La Questione della Sicurezza nell`Evoluzione della Politica Estera

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La Questione della Sicurezza nell`Evoluzione della Politica Estera
Centro Militare di Studi Strategici - Roma
La Questione della Sicurezza
nell’Evoluzione della Politica Estera
della Repubblica Popolare Cinese
sfide esterne e di sicurezza per la UE
Valdo Ferretti
Presentazione
Rubbettino
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Indice
Abbreviazioni
Introduzione
Capitolo I Il Quadro di riferimento
Parte Prima – Precedenti Storici
Parte Seconda – Radici Interne e Premesse della Politica Estera
Cinese dopo il Periodo Maoista
Capitolo II La Sicurezza nella Politica Estera Cinese
dopo la Guerra Fredda
Il Riallineamento Internazionale dopo la Fine
del Periodo Maoista
p.
7
9
13
15
33
45
47
Capitolo III Sicurezza e Strategia. La funzione dell’APL
Pensiero strategico e Istituzioni Militari:
il Lascito del Passato
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Capitolo IV Un bilancio: Incertezze Presenti e Prospettive Future
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79
Bibliografia generale
117
Elementi di bibliografia in cinese
133
Appendice
a) Fonti: due testi particolari
b) Dati numerici
139
139
150
Abbreviazioni*
ACTFA
APL
APEC
ARF
APT
ASEAN
CMC
ECAFE
JSDF
PKO
RMA
ROC
RPC
SCO
SEATO
SOE
ZES
Asean-China Free Trade Area
Armata Popolare di Liberazione
Asia Pacific Economic Cooperation
Asia Regional Forum
ARF Plus Three
Association of Southeast Asia Nations
Central Military Commission
[United Nations] Economic Commission for Asia ano The
Far East
Japan Self Defense Forces
Peace Keeping Operations
Revolution in Military Armaments
Repubblica di Cina
Repubblica Popolare Cinese
Shanghai Cooperation Organization
South East Asia Treaty Organization
State Owned Enterprise
Zone Economiche Speciali
* Avvertenza. Le legenda sopra riportate sono quelle maggiormente usate nella letteratura corrente. Ciò ha portato alcune inevitabili incongruenze, perché si è preferito evitare di usare il riferimento per esteso a tutti i termini soltanto in italiano o soltanto in inglese, scegliendo
invece le sigle che ci sembrano generalmente più utilizzate o più chiare. Inoltre, potendo scegliere fra diversi acronimi, si sono comunque scelti quelli più vicini alle formule usate su scala
internazionale (ad esempio APL invece che Epl, per le forze armate cinesi).
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Introduzione
Come minimo a partire dalla fine degli anni ’80 non solo la stampa specializzata, ma anche i mezzi di comunicazione di massa hanno diffuso, con toni talvolta ammirati o sorpresi e talvolta allarmati, la sensazione o l’idea per la
quale la Repubblica Popolare Cinese si stesse trasformando sia a livello globale che nell’area regionale asiatica, in una grande potenza nel senso pieno del
termine. Ne è derivato un quesito, che si è posto tanto agli operatori politici e
agli uomini di stato quanto agli studiosi, ovvero se questo sviluppo sia destinato a continuare in futuro e, in caso di risposta positiva, in che modo possa
contribuire a modificare gli equilibri internazionali di potenza.
Naturalmente il problema si è posto in gran parte in seguito al rapido ed
elevato tasso di sviluppo economico di questo paese, ma presenta un retroterra storico, che non deve essere trascurato. La Cina della fine del XIX° e della
prima parte del XX° ha infatti vissuto un’esperienza del tutto particolare, che
alcuni grandi sinologi hanno analizzato e che lascia tracce ancora presenti nella psicologia collettiva del suo popolo. All’inizio dell ’800, essa non era soltanto il maggiore stato dell’Asia Orientale, ma per secoli aveva coltivato la certezza della sua superiorità culturale rispetto al resto del mondo e comunque aveva raggiunto la civiltà più progredita al di fuori dell’Europa. A questo orgoglio intellettuale e psicologico era collegata anche la convinzione diffusa di essere il solo stato al mondo, investito dall’Ordine Cosmico (il Cielo o T‘ien) di
una forma di primato di natura morale, con sfumature metafisiche, rispetto
agli altri paesi. Con le vicende storiche del XIX° secolo, che la coinvolsero
quando tale visione era ancora vitale, le istituzioni imperiali entrarono in crisi sotto l’urto dell’espansione europea in Asia e la società subì gravi sconvolgimenti. Tutto ciò fece sorgere un diffuso senso di umiliazione e di frustrazione che strideva in modo doloroso con la visione del mondo ereditata dal passato, inducendo molti intellettuali a rimettere in discussione i valori e il contenuto della civiltà tradizionale, così da avviare trasformazioni radicali, le qua9
li sul piano politico andarono dalla fine dell’impero all’ascesa del regime comunista durante la prima metà del ’900. Non è un caso che il principale leader “rivoluzionario” dello scorso secolo, Mao Zedong, fosse stato un uomo
educato in gioventù nella cultura classica, il quale si avvicinò al Materialismo
Storico in gran parte sotto l’influenza delle teorie leniniste, perché queste vedevano nel Comunismo lo strumento di redenzione delle popolazioni del
mondo extraeuropeo dalla dominazione coloniale.
Ora bisognerebbe insistere che l’eredità intellettuale di questo trauma
non si è ancora del tutto cancellata oggi, producendo inaspettate conseguenze nella particolare situazione verificatasi da quando, a partire dal 1977, il sistema politico ed economico hanno cominciato ad allontanarsi, senza riconoscerlo formalmente, dal Socialismo Reale. Sebbene l’ideologia marxista
non sia mai stata rinnegata ufficialmente come tale, infatti, è lecito affermare che oggi la legittimità del Partito Comunista si appoggia soprattutto, come del resto avvenne già all’epoca della nascita della Repubblica Popolare,
sul nazionalismo, o forse sarebbe meglio dire sull’orgoglio o sul sentimento
nazionale dei cinesi. In altre parole la statura internazionale che la RPC sta
acquistando per ragioni economiche si associa nella mentalità collettiva al risveglio, più o meno generalmente condiviso a livello cosciente, del senso di
grandezza proprio della tradizione cinese e reca spesso il segno dei sensi di
rivalsa o delle umiliazioni sopravvissuti nella memoria collettiva in riferimento alla storia degli ultimi due secoli. In questo modo due fattori, il nuovo sistema sociale che si sta formando sulle ceneri del regime maoista e i condizionamenti del passato, fanno da cornice agli attuali atteggiamenti in materia internazionale.
Perciò il discorso sviluppato in questo lavoro, che si propone essenzialmente di esaminare il problema della sicurezza della RPC ai giorni nostri non
poteva prescindere dall’esame di numerosi fattori, storici e culturali, ma anche istituzionali, che condizionano la politica estera della Cina. Da qui discende la struttura complessiva del lavoro. Un primo capitolo, che ha funzione introduttiva, inquadra la materia dal punto di vista storico, tracciando una rapida traiettoria che giunge alla fine della cosiddetta era maoista nel 1976, mentre in una seconda parte delinea una traccia delle “forze profonde” di carattere sociale ed economico messe in movimento dalle riforme introdotte negli anni successivi, facendo da cornice ai temi della sicurezza.
Il secondo capitolo, invece, entra nel vivo dell’argomento presentando,
ancora sul piano storico, un riesame della politica estera dopo la morte di Mao,
attraverso lo spartiacque della fine della Guerra Fredda, che convenzional10
mente abbiamo identificato con quella dell’Unione Sovietica nel 1992, ma più
ampiamente fatto risalire anche ad alcuni anni più indietro. In questo modo
abbiamo raggiunto il momento che inizia appunto dalla fine dell’Urss, concentrandoci sui cambiamenti di scenario che hanno interessato la Cina e avviando la discussione sulla risposta cinese alla fine del bipolarismo e sulle previsioni relative al futuro.
Il terzo capitolo affronta un soggetto più particolare e specifico. Per comodità esso è stato diviso in tre parti che trattano rispettivamente i lasciti dell’antica tradizione cinese e del pensiero maoista sulle concezioni della difesa
nazionale e della guerra; le istituzioni militari della RPC e il modo in cui esse
si collocano nel quadro della struttura politica, ancora essenzialmente articolata secondo il modello leninista, ma in corso di sensibile cambiamento negli
ultimi decenni; l’impatto sulla cultura e l’organizzazione militare cinese, e sui
suoi riflessi di politica estera, della cosiddetta “Rivoluzione negli Affari Militari” la quale ha radicalmente modificato il pensiero bellico e verosimilmente
il modo di condurre le guerre alla fine del XX° secolo.
L’ultimo capitolo discute i principali problemi posti dagli studiosi circa
l’entità della potenza cinese al momento attuale e i temi relativi alla sicurezza
nei rapporti tra la RPC e gli altri stati, anche sul piano geostrategico e multilaterale, insieme alle proiezioni che si possono abbozzare intorno a queste tematiche per i prossimi decenni. Esso cerca di discutere inoltre almeno alcune tendenze della politica estera cinese rispetto alla dinamica delle alleanze internazionali in questo prima parte del XXI° secolo. Sul piano del metodo, come già
si è detto tutta l’indagine si è basata su un’ampia recensione della produzione
scientifica internazionale, anche se è doveroso ammettere che la letteratura
specializzata ha raggiunto tali dimensioni, che è stato possibile richiamarla soltanto selettivamente e non si è neanche ritenuto necessario riportare in bibliografia tutti i saggi dei quali è stato fatto uso. È parso utile inoltre tenere presente un metodo utilizzato da vari studi anglo-sassoni, quello cioè di considerare le tendenze interpretative offerte dalle riviste cinesi di relazioni internazionali come un indicatore delle idee che supponiamo presenti e dibattute all’interno dell’élite dirigente. In questo modo infatti è verosimilmente possibile riparare alla limitata utilità nell’uso delle fonti giornalistiche e ufficiali in un
paese nel quale la libertà di espressione è ancora incompleta. Questo tipo di
materiale è stato preso in esame, considerando la sua estensione, sia attraverso sondaggi diretti che tesaurizzando, nei limiti del possibile, gli studi dei ricercatori occidentali. A corredo dell’intero lavoro, infine, un’appendice offre
una scelta di documenti e dati numerici utili. L’auspicio insomma, è di aver
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contribuito a colmare un vuoto tendenziale nella cultura italiana, offrendo un
primo sintetico bilancio sul tema della posizione internazionale, con particolare riferimento al tema della sicurezza, della Cina di oggi, considerandone anche le premesse interne e collocandola nel suo percorso storico.
Desidero a questo punto ringraziare alcune collaboratrici, che hanno alleggerito l’impegno di questo lavoro. In primo luogo la dottoressa Anita Arena, che ha curato l’appendice di questo libro, poi le dott.sse Manuela Menchi
e Patrizia de Biasi, e infine la professoressa Bai Hua, lettrice di Lingua e Letteratura Cinese presso le Università di Roma Tre e “La Sapienza” di Roma, il cui
aiuto è stato davvero insostituibile per utilizzare con rapidità le fonti cinesi.
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Capitolo I
Il quadro di riferimento
Parte prima
Precedenti Storici
La seconda metà del XIX° secolo segnò per l’impero cinese una fase di
passaggio “epocale”1. Il paese era governato dalla dinastia Qing, originaria
della Manciuria, che lo aveva conquistato nel XVII° secolo. La tradizione però,
per la quale la Cina, era non solo la principale potenza territoriale nell’area
dell’Estremo Oriente, ma anche la portatrice di una cultura, diffusa nei paesi
vicini e superiore rispetto ad essi, continuava a far parte dell’ideologia ufficiale. Le unità politiche confinanti dell’Asia Orientale antica in effetti, oltre ad
essere politicamente o militarmente più deboli, nella seconda metà del Settecento, erano organizzate fra loro in un sistema di relazioni, le quali, direttamente o indirettamente, erano basate su concetti, o come talvolta si dice su un
“codice”, appartenenti alla cultura cinese. Le popolazioni dell’Asia centrale e
settentrionale erano state sottomesse definitivamente nel XVIII° secolo; il
Giappone praticava la cosiddetta “politica di chiusura” (sakoku), rigettando
rapporti regolari e costanti con altri paesi, salvo minime eccezioni, le quali riguardavano in prevalenza la materia commerciale; gli stati confinanti, come
l’Annam (attuale Vietnam), il Siam o la Corea, sia pure con interruzioni temporanee i primi due, praticarono il vassallaggio verso Pechino.
L’imperatore Qing, come quelli delle precedenti dinastie, si considerava
titolare della sua carica in virtù di un “mandato celeste”, che faceva di lui il
“Figlio del Cielo”, unico sovrano della terra ad aver ricevuto l’investitura dal
T‘ien, un’entità vagamente impersonale, che nel pensiero ufficiale corrispondeva al supremo principio regolatore dell’universo. Gli altri sovrani si riteneva che avessero un rango inferiore rispetto a lui e, malgrado eccezioni a questa regola fossero state fatte nei primi decenni della dinastia2, la corte Qing
1 Nell’ampia produzione disponibile sulla storia della Cina nel tardo periodo Qing, segnaliamo J. Chesnaux, M. Bastid e M-C. Bergère, La Cina, voll. 1° e 2°, Torino, Einaudi, 1974.
2 Cfr. A. Albanese, “Il retaggio del passato e le anticipazioni del futuro nell’era kangxi”,
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consentiva ad aver rapporti con i re stranieri (wang) a condizione che tale rapporto verticale fosse accettato da loro. Tutto ciò si rifletteva in particolari cerimoniali, nel corso dei quali le ambascerie presentavano doni e recavano
omaggio periodicamente al Figlio del Cielo. I monarchi stranieri erano esclusi dai rapporti formali con l’impero a meno che non accettassero questo tipo
di “sistema”.
