la tassazione transnazionale del risparmio nel

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LA TASSAZIONE TRANSNAZIONALE DEL RISPARMIO NEL CONTESTO DI
INTEGRAZIONE ECONOMICA E MONETARIA EUROPEA
La tassazione dei flussi transnazionali di risparmio è tra le questioni di politica tributaria di
maggior rilievo in un contesto di integrazione economica e monetaria. Con la realizzazione nel 2002
della terza fase dell’Unione Monetaria Europea, la mobilità dei flussi finanziari è destinata ad aumentare
ulteriormente per effetto dell’introduzione della moneta unica che, eliminando il rischio di cambio (e i
relativi costi), rende immediatamente confrontabili i rendimenti dei titoli ed incentiva lo spostamento
dei capitali finanziari verso impieghi più redditizi1. L’elevata mobilità dei capitali verso usi più
produttivi, sebbene desiderabile sotto il profilo dell’efficienza allocativa, rende estremamente complessa
per i governi nazionali la tassazione dei redditi che derivano dalle attività finanziarie, dato che
l’incidenza dei “costi fiscali2” assume per i risparmiatori e per gli operatori professionali un rilievo
determinante nelle scelte di investimento all’interno di un mercato unico europeo3.
Una delle maggiori incongruenze della situazione europea, deriva dalla sopravvivenza della
qualifica, in ogni Paese membro, di “non residente” a fini tributari per i contribuenti di altri Paesi UE.
Realizzato il mercato unico, e concessa la facoltà per i cittadini di ogni Stato membro dell’UE di
investire liberamente in qualunque parte del territorio dell’Unione, ogni discriminazione in base alla
residenza non trova più giustificazione: il favor accordato dagli ordinamenti europei all’investitore non
residente, che si traduce spesso in un’esenzione (di diritto e di fatto), trae le sue origini nei tempi in cui
si incoraggiavano gli afflussi e si vietavano (o, in ogni modo, rendevano molto difficili) i deflussi di
capitale. Il suo permanere in regime di libertà dei movimenti di capitale favorisce, pertanto, una
concorrenza fiscale tra gli Stati, che ostacola la realizzazione di un mercato unico efficiente4. In
particolare, se i risparmiatori definiscono le loro decisioni in funzione della possibilità di evitare le
imposte, invece che alla luce di un confronto tra le alternative di investimento basato sulla loro
convenienza intrinseca, le scelte d’investimento risultano distorte. Questa situazione non consente alle
istituzioni finanziarie, ai fondi di investimento e agli altri operatori di mercato di competere su basi di
parità.
In tale ambito, la soluzione prima facie più lineare sarebbe stata di introdurre un’imposta unica
europea: se unico è il mercato, unica è la moneta utilizzata per le transazioni, altrettanto unitario deve
essere il trattamento fiscale al fine di evitare ingiustificate distorsioni e perdite di efficienza. E’ stato
tuttavia notato che, anche qualora vi fosse una situazione di completa uniformità delle aliquote degli
ordinamenti tributari dei Paesi che partecipano alla liberalizzazione, non necessariamente si
realizzerebbe la piena neutralità rispetto alle scelte di investimento: permarrebbero comunque
operazioni di aggiustamento dei mercati nazionali tali da provocare effetti di “traslazione obliqua” delle
imposte tra i mercati al fine di parificare il tasso di rendimento netto delle attività finanziarie5.
Cfr. F. Lapecorella, Il dibattito sulla tassazione del risparmio nell’Unione Europea: dalla ritenuta armonizzata allo scambio di informazioni, in Atti del
convegno di studi I cento giorni e oltre: verso una rifondazione fisco-economia?, Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bari, allegato
alla rivista Il Fisco, 2002.
1
Intesa in un’accezione ampia tale da comprendere non solo la tassazione dei frutti dell’investimento, il livello di
imposizione ma anche agli oneri di tipo amministrativo che gravano sugli operatori finanziari. Inoltre secondo l’opinione di
Tagi, per un’efficiente allocazione delle risorse mobiliari è necessario che i costi siano i più bassi possibili, cfr. G. Tagi, La
tassazione delle rendite di capitale è ancora attuale?, in Banche e banchieri, n. 1, 2001.
3 Cfr. V. Pontolillo, La tassazione del risparmio e l’integrazione monetaria europea, in Economia italiana, Banca di Roma, 1999, 1, p.
123.
2
Cfr. A. Di Majo, Alcuni elementi per una riforma della tassazione delle attività finanziarie, in La tassazione delle attività finanziarie, a cura di G.
Muraro e N. Sartor, 1995, p. 190; M. C. Panzeri, La nuova fiscalità del risparmio: razionalizzazione e prospettive , in Rassegna tributaria, n. 6, 1998, p.
