 9 mesi a letto. Io probabilmente quel lutto non l’ho mai davvero elaborato pur avendolo vissuto “indirettamente”. Ma sono sicura che l’ho metabolizzato in negativo. Photo courtesy of Zuhair A. Al-Traifi Questa mia esperienza personale si riallaccia a questo post nato da una richiesta di una mia amica mamma che ha perso il compagno improvvisamente quando la loro bambina aveva poco più di un anno. Mi chiedeva come fare a spiegare meglio questa assenza alla figlia che ora ha 4 anni e inizia a fare domande più insistenti. E io ho rivolto la sua domanda a un’esperta, la dottoressa Elisa Gasparotto, specializzata in Counseling familiare e dell’età evolutiva e soprattutto terapeuta certificata Grief Recovery Method ® un metodo ideato da due psicologi americani per aiutare le persone ad andare oltre la sofferenza delle perdite importanti nella vita. Elisa sarà uno dei nostri coach e cercherà di aiutarci a superare i momenti “bui”. Ecco i suoi consigli: «Una delle cose più difficili nella vita è sicuramente trovare un modo per gestire la morte prematura di qualcuno così importante come un genitore. Così come imparare ad adattare la nuova vita e andare avanti nonostante ciò che è accaduto. E mi duole dirlo ma il tempo di per sé non aiuta a stare meglio se non si compiono delle azioni per potersi riprendere da un dolore così intenso. Ma spetta al genitore rimasto, in questo caso la nostra mamma, aiutare il bambino a conoscere chi era davvero suo padre. Cara BirbaMamma, tua figlia potrà con il tempo avere dei ricordi, ma sei tu che devi raccontargli di tuo marito e per farlo, è importante che anche tu sia completa emotivamente. Non devi avere timore di ricordarlo, di parlare di lui e di condividere con lei e con altre persone i ricordi. Tacere perché non ce la fai o non sai che dire è il modo più sbagliato per affrontare la cosa. Per comunicare in modo chiaro, devi affrontare per prima tu ciò che nella relazione con il tuo compagno è rimasto in sospeso a causa della morte, solo così potrai guidare la tua bambina attraverso le giornate di dolore e attraverso la pienezza della vita. Quando ti sentirai triste, ricorda che: Prima vieni tu. Tu sei l’adulto, tu guidi i tuoi bambini. Un po’ come quando in aereo ti dicono di indossare per prima la mascherina dell’ossigeno e poi aiutare chi ti è vicino. Il principio è lo stesso: per aiutare tua figlia tu devi essere emotivamente completa. Se ci riuscirai con molta probabilità non avrai bisogno di alcun aiuto esterno o supporto psicologico per la bambina. Ricorda che ogni bambino è unico e unica è la sua relazione con chi non c’è più. Può provare emozioni e sentimenti diversi dai tuoi o da un suo fratello o sorella, ma vedere che tu riesci a dire la verità su ciò che provi, vi aiuterà a costruire un clima di fiducia e sicurezza e lo aiuterà ad aprirsi con te. Sii paziente. Concedi a tua figlia il tempo di poter assestare ciò che è accaduto. Concedigli il tempo e il modo di poterlo tirare fuori e rimettere dentro più volte negli anni. Lui cresce e crescono le sue abilità emotive e cognitive. Accertati solo di trasmettergli idee sane su come si comunicano le emozioni (ed intendo tutte e non solo quelle ritenute “buone” come gioia e felicità). Photo courtesy of Jessica Lucia Ascolta il tuo cuore, non la tua testa. Quando provi qualche emozione esprimila liberamente senza giudicarti e senza criticarti. La cosa importante da sapere è che tristezza e paura sono normali reazioni ad una perdita e che ci sono tutti gli strumenti per poter andare avanti e sentire nuovamente i vostri cuori battere di tutte le emozioni che la vita vi offre. Dal mio cuore al tuo, Elisa O è Natale tutti i giorni… E niente. Capita che tu inizi la settimana con un sacco di idee e di bei post programmati che vuoi pubblicare e poi ti chiama tua madre. La solita telefonata quotidiana ma a un certo punto gli si spegne la voce e ti dice che qualcuno non c’è più. A un tratto tutto si ferma. Resti muta. Con la bocca aperta e lo sguardo perso