Sul piano pratico tale rapporto aveva un contenuto concreto molto variabile, il quale non andava in genere oltre una sottomissione nominale e portava come unica conseguenza che se uno dei re vassalli fosse stato minacciato da
ribellioni, la Cina si riservava di intervenire per proteggerlo. Di fatto, in un
modo mai formalizzato, la cintura dei paesi tributari rappresentava una blanda fascia di stati-cuscinetto attraverso i quali l’impero aveva una possibilità di
agire sul piano politico per proteggere i suoi confini. Questa funzione in larga misura ricavava la sua efficacia dalle scelte degli altri paesi stessi, i quali talvolta per decenni non rinnovavano il vassallaggio, sicché aveva efficacia molto diversa a seconda dei casi. Per fare un esempio, il vassallaggio con la Corea
era particolarmente stretto e, data la vicinanza di questo paese alla Cina settentrionale e alla Manciuria, rivestiva importanza strategica. Alla fine dell’Ottocento, nel tentativo di arginare le pressioni del Giappone e delle potenze europee, l’Impero Celeste prima cercò di trasformare il vassallaggio in una forma di protettorato di tipo Occidentale e poi restò coinvolto nella sfortunata
guerra col Giappone del 1894-95. Al contrario, il vassallaggio, per esempio,
col Siam non aveva nella prima metà dell’800, pur sopravvivendo ancora, praticamente significato concreto.
D’altra parte bisogna considerare che nel XIX° secolo nei paesi asiatici a
Sud della Cina abitavano spesso comunità di lingua cinese, le quali spesso rivestivano un ruolo significativo sul piano delle attività commerciali e, sebbene svincolate dall’impero, partecipavano tuttavia della cultura di quest’ultimo
e conservavano contatti con i suoi abitanti. La loro presenza contribuiva a dare concretezza all’immagine di un “ordine del mondo confuciano”, caratterizzato sul piano dei rapporti fra gli stati dal sistema del vassallaggio e nello stesso tempo permeato dalla civiltà sinica.
Gli avvenimenti alla metà del XIX° secolo, segnati dalla sconfitta militare
nella guerra con la Gran Bretagna del 1839-42 (la cosiddetta Guerra dell’Oppio) e, più tardi, da una nuova sconfitta subita ad opera della Francia e delin C. Bulfoni (a cura di), Tradizione e Innovazione nella Civiltà Cinese, Milano, Franco Angeli,
2002, pp. 171-196, specialmente pp. 192-93.
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l’Inghilterra fra il 1856 e il 1858, si accompagnarono ad una serie di trattati internazionali, i quali via via trasformarono completamente il quadro sopra accennato. La Cina dovette accettare il rapporto paritario con le due potenze europee, secondo i principi del diritto internazionale occidentale, e aprire un numero crescente di porti, ove le merci straniere godevano di privilegi doganali
e i loro cittadini erano sottratti alla giurisdizione dei tribunali cinesi, secondo
un criterio originariamente pensato in analogia ai regimi “capitolari” in uso
nel Mediterraneo. Le due sconfitte militari mostrarono inoltre l’inferiorità degli armamenti e delle strutture militari cinesi rispetto a quelle occidentali. Presto la monarchia Qing dovette misurarsi con tre grandi ondate di ribellioni
(dei Taiping, dei Nian e delle popolazioni islamiche della provincia dello Yunnan nel Sud e delle regioni del Nord e del Nord-Ovest), nel corso delle quali
ricevette alcuni aiuti dalle potenze straniere, ma finì per rinunciare ulteriormente ad elementi di sovranità sul suo territorio. È in questo periodo che si
forma il cosiddetto settlement di Shanghai, un’area cioè all’interno della città,
nata dalla fusione di alcune “concessioni”, dove l’amministrazione era delegata ai residenti e ai consoli stranieri in regime di extraterritorialità.
Nella seconda metà dell’’800, un’ulteriore serie di sconfitte militari e di
conseguenti trattati internazionali determinava il crollo del Sistema del Tributo. La penetrazione francese in Indocina portò alla guerra col governo di Parigi e, col trattao di Tianjin del 1885 alla perdita del vassallaggio sull’Annam.
Già nel 1869 e poi dopo una lunga controversia diplomatica durata fino al
1882 col Giappone, Pechino finì per rinunciare anche al rapporto tributario
con le isole Ryūkyū. Dopo la conclusione dei primi trattati che aprivano la Corea ai rapporti internazionali, i tentativi di penetrazione giapponese in Corea
e gli interessi strategici inglesi e russi intorno a questa penisola interagirono
con i contrasti fra correnti riformatrici e tradizionaliste al suo interno. Tutto
questo portò la Cina a cercare di rendere più diretto il suo controllo sul governo di Seul, ma alla fine condusse alla guerra sino-giapponese del 1894-95.
Il trattato di Shimonoseki, che la concluse, non solo obbligò Pechino a rinunciare al vassallaggio, ma, tra l’altro, anche a cedere al Giappone l’isola di
Taiwan. Nel 1898 l’impero fu costretto dalla pressione di quattro potenze straniere, la Germania, la Francia e la Russia, a cui si aggiunse la Gran Bretagna,
alla perdita di una serie di diritti sulla Manciuria Meridionale, a favore di S.
Pietroburgo, e in altre regioni costiere a beneficio delle altre tre. Tutto questo
si aggiunse a pesanti indennità finanziarie che la Cina fu costretta a versare, oltre a varie umiliazioni subite in una serie di incidenti secondari. In un confuso tentativo di rivincita, i circoli più conservatori della corte finirono per in17
coraggiare allora la ribellione cosiddetta, dagli occidentali, dei Boxers, che fra
il 1897 e il 1900, condusse ad una serie di gravi incidenti a sfondo xenofobo,
culminati nel celebre “assedio delle legazioni”. Essa finì per accompagnarsi ad
una dichiarazione di guerra da parte della corte Qing all’Inghilterra e alla
Francia, seguita da una spedizione internazionale, che, dopo aver conquistato Pechino, impose all’imperatrice reggente l’umiliante protocollo del 16 gennaio 1901. In seguito a quest’ultimo, ulteriori “concessioni” dovettero essere
assegnate a potenze straniere, mentre il pagamento di una pesante indennità
finanziaria veniva imposto, per giunta dopo che anche in questo caso gravi eccessi erano stati compiuti dall’armata internazionale in territorio cinese.
In sostanza la guerra sino-giapponese e il trattato di Shimonoseki segnano una spartiacque fondamentale, poiché determinarono il crollo definitivo
dell’“ordine mondiale confuciano” e aprirono la strada al completo infeudamento alle potenze straniere.
Dai brevissimi cenni che abbiamo fatto, si capisce come intorno alla fine
della seconda metà dell’Ottocento, la Cina avesse vissuto un dramma storico
praticamente unico: da paese dominante, che per tradizione si collocava al
centro del mondo, si era trasformata in meno di tre decenni in una specie di
gigantesca “vittima”, esposta a mortificazioni del sentimento nazionale ad
opera di altri paesi più potenti, fino a poco tempo prima praticamente sconosciuti o considerati inferiori e barbari, ma dotati di conoscenze tecniche e
scientifiche più avanzate delle sue3.
Nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento si svilupparono anche diversi movimenti riformatori, alcuni all’interno dell’élite dirigente ed altri rivoluzionari, i quali proponevano programmi di riforme volti a
svecchiare, con progetti diversi a seconda dei casi, la struttura amministrativa e
ad introdurre o diffondere la cultura occidentale allo scopo di gettare le premesse per restituire al paese la sua piena indipendenza e sovranità. Fra questi si
notava anche una certa diversità nel modo di apprezzare, di ripensare o respingere del tutto la tradizione. Le critiche contro l’incapacità dei Qing di fronte alla pressione straniera spesso incorporavano anche i motivi dell’opposizione e
dell’insofferenza, che risaliva ai secoli precedenti, contro la dinastia “barbara”.
In questo modo dalla crisi dell’impero, che era multietnico4, vediamo sorgere
3 Cfr. per questa prospettiva, in particolare L. Bianco, Les origines de la révolution chinoise, 1915-1949, Gallimard, Paris 1967.
4 È interessante a questo proposito la recente ricerca di P. K. Crossley, Translucent Mirror:
History and Identity in Qing Imperial Ideology, Univ. Of California Press, Berkeley, 2000.
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un movimento politico, il quale identificava la Cina e il suo patrimonio storico
e culturale con l’etnia propriamente han, distinguendola dalle minoranze di altra origine (mongole, mancesi, tibetane, etc.) e propugnando un nazionalismo
di tipo moderno, sul quale anche il concetto di razza aveva impresso una traccia5. Nel primo decennio del ’900 il governo introdusse riforme amministrative
e in parte costituzionali, che diedero al paese per la prima volta istituzioni burocratiche e forze militari, per quanto limitate, al passo coi tempi. Dopo la guerra russo-giapponese assistiamo al tentativo di inserire la Cina nel gioco diplomatico fra le grandi potenze, sviluppando con maturità iniziative già accennate
nel secolo precedente, ma ciò non bastò a fermare la decadenza dell’impero, la
cui storia si conclude con la rivoluzione repubblicana del 1911-12.
Dopo un periodo disordinato, in cui dietro l’apparente unità politica,
l’autorità statale si frammenta e il paese affonda sempre più nel disordine, il
partito del Guomindang (GMD)6 riesce a insediare un proprio governo nella
Cina del Sud a Canton e poi dopo una fortunata campagna militare, la cosiddetta Spedizione Settentrionale, fonda la Repubblica di Cina (ROC) nel 1927,
con capitale Nanchino. Pechino è conquistata nel 1928. Il programma del
GMD è nello stesso tempo radicale, nel senso che propone un modello politico e costituzionale basato sul pensiero del fondatore Song Zhongshan (Sun
Yat-sen), di ispirazione occidentale e repubblicana, con alcuni imprestiti anche dal leninismo per quel che riguarda il ruolo del partito egemone, ma anche eclettico e nazionalista, nel senso che sviluppa almeno fino all’inizio degli
anni Trenta una strategia volta a recuperare i diritti e le prerogative di sovranità perduti nel passato. Tra il 1927 e il 1930, la ROC riconquista la sovranità
giudiziaria e doganale, ottiene la rinuncia della potenze a una parte delle “concessioni” e attua importanti riforme. Dopo gravi momenti di tensione, riesce
a stabilire anche relazioni cordiali con le potenze europee e con gli Stati Uniti. Dal punto di vista internazionale è importante ricordare alcuni punti. La repubblica che nasce nel 1912 è strettamente han (cinese), mentre il Tibet e la
Mongolia proclamano la loro indipendenza subito dopo la rivoluzione repubblicana, aprendo due specifiche controversie, una delle quali verrà chiusa nel
1952 e l’altra sotto un certo profilo ancora esiste. Inoltre, a partire dall’enunciato della dottrina della “Porta Aperta”, fra il 1899 e il 1901, fino al cosiddet-
5 Cfr. l’Introduzione di E. Collotti Pischel a, Sun Yat-Sen, I Tre Pricipi del Popolo, Einaudi, Torino, 1976, pp. VII-XLVIII.
6 Su questa fase resta fondamentale, L. E. Eastman, The Abortive Revolution. China under nationalist Rule, 1927-31, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass., 1974.
19
to Trattato delle Nove Potenze, stipulato all’interno della Conferenza di Washington del 1921-1922, le potenze straniere interessate riconoscono praticamente tutte il principio del rispetto dell’indipendenza e dell’integrità territoriale della Cina, che, dopo aver dichiarato guerra agli Imperi Centrali nel 1917,
entra nella Società delle Nazioni. Infine la Cina subisce l’influenza della Rivoluzione d’Ottobre in Russia e molti fautori della modernizzazione e dell’occidentalizzazione del paese finiscono per accettare il marxismo nella versione
bolscevica, finché nel 1921 viene fondato il Partito Comunista Cinese (PCC).
Quest’ultimo, in armonia con le teorie leniniste, stringe con il GMD un’intesa, la quale dura fino al 1927, quando inizia una guerra civile destinata a durare fino al momento dell’invasione giapponese del 1937. Attraverso questa
vicenda il PCC finirà per presentarsi come antagonista storico del GMD. Gli
anni trenta sono dominati da due cicli di eventi, in vario modo collegati fra loro. Dopo la nascita della ROC, si crea un complesso attrito fra il regime di Nanchino e il Giappone, che ha ereditato dopo la vittoria del 1905 i diritti russi in
Manciuria e attraversa una sofferta crisi nel regime politico a partire dalla fine degli anni Venti. Il controllo della Manciuria per una parte delle sue élites
dirigenti non ha valore soltanto economico, ma anche strategico e serve a garantire la sicurezza della Corea, che dal 1909 è colonia giapponese, e della stessa madrepatria. In particolare l’esercito giapponese attribuisce importanza a
questa regione come riserva di materie prime, principalmente nell’ipotesi di
un conflitto con l’Unione Sovietica, che alla fine degli anni Venti si è riaffacciata come grande potenza in Estremo Oriente. In queste condizioni si verifica il “colpo” architettato dai comandi militari giapponesi in Manciuria, i quali, scavalcando il governo di Tokyo, favoriscono prima la creazione dello stato
fantoccio del Machukuò nel 1931 e poi finiscono per causare una crisi costituzionale all’interno del Giappone stesso, dove il regime liberale degli anni
Venti è gradualmente sostituito, fra il 1932 e il 1936, da uno via via maggiormente autoritario. In questo contesto l’armata del Sol Levante attua una penetrazione strisciante nella Cina del Nord fra il 1935 e il 1936, imponendosi
alla svogliata resistenza del GMD. Quest’ultimo, infatti, indebolito anche dalla rivalità fra gruppi rivali al suo interno, preferisce concentrare le sue energie
sulla lotta contro i comunisti, finché le reazioni dell’opinione pubblica interna e l’influenza delle correnti “filo-occidentali”, non inducono il “Generalissimo” Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek), che dalla morte di Sun Yat-sen è la figura principale del regime, anche indipendentemente dal suo ruolo formalmente istituzionale, a piegarsi ed accettare la strategia del cosiddetto “Secondo
Fronte Unito”. Esso raggiunge una tregua con i comunisti e si coalizza con lo20
ro per respingere la penetrazione nipponica. Questa situazione matura definitivamente dopo il cosidetto “Incidente di Xi’an” del dicembre 1936 e conduce nell’estate del 1937 alla guerra non dichiarata e all’invasione lanciata dal
Giappone contro la Cina7. Negli anni dal 1941 al 1945, il conflitto in Cina diventa un capitolo secondario della seconda Guerra Mondiale, durante la quale al governo del Guomindang resta solo il controllo di tre regioni della Cina
Occidentale, dopo le vittorie giapponesi degli anni fra il 1937 e il 1939, mentre i comunisti combattono il comune nemico, acquartierati nella provincia
settentrionale dello Shaanxi, attraverso una tattica di guerriglia che si allarga
verso le regioni centrali del paese, le quali, insieme a quelle del Nord, sono
quelle a soffrire di più per le vicende della guerra8. Contrariamente a quanto
per un lungo periodo si è affermato, noi oggi sappiamo9 che nel frattempo il
PCC resta ideologicamente fedele al Komintern fino alla seconda guerra mondiale, anche se la leadership di Mao Zedong, che si afferma definitivamente solo dopo il 1935, sul piano della tattica rivoluzionaria e bellica, presenta spunti originali rispetto ai modelli sovietici. Il PCC e il GMD si combattono aspramente fino al 1936, si riconciliano e collaborano contro il nemico comune dopo l’aggressione del Giappone e di nuovo prendono le distanze durante la
Guerra del Pacifico. Alla fine di quest’ultima la Guerra Civile riprende e si
conclude con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC), il 1
ottobre 194910. È importante a questo punto soffermarsi su alcuni punti. Il
successo del PCC nella guerra civile è dovuto in gran parte al discredito del
governo nazionalista anche fra le classi medie occidentalizzate e benestanti
della Cina meridionale, deluse dalla diffusa corruzione al suo interno e dalle
tendenze autoritarie e sempre più conservatrici affiorate negli anni della guerra. A queste si accompagnava l’immagine di intransigenza morale che il partito di Mao presentava e la sua irriducibile ostilità, che secondava il senso nazionale dei cinesi, di fronte ai residui di imperialismo straniero.