1471; V. Ceriani, Tendenze internazionali nella tassazione del risparmio, in Rassegna Tributaria, n. 4, 2004.
4
Per un esame critico degli effetti dell’imposta “generale” sui redditi in questo senso, cfr. S. Steve, Lezioni di scienza delle
finanze, Padova, 1976.
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1
Appurato che, nonostante gli ostacoli, la moneta unica è stata realizzata6, maggiori difficoltà
presenta la configurazione di un sistema impositivo unico europeo7. Se, infatti, le scelte di politica
monetaria sono “neutrali”, nel senso che esse non sono il frutto di scelte di un organo politicamente
rappresentativo ma tecnico (le Banche centrali), i sistemi impositivi sono, invece, il risultato di precise
scelte di discrezionalità politica. La politica monetaria non è equiparabile con quella fiscale, essendo
quest’ultima sensibilmente più complessa8. Il principale ostacolo alla realizzazione di un sistema
coordinato di tassazione delle attività finanziarie riguarda, dunque, la sovranità fiscale dei singoli Stati, a
cui sono difficilmente disposti a rinunciare, dato che la leva fiscale, in seguito all’eliminazione della
fluttuazione dei cambi, rimane l’unico strumento in grado di garantire competitività economica in un
contesto internazionale. Per questo motivo, i tentativi di armonizzazione fiscale europea che si sono
avuti dall’Atto Unico Europeo del 1986, hanno avuto risvolti negativi9.
Una soluzione alternativa, poteva essere la stipulazione di un trattato multilaterale europeo, che
avrebbe, in assenza di armonizzazione eliminato le differenze artificiali create dalla rete di trattati
bilaterali intercorrente attualmente tra gli Stati europei10. Ai trattati bilaterali si aggiungono, come
ulteriore elemento di distorsione la diversità di trattamento fiscale del risparmio all’interno dei singoli
Stati membri.
Un secondo problema, riguardava l’idoneità del coordinamento esplicito (mediante l’adozione di
specifica direttiva) dei sistemi impositivi alla realizzazione dell’efficiente allocazione del capitale.
L’esperienza statunitense, in tema di concorrenza fiscale tra Stati membri di un’unione economica e
monetaria, potrebbe essere un precedente per dare una risposta al riguardo, essendo il caso degli USA
un esempio di integrazione economica in assenza di coordinamento fiscale. Un primo risultato, fornito
dall’analisi svolta sull’argomento da Tanzi e Zee11, è che anche qualora i singoli Stati rimangano titolari
del potere di imporre autonomamente il livello delle aliquote, non possono nel medio periodo ignorare
le scelte dei Paesi confinanti, se non altro per evitare perdite di gettito. E’ una conseguenza inevitabile,
derivante dai comportamenti dei contribuenti che trasferiscono le proprie attività nello Stato
fiscalmente meno oneroso, attraverso operazioni elusive e arbitraggi fiscali12. Nel lungo periodo gli Stati
membri degli USA hanno comunque raggiunto un livello di “armonizzazione” (di fatto) non dissimile
da quello che si sarebbe determinato con un esplicito coordinamento dei sistemi fiscali, vale a dire senza
perdite di efficienza. Diversa tuttavia, è la situazione dell’UE: la mancanza di un sistema fiscale federale
come quello USA, le carenze informative tra le amministrazioni dei paesi, le differenze linguistiche, non
permettono, secondo gli autori, il realizzarsi di un’efficiente allocazione delle risorse come conseguenza
della concorrenza fiscale. In tale prospettiva, l’esigenza di un intervento di armonizzazione tra i Paesi
UE si rende opportuno13 non solo con riferimento alla parificazione delle aliquote fiscali ma anche per
realizzare un adeguato scambio di informazioni tra le Amministrazioni dei singoli Paesi14.
La presenza di una piena armonizzazione tra i Paesi UE, non eliminerebbe, comunque, ogni
problema: anche se i differenziali di regime fiscale fossero così normalizzati all’interno dell’Unione,
Non tutti gli Stati membri dell’UE, com’è noto, hanno aderito completamente all’UME, riservandosi di accedervi in un
secondo momento. E’ questo il caso del Regno Unito, che non ha ancora adottato la moneta unica europea, l’euro. L’UME
è, in tal senso, un tipico esempio della cd. “Europa a due velocità”, concetto che trova riscontro anche nel recente trattato
costituzionale europeo.
7 Cfr. G. Tremonti, Tassazione delle attività finanziarie e libera circolazione dei capitali, in La tassazione delle attività finanziarie, a cura di
G. Muraro e N. Sartor, 1995, pp.179-180; A. Di Majo, cit., 1995.
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Cfr. G. Tremonti, cit., 1995.
Come ulteriore causa, giuridica, del fallimento delle proposte europee in materia di tassazione del risparmio è la regola
dell’unanimità dei consensi.