mentre le lacrime scendono incontenibili. E lo so, questo è un blog dove ridiamo e scherziamo e non mi piace rattristarvi ma ho anche pensato che questo è anche un po’ il luogo dove mi rifugio, la casa che dovrebbe accogliere me e voi e che nessuno avrebbe potuto capirmi se non voi mamme. Lui era il mio commercialista. Un uomo simpatico e intelligente. Vivace, sempre disponibile. Capace di vivere sopra le righe fregandosene delle chiacchiere della gente. Uno che riusciva a lavorare in uno studio con 10 donne, e già per questo andava premiato. Una persona come poche. Sai di quelle che non riesci a trovare un motivo per non volergli bene anche se da lui vai a pagare fatture e cambiali. Ecco, lui era un amico. Non un amico di quelli con cui vai in giro a fare bisbocce ma una di quelle persone a cui potevi rivolgerti quando avevi bisogno di farti dare la pacca sulla spalla. E lui all’improvviso se ne è andato. E anche se io lo frequentavo solo quando ero giù per sbrigare le mie incombenze “amministrative” mi sento persa a sapere che non c’è più. “Ci vediamo a Natale “mi aveva detto a settembre. Già, Natale. Quel momento in cui tutti sono più buoni e generosi, in cui il cuore all’improvviso sembra espandersi e ci si prepara ad accogliere il nuovo anno pieni di buoni propositi, tipo non farò più questo o quello, cercherò di, mi impegno a e ci si sente forti e capaci di fare il salto e diventare “migliori”. Poi arriva il 9 gennaio, non il sette, il nove e tu ti sei già dimenticato tutto e torni a vivere esattamente come prima. E invece no. Io questa volta non voglio e mi impegno qui davanti a voi. Voglio cercare di vedere la bellezza della vita e dei regali che ci fa ogni sacrosanto giorno. Il mio amico Michele lo faceva. Lui era sempre sorridente. Lui aveva scelto di vivere, non di lasciarsi scivolare la vita addosso. E come Michele lo faceva Cristina, che non era una mia amica ma una che conoscevo e avevo visto un paio di volte. Una caparbia, che ha lottato con le unghie e con i denti per riprendersi la sua vita ma poi se ne è andata a quarantanni mangiata da un male infame, non prima di aver raccomandato ai suoi amici di vivere ogni giorno intensamente. O come Luca. Io non l’ho nemmeno mai conosciuto ma l’ho vissuto dal racconto dei suoi amici e mi sembrava fosse un amico di sempre . Michele, Cristina , Luca… sono alcuni dei tanti che hanno avuto la fortuna di vivere intensamente ma che ci hanno lasciati. Io credo che ognuno di noi abbia conosciuto qualcuno così e sappia cosa vuol dire perderlo: sono tragedie infinite che lasciano buchi neri nell’anima, pozzi di vuoto incolmabili. Ho sempre pensato che la vera sfida sia per chi resta. Al di là di qualsiasi credenza religiosa. Al di là di quello che ci possa essere altrove. La vera sfida è andare avanti e colmare quei vuoti con dei piccoli gesti. Dei gesti che rendano onore a tutte quelle persone che la vita non possono più godersela, anche se non li conoscevi neppure. E quei gesti non sono robe eclatanti. Sono piccole attenzioni quotidiane: imparare a dire grazie, sorridere, apprezzare ogni giorno la meraviglia di poter semplicemente, respirare. Ascoltare la natura, il pianto di un bambino, una sinfonia musicale. Ascoltare le parole che ci vengono dette. Io non lo faccio quasi mai. Mi isolo nel mio mondo, urlo per coprire con la mia voce ogni rumore. Oppure fingo di ascoltare ma intanto la mia mente non presta attenzione e va altrove coi pensieri. Ma la vita è qui e ora. Non è ieri, e non sarà altrove. E da quando c’è il Ribelle è questo che cerco di fare, vivere ogni attimo assaporandolo e meravigliandomi proprio come fa lui davanti a ogni cosa nuova, che io invece ormai dò per scontato. Questo non è un post. Questo è uno sfogo. Un pensiero ad alta voce. Dedicato a chi ci ha lasciato, sperando che da lassù ci dia la forza per vivere più intensamente, dimenticando le piccolezze in cui ci perdiamo ogni giorno. Perchè , come cantava Jovanotti: O è Natale tutti i giorni, o non è Natale mai…