7 Per una sintesi di questo processo, arricchita da una vasta bibliografia, P. M. Coble, Fa-
cing Japan. Chinese Politics and Japanese Imperialism, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass.,
1991.
8 Su questa fase, cfr. la sintesi di J. Osterhammel, Storia della Cina Moderna, secoli XVIIIXX, Einaudi, Torino, 1989, capp. XIV e XV.
9 Cfr. soprattutto, M. M. Sheng, Battling Western Imperialism. Mao, Stalin, and the United States, Princeton Univ. Press, Princeton, 1997.
10 Per la storia generale della repubblica popolare cinese, segnaliamo, anche qui in una
produzione oramai vastissima, M-C. Bergère, la Cina dal 1949 ai giorni nostri, Il Mulino, Bologna, 2000, che comprende un’utile bibliografia più specializzata.
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Inoltre, sebbene la nascita ufficiale della RPC sia avvenuta quando in Europa era già iniziata la Guerra Fredda, a un anno dal blocco di Berlino del
1948, la Guerra Civile si sviluppa abbastanza indipendentemente da quest’ultima. Nel 1948 la decisione di Mao di continuare la sua offensiva verso il Sud
della Cina, attraversando il fiume Yangzi, viene presa contro i consigli di Stalin. L’apertura recente degli archivi sovietici conferma la vicinanza fra i comunisti cinesi e l’Urss anche in quel momento, ma lascia comprendere che la tendenza all’autonomia dei cinesi era comunque di dimensioni maggiori che fra
i partiti comunisti dell’Europa Orientale.
In particolare affiora qui un problema, sul quale gli studiosi hanno spesso discusso, ovvero se la fedeltà a Mosca arrivasse al punto di prevalere o meno anche sull’ideale di portare a compimento l’unità nazionale, restaurando
una compagine statale in prospettiva territorialmente corrispondente a quella
dell’impero Qing. E qui nasce un’altra controversia, tuttora aperta fra gli storici. È molto difficile dire come i leaders del PCC si ponessero di fronte alle
potenze occidentali, soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti, al momento della nascita della RPC. La questione è ancora oggetto di contrastanti vedute, ma,
fra molte incertezze, alcuni punti sembrano fermi. Da un lato è impensabile
che il nuovo stato comunista potesse staccarsi dall’Urss al punto di schierarsi
fra i suoi avversari nella cornice della Guerra Fredda. Dall’altro è molto probabile che all’interno del PCC esistesse una corrente, o almeno un gruppo di
dirigenti, i quali tendevano ad accelerare l’avvio di relazioni positive con le potenze occidentali sia per ragioni economiche, sia per evitare che crescesse
troppo l’influenza dell’Urss. Non si può escludere, e a mio avviso anche è probabile, che il regime comunista avrebbe potuto nel 1949 arrivare al punto di
allacciare relazioni diplomatiche con gli Usa, se questi avessero preso le distanze dal regime di Taiwan, senza con questo rinnegare l’allineamento ideologico con Mosca, anche se in concreto è difficile stabilire quali scelte strategiche
ne sarebbero derivate. Almeno in potenza, il fatto che l’armata sovietica non
avesse preso parte alla guerra civile in Cina lasciava al partito di Mao un’autonomia molto maggiore che ai regimi comunisti dell’Europa Orientale, ma all’inizio degli anni ’50 non maturarono frutti da queste premesse.
La RPC compie probabilmente una definitiva scelta di campo nel corso
del 1950. Ci troviamo qui di fronte ad uno spartiacque storico fondamentale,
rappresentato dall’alleanza cino-sovietica del 1950 e, più tardi, in seguito ad
un’esplicita richiesta di Stalin, all’intervento, per quanto formalmente mascherato, nella Guerra di Corea nell’autunno. Ambedue questi eventi, che
spostano definitivamente la RPC nel campo sovietico, trovano ancora una vol22
ta la loro origine nella questione di Taiwan. L’itinerario diplomatico dell’alleanza con Mosca, stipulata durante il primo viaggio del capo comunista fuori della Cina, è particolarmente complesso e va oltre i fini di questo studio, ma
è evidente che Mao la volle fondamentalmente per due ragioni, tra le quali è
tuttora impossibile dire quale fosse la principale. Da un lato egli probabilmente temeva un possibile intervento americano, che rovesciasse il verdetto delle
guerra civile contro il GMD, dall’altro l’alleanza con la Russia rappresentava
l’unica via d’uscita dall’isolamento in cui si trovava. Poiché, tuttavia il fine
principale di Mao sul piano internazionale rimaneva quello di “completare l’unificazione”, portando nella RPC Taiwan appunto e il Tibet (l’indipendenza
della Repubblica Popolare Mongola viene riconosciuta nel 1952 subito dopo
l’alleanza con l’Urss), questo fine sarebbe restato del tutto irraggiungibile, in
mancanza di un alleato, tale da neutralizzare il senso di pericolo o la minaccia
che il leader cinese sentiva da parte dell’America. Inoltre, anche se l’intervento cinese in Corea venne deciso dopo molte incertezze, in gran parte oggi conosciute, nell’ottobre, non c’è dubbio che Mao inclinasse in questa direzione
da quando, all’indomani dell’invasione della Corea del Sud in giugno, la flotta americana si era posizionata nello stretto di Taiwan. I due problemi (la Corea e Taiwan), in realtà erano diversi, ma per Mao fu l’iniziativa americana a
legarli fra loro. Al di là di ogni altra considerazione, il problema di Taiwan
spinse la RPC verso l’Urss in termini strategici, colmando tutte le divergenze
che rimanevano malgrado la fedeltà dei comunisti cinesi a Stalin e al modello
bolscevico. Perciò la guerra di Corea contribuì a fissare la Cina accanto all’Unione Sovietica, probabilmente facendo cadere le esitazioni di quella parte del
PCC, che avrebbe voluto mantenere aperto uno spiraglio alla riconciliazione
con gli Stati Uniti e le potenze europee. Più in profondità però, anche in questo caso appare evidente la motivazione “nazionale”, che probabilmente valse in modo decisivo a persuadere Mao ad allearsi con l’Urss e a lasciarsi convincere ad entrare nel conflitto scatenato dal regime di Pyongyang. Anche a
voler ammettere, come alcuni autori ancora fanno, che la preoccupazione per
la sicurezza del confine concorresse con la stessa intensità ad orientare la scelta di Pechino, non sembra dubbio a nostro avviso il prevalere di motivazioni
in cui l’elemento ideologico non pesava meno di quelli tradizionali11. Il perio11 Sui temi internazionali degli anni 1949-50, rimandiamo alle note di V. Ferretti, “Autonomia Diplomatica e Proiezioni Verso Il futuro Nella Politica Estera Cinese Alla Nascita Della RPC”, in A. Cadonna e F. Gatti (a cura di), Cina. Miti e Realtà, Cafoscarina, Venezia, 2001,
pp. 233-350 e, dello stesso autore, Alcuni particolari sull’ingresso della Cina nella guerra di Corea, «Mondo Cinese», vol. 97, 1998, pp. 39-53.
23
do di appiattimento della politica estera cinese rispetto all’Unione Sovietica
può essere fatto verosimilmente cessare, quando la Cina venne invitata a partecipare alla Conferenza di Ginevra sull’Indocina nel 1954, dove, grazie alle
differenze di vedute fra la Francia e l’Inghilterra, da un lato, e gli Stati Uniti
dall’altro, Zhou Enlai riuscì a far valere la linea di Pechino. L’atto finale della
conferenza come noto stabilì un confine armistiziale fra i due Vietnam e, lasciando un certo spazio alla Francia, approvò una formula che si avvicinava a
neutralizzare il Laos e la Cambogia. In questo modo Zhou riuscì ad evitare che
la Cina andasse incontro a un’altra guerra come quella di Corea e nello stesso
tempo probabilmente ottenne che non si formasse uno stato indipendente
esteso a tutto il Vietnam lungo il confine meridionale. Inoltre riuscì a gettare
un ponte con l’Inghilterra e la Francia, isolando gli Usa12. In questo modo la
Cina riassumeva di fatto il volto e le responsabilità di una grande potenza in
Asia e gettava le premesse per normalizzare i suoi rapporti con i paesi occidentali. Poco prima della Conferenza di Ginevra, in un trattato con l’India che
riguardava i reciproci confini e il problema della sovranità sul Tibet, vennero
definitivamente fissati e proclamati i cosiddetti 5 Principi sulla Coesistenza
Pacifica, che, teoricamente mai rinnegati più tardi, ancor oggi costituiscono la
base della dottrina ufficiale sul comportamento della RPC verso gli altri paesi,
ovvero, “1° Mutuo Rispetto dell’Integrità Territoriale e dalla Sovranità; 2°
Mutua Non-Aggressione; 3° Mutua Non-Ingerenza negli Affari Interni; 4°
Eguaglianza e Mutui Vantaggi; 5° Coesistenza Pacifica”.
Su questi principi c’è da osservare in primo luogo che essi implicano una
dottrina nuova in materia di politica estera, la quale accettava di mettere sul
piano della non aggressione e del rispetto delle frontiere, anche i rapporti con
i paesi capitalisti, mentre rinunciava esplicitamente al principio di “esportare
la rivoluzione”. Essa non coincideva con la teoria maoista, che invece aveva
enfatizzato la lotta contro “l’imperialismo”, ma non rinnegava la solidarietà
con i popoli che lottavano contro la dominazione coloniale e una certa apertura verso le potenze europee diverse dagli Stati Uniti. In secondo luogo questa dottrina non si applicava già da allora ai territori, che la RPC rivendicava
alla sua sovranità e che quindi per essa risultavano “interni”, come Taiwan e
il Tibet. Per di più è probabilmente lecito vedere qui una contrapposizione di
indirizzi, sebbene ancor oggi sia molto difficile indicarne con certezza scienti12 Su tutta questa materia, Zhai Qiang, China and the Geneva Conference of 1954, «The
China Quarterly», n. 129, 1992, pp. 103-121. Oltre all’insuperabile F. Joyaux, La Chine et le Règlement du Premier Conflit d’Indochine (Genève 1954), Publications de Sorbonne, Paris, 1979.
24
fica gli esatti contorni, all’interno della dirigenza cinese fra una corrente o tendenza, che ne accentuava gli aspetti ideologici e il sostegno alle rivoluzioni anticoloniali in Asia e Africa, e un’altra che di fatto accettava i principi classici
dell’inserimento nella società internazionale attraverso le regole della diplomazia, includendo il reciproco rispetto della sovranità e la non-ingerenza. Non
a caso l’occasione della Conferenza di Ginevra permette di completare il riconoscimento diplomatico fra la RPC e la Gran Bretagna, un processo avviato da
Londra nel 1949, ma che ancora si trascinava fra svariate difficoltà. Un esito
amplificato dalla Conferenza di Bandong del 1955, alla quale l’Unione Sovietica non venne invitata e dove la Cina propose se stessa come portavoce dei
paesi asiatici di nuova indipendenza13.
Negli anni seguenti le due anime della politica estera cinese continuano
ad intrecciarsi. Nel 1954 i cinesi bombardano gli isolotti di Jinmen (Quemoy)
e Mazu, occupati dai nazionalisti di Taiwan, ma non protetti dal trattato difensivo in essere fra Taipei e gli Stati Uniti14. Nel 1958, traendo spunto dalla crisi irakena dello stesso anno, Pechino ripete i cannoneggiamenti e si profila una
scontro militare anche con gli Stati Uniti15. Intanto le questioni internazionali si mescolano a problemi interni e tensioni ideologiche, che cominciano a incrinare i rapporti con Mosca. Dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la denuncia dei crimini di quest’ultimo all’ottavo Congresso del PCUS nel 1956, la
fedeltà di Mao verso la Russia comincia ad appannarsi, mentre il leader cinese inizia a studiare una strategia economica, che seguisse un modello diverso
e più radicale rispetto a quello sovietico, fino a dare attuazione alle sue idee
col cosiddetto “Grande Balzo in Avanti” del 1958. In questo modo però, si
mette in contrasto con una parte dei dirigenti del Partito ed è portato, di conseguenza, ad usare la politica estera come strumento di mobilitazione interna,
rilanciando la linea della missione rivoluzionaria della Cina, sbandierando il
pericolo che la purezza ideologica del PCC venga contaminata dal burocratismo e dalla moderazione dei quadri e allontanandosi, nello stesso tempo dal
programma seguito alle Conferenze di Ginevra e di Bandong. Sul piano pro13 Sulla politica estera cinese del periodo maoista, v. un’opera che aggiorna le conoscenze secondo la più recente storiografia e i nuovi dati emersi dalle fonti cinesi, Chen Jian, Mao’s
China & the Cold War, The University of North Carolina Press, Chapel Hill & London, 2001.
14 R. Accinelli, Crisis And Committment. United States policy toward Taiwan, University
of North Carolina Press, Chapel Hill, 1996.