10 Cfr. G. TremontI, cit ., 1995, p. 180.
9
L’eliminazione delle barriere fisiche e fiscali, l’introduzione della moneta unica, la libera circolazione dei fattori produttivi (lavoro,
capitali, merci) sono aspetti che accomunano l’Unione Europea con la situazione degli USA e che, secondo gli autori, ne giustificano la
comparazione. Cfr. V. Tanzi, H. H. Zee, Consequences of the economic and Monetary Union for the coordination of tax systems in the European Union:
lessons from the U.S. experience, IMF Working papers, August 1998.
11
Cfr. V. Tanzi, H. H. Zee, cit., 1998, p. 5.
Cfr. V. Tanzi , H. H. Zee, cit., 1998, p. 21: All these factors suggest that the need for exlicit coordination will likely be stronger in the EU
than in the United States. Nello stesso senso, V. Pontolillo, cit., 1999, p. 124.
14 La recente direttiva sugli interessi fa proprio questo orientamento, ponendo come base della tassazione transfrontaliera
degli interessi il sistema dello scambio di informazioni. V. infra, § 2.3. di questo capitolo.
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resterebbe il problema dei differenziali esterni, extracomunitari, che potrebbe essere superato (in parte)
solo con l’adozione di scelte uniformi formalizzate in un modello di trattato valido anche verso i paesi
terzi15. In tal senso, originale è la soluzione prospettata da Tanzi: l’istituzione di una “International Tax
Organization”, un’organizzazione che a livello mondiale supervisioni o cerchi di influenzare gli sviluppi
fiscali aventi implicazioni transnazionali, fino a creare un codice fiscale mondiale e un foro mondiale
per un arbitrato fiscale16. In verità, l’OCSE svolge già tale attività, attraverso la promozione di iniziative
finalizzate a ridurre le divergenze impositive (dannose) esistenti tra gli Stati17.
Rilevante è che la recente direttiva sul risparmio del 2001 accoglie in larga parte le soluzioni
dottrinali in precedenza analizzate: il sistema dello scambio delle informazioni, e l’adozione di misure
fiscali “equivalenti” a quelle europee da parte dei principali paesi finanziari extracomunitari. Essa,
tuttavia, non elimina del tutto la concorrenza fiscale dannosa all’interno dell’UE. Il suo ambito di
applicazione, è limitato, infatti, ai soli interessi transfrontalieri. L’esclusione dei capital gains e dei
dividendi, non fa che spostare, in tal senso, i termini della competizione in un altro terreno. In ogni
modo, la direttiva, entrata in vigore il 1° gennaio 2004, rappresenta l’ importante risultato di un
percorso lungo e difficoltoso, che ha visto l’avvicendamento di altre due proposte comunitarie (e
altrettanti modelli impositivi) dall’esito non positivo.
La proposta “Scrivener” del 1989: la ritenuta minima armonizzata.
Un primo tentativo di armonizzazione fiscale è la proposta di direttiva europea sulla tassazione
del risparmio presentata nel 1989, nota come “proposta Scrivener”18, che prevedeva l’applicazione di
una ritenuta minima comune alla fonte (anche detta “armonizzata”), da applicarsi a tutti i soggetti
residenti di Stati dell’Unione, con un’aliquota del 15%. La ritenuta poteva essere considerata da
ciascuno Stato membro a titolo definitivo o d’acconto. Circa l’accertamento, era previsto il rispetto delle
norme nazionali sul segreto bancario: si prevedeva solo un rafforzamento della cooperazione
amministrativa, ove possibile. Era data inoltre la facoltà di esentare i residenti di Paesi terzi e le
eurobbligazioni.
Da un punto di vista sistematico, la proposta configurava un regime di ritenute generalizzato su
tutti i residenti europei. La ritenuta sarebbe stata prelevata dal debitore (emittente), che avrebbe dovuto
distinguere tra i percettori di interessi, quelli soggetti (individui residenti negli Stati della Comunità) e
quelli esenti (non residenti). La facoltà di considerare la ritenuta come definitiva o d’acconto faceva
salva la libertà per ciascuno Stato membro di decidere il regime di tassazione definitiva sui propri
residenti: o la cedolare secca al livello armonizzato del 15%, oppure, riconoscendo la ritenuta
“armonizzata” come acconto, una cedolare più elevata, o il regime di tassazione personale progressivo.
Data però l’assenza di un’efficace collaborazione amministrativa (scambio d’informazioni), sarebbero
mancati strumenti validi di accertamento e nei fatti il sistema avrebbe teso verso un regime
generalizzato di ritenuta definitiva al 15%, per gli interessi transfrontalieri.