15 Anche su questo punto, è da vedere almeno un saggio recente, T. J. Christensen, Useful Adversaries: Grand Strategy, Domestic Mobilisation, and Sino-American Conflict, 1947-1958,
Princeton University Press, Princeton N. J., 1996.
25
priamente militare questo discorso si sviluppa contemporaneamente ad un acceso dibattito sul problema di dotare il paese di armamenti nucleari. Il Presidente ritiene che ciò sia positivo e permetta di garantire la sicurezza nazionale, senza trasformare l’Armata Popolare di Liberazione in un esercito di tipo
tradizionale e riducendo la dipendenza dall’Urss. Una consistente ala di alti
ufficiali e funzionari del partito, invece, confidano ancora nell’alleanza con la
Russia per la sicurezza del paese, ritengono poco utile lo sviluppo dell’armamento nucleare, tendono a professionalizzare le forze armate e ad alleggerire
la funzione dei Commissari Politici al loro interno, spesso giudicano negativamente le tendenze di Mao in materia economica. Negli stessi anni inoltre, lo
sviluppo dell’armamento nucleare in Unione Sovietica, modifica probabilmente la funzione dell’alleanza con la Cina agli occhi dei Sovietici, posto che
risulta meno importante per la sicurezza di Mosca la garanzia che l’alleanza
con Pechino offriva alla loro lunga frontiera orientale, e che ora poteva essere
comunque garantita con i missili intercontinentali a testata nucleare16. Inoltre
l’Urss mira in questo periodo ad avvicinarsi all’India.
Gli esiti di tutta questa situazione si vedono fra il 1958 e il 1962. Nel 1959,
con la purga seguita al plenum di Lushan, la corrente contraria alla strategia
del “Balzo” e allo stesso tempo più legata all’alleanza con la Russia viene decapitata dei suoi leader e, in una serie di conferenze successive, la strategia rivoluzionaria di Mao viene ribadita rispetto a quella di Ginevra e di Bandong.
Al Congresso dei Partiti Comunisti di Mosca del 1957, Mao prende posizione contro la dottrina della “coesistenza pacifica” con gli Stati Uniti e gli altri
paesi occidentali. Fra il 1958 e il 1962, in relazione a questi eventi e alle dispute confinarie con l’India, con l’aggiunta di altri problemi particolari, matura la
cosiddetta “rottura cino-sovietica”, segnata dalla parte di Mosca dal ritiro dei
tecnici inviati in Cina e dalla denuncia del trattato del 1958 in materia di approvvigionamento nucleare17. Si delinea a questo punto uno scenario, che per
mancanza di fonti, solo approssimativamente è stato finora ricostruito dagli
storici e da alcuni politologi. Alla Conferenza di Ginevra sul Laos del 1960-62,
la Cina ottiene un successo che conferma quello della conferenza di Ginevra
del 1954, perché la guerra in atto fra i principi laotiani viene risolta senza in16 Sendoka Junko, Furuschofu ūno Senryaku Shisō- sono Kakuritsu Katei to Chūgoku (Il
pensiero strategico di Khrushev- il suo processo di completamento e la Cina), «Kokusai Seiji»,
vol. 95, 1990, pp. 63-78, pp. 79-94, specialmente pp. 86-90.
17 Sullo sviluppo delle relazioni cino-sovietiche dall’alleanza del 1950 alla rottura del 1960,
cfr. i diversi saggi in O. A Westad (ed.), Brothers in Arma, The Rise and Fall of the Sino-Soviet
Alliance, 1945-1963, Stanford, California, Stanford Univ. Press, 1998.
26
tervento straniero e il Laos consegue uno status internazionale particolarmente vicino a quello voluto dalla Cina. Questo risultato è in larga misura il frutto dell’atteggiamento di potenze come la Francia, la Gran Bretagna e l’India,
mentre svuota certe clausole del Trattato di Manila del 1954, che aveva dato
origine alla Seato (South East Asia Treaty Organization), contro cui la RPC aveva protestato dichiarandole in Contrasto con l’Atto Finale della Conferenza di
Ginevra sull’Indocina del 1954. Nello stesso tempo però, il fatto che gli Stati
Uniti rinuncino ad intervenire militarmente nel Laos e accettino questa soluzione, crea una situazione nella quale, la RPC si profila come un fattore, che
contribuisce a determinare, insieme all’Urss e all’America, l’assetto del SudEst asiatico. Per la prima volta l’equilibrio di potenza in Asia Orientale assume una configurazione triangolare18. Quest’ultima, per quanto riguarda la
RPC, trova il suo fondamento in due elementi, il cui intreccio dal punto di vista del decision making risulta ancora notevolmente oscuro. Pechino infatti tesaurizza la sua autonomia dall’Urss, rispetto alla quale ha posizioni più radicali nel quadro della Guerra Fredda, ma nello stesso tempo, come già si è detto, approfitta delle fessure esistenti all’interno dell’alleanza occidentale. È
proprio da questa vicenda che scaturirà qualche anno dopo nel 1964, il riconoscimento diplomatico che Mao scambia con la Francia di De Gaulle, utilizzando una formula giuridica e un modello di azione, che in seguito sarà più o
meno seguito da tutte la altre potenze occidentali sulla questione di Taiwan19.
18
19
Cfr. la geniale opera di G. Segal, The Great Power Triangle, Macmillan, London, 1982.
Col comunicato ufficiale del 27 gennaio 1964 i due governi di Parigi e di Pechino semplicemente ufficializzarono la decisione di allacciare relazioni diplomatiche e di procedere entro tre mesi alla designazione di ambasciatori. Una dichiarazione unilaterale del governo di Pechino del giorno seguente affermava che esso era il solo “rappresentante legale” del popolo cinese, mentre sarebbe stato “assolutamente inaccettabile” qualsiasi tentativo di “separare Formosa dalla Cina” ovvero di “creare due Cine”. De Gaulle comunicando al governo di Taipei in
anticipo la decisione di provvedere al riconoscimento e allo scambio di ambasciatori, provocò
la rottura delle relazioni diplomatiche da parte di Taiwan, anche se formalmente un impegno
in questo senso non era stato preso durante le trattative precedenti. Zhou Enlai aveva chiesto
un “accordo tacito” all’inviato del Presidente francese, Edgar Faure, nel senso che la Francia
avrebbe dovuto riconoscere l’unità della Cina, votare per l’ammissione della RPC all’ONU (compresa l’ammissione al Consiglio di Sicurezza) e rompere le relazioni diplomatiche con Formosa. Faure aveva firmato un memorandum, ma solo ad referendum, lasciando la decisione a finale a de Gaulle. La linea del governo di Parigi era che la Cina era una sola nel senso legale del
termine e che su di essa esercitava la sovranità il governo di Pechino. Tutto questo non implicava prendere posizione sull’appartenenza territoriale di Taiwan visto che il trattato di San
Francisco del 1951 semplicemente aveva stabilito la rinuncia all’isola da parte del Giappone,
mentre nessuna fonte di diritto internazionale (non essendo tale la dichiarazione del Cairo del
27
Nella seconda metà degli anni Cinquanta anche i rapporti col Giappone, rimasti sospesi dopo che Tokyo aveva accettato di riconoscere il regime di
Taiwan, migliorano grazie a intese particolari sul piano economico. Il riconoscimento francese inoltre facilita quello proveniente da vari paesi africani francofoni e incoraggia altri paesi occidentali, come l’Italia e il Canada, che continuavano a considerare legittimo governo cinese la ROC soltanto per rispetto
verso la posizione degli Stati Uniti, a riesaminare gradualmente la loro posizione. Negli anni dal 1965 in poi, con l’inizio della cosiddetta Seconda Guerra d’Indocina, nel corso della quale Pechino offre aiuti e sostegno materiale al
Vietnam del Nord, viene però a prendere forma una situazione nella quale due
ipotesi di conflitto lentamente si rafforzano, una sul confine meridionale della Cina e una su quello settentrionale, dove nel quadro della controversia con
l’Urss si aprono varie dispute confinarie e vengono rimessi in discussione, più
che altro con finalità propagandistiche, i trattati conclusi nella seconda metà
dell’800 con l’impero zarista. Negli anni della Rivoluzione Culturale dal 1966
al 1969, l’attenzione degli uomini politici e dell’esercito cinesi è completamente assorbito dalle convulsioni interne ed è soltanto nel 1969 che il partito viene ricostituito. Ciò crea lo scenario del rovesciamento che si attua nei tre anni seguenti e porta alla svolta “rivoluzionaria” della normalizzazione con gli
Stati Uniti. Senza neanche cercare di descrivere i particolari di questo passaggio, basterà ricordarne alcune traiettorie fondamentali, anche considerando
che non tutti retroscena dalla politica estera cinese di allora sono a noi oggi
noti nei particolari. Con il IX° Congresso del Partito Comunista Cinese, Mao
ribadisce la sua approvazione dei principi della Rivoluzione Culturale, ma il
Partito riprende il suo normale funzionamento. Al suo interno, tre correnti,
che corrispondono all’APL (Armata popolare di Liberazione), ai radicali intransigenti e alla correnti moderate attaccate nel corso della Rivoluzione Culturale (il cui leader più autorevole è il primo Ministro Zhou Enlai), si fronteggiano. In questa condizione Mao Zedong, che riveste dal 1956 unicamente la
carica di Presidente del Partito, è portato ancora una volta a giocare la carta
della politica estera e delle minacce alla sicurezza nazionale per raccogliere intorno a sé la pubblica opinione e riaffermare il suo ruolo carismatico. Nello
1943) aveva ancora sancito lo status dell’isola. Si trattava, come affermò il Ministro degli esteri
Couve de Murville, di due questioni in attesa del loro regolamento sul piano delle norme internazionali. Solo nel 1994 la Francia riconobbe che Taiwan è parte integrante del territorio cinese. Per maggiori dettagli cfr. Thi Migh-Hoang Ngo, De Gaulle Et L’Unité De La Chine, «Revue
d’histoire diplomatique», 1998, n. 4, pp. 391-412.
28
stesso tempo tuttavia, a partire dal mese di marzo, in modo molto riservato un
gruppo di quattro Marescialli, diretto dall’ex-ministro degli esteri Chen Yi viene incaricato di studiare, senza lasciarsi condizionare dalle dichiarazioni ufficiali, la situazione internazionale, dove la minaccia americana e quella sovietica si sommano. Mentre il lavoro dei quattro prosegue, si verificano fra il marzo e l’agosto del 1969, gravi incidenti che assumono la forma di scontri fra
eserciti lungo la frontiera cino-sovietica sul corso del fiume Ussurri e al confine fra la Repubblica Popolare Mongola e la regione del Xinjiang. La stampa
internazionale e i circoli della diplomazia intravedono la possibilità che tali
episodi portino ad una rappresaglia nucleare da parte sovietica, che nella seconda metà dell’anno spinge la maggior parte del governo cinese ad evacuare
Pechino. La questione viene sdrammatizzata con strumenti diplomatici entro
la fine dell’anno, ma nel frattempo si notano alcune iniziative americane volte
a instaurare un contatto col governo cinese, mentre all’interno del gruppo dei
Quattro Marescialli viene elaborata l’idea di sviluppare ad un livello importante la ripresa dei rapporti con gli Stati Uniti e di giocare le due superpotenze l’una contro l’altra20.
Nel corso dell’anno successivo avviene lo sbalorditivo rovesciamento della “diplomazia del ping-pong”, segnata dall’invito in Cina della squadra sportiva americana e poi dal viaggio segreto del Segretario di Stato Kissinger nella capitale cinese, a cui segue il riconoscimento da parte della Nazioni Unite
che il seggio cinese presso l’Organizzazione e nel Consiglio di Sicurezza spettava alla RPC. La questione si era evoluta negli anni precedenti, quando, usando una formula forse ispirata a quella del riannodo delle relazioni diplomatiche con la Francia, nel 1970 il Canada e nel 1971 l’Italia avevano riconosciuto la RPC come unico governo legittimo della Cina interrompendo le relazioni formali con Taiwan. Nel 1971 gli Stati Uniti, rinunciando a fare uso del cosiddetto diritto di veto, lasciano che Pechino venga anche ammessa all’Onu e
che Taiwan ne esca. Nei mesi successivi nell’ottobre un secondo viaggio di Kissinger permise di trattare problemi di interesse strategico comune relativi ai
problemi del Vietnam, di Taiwan e della rivalità fra Cina e India, in merito alle quali il Segretario di Stato americano mostrò un atteggiamento favorevole
20 Cfr. due saggi recenti, Chen Jian & D. L. Wilson (a cura di), “New Evidence on Sino-Soviet Rapprochement. “All Under the Heaven Is Great Chaos”. Beijing, the Sino-Soviet Border Clashes, and the Turn Toward Sino-American Rapprochement, 1968-69”, «Cold War International
History Project Bulletin», n. 11, 1998, pp. 155-75 e, L. J. Goldstein, Return to Zhenbao island:
Who Started Shooting and Why it Matters, «The China Quarterly», December, n. 168, 2001, pp.
985-97.