Non è immediato inquadrare concettualmente questo regime: in assenza di esenzioni, avrebbe
teso a una sorta di CIN (Capital Import Neutrality) sui redditi prodotti in Europa e percepiti dai residenti
in altri Stati europei. Ogni Stato però, avrebbe potuto continuare a tassare con il regime domestico gli
interessi prodotti al suo interno da suoi residenti e percepiti da persone fisiche residenti. Non si sarebbe
trattato quindi di una vera e propria CIN, ma di un ibrido, che, sia pure con le incoerenze di un sistema
parziale, avrebbe comunque introdotto a livello europeo una tassazione effettiva degli interessi
transfrontalieri compatibile con gli incentivi alla concorrenza fiscale che si determinano in mercati
Cfr. G. Tremonti, Il sistema fiscale europeo: un’analisi istituzionale, in Le imposte del 1992, a cura di A. Majocchi e G. Tremonti, p.
51.
16 Si tratta di un’istituzione chiaramente ispirata alla struttura e alle modalità di funzionamento del WTO (World Trade
Organization) e dell’IMF (International Monetary Fund) che potrebbe operare al loro interno con finalità proprie e di
coordinamento fiscale internazionale. La proposta di Tanzi, non ha tuttavia (ancora) raggiunto la fase della vestizione
politica, rimanendo, ad oggi, una soluzione accademica. Cfr. V. Tanzi, Globalizzazione e sistemi fiscali, Banca Etruria, 2002, p.
108.
17 Cfr. il recente rapporto Towards Global Tax Cooperation. Progress in Identifying and Eliminating Harmful Tax Practices, in cui sono
prospettate delle misure di contrasto alla concorrenza fiscale dannosa.
18 COM (89) 60 def.
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finanziari integrati. Avrebbe anche precostituito, in assenza di scambio d’informazioni, una soluzione di
convergenza per le legislazioni nazionali: quella delle ritenute alla fonte definitive.
Questa proposta di direttiva non ha avuto seguito. Da un lato, alcuni Stati membri la ritenevano
insufficiente sotto il profilo dell’accertamento, bastando a loro avviso l’introduzione un adeguato
sistema di scambio d’informazioni per superare il segreto bancario, senza necessità di imporre il livello
delle ritenute. Gli Stati che adottavano il segreto bancario19 erano evidentemente contrari a questa
soluzione. Inoltre, pur non essendo elevato il livello del 15% previsto per la ritenuta, erano possibili
fughe di capitali verso i Paesi terzi in assenza di un coordinamento con questi ultimi. Altro ostacolo era,
inoltre, la norma secondo cui l’approvazione di direttive comunitarie in materia di imposizione diretta
richiede l’assenso di tutti gli Stati membri20.
La proposta del 1998: il modello della “coesistenza”.
La prospettiva dell’attuazione dell’Unione Monetaria Europea a metà degli anni ’90 e
l’affermarsi della convinzione delle conseguenze negative in termini di efficienza e gettito21 della
competizione fiscale, ha spinto i Governi dei Paesi membri dell’Unione a riaprire la discussione sulla
tassazione internazionale del risparmio. Contestualmente, si assisteva a livello europeo ad un’apertura
verso il modello della tassazione sostitutiva alla fonte dei redditi di capitale, con il progressivo
abbandono del dogma della tassazione “comprehensive” legato al principio della residenza, ritenuto non
più adeguato ad un contesto di globalizzazione finanziaria. In tal senso, il 1° dicembre 1997, sotto la
presidenza lussemburghese, il Consiglio ECOFIN22 ha approvato le linee fondamentali del cosiddetto
“pacchetto fiscale Monti” nel quale figurava una nuova proposta di direttiva sulla tassazione del
risparmio, elaborata nella sua versione definitiva nel 199823.
Notevoli sono le differenze di questa seconda proposta rispetto a quella del 1989. Innanzitutto
essa si inquadra in un contesto più ampio, che coinvolge altri aspetti dell’imposizione diretta: il codice di
condotta, per contrastare la concorrenza fiscale dannosa nel campo della tassazione delle imprese, e la
rimozione delle ritenute su interessi e royalties tra società collegate. L’iniziativa è quindi inserita in una
strategia ad ampio spettro, chiaramente indirizzata a migliorare il funzionamento del Mercato Unico24,
nella direzione di un coordinamento dei sistemi fiscali europei, resosi ancor più necessario in seguito
all’adozione della moneta unica.
Il principale elemento di differenza rispetto alla direttiva del 1989 è che mentre quella tendeva
verso un’armonizzazione e coinvolgeva nel sistema della ritenuta tutti i redditi prodotti, anche quelli
destinati a residenti nello stesso Stato, questa, invece, è rivolta solamente agli interessi transfrontalieri.
L’obiettivo è, in sostanza, di coordinare a livello europeo la tassazione dei soli interessi transfrontalieri,
senza coinvolgere gli interessi “domestici” (cioè quelli prodotti e percepiti da residenti), al fine di
consentire la coesistenza dei vari regimi nazionali, senza imporre, esplicitamente o di fatto, la prevalenza
di un regime sull’altro. Per raggiungere questo obiettivo, la nuova direttiva, nella sua versione originaria,
prevedeva la possibilità per tutti gli Stati membri di scegliere alternativamente ed esclusivamente tra
l’applicazione di una ritenuta minima comune alla fonte, in misura non inferiore al 20%, e la
comunicazione obbligatoria all’Autorità finanziaria dello Stato di residenza del percettore da parte
dell’Autorità dello Stato in cui sono pagati gli interessi.
Preso atto delle insuperabili divergenze esistenti all’interno dell’Europa, si è adottato, pertanto,
un approccio pragmatico, al fine di realizzare un equilibrio degli interessi fra i vari Paesi attraverso il
riconoscimento della possibilità di scelta del regime maggiormente compatibile con l’ordinamento
interno dei singoli Stati25. Il risultato di questa nuova impostazione è l’abbandono dell’idea di
“un’armonizzazione forzata”, in favore della più agevole strada del coordinamento dei sistemi nazionali,
In particolare, forte è stata l’opposizione del Lussemburgo.
Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 136.
21 La perdita di gettito avrebbe in tal senso inasprito il trattamento fiscale dei redditi meno mobili, in primo luogo quelli da
lavoro, con effetti negativi dal punto di vista dell’equità tributaria. Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 136.
22 Il Consiglio ECOFIN è il Consiglio composto dai Ministri economici europei.
23 COM (98) 295 def.
24 E’ opportuno rilevare che nel 1989 il Mercato Unico non esisteva ancora.
25 Cfr. M. Monti, The climate is changing, in EC Tax Review, n. 1, 1998.
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nel rispetto delle scelte dei singoli ordinamenti, senza trascurare l’esigenza di contrastare la concorrenza
fiscale attraverso prescrizioni minimali26.
Il sistema della coesistenza tra ritenuta alla fonte e scambio d’informazioni intendeva in primo
luogo assicurare che i residenti europei fossero comunque tassati su tutto il loro risparmio,
indipendentemente dal luogo di detenzione. Questo era assicurato o dall’informazione che lo Stato di
residenza avrebbe ricevuto dagli altri Stati o dalla ritenuta alla fonte applicata dagli Stati che non
avrebbero fornito informazioni27.
Altro punto importante è che la direttiva poneva gli adempimenti fiscali (raccolta delle
informazioni, calcolo e versamento della ritenuta) a carico dell’agente pagatore (così come definito dalla
direttiva)28, non dell’emittente. Questa è un’innovazione significativa rispetto alla precedente proposta,
in quanto in tal modo si tiene conto della realtà operativa dei mercati finanziari. Inoltre, il principio
dell’agente pagatore permette di assoggettare alla ritenuta tutti gli interessi percepiti da residenti UE,
compresi quelli derivanti da investimenti finanziari su emittenti non comunitari.
Era previsto, infine, un coordinamento con altri Stati terzi per l’adozione da parte loro di
“misure equivalenti”. Il fatto che i mercati finanziari sono ormai globalizzati trova riconoscimento
nell’esplicita considerazione che la soluzione “europea” deve essere coerente con una possibile
soluzione “mondiale”.
Dal punto di vista dogmatico, il sistema tendeva abbastanza esplicitamente a adottare il
principio della residenza. Non avrebbe però garantito in modo assoluto la CEN (Capital Export
Neutrality) perché su una parte dei redditi, cioè quella proveniente dai Paesi con ritenuta alla fonte, il
risparmiatore avrebbe subito una tassazione diversa da quella cui sarebbe stato soggetto secondo le
regole del suo Stato di residenza.
Anche questo progetto, come il precedente, non ha avuto seguito. Il livello della ritenuta
minima divenne, infatti, subito elemento di contesa: gli Stati favorevoli allo scambio di informazioni lo
ritenevano troppo basso; gli Stati che intendevano applicare la ritenuta alla fonte, troppo alto. Decisiva,
a questo riguardo, sarebbe stata l’adozione al progetto degli Stati terzi, con l’impegno a adottare “misure
equivalenti”. In loro assenza, il sistema rischiava di innescare forti incentivi all’esodo di capitali29. Anche
la destinazione del gettito delle ritenute divenne un argomento di vivace confronto30.
Determinante, per il fallimento della direttiva, è stata però la salda opposizione del Regno Unito.
In primo luogo, per la mancata esenzione degli eurobonds, che, a detta del governo inglese, avrebbe
messo a rischio il futuro della piazza finanziaria londinese31. Inoltre, lo stesso governo riteneva possibili
turbative del mercato per l’esistenza di clausole di gross-up32 su molte emissioni dei titoli in circolazione.