29
alla Cina. Nel febbraio il Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon venne in
visita ufficiale a Pechino. In quest’occasione, il cui significato fu largamente
simbolico e non furono conclusi accordi formali, fu emesso un comunicato il
28 febbraio 1972, con il quale le due potenze dichiaravano di non cercare l’egemonia nell’area del Pacifico e si opponevano a qualunque altra potenza
avesse aspirazioni di tal genere. Washington riconosceva l’unità della Cina, ma
esprimeva il desiderio che il problema della riunificazione venisse risolto pacificamente. Questa dichiarazione fu seguita dall’apertura di uffici nelle due
capitali che si occupassero dei rapporti reciproci, ma per giungere allo stabilimento di normali relazioni diplomatiche, si dovette giungere al Comunicato
di Shanghai del 15 febbraio 1978, che tecnicamente rappresenta uno sviluppo del primo, ma si colloca in un quadro completamente diverso21. Il primo
comunicato in nessun modo era stato sentito da Mao come una sconfitta o una
capitolazione, ma piuttosto come un successo dato che era stato il Capo della
maggior potenza capitalista del mondo ad essere venuto a Pechino, ammettendo implicitamente l’importanza della Cina, un valore al centro dell’attenzione del vecchio leader rivoluzionario dai tempi lontani della giovinezza. In
teoria perciò i principi ispiratori della politica estera cinese non erano cambiati. Nello stesso tempo però, la normalizzazione con gli Stati Uniti seguiva di
pochi mesi il misterioso episodio della morte di Lin Biao, erede designato di
Mao e uno dei capofila delle tendenze più resistenti nel PCC verso una linea
di compromesso verso gli avversari storici del comunismo cinese. Negli anni
a partire dal 1973, le tendenze “neomaoiste” subiscono una graduale perdita
di influenza, che culmina, dopo la morte del Grande Timoniere, con l’arresto
della “Banda dei Quattro” nell’autunno del 1976. Intanto nel 1972 stesso, subito dopo il viaggio di Nixon a Pechino, si reca nella capitale della RPC il nuovo Primo Ministro giapponese Tanaka Kakuei, con la visita del quale vengono ristabilite le relazioni diplomatiche fra Tokyo e Pechino e rotte quelle con
Taipei, superando il livello stesso della “normalizzazione” con gli Usa. Anche
21 Sulla normalizzazione cino-americana e i suoi precedenti, per la parte cinese, l’opera
migliore resta quella di Chen Jian citata passim. Per la parte americana esistono molte valide
monografie. Cfr. per esempio, B. Tucker, China Confidential. American diplomats and SinoAmerican Relations, Columbia Univ. Press, 2001; R. Foot, The Practice of Power: US relations
with China since 1949, Clarendon Press, Oxford, 1995; R. Ross and Jiang Changbin, (eds), Reexamining the Cold War. U.S.-China Diplomacy, 1954-1973, Harvard Univ. Press, Cambrige
Mass., 2001. A questa va aggiunta la memorialistica e la documentazione originale pubblicata
nella collezione dei Foreign Relations of the United States, Government Printing Office, Washington D.C., per la quale rimandiamo appunto alla letteratura sopra ricordata.
30
dopo questa visita inizia l’itinerario che porterà al trattato di amicizia del 1978
fra i due paesi, il quale conferma la dichiarazione congiunta effettuata già al
momento della visita di Tanaka nel 1972, contro l’egemonia di terze potenze,
le quali tuttavia non vengono menzionate. Nella politica estera cinese l’allineamento diplomatico con gli Stati Uniti e il Giappone, entrambi paesi capitalisti, ha oramai preso il posto dell’alleanza fra paesi socialisti, quando ancora la
Guerra Fredda non si è conclusa. In sostanza un itinerario pare essersi completato. Dopo la Conferenza di Ginevra sul Laos, Pechino si era posta, nel
quadro della prima spaccatura rispetto all’Urss, in una posizione neutra rispetto alle due superpotenze, sottraendosi così al rapporto di protezione con Mosca degli anni precedenti. Tra il 1972 e il 1978 essa stabilisce un asse con Tokyo
e Washington, che, senza essere un’alleanza vera e propria, completa l’autonomia della sua posizione internazionale in funzione anti-sovietica e gioca sul
desiderio di alleati da parte occidentale. La RPC però non rinuncia alla sua
ideologia. Nel 1974 nell’ambito delle Nazioni Unite, aderisce ad un documento, che richiede un miglior trattamento per i paesi produttori di materie prime e regole più favorevoli per questi ultimi in materia di commercio internazionale.
Un importante fattore di continuità va comunque preso in considerazione. In ultima analisi la “normalizzazione” con gli Stati Uniti sviluppa essenzialmente le potenzialità dell’equilibrio triangolare che si era formato all’epoca della crisi laotiana nel 1962. Come allora è basandosi su fattori essenzialmente diplomatici, non sul peso delle sue esigue risorse economiche o militari22, che la Cina conduce la sua strategia, anche se diventa più disinvolta ed attiva la tendenza a giocare sui meccanismi internazionali della politica di potenza.
22 Vedi le osservazioni di Wu Baiyi, The Chinese Security Concept and its Historical Evolution,
«Journal of Contemporary China», vol. 27, n. 10, 2001, pp. 275-283, specialmente pp. 276-77.
31
Parte seconda
Radici Interne e Premesse della Politica
Estera Cinese dopo il Periodo Maoista
Più di un sondaggio d’opinione effettuato nella RPC recentemente ha indicato che in Cina è diffuso il punto di vista per il quale, oltre che dai rapporti con
i paesi vicini o con potenze straniere quali gli Stati Uniti oppure il Giappone, la
sicurezza dipenda dalle condizioni interne. In effetti una vasta letteratura ha osservato che, con la fine del periodo maoista, il progressivo passaggio dalle istituzioni socialiste al mercato, se da un lato ha determinato una crescita molto pronunciata dei tassi del Prodotto Nazionale Lordo, dall’altro ha anche causato mutamenti profondi, accentuati dalla progressiva integrazione nell’economia internazionale, producendo gravi instabilità nel sistema sociale e sotto certi punti di
vista riducendo anche la legittimità del Partito Comunista. I cambiamenti dell’economia cinese hanno anche modificato la struttura della bilancia dei pagamenti e reso lo sviluppo economico del paese bisognoso di importazioni dall’estero
e approvvigionamenti energetici, ponendo fine alla virtuale autosufficienza precedente. In questo modo le relazioni economiche internazionali hanno cominciato a diventare un fattore molto più condizionante anche rispetto alle scelte politiche e alle decisioni strategiche. Le riforme introdotte a partire dal 1978 introducono una crescente liberalizzazione sia nel campo dell’agricoltura che nell’industria. Nell’ambito della prima la terra viene affidata alle famiglie contadine,
inizialmente per un periodo massimo di quindici anni; nel 1982 le Comuni del
periodo maoista sono abolite, il surplus diventa vendibile a prezzi non pianificati, le imprese rurali ricevono via via una crescente autonomia gestionale, le tasse
diminuiscono. Nell’ambito industriale viene aumentata l’autonomia operativa
delle aziende di Stato (SOE), che acquistano autonomia e libertà, le quali si estendono alla gestione dei profitti, agli investimenti e, in parte, ai salari. Negli anni
seguenti vengono create le cosiddette zone economiche speciali1, inizialmente
1 B. Yang, Deng A Political Biography. With a Foreword by Ross Terrill, M. E. Sharpe, New
York, 1998, pp. 223-224.
33
quattro, che godono di una legislazione particolare, la quale agevola le imprese sotto il profilo fiscale e per quel che riguarda gli investimenti esteri. Gradualmente il regime di controllo sulle imprese da parte dello stato, per quel
che riguarda tariffe e autorizzazioni, viene anche alleggerito. Col progressivo
ampliarsi della liberalizzazione economica, che culmina con l’adesione al
WTO, l’11 dicembre del 2001, vengono ottenuti almeno tre risultati positivi:
fra il 1980 e il 2000 l’economia cresce cinque volte, il PIL consolida un tasso
di crescita medio al di sopra del 8% annuo, circa duecento milioni di persone escono dalla cosiddetta soglia della povertà. Viene inoltre evitata una crisi
del tipo che colpisce l’Unione Sovietica negli anni ’90 dopo la fine del regime
comunista. È proprio però il risvolto negativo di questi eventi a condizionare,
e in prospettiva a mettere in pericolo, la struttura interna del paese. Per quel
che riguarda le SOE, queste rappresentavano la spina dorsale del sistema economico del periodo precedente. Strettamente legate al regime, poiché spesso
i dirigenti sono anche figure di spicco del partito, si giovavano di sussidi statali e lavoravano in un sistema privo di concorrenza. I lavoratori dipendenti
godevano di un impiego a vita arricchito da alloggio, assistenza sanitaria e altri servizi sociali. Con le riforme sopra indicate2, esse hanno dovuto affrontare una concorrenza interna e internazionale, che col tempo diventa sempre più
aspra, con la conseguenza che i passivi di bilancio e di indebitamento sono cresciuti gravemente fino al 700%, circa dieci volte quello medio di un’impresa
manifatturiera privata. Il sistema di finanziamento di queste imprese è stato
modificato da una riforma introdotta nel 1998, la quale lo ha demandato alle
banche. Poiché, malgrado le difficoltà in cui incorrono, esse possono fallire
solo per un provvedimento pubblico, le SOE tuttavia continuano ad assorbire una percentuale di credito molto alta, sottraendo risorse al settore privato.
Un ulteriore conseguenza è che le sofferenze bancarie raggiungono un livello
fra i più alti del mondo (tra il 27 e il 37% del credito complessivo). Qui si annidano altri due gravissimi rischi, ovvero che le banche cinesi non siano in grado di reggere la concorrenza dopo che le banche straniere saranno entrate in
Cina nel quadro del WTO e che possano trovarsi esposte a massicce richieste
di rimborsi da parte di correntisti se il sistema entrasse in difficoltà. Qualche
scrittore occidentale ha ironicamente considerato l’ipotesi che prima o poi l’esercito potrebbe essere chiamato a intervenire contro manifestanti o ribelli, i
2 Cfr. L. J. Brahm, Zhu Ronji and the Transformation of Modern China, Wiley Eastern, Singapore, 2000, che si concentra sul Primo Ministro che probabilmente è stato il più attento alle
questioni economiche dopo la morte di Deng Xiaoping.
34
quali semplicemente sarebbero comuni cittadini che richiedono di ritirare i loro depositi da banche incapaci di restituirli. Con l’andar del tempo, come è
prevedibile, questa situazione inoltre potrebbe anche gradualmente assottigliare l’offerta di moneta creditizia ed esporre il mercato cinese ad un rialzo
generalizzato dei tassi d’interesse, con effetti immaginabili3. Inoltre il progetto più volte enunciato dal governo, di restringere lo spazio occupato dalle SOE
nell’economia, si è urtato contro la necessità di ridurre personale, che a sua
volta suona inaccettabile in un paese dove in teoria i principi del socialismo
non sono stati rinnegati. Anche sul piano tecnologico queste imprese sono in
genere arretrate, ma i tentativi di aggiornarle si sono rivelati insufficienti o sono falliti. Il problema in esame si ripercuote sulla stabilità sociale in vari modi. In Cina il sistema dei sussidi di disoccupazione funziona male. Nel periodo maoista si riteneva che la disoccupazione in un paese socialista non esistesse. In seguito con una riforma generale introdotta nel 19984 esso è stato riformato radicalmente attribuendone la gestione allo stato e sottraendola alle
SOE, dopo vari altri tentativi di legiferare, ma i fondi disponibili sono scarsi.
Il problema dei disoccupati interessa, a seconda delle stime circa il 20% della popolazione. Alla graduale, per quanto controllata, chiusura di SOE, viene
spesso cercato rimedio assegnando chi ha perso il lavoro ad attività inutili o
pletoriche. Talvolta, come avvenne in un caso particolarmente grave nel 2000
nel Liaoning, dopo la chiusura di certe attività minerarie, si verificano vere e
proprie sommosse che richiedono l’intervento della forza pubblica. Ciò contribuisce ad alimentare una distanza preoccupante fra le regioni più innervate dal sistema di mercato e quelle tradizionali. Il problema della disoccupazione è più grave nella Cina del Nord e in quella centrale, rispetto a quella del
Sud5. Le SOE contribuiscono inoltre ad asciugare le finanze pubbliche, anche
se gli effetti perversi sul cambio sono attenuati dalla non convertibilità dello
Yuan. Intanto tutto questo discorso rende acuto il problema della previdenza
3
Cfr. Lou Jianbo, China’s Troubled Bank Loans: Workout and Preventiom, Kluwer Law
International, Cambridge 2001; Guo Yong, Banking reforms and monetary politicy in the People Republic of China. Is the Chinese central banking system ready for joining the WTO?, Palgrave, London, 2002; J. Laurenceson, C. H. Chai, Financial reform and economic development
in China, Edward Elgar Publisher, Northampton, 2003.
4 Sui problemi del mondo contadino, cfr., per esempio, Chen Xiwen, Problems of Agricalture. Peasants and Village in the New Stage of Development, Research Report of the State Council Research Center, Beijing 2001.
5 Sul problema occupazionale cfr., anche ad esempio, Lee Ming-kwan, Chinese Occupational Welfare in Market Transition, Macmillan, London, 2000.
35
sociale6. Nel periodo propriamente comunista, il sistema garantiva a circa il
15% della popolazione i servizi sociali della scolarità, dell’assistenza medica e
dal trattamento pensionistico gratuito. In linea di principio si trattava dei dipendenti dell’amministrazione statale e di una parte dei quadri e dei lavoratori dell’industria. Anche a parte i principi del socialismo, questo sistema assicurava ad un paese ancora in via di sviluppo come la Cina, la necessaria efficienza di categorie di lavoratori indispensabili all’ordinato andamento della
vita collettiva. Il resto della popolazione, in prevalenza rurale, si dava per acquisito che provvedesse ai suoi bisogni con strumenti tradizionali, quali la solidarietà familiare o il risparmio, salvo il fatto di rivolgersi all’unità amministrativa cui apparteneva, la quale nei limiti delle sue possibilità, non raramente infime specialmente nelle zone più arretrate, si supponeva che intervenisse.
Con la trasformazione sopra indicata, la tendenza a smobilitare l’industria di
stato portò come conseguenza la tendenza a ridurre lo spessore delle fasce sociali protette, la quali, nel quadro dell’ideologia socialista, considerano un diritto i benefici che stanno rischiando di perdere. Inoltre la diffusione di unità
produttive private porta come conseguenza che i nuovi tipi di lavoratori mancano di copertura, mentre la diminuzione del gettito fiscale e le minori entrate dell’amministrazione pubblica fanno sì che anche le unità amministrative
alle quali i lavoratori appartengono spesso non hanno i mezzi per provvedere
ai loro bisogni. In Cina d’altra parte, manca un sistema assicurativo privato
evoluto e questo porta come conseguenza da un lato un senso crescente di distanza fra le categorie sociali, dall’altro un’inquietudine differenziata a seconda delle diverse regioni. Con il nuovo sistema la vecchia struttura si è decomposta, mentre si è accentuato il senso di disuguaglianza e di disagio dei più poveri. Inoltre all’interno della famiglia contadina, la funzione imprenditoriale
ricade oramai totalmente sul capo-famiglia, che, con sistemi tradizionali, provvede a compensare gli altri lavoratori. Questi ultimi percepiscono di non disporre di un criterio di remunerazione fondato sull’accertamento dei loro diritti. Particolarmente penalizzata risulta la condizione della donna, la quale è
venuta a ricadere in alcune delle tipiche forme di inferiorità che appartenevano all’antica famiglia cinese e ha perso la tutela dei meccanismi egualizzanti,
come il calcolo dei punti-lavoro, che esistevano nella Cina di Mao. Inoltre l’av-
6 Sull’argomento cominciano ad esserci vari buoni saggi, come H. Thelle, Better To Rely
On Ourselves. Changing Social Rights in Urban China since 1979, Nias Press, Copenhagen,
2004, oppure, n. W. S. Chow, Socialist Welfare with Chinese Characteristics: the Reform of the
Social security System in China, University of Homg Kong Press, Hong Kong, 2000.