In realtà, le obiezioni del Regno Unito riguardavano i fondamenti dello stesso modello della
“coesistenza”, argomentando che sarebbe stato errato “legittimare” il segreto bancario e l’anonimato
fiscale e consentire che parte dei redditi fosse sottratta al “naturale” regime di tassazione dello Stato di
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Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 142.
Questi ultimi erano, tipicamente quelli con segreto bancario: Lussemburgo, Austria, Belgio, Portogallo, Grecia.
Questo termine è stato fonte di equivoci durante la discu ssione della direttiva. Infatti, nella terminologia anglosassone per
paying agent si intende il primo degli intermediari, quello che effettua il primo pagamento per conto dell’emittente. Individuare
questo come titolare degli obblighi della direttiva avrebbe significato porre a suo carico il compito di ripercorrere tutta la
catena di pagamenti, identificando tutti i successivi passaggi fino al beneficiario finale. In sostanza, non sarebbe stato molto
diverso dal porre gli adempimenti a carico dell’emittente (debitore): si sarebbe eliminato solo il primo passaggio.
29 La stessa Commissione Europea era consapevole di tale possibilità, considerando indispensabile accompagnare
l’operatività della direttiva alla stipulazione di accordi con i principali Paesi extra UE (soprattutto Usa e Svizzera), a cui
estendere le previsioni comunitarie. Cfr. V. Pontolillo, cit., 1999, p. 143.
30 Gli Stati interessati ad applicare la ritenuta si dichiararono, in principio, non contrari a discutere una forma di revenue
sharing, ma sollevarono obiezioni su un altro aspetto della direttiva. Era previsto che il risparmiatore avrebbe potuto evitare
la ritenuta se avesse scelto di dichiarare gli interessi al fisco del suo Stato di residenza (voluntary disclosure). La procedura era
però giudicata complessa e molto costosa dal punto di vista amministrativo.
31 Era però difficile concedere l’esenzione agli eurobonds, data la difficoltà di individuare una definizione precisa degli stessi.
32 Queste clausole prevedevano la possibilità per il detentore di chiedere all’emittente il rimborso delle eventuali ritenute alla
fonte che fossero state introdotte successivamente all’emissione. Ad essa si accompagnava l’alternativa, per l’emittente, di
rimborsare anticipatamente l’intera emissione alla pari. Dato il disallineamento rispetto ai prezzi di mercato, si sarebbero
potute determinare forti minusvalenze per i detentori.
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residenza, per essere tassata a un’aliquota generalmente più bassa, ma in alcuni casi più elevata, rispetto
al regime previsto dallo Stato di residenza.
Molti altri Stati membri condividevano queste critiche, ma avendo già accettato il modello della
coesistenza, continuavano a ritenerlo un compromesso soddisfacente rispetto alla posizione dei Paesi
con segreto bancario e, soprattutto, rispetto all’alternativa di non raggiungere l’accordo e lasciare le cose
come stavano. La trattativa, tuttavia, giunse a un punto di blocco proprio per la solitaria opposizione del
Regno Unito.
Dalla “coesistenza” allo scambio di informazioni: la direttiva del 2001.
Al consiglio europeo di Helsinki33 gli Stati membri hanno ripreso i negoziati sulla base del
principio che tutti i cittadini residenti nell’UE dovrebbero pagare le imposte dovute su tutti i redditi da
risparmio. Tale principio è stato interpretato nel senso che ogni cittadino europeo deve essere
assoggettato al regime fiscale del suo Stato di residenza su tutti i frutti del risparmio, a prescindere dal
luogo di detenzione.
Al successivo Consiglio di Santa Maria da Feira del giugno 2000 si è raggiunto un accordo
politico circa il sistema dello scambio di informazioni: esso sarebbe stato il sistema finale dell’Unione,
mentre il sistema delle ritenute sarebbe stato applicabile solo per un periodo transitorio (sette anni
dall’entrata in vigore della direttiva)34. Il Lussemburgo, tuttavia, aveva condizionato il passaggio allo
scambio di informazioni all’adozione della stessa misura da parte dei Paesi non UE, interpretando in
questo senso il concetto di “misure equivalenti”. La svolta decisa a Feira comportava, in ogni caso,
un’importante conseguenza: la tassazione del risparmio avrebbe chiaramente seguito il principio della
residenza (CEN) 35.
Alla fine del 2000 si è raggiunto l’accordo politico sul contenuto essenziale della direttiva. Nel
luglio 2001 la Commissione, sulla base di esso, ha modificato la proposta di direttiva presentando un
nuovo testo36.
La direttiva, che dovrà essere trasposta negli ordinamenti dei singoli Stati membri entro il 1°
gennaio 2004, si applica ai redditi percepiti sotto forma di interessi da persone fisiche residenti37
nell’Unione. Sono considerati interessi, ai sensi dell’art. 6: interessi relativi a crediti di qualsiasi natura;
interessi maturati o capitalizzati alla cessione, al rimborso o al riscatto di quote di fondi a
capitalizzazione, quando questi abbiano investito direttamente o indirettamente oltre il 40% del loro
attivo in crediti di qualsiasi natura.
Il pagamento di interessi a favore delle persone giuridiche esula, quindi, dal campo di
applicazione della direttiva. Vi rientrano, tuttavia, gli interessi transfrontalieri corrisposti a imprenditori
individuali, al fine di non imporre oneri amministrativi eccessivi per gli agenti pagatori. E’ al contempo
previsto che gli imprenditori individuali possano evitare il pagamento della ritenuta sugli interessi
percepiti nell’esercizio dell’impresa, attraverso la comunicazione di appropriate informazioni, oppure
mediante la presentazione un certificato rilasciato dal proprio Stato di residenza.
Lo strumento prescelto per il conseguimento dell’obiettivo di consentire la tassazione effettiva
dei redditi percepiti sotto forma di interesse da persone fisiche residenti negli Stati membri è, come
detto, lo scambio automatico delle informazioni. In particolare, l’intermediario finanziario residente in
uno Stato membro che paga gli interessi ad un soggetto residente in un paese dell’Unione (paying agent),
ha l’obbligo di determinare l’identità e la residenza del percettore dell’interesse (beneficiario effettivo) e
di comunicare queste informazioni alle autorità competenti del suo Stato. Quest’ultimo trasferisce a sua
volta automaticamente le informazioni allo Stato membro di residenza del beneficiario effettivo.
Riguardo al livello della ritenuta, il compromesso raggiunto prevede un’aliquota del 15% per il
periodo iniziale38 e il successivo innalzamento al 20%. Viene, inoltre, sancito che la ritenuta non libera il
Dicembre 1999.
Solo Austria, Belgio e Lussemburgo annunciarono l’intenzione di applicare il sistema della ritenuta nel periodo transitorio.
Tutti gli altri Stati membri dichiararono di optare per lo scambio di informazioni. Anche gli Stati in fase di accesso all’UE
avrebbero dovuto adottare lo scambio di informazioni.
35 Cfr. G. Ancidoni, La proposta di direttiva comunitaria e le prospettive della fiscalità del risparmio, Assiom, Milano, 6 giugno 2001.
36 COM (2001) 400 def.
37 Il cd. beneficiario effettivo, previsto all’art. 2.
38 I primi 3 anni, dal 2005 al 2008.
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contribuente dagli obblighi fiscali verso il suo Paese di residenza. Quest’ultimo è a sua volta obbligato
ad eliminare ogni forma di doppia imposizione derivante dall’applicazione della ritenuta, attraverso il
meccanismo del credito d’imposta.
Circa la ripartizione del gettito (revenue sharing), all’art. 12 è stabilito che il 75% del gettito debba
affluire agli Stati di residenza del beneficiario finale e il restante venga trattenuto dallo Stato che ha
effettuato il prelievo. Viene anche razionalizzato il sistema di esenzione dalla ritenuta per richiesta del
risparmiatore (voluntary disclosure).
La direttiva, recepisce, infine, una clausola di salvaguardia (grand-fathering) che, accogliendo le
preoccupazioni inglesi su possibili turbative sul mercato degli eurobonds, esenta dal suo ambito di
applicazione quelli emessi fino al 1° marzo 200139.
Una volta raggiunto l’accordo sul contenuto della direttiva, sono state avviate le discussioni con
i Paesi terzi. Gli Stati Uniti sono disponibili a adottare misure equivalenti sul fronte dello scambio di
informazioni. Gli altri Stati contattati dalle istituzioni comunitarie (Svizzera, Liechtenstein, Monaco,
Andorra, San Marino) hanno dichiarato la loro disponibilità a adottare misure equivalenti sul fronte
delle ritenute, sostanzialmente allineandosi alla posizione della Svizzera40. Esiste, però un punto di
fondamentale disaccordo, su cui non vi è alcuna disponibilità: il passaggio allo scambio automatico di
informazioni. Non vi è disponibilità neppure sulla previsione di uno scambio di informazioni a
richiesta, sulla base del modello elaborato dall’OCSE sullo scambio di informazioni in materia fiscale.