36
vento dell’economia di mercato, di una concorrenza interna ed estera più accentuata e, infine, l’introduzione delle regole del WTO, hanno condizionato le
campagne cinesi. Le migrazioni dei contadini verso le città, anche contro le disposizioni dell’autorità pubblica, sono state una tendenza che più o meno intermittentemente ha accompagnato tutto il secondo dopoguerra, ma il fenomeno è ripreso in modo preoccupante dopo l’inizio del nuovo corso economico, accentuando il fatto che i migranti in ogni caso continuano ad appartenere alla fascia più precaria della popolazione nel senso salariale e previdenziale sopra riassunto. Inoltre la Cina stessa ha scoperto che in certi casi l’importazione di derrate agricole da altri paesi, tipicamente nel caso del riso australiano, può essere conveniente perché a costi meno alti di quelli nazionali,
introducendo un altro motivo a cui si deve se milioni di contadini hanno perduto il loro lavoro e si sono riversati sulle città. Dal 1993 a oggi si sono verificati numerosi disordini nelle campagne, ai quali si sono sommate una grande
quantità di proteste legali, dove sfocia il malcontento contro le amministrazioni locali, che conservano una certa discrezionalità anche in materia di imposizione fiscale, mentre vengono spesso accusate di inefficienza e di corruzione.
Temi di lotta politica a livello locale, come le ripetute confische di terre, ritenute arbitrarie dalla popolazione, oppure l’eccessivo numero dei burocrati,
imputati di insensibilità verso i bisogni popolari, diventano una ragione amplificata di malcontento nella situazione che l’economia e la società stanno attraversando in questo momento.Va ricordato che l’indebolimento dei sistemi
di protezione sociale tipici dei paesi socialisti inoltre ha toccato anche ceti tipicamente urbani, come studenti universitari e intellettuali, i quali, a parte il
problema della libertà di stampa e di espressione, hanno talvolta visto peggiorare la loro condizione materiale dopo le riforme di Deng Xiaoping, un fattore che ha inciso in qualche misura sullo sfondo dei disordini studenteschi del
1986 e del 1989. Infine la trasformazione economica ha modificato l’uso e la
disponibilità di risorse naturali e materie prime, sicché ad esempio il regime
delle acque comincia a presentare nuovi e gravi problemi di scarsità.
L’insieme degli sviluppi sopra tratteggiati può naturalmente essere visto
come il punto debole della modernizzazione della società cinese, reso più problematico da difficoltà squisitamente moderne come la diffusione di malattie
quali la SARS e l’AIDS, che ha mostrato, o per meglio dire confermato, l’inadeguatezza del sistema sanitario e delle sue risorse in questo tornante storico.
Tuttavia, ai fini della nostra ricerca, che si occupa soprattutto della sicurezza,
va considerato che ad essere crescentemente messe in discussione sono stati a
partire dagli ultimi due decenni del XX° secolo, la funzione e la legittimità del
37
Partito Comunista. L’ideologia pragmatica, che si può attribuire a Deng Xiaoping, il leader storico che ha legato il suo nome all’epoca seguita alla morte di
Mao, può essere probabilmente riassunta in tre formule, le quali indicavano
come obiettivi finali del regime l’Unificazione Nazionale e il procurare ai cinesi una “vita decente”, oltre al fatto che il pensiero di Mao Zedong non fu
formalmente rinnegato, ma dichiarato, in una percentuale del “70%”, pur
sempre valido7. In pratica il secondo obiettivo è stato alla base delle riforme
economiche che sopra abbiamo trattato e di cui sono stati menzionati i pro e
i contro. La fedeltà al pensiero di Mao, quando fu confermata, aveva soprattutto la funzione di tranquillizzare gli ideologi del partito e in effetti, a più riprese liberali e conservatori si sono fronteggiati intorno al modo di interpretare questo principio, il quale allo stato attuale delle cose, deve essere visto
sempre di più come un omaggio esteriore. Il PCC, che secondo lo statuto originario rappresentava l’“avanguardia della classe operaia” nel senso marxistaleninista del termine, al XVI° Congresso del 2002 ha visto esprimere la sua funzione da parte del presidente Jiang Zemin, attraverso la nota formula delle “tre
rappresentanze”, la quale vuole che esso mantenga come ideale primario la
realizzazione del Comunismo, rappresentando però non soltanto il proletariato, ma anche la cultura avanzata, gli ampi interessi del paese e le forze produttive moderne. Alla lettera ciò non è in assoluto contrasto col pensiero di Mao,
il quale diceva che il popolo cinese comprende tutti coloro i quali sono disposti a collaborare col Partito, anche se non sono proletari o comunisti, e quindi includeva in esso la “borghesia nazionale” per esempio. Nel contesto delle
trasformazioni portate dalle riforme di Deng e dei suoi successori, tuttavia, si
sta perdendo oramai completamente il senso della funzione rivoluzionaria del
PCC. Esso rimane il partito tecnicamente dominante nel senso leninista del
termine e per l’autorità che si arroga nel reggimento dello stato. Di fatto molte delle sue funzioni sono in decadenza, prima fra tutte nella sfera economica,
dove le stesse riforme introdotte hanno eliminato la cultura politica come requisito per la preparazione dei funzionari e si sta rigogliosamente sviluppando un’imprenditoria privata che rappresenta il settore trainante dell’economia
cinese, ma non obbedisce alla pianificazione socialista. Anche il controllo sull’informazione si è andato attenuando, dopo svariate ondate di interventi di
natura opposta, l’ultimo riflusso delle quali fu indotto dalla Crisi di Tien Anmen del 1989. Materialmente c’è da notare che, a parte tutto, la stessa adesione al WTO da parte della Cina porta come conseguenza un insieme di contat7
38
B. Yang, Deng. A Political, cit., pp. 213, 216.
ti con il resto del mondo, che facilitano e completano l’introduzione di internet in Cina, i quali anche in termini strettamente materiali renderebbero difficile applicare un controllo dell’informazione del tipo del periodo maoista.
Sebbene le misure di oscuramento dei siti in Cina abbiano avuto un’estensione molto maggiore che nei paesi occidentali, esse stanno diventando anacronistiche e si sommano al fatto che il regime stesso vada adattandosi molto gradualmente alle aspettative di una parte della società, la quale più o meno esplicitamente si aspetta una libertà di espressione modellata sui paesi sviluppati
dell’Europa e sugli Stati Uniti. In queste condizioni, delle tre formule care a
Deng, quella che oggi mantiene invece tutta la sua importanza risulta la prima. Nel 1949 gran parte della classe media e della borghesia cinese accettarono il regime di Mao, perché, oltre a riconoscere ai comunisti una dirittura morale superiore ai loro avversari, li accreditava di un grande successo storico,
quello di aver per la prima volta eliminato tutti i lasciti dell’ingerenza delle potenze straniere e di aver ricostituito la sovrana unità del paese. “Completare
l’Unificazione”, ovvero riportare alla Cina il Tibet, (rioccupato fra il 1950 e il
1959), Taiwan, ove ancora c’è un governo indipendentista, Hong Kong (restituita dalla Gran Bretagna nel 1997) etc., significava concludere la realizzazione di tal fine, che si associa all’idea, molto forte tra i media, di restituire alla
Cina il ruolo che le spetta, per l’importanza del suo passato storico, ottenendo il giusto rispetto da parte degli altri stati. Negli ultimi anni si assiste ad una
forte rinascita di sentimento “nazionale”, accompagnato dalla ripresa di valori della non più rinnegata tradizione confuciana, i quali pongono questo retroterra intellettuale e psicologico fra i fattori più motivanti nella pubblica opinione, mentre talvolta si arriva al punto di rimettere in discussione persino il
marxismo8. Difendere l’unità nazionale contro le pretese delle minoranze etniche ad esempio, fra le quali si cominciano ad annidare i germi del fondamentalismo e del terrorismo islamico, è uno dei punti su cui il Partito stesso appoggia la sua autorità oggi, così come la tutela, difesa dalla Cina con un rigore particolare, della sovranità nazionale in tutti i suoi aspetti secondo i principi del diritto internazionale classico. Uno dei pericoli che molti osservatori vedono nella situazione economica che abbiamo descritto è quello del separatismo e delle tendenze all’autonomia regionale, che vengono alimentate dalla
diversità nelle condizioni fra le varie regioni e negli impulsi opposti che compaiono, accelerando la transizione al mercato soprattutto nel Sud e conservan8
Cfr. l’ampia analisi di Guo Yingjie, Cultural Nationalism in Contemporary China. The
Search for National Identiy under Reform, Routledge Curzon Press, London, 2004.
39
do le formule centraliste ereditate dal comunismo nelle aree meno progredite. Ebbene la tutela contro queste tendenze e la funzione mediatrice risultano
alla fine come un’altra delle ragioni di legittimità che il PCC ancora conserva.
In questo modo però esso da un lato rischia di attirare critiche e dissensi per
le cause di disagio sociale e di inefficienza gestionale ed economica che abbiamo visto, ma che non possono essere eliminate drasticamente, anche perché,
oltre a colpire vari interessi particolari, rispondono al desiderio di tutela e alle aspettative di una parte della popolazione. Dall’altra il PCC, ponendosi come tutore di valori nazionalistici, in una società che li sta riscoprendo, e difendendo spesso metodi che sembrano antidemocratici in materia di controllo del
pensiero, ha dato l’impressione ad alcuni scienziati politici occidentali di evolversi non verso una forma di liberalismo, ma piuttosto verso una di fascismo9.
Tuttavia dopo il 1992, quando la stagione di ritorno all’autoritarismo segnata
dalla strage di Tien Anmen si arrestò, si sono lentamente diffusi una certa libertà di espressione e una proliferazione di organi di informazione, i quali, in
parallelo con la crescita di istituzioni private nell’economia, tendono a svilupparsi in modo autonomo. Tutto questo lascia comprendere che in prospettiva
esistano sviluppi possibili, i quali per il momento sono solo accennati, ma contengono sfumature inquietanti e potenzialmente in conflitto. Da un lato ci sono un certo irrigidimento su temi come la nazione e la sovranità, da un altro
si affacciano maggiori aspirazioni democratiche a cui si aggiunge l’insofferenza di alcune categorie sociali, compresi certi gruppi di intellettuali, in nome di
principi ispirati al liberalismo occidentale, ma anche come reazione all’internazionalizzazione dell’economia. La società sembra esprimere germi contrastanti. Nel quadro del Dot Communism, avviato dalle riforme di Deng Xiaoping, come ironicamente lo ha chiamato Min Xinpei10, e dell’introduzione di
un crescente pluralismo, che ha interessato, i campi dell’economia e della cultura, riflettendosi anche sulle istituzioni sociali e, per certi aspetti, sulle condizioni di vita dei cittadini, anche le relazioni economiche con gli altri paesi si
sono modificate nel senso di ridurre l’autosufficienza nazionale. Il paese è oggi importatore di ferro e acciaio, cereali, fibre e energia. Bisogna tuttavia introdurre un’importante distinzione. I primi di questi articoli circolano su un
mercato aperto, dove l’approvvigionamento è ulteriormente garantito dalle
regole del WTO, al quale la RPC oggi partecipa in modo virtualmente pieno.
9 M. Ledeen, A Scandalous Policy, «Wall Street Journal», 26 March 1997.
10 Cfr. Min Xinpei, China Governance Crisis, «Foreign Affairs», vol. 8, n. 5, 2002, pp. 96-109.
Il termine si riferisce all’indispensabile uso dei computers nella gestione dell’economia.
40
Un discorso completamente diverso è invece quello energetico, a proposito
del quale fattori geopolitici intervengono nel meccanismo. Le riforme hanno
stimolato il bisogno. Nel 1990 la RPC era un’importatrice di greggio, ma le importazioni dal Medio Oriente che già raggiungevano il 40% del fabbisogno nel
1994, hanno superato il 90% nel 2004, mentre un residuo 10% consiste in
quelle via mare. Ciò ha portato a modificare la politica petrolifera ed ha assegnato un valore completamente nuovo alla regione del Xinjang, confinante con
le quattro repubbliche centroasiatiche sorte dalla decomposizione dell’URSS e
abitate da popolazioni musulmane. La RPC ha sviluppato una politica che valorizza il Xinjang dal punto di vista del raffinamento dei prodotti energetici, oltre che per la produzione di petrolio e gas naturale, mentre, in competizione
con la Federazione Russa e gli Stati Uniti, ha programmato dal 1993 un oleodotto per trasportare petrolio del Kazakistan dal bacino del fiume Tarim a
Shanghai e la cui costruzione è iniziata nel 2000, dopo una lunga elaborazione
delle implicazioni internazionali di questo progetto11. Tutta questa situazione
ha determinato una amplissima evoluzione delle premesse della politica estera.
Il governo cinese è venuto a trovarsi tra i grandi stati asiatici, come l’India e il
Giappone, per le necessità della cui economia il greggio è necessario e la produzione nazionale largamente insufficiente, sebbene in questo senso le condizioni della Cina risultino migliori degli altri due. Pechino deve rispondere alla
sfida combinando due policies, una di mercato e una essenzialmente strategica,
e tenendo nello stesso tempo presente che la seconda è, con le riserve che faremo in un successivo capitolo, adatta al greggio importato via mare, mentre la
prima sino a questo momento è stata presa in considerazione soprattutto per il
materiale proveniente dai paesi dell’ex-Unione Sovietica. Più in generale la Cina in questo modo è stimolata da un interesse molto vitale di fronte alle minacce del fondamentalismo e del terrorismo islamico, inclusi i richiami che questo
esercita sulle rivendicazioni delle minoranze del Xinjang. Dall’altro si trova al
centro di una vastissima area geografica, ove diventano cointeressati paesi ricchi di materie prime, come la Russia e le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia
Centrale, i quali sono però particolarmente poveri di capitali, dei quali anche
la RPC non abbonda, paesi bisognosi di approvvigionamento energetico e in
forte sviluppo come l’India, e paesi ricchi di capitali come il Giappone. Una
11 Sui problemi dell’energia, P. Andrews-Speed, Liao Xuanli and R. Dannreuther, The
Strategic Implications of China’ s Energy Need, Oxford University Press, Oxford, 2002; A. Myers
Jaffe and L. Steven W., Beijing’s Oil Diplomacy, «Survival», vol. 44, n. 1, Spring, 2002, pp. 115134; R. Dannreuther, op. cit., pp. 212-215.