Di fronte alla ferma opposizione della Svizzera, il Lussemburgo, l’Austria e il Belgio hanno
rimesso in discussione le conclusioni di Feira, dichiarandosi indisponibili a passare dalla ritenuta allo
scambio di informazioni a una data prefissata, se anche la Svizzera e gli altri Paesi non si fossero
impegnati a fare altrettanto. Il compromesso raggiunto prevede che il sistema della ritenuta potrà
sopravvivere anche dopo i primi sei anni di applicazione (cioè, a partire dal 2011), ma il livello della
ritenuta sarà portato al 35% (come proposto dalla Svizzera). Il regime definitivo verrà, pertanto,
adottato solo quando gli Stati Uniti e gli altri Paesi aderiranno allo scambio di informazioni sulla base
del modello OCSE.
In sostanza, lo scambio di informazioni rimane come soluzione di principio a lungo termine, ma
operativamente condizionata alla sua adozione da parte di paesi terzi. Altra conseguenza è che la
coesistenza con il regime della ritenuta non trova più una scadenza temporale prefissata. La circostanza
che l’aliquota salirà al 35% a partire dal 2011 costituisce, tuttavia, congiuntamente alla voluntary disclosure,
un importante incentivo al passaggio al sistema dell’informazione, su base appunto volontaria. In effetti,
l’aliquota del 35% a regime rappresenta un livello “alto”, sia rispetto alla tassazione effettiva, sia rispetto
alle posizioni negoziali espresse all’inizio delle discussioni.
La direttiva presenta alcuni importanti limiti. In primo luogo, la sua entrata in vigore è molto
ritardata rispetto ai disegni iniziali. La clausola di salvaguardia sui titoli obbligazionari ne rallenterà,
infatti, l’applicazione effettiva, che sarà completa solo quando tutti i titoli preesistenti saranno estinti;
nella transizione, i mercati saranno di conseguenza segmentati tra vecchie e nuove emissioni.
L’applicazione ai soli interessi costituisce, inoltre, una limitazione molto seria, in quanto, tutti i prodotti
finanziari più innovativi e quelli in cui prevale la componente reddituale capital gain o dividendo
resteranno esclusi dal suo campo di applicazione: ciò potrebbe incentivare gli operatori a trasformare gli
interessi in plusvalenze al fine di ottenere un trattamento fiscale più favorevole.
Anche l’accordo sugli organismi di investimento collettivo non si sottrae a critiche, proprio a
causa della scelta di restringere il campo di applicazione della direttiva ai soli interessi. L’art. 6 prevede,
infatti, il cosiddetto look-through: i redditi derivanti dalla partecipazione all’organismo d’investimento
sono soggetti alla direttiva se la quota attribuibile agli interessi supera il 40% (cioè, se l’investimento in
titoli di credito supera il 40% dell’investimento complessivo). Gli Stati membri potranno anche adottare
Per garantire la parità di trattamento, l’esenzione è stata estesa a tutti i titoli obbligazionari negoziabili. Cfr. l’art. 15 della
direttiva.
40 I punti sui quali vi è accordo riguardano: l’imposizione della ritenuta sugli interessi percepiti da residenti UE sulla base del
principio dell’agente pagatore; revenue sharing con i paesi di residenza; accettazione della voluntary disclosure; disponibilità a
fornire informazioni su richiesta in casi di reato fiscale, sulla base del principio della “doppia incriminazione”(entrambi gli
ordinamenti devono configurare il comportamento come illecito penale).
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come regola de minimis l’esclusione dal campo di applicazione della direttiva per gli organismi che
detengano in titoli di credito meno del 15% del loro attivo: ai fondi basterà collocarsi immediatamente
al di sotto della soglia prevista per ottenere l’esenzione. Evidentemente si creeranno segmentazioni di
mercato. D’altra parte, che la soluzione prospettata sia insoddisfacente e provvisoria lo testimonia la
stessa direttiva, quando stabilisce che dal 2011 la soglia del 40% sarà ridotta al 25%.
La direttiva, in definitiva, non elimina del tutto il rischio di concorrenza fiscale tra gli Stati
membri 41, in quanto sposta i termini della competizione tra i paesi dell’UE nel campo della tassazione
dei residenti42.
Il successo di questo modello di tassazione dipenderà in larga parte dall’efficacia dello scambio
di informazioni tra Amministrazioni43. In effetti, nell’esperienza delle Amministrazioni finanziarie, lo
scambio di informazioni come strumento di contrasto all’evasione fiscale si è rivelato efficace solo nei
casi in cui amministrazioni di diversi Paesi avevano entrambe interesse ad avere informazioni su uno
specifico contribuente. Lo scambio di informazioni previsto dalla direttiva, operando automaticamente,
dovrebbe eliminare tali inconvenienti.
Dr. Luigi Stefanucci
Consolidata è l’opinione secondo cui essa sia fonte di inefficienze allocative.
Cfr. M. C. Panzeri, La riforma della tassazione del risparmio: criteri di delega ed effetti sul sistema della finanza, in Diritto e pratica
tributaria, I, 2002 p. 704.
43 Cfr. F. Lapecorella, cit., 2002, p. 293.
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