41
fondamentale implicazione strategica di questo discorso, che riprenderemo anch’essa in un successivo capitolo, è l’interesse per i giacimenti petroliferi del
Mar Cinese e, più ampiamente, la necessità di tenere libere o di garantire le vie
di comunicazione marittime, creando un poderoso motivo per sviluppare la
marina militare, oltre a rafforzare l’attenzione per le vicissitudini del Medio
Oriente. In questo modo si delineano vari e contraddittori sviluppi. L’adesione della Cina al WTO chiaramente contribuisce a risolvere eventuali controversie per via diplomatica, ma la questione delle vie marittime crea una ragione di
competizione negli armamenti con il Giappone e l’India, che devono fronteggiare la stessa situazione e hanno recentemente potenziato le loro flotte da guerra, almeno la prima delle quali certamente oggi più consistente e moderna di
quella cinese. L’India manifesta il fine di garantire la navigazione negli stretti di
Malacca e di combattere l’annoso problema della pirateria nei mari della regione, ma crea il sospetto di avere propositi espansivi verso Sud-Est e di essere in
virtuale contrasto con Pechino. Si tratta inoltre di un punto che accresce l’importanza degli stretti di Taiwan, indispensabili per gli approvvigionamenti via
mare del Giappone, aprendo ulteriori interrogativi sull’atteggiamento che questa potenza prenderebbe in caso di guerra fra la Cina e il governo di Taipei oppure gli Usa, qualora il problema della “riunificazione” fra l’sola e la madrepatria sfociasse in un confronto armato12. In prospettiva si è osservato che il problema della sicurezza energetica nell’Asia Sudorientale e Orientale potrebbe
essere risolto in maniera conveniente per tutti gli interessati, attraverso forme
di cooperazione internazionale da svilupparsi nel quadro di un’organizzazione
specializzata delle Nazioni Unite o ancor più dell’APEC (Asia Pacific Economic
Cooperation), malgrado la decadenza di quest’ultima dopo la crisi delle borse
asiatiche del 1997, e soprattutto dell’ASEAN (Association of Southeast Asian
Nations). La Cina di oggi del resto, attrae capitali e sviluppa investimenti stranieri in misura tale da favorire la crescita dei paesi vicini e questo incoraggia
progetti di integrazione economica. Un primo passo che sviluppa tali premesse è probabilmente stato la creazione al III° vertice dell’ASEAN nel 2002, dell’ACTFA (Asean-China Free Trade Area), con il proposito di abbassare le tariffe doganali e, entro il 2006, realizzare un’area di libero scambio13, che potreb12 È ricco di informazioni su tutta questa problematica, R. Dannreuther, Asian Security and
China Energy Needs, «International Relations of the Asia-Pacific», vol. 3, n. 2, 2003, pp. 197-219.
13 Cfr. C. Breslin, ‘China in the Asian Economy’, in, B. Buzan and R. Foot, Does China
Matter? A Reassessment. Essays In Memory Of Gerald Segal, Routledge, London and New York,
2004, pp. 116-123, specialmente pp. 121-122; P. Andrews-Speed, Liao Xuanli and R. Dannreuther, cit., pp. 78-80, 88-89; R. Dannreuther, op. cit., pp. 212-215.
42
be indebolire a vantaggio di Pechino il primato finaziario e commerciale del
Giappone. D’altra parte è logico in linea di principio almeno, che un atteggiamento fondato sulla logica di mercato apparirebbe più adatto per trattare con
i paesi interessati al Mar Cinese, dove le organizzazioni internazionali ci sono
già e si sentirebbe maggiormente l’influenza del WTO, mentre uno più “strategico”, basato su intese bilaterali lo sarebbe maggiormente per quelli dell’Asia
Centrale, dove sono più sentite le esigenze di sicurezza in senso tradizionale.
43
Capitolo II
La Sicurezza nella Politica Estera Cinese
dopo la Guerra Fredda
Il Riallineamento Internazionale dopo la
Fine del Periodo Maoista
Gli anni dal 1977 al 1982 segnano, come già si è anticipato, l’ascesa di Deng
Xiaoping a successore di Mao e l’inizio del nuovo corso basato sull’obiettivo
primario di modernizzare e liberalizzare il sistema economico, senza rinunciare nel lungo periodo a completare la “riunificazione” nazionale. Attraverso
trattative diplomatiche svoltesi dal 1983 al 1985 viene ottenuto l’impegno britannico a restituire la colonia di Hong Kong, compresa l’isola ceduta in base al
trattato di Nanchino del 1842, che verrà materialmente resa alla sovranità cinese nel 1997, secondo la formula del “Un paese due sistemi”1. Su un piano diverso, gli anni ’70 sono segnati dagli ultimi bagliori del contrasto accesosi nel
1958-60 con l’Unione Sovietica e giunti al loro livello di massima intensità nel
1969. La RPC vede con preoccupazione il rafforzamento della flotta sovietica
nell’Oceano Pacifico e il trattato di amicizia e cooperazione fra l’Urss e l’India
nel 1971. Non riesce però a stabilire una collaborazione stabile col Pakistan,
nel corso di vicende che vanno dalla creazione del Bangla Desh all’invasione
sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Alla sua scadenza trentennale, l’alleanza
del 1950 con l’Urss, senza troppi schiamazzi, non viene rinnovata.
Nel 1973, la Cina accoglie con favore la conclusione degli accordi di Parigi, i quali sanciscono l’esistenza di due stati nel Nord e nel Sud del Vietnam,
in sostanza adottando definitivamente una formula che coincideva con la strategia seguita da Pechino a partire dalle due conferenze di Ginevra sull’Indocina del 1954 e del 1960-62, le quali mentre miravano a frenare l’espansionismo
del Vietnam del Nord, implicavano anche il sostegno alla lotta dei comunisti
vietnamiti contro la presenza americana. Proprio su questa base, e nel quadro
della distensione con gli Usa confermata da un viaggio di Deng Xiaoping nel
1979, Pechino si sente provocata dalla strategia internazionale sviluppata dal
1 B. Yang, Deng. …, cit., pp. 224-25; R. Buckley, Hong Kong: the Road to 1997, Cambrid-
ge University Press, Cambridge, 1997.
47
governo di Hanoi. Nel 1975 quest’ultimo conquista anche il Sud del paese e
stabilisce il suo controllo sul Laos. La RPC accorda il suo appoggio al regime
dei Khmer Rossi in Cambogia e tenta di stabilire un ponte con i paesi dell’ASEAN, preoccupati dalla potenza militare vietnamita, che però non hanno simpatia per il sanguinario governo di Pol Pot. Nel 1978 il Vietnam invade la Cambogia e abbatte il governo dei Khmer Rossi, mentre firma un trattato di cooperazione e amicizia con Mosca. A questo punto la RPC decide un intervento
militare contro il Vietnam, che fallisce miseramente in capo a due mesi e viene seguito nel 1980 dal riconoscimento diplomatico prestato dall’India, già legata da un trattato di amicizia all’Urss, al nuovo governo sorto in Cambogia
dopo l’invasione vietnamita. In queste condizioni, che confermano la sostanziale debolezza militare del paese, la politica di avvicinamento al mondo occidentale di Deng Xiaoping prosegue. Al momento del suo viaggio nel 1979, l’America ha concesso al nuovo amico la Clausola Della Nazione Più Favorita e
nel 1981 il Segretario di Stato americano Alexander Haig visita la Cina e dichiara che gli Usa sono pronti a venderle armi. Negli stessi anni la RPC aderisce alla Banca Asiatica di Sviluppo e alla Banca Mondiale. Anche i rapporti
commerciali con gli Stati Uniti aumentano vertiginosamente e questo spinge
Washington a non sopravvalutare le negative reazioni dell’opinione pubblica
americana alla repressione di moti nel Tibet da parte dei cinesi nel 1987 e al
dissenso di certi intellettuali, come il fisico Fang Lizhi, oppure le decisioni contrastanti assunte in varie riprese in materia di approvvigionamento militare sia
a Pechino che a Taipei. Poiché questi sono anni di distensione fra gli Usa e
l’Urss, segnati da accordi per la limitazione degli armamenti (in particolare il
trattato del 1987 sull’eliminazione dei missili a media gittata), l’atmosfera sempre più pacifica coinvolge anche la Cina. Dopo alcune timide aperture alla
metà degli anni ’80, l’avvento di Gorbacev in Urss imprime un spinta considerevole alla normalizzazione fra i due paesi con una serie di iniziative concilianti sui confini dell’Amur e dell’Ussurri e sulla Cambogia. Con un trattato del
1988 Mosca accetta di ritirarsi completamente dall’Afghanistan, e dopo uno
scambio di visite dei due ministri degli esteri fra la fine del 1988 e l’inizio del
1989, viene fissata una visita ufficiale del leader sovietico a Pechino per il maggio del 1989, la quale paradossalmente verrà oscurata dalla protesta degli studenti al momento della crisi di Tien Anmen. Sul piano diplomatico essa fu peraltro importantissima, in sostanza inaugurando l’abolizione del contenzioso
fra i due paesi. La visita sancisce la rimozione dei missili SS 20 dalla frontiera
comune, il ritiro di imponenti forze militari russe dal confine e la riduzione di
quelle che Mosca schierava nella Repubblica Popolare Mongola. Contempo48
raneamente altre intese incoraggiano gli scambi commerciali. L’importanza di
questo passaggio potrà essere compresa soltanto quando prenderemo in esame il rovesciamento delle relazioni fra Cina e Russia che si verificherà nel decennio seguente, ma la fine degli attriti politici con Mosca porta con sé un netta diminuzione degli impegni militari lungo il confine settentrionale ed è la premessa implicita di quasi tutte le nuove coordinate della politica estera cinese
nella prima metà degli anni ’80. A ben vedere oggi, alcune di esse si potevano
cogliere bene già in quel momento. La “strage” di Tien Anmen determina un
momento di isolamento internazionale, che tocca specialmente i rapporti con
gli Stati Uniti, i quali cancellano la vendita di armi alla Cina e sostengono la decisione della Banca Mondiale di congelarle i crediti, in un clima di svariate altre forme di sanzioni a vari livelli prese da più paesi. Al di là dell’influenza delle correnti democratiche dell’opinione pubblica internazionale, non è difficile
vedere in questa severità di misure, la conseguenza, questa volta effettiva, che
la svolta di Gorbacev aveva portato nella Guerra Fredda. I paesi occidentali in
sostanza non hanno più bisogno della RPC, all’interno del triangolo segnato
dai trattati con gli Usa e il Giappone nel 1978 e dalla visita di Haig, in parte
confermata da certe decisioni di Reagan in seguito. Da questo momento si
esaurisce la strategia di valorizzare il peso internazionale della Cina, giocando
sull’interesse occidentale a contrapporla all’Unione Sovietica abbozzata forse
nel 1960-62 nel corso della crisi laotiana, confermata dalla svolta del 1971-72
e ripresa da Deng Xiaoping più tardi. Con la fine dell’Urss i dirigenti di Pechino dovranno pensare a nuovi criteri interamente diversi per rispondere agli aggiustamenti dell’equilibrio internazionale di potenza. D’altra parte da prima
ancora di questo passaggio si erano aperte altre premesse nello scenario che
definitivamente vediamo schiudersi con gli anni ’90. Se infatti la fine del conflitto cino-sovietico inaugura una nuova epoca, un altro fattore fondamentale
si era già delineato. Con le riforme di Deng Xiaping e l’apertura delle Zone
Economiche Speciali nella Cina meridionale, alle quali presto si aggiunge anche l’isola di Hainan, occupata definitivamente nel 1987, assistiamo a un maggior interessamento per le regioni costiere e ad un più manifesto interesse per
le relazioni con i paesi che si affacciano sugli stessi mari della RPC. Almeno inizialmente, questo interesse si collega agli attriti degli anni ’80 con il Vietnam2,
al timore che la marina sovietica acquistasse punti di appoggio nel Mar Cinese e alla preoccupazione di collegamenti fra Hanoi e Mosca. È innegabile una
2
Cfr. J. W. Garver, China’s Push Through the South China Sea: The Interaction of Bureaucratic and National Interests, «The China Quarterly», n. 132, 1992, pp. 999-1028.
49
approssimativa contemporaneità cronologica fra l’affermarsi della nuova strategia economica di Deng e il fatto che le rivendicazioni della Cina verso le isole Spratley e Paracel (rispettivamente in Cinese Nasha e Xisha) si intensificassero. Questo sviluppo era iniziato negli anni ’70. Entro il 1971 operazioni di
monitoraggio geografico e di studio sulle isole Anfitrite, che appartengono alle Paracel, erano state completate insieme alla costruzione di un porto nell’isola di Woody. Nel gennaio 1974 un’azione militare sottrasse al Vietnam del
Sud tre isole nel gruppo delle Crescent, sempre all’interno delle Paracel. Queste iniziative si spiegano col timore che il Vietnam del Nord potesse impadronirsi di tali arcipelaghi nell’imminenza del collasso del regime del Vietnam del
Sud, offrendo preoccupanti opportunità all’Urss, e in effetti poco più di due
settimane prima dalla caduta di Saigon, sei isole appartenenti alle Spratley furono occupate dalla marina di Hanoi. Ne seguì una disputa diplomatica fra la
Cina e il Vietnam, che rivendicarono entrambi la sovranità con argomenti di
diritto internazionale, sia sulle Paracel che sulle Spratley, estendendo il discorso a tutto il Mar Cinese Meridionale. Più tardi numerose iniziative di studio,
costruzioni di porti e altre installazioni, missioni militari e provvedimenti amministrativi completarono l’acquisizione delle Paracel da parte della RPC. Imbarcazioni ed aerei militari cinesi entrarono anche ripetutamente nell’area delle Spratley all’inizio degli anni ’80, aggiungendosi a numerose missioni scientifiche. Nel 1983 una missione navale cinese raggiunse le isole Natuna e la barriera sommersa di James Shoal suggerendo, secondo una testimonianza, il limite meridionale della sovranità cinese. Fra il 1984 e il 1987, probabilmente in
concorrenza con i primi segni di distensione con l’Urss, le missioni e le iniziative nell’area delle Spratley si interruppero per riprendere subito dopo. Mentre anche il Vietnam provvedeva a installarsi in alcune isole e la polemica a livello diplomatico continuava, si verificavano alcuni incidenti, il più grave fra i
quali fu una scontro a fuoco fra unità navali dei due paesi a Johnson Reef il 14
marzo 1988. Sembrò che si andasse verso un conflitto di più ampie proporzioni nel corso del 1989, finché nel 1990 la Cina ispirò il suggerimento indonesiano a trattare questi problemi in un Seminario, da tenersi a Bandong. Sebbene
Pechino non rinunciasse alle sue pretese, e le confermasse con pronunce ufficiali e atti legali, mentre iniziative di valorizzazione e sfruttamento di queste
isole continuarono negli anni seguenti, si può immaginare che l’isolamento internazionale seguito alla crisi di Tien Anmen e la fine dell’Urss incoraggiassero un corso più moderato. È interessante che nel 1992 l’apposita compagnia
nazionale cinese affittasse una concessione alla Cranston Energy Corporation
di Denver nel Colorado per lo sfruttamento dei banchi petroliferi dell’area di
50
Vanguard Bank nelle Spratley3 e che la Cina cercasse di evitare in quel periodo contrasti con altri paesi che avessero pretese nella medesima regione. Alcuni commentatori pensano che Pechino, proprio mentre cessava di aver valore
il “triangolo strategico” con Usa e Giappone, intendesse con questi accorgimenti evitare di inimicarsi i paesi dell’ASEAN e di prevenire interventi non desiderati dell’America. La politica “oceanica” però, aveva un significato più
profondo, legato, come abbiamo detto, alle esigenze economiche create dalla
svolta “denghista”. La stampa periodica dalla fine degli anni ’70 e Deng stesso, parlando all ‘11° Plenum del Comitato Centrale nel 1978 insistettero sulle
necessità di reperire sul mare le risorse adeguate all’aumento della popolazione. Anche l’organo delle forze armate il Jiefanjun Bao, scrisse nel 1988 e nel
1989 sulla necessità di sfruttare il mar Cinese Meridionale, ricco di petrolio,
pesce e manganese, per venire incontro ai bisogni del paese e della sua popolazione in aumento, insistendo che le sue risorse andavano assicurate in vista
del fatto che entro il prossimo secolo la Cina avrebbe avuto i mezzi necessari
per coglierne tutti i vantaggi. Nell’agosto del 1984 l’ammiraglio Liu Huaching,
il Comandante in capo della Marina Cinese, affermò in un’intervista che la Cina aveva bisogno di modernizzare la sua flotta per garantirsi il godimento di
tutte quelle potenzialità che rientravano nella sua sovranità territoriale e in un
momento in cui la rivoluzione tecnologica stava riscoprendo l’importanza del
mare4. Insomma la traiettoria che spostava sulla fascia oceanica l’aspetto più
dinamico della diplomazia era già impostata dagli anni ’80.
La Prima Metà degli Anni ’90.
Gli anni seguiti alla fine dell’Unione Sovietica se favoriscono la crescita
dei germi che sopra abbiamo analizzato, d’altro canto segnano un periodo particolare, il quale viene probabilmente a concludersi verso la metà dell’ultimo
decennio del XX° secolo. I tassi di sviluppo economico lanciano la Cina verso una fase di espansione e rendono più acuta l’esigenza di reimpostare la politica estera. La RPC è spinta così ad affermare in modo intransigente le sue
pretese su aree e territori, dove in passato aveva rivendicato i suoi diritti di so-
3 S. Tønnesson, “The Economic Dimension. Natural Resources and Sea Lanes”, in T. Kivimäki, War Or Peace In the South China Sea?, Nias Press, Copenhagen, 2002, pp. 54-61, specialmente p. 56.
4 J. W. Garver, op. cit., p. 1018-1022.
51
vranità in termini astratti di diritto internazionale, ma che ora acquistano un
significato maggiormente concreto.
D’altra parte tutto questo si colloca in un quadro storico più generale.
Forse seguendo i suggerimenti di alcuni suoi consiglieri militari, Deng Xiaoping è convinto che gli Stati Uniti stiano attraversando una fase di decadenza,
mentre ascendono in Europa la potenza della Germania, al centro di una virtuale Unione Europea, alla quale in parallelo corrisponde il Giappone, i cui
attriti economici con gli Usa negli anni ’80 hanno toccato la massima intensità5. L’Unione Sovietica sparisce, ma è sostituita dalla Russia, che resta in ogni
caso un fattore importante non fosse altro che per ragioni militari. Tutto questo fa pensare al vecchio leader che la struttura della società internazionale da
bipolare stia diventando multipolare e che la Cina stessa sia destinata ad essere uno dei protagonisti della trasformazione6. Cosciente del fatto che i rapporti con l’America sono fondamentali per i suoi progetti di sviluppo economico,
preferisce evitare che si aggravino le ragioni politiche di attrito, anche perché
pensa che il corso dei tempi lavori a favore della RPC, un’illusione con la quale i dirigenti di Pechino ed egli stesso dovranno fare i conti qualche anno dopo, ma che ancora non si manifesta come tale all’inizio degli anni ’90. Si verifica invece, in quel momento la più importante rivoluzione strategica nella recente storia cinese. La Russia, il principale nemico dei tempi di Mao, rapidamente si trasforma nel partner più stretto. Le ragioni sono essenzialmente tre.
In primo luogo la distensione conseguita con Gorbacev, permette alla Cina di
spostare il centro della sua attenzione sui bisogni della sicurezza lungo i confini meridionali. In secondo luogo, malgrado i successi di Deng, il paese manca ancora di una base industriale per dotarsi di armamenti adeguati a quelli
delle grandi potenze occidentali. Lo smantellamento di una parte delle forze
armate sovietiche le consente di supplire alle proprie carenze attraverso massicci acquisti di armamenti e materiale bellico, che i suoi quadri sono anche
più preparati ad adottare di quelli fabbricati in Occidente, visto che durante
la Guerra Fredda gran parte degli armamenti cinesi venivano dall’Urss. Si calcola che negli anni fra il 1991 e il 1992, 6.8 bilioni di dollari venissero spesi dal
governo cinese, il quale in questo modo cerca anche, come meglio vedremo
più avanti, di fronteggiare la Rivoluzione negli Armamenti Militari, di cui ci si
5 M. Pillsbury, China Debates the Future Security Environment, National Defense University, Wasington, DC, 2000, pp. 9-12.
6 Vedi ad esempio, Yong Deng, Hegemon on the Offensive: Chinese Perspectives on U. S.
Global Strategy, «Political Science Quarterly», vol. 116, n. 3, 2001, pp. 343-65.
52
comincia a rendere conto dopo la prima Guerra del Golfo, tanto più che, in
seguito al “massacro di Tien Anmen”, diventa proprio allora particolarmente
difficile procacciarsi la collaborazione militare di altre nazioni sviluppate7.
Infine valgono le ragioni di carattere diplomatico ed economico collegate con i contatti diretti attraverso il confine settentrionale, dove la nascita delle cinque repubbliche della CSI (Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan), tre delle quali confinanti con la RPC, pone il problema
che, per le lingue turche parlate al loro interno e la dominante religione islamica, esse possano lasciarsi attrarre politicamente dall’Iran o dalla Turchia e
diventare, con modalità variamente descritte dalla stampa internazionale, un
polo d’attrazione per le popolazioni autoctone del Xinjiang e quindi una minaccia per la RPC. Sia a causa del problema del greggio che per i ripetuti incidenti causati dall’autonomismo della minoranza islamica degli Uiguri, sensibile al richiamo dell’ideologia dei talebani dell’Afghanistan, la Cina non può
trascurare che anche paesi come l’Arabia Saudita o Israele mostrino interesse
per la trasformazione dell’Asia Centrale. Più documenti dell’epoca mostrano
la determinazione del governo di Pechino a difendersi dai tentativi di separatismo provenienti dalla regione. Da questa premessa negli anni fino al 1996,
sono sviluppate da un lato una serie di iniziative diplomatiche, spesso completate da trattati internazionali, attraverso cui la Cina stabilisce forme di collaborazione con le repubbliche centro-asiatiche, ottiene che esse non incoraggino la minoranza autonomista del Xinjiang, legata alle loro popolazioni dalla
comune religione, e promuove scambi e intese di natura economica. Dall’altra la RPC costruisce una rete di relazioni con la Russia, fino al punto di farne,
come si è detto, il suo principale partner internazionale.
Boris Yeltsin visita ufficialmente Pechino nel 1992, e di nuovo nel 1996.
Il Primo Ministro Chernomidin vi si reca nel 1994. Il Presidente della Repubblica Cinese, Jiang Zemin si reca in Russia nel 1994, nel 1995 e nel 1997; il Primo Ministro Li Peng lo segue nel 1995 e nel 1996. Una serie di altri contatti a
livello meno alto si somma a questi e tutto l’articolato delle relazioni fra i due
governi si trasforma. Sebbene non si riesca a risolvere completamente il problema dell’emigrazione illegale di cinesi verso la Russia, entro il 1994 praticamente tutta la disputa confinaria fra i due paesi è risolta e numerose intese,
7 Nella vasta bibliografia esistente, ricordiamo, Blank Stephen J., The Strategic Context of
Russo-Chinese Relations, «Issues & Studies», vol. 36, n. 4, July-August 2000, pp. 66-94; R. Menon, The Strategic Convergence Between Russia and China, «Survival», vol. 39, n. 2, Summer
1997, pp. 101-25.
53
volte a incrementare gli scambi commerciali, sono concluse. Si ritiene che fra
il 1996 e il 1997, a compimento di altri più particolari contatti, la Cina e la Russia abbiano concluso un accordo che comprende una clausola reciproca di
non aggressione e sancisce ulteriori massicce riduzioni di truppe sul confine,
l’impegno a dare preavviso a movimenti militari effettuati entro 100 chilometri dal confine e la partecipazione di osservatori di ciascuna delle due parti alle manovre od esercitazioni militari tenute nel territorio dei due stati. La collaborazione russa permette alla Cina, sebbene non vi sia piena certezza di dati su questo punto, di arricchire la sua flotta da guerra. La visita di Jiang Zemin nel 1994 si conclude con una dichiarazione congiunta, per la quale i due
paesi hanno avviato una “constructive partnership”, ridefinita al momento della nuova visita di Yeltsin nel 1996 “strategic co-operative partnership”.
Con l’occasione della visita di Yeltsin nel 1996, le precedenti intese con la
Russia e le repubbliche dell’Asia Centrale vengono completate con la creazione del cosiddetto gruppo dei “Cinque di Shanghai”, nel quale entrano il Kazakistan, il Kirghizistan e il Tajikistan, oltre ai governi di Pechino e Mosca. Ad
esso nel 2001 si aggiungerà l’Uzbekistan, facendone mutare il nome in “Organizzazione di Cooperazione di Shanghai”, (Shanghai Hezuo Zuzhi) normalmente abbreviato in OCS (oppure CSO). Inizialmente l’impegno dei paesi
membri riguardava essenzialmente la sicurezza militare, ma in seguito la collaborazione contro le attività eversive e il separatismo si è aggiunta, insieme ad
altri impegni volti al settore economico, al buon vicinato e al generico rafforzamento della fiducia reciproca.
Molti osservatori ebbero l’impressione a quell’epoca che il blocco che si
stava costituendo nell’Asia Centrale fosse diretto contro gli Stati Uniti, come
alcuni analisti ancora pensano8. Tuttavia quest’interpretazione, sebbene comprenda certamente elementi di verità, non dovrebbe essere esagerata, non fosse altro che perché gli scambi economici con l’America sono di vitale importanza per entrambi. Il significato politico dell’intesa con la Russia in fondo è
stato poco percettibile fino alla crisi dell’ex-Jugoslavia alla fine degli anni ’90.
Per la Cina inoltre la distensione e l’approvvigionamento militare che queste
intese portavano, ha indubbiamente significato un poderoso alleggerimento
sul confine settentrionale che le ha permesso di concentrare le sue pretese lungo quello marittimo. Più in profondità l’allineamento con Mosca, insieme al
potenziamento delle Nazioni Unite, viene spesso presentato come un utile
8
D. Shambaugh, Modernizing China’s Militay. Progresses, Problems, and Prospects, University of California Press, Berkeley, Los Angeles and London, 2004, p. 287.
54
contrappeso alla potenza “unipolare” degli Stati Uniti, ma non esclude di incoraggiare la cooperazione con questi ultimi9.
La Cina rivendicava in quell’epoca il diritto ad esercitare il controllo su
un’area di dodici miglia nautiche di mare territoriale e su una “Zona Economica Speciale” estesa di altre 200 miglia, alle quali si aggiungeva una piattaforma continentale valutata a due milioni di kmq. Secondo una legge approvata
dall’Assemblea nazionale nel 1992, tutto questo significava la “sovranità” su
complessivi tre milioni di kmq di superficie marittima. Dal punto di vista della sicurezza, l’inizio degli anni ’90 vede perfezionare le teorie della cosiddetta
“difesa attiva”, che qui ci interessano perché contenevano l’idea che la tutela
dello spazio nazionale implica la definizione di un’area oltre i suoi limiti, nella quale, per ragioni strategiche, bisogna essere preparati ad agire. Insieme alla necessità di proteggere le vie di approvvigionamento marittime ai fini economici, questo spiega una serie di enunciazioni già dalla fine degli anni’80, le
quali, sia pur vagamente, indicavano un pronunciato interesse e la tendenza
ad accrescere la capacita di intervento anche militare sulle aree oceaniche. In
questa fase venne utilizzato un concetto di “confine strategico”, diverso da
quello usuale di limite del mare territoriale. In una serie di articoli su riviste
specializzate furono inclusi al di qua del primo gli stretti di Malacca e le acque
a Sud-Est del paese. Nel 1988 la marina militare Cinese ricevette istruzioni,
che non è dato sapere quanto rientrino ancor oggi nella sua programmazione,
per le le quali entro il 2010 avrebbe dovuto essere in condizioni di agire fino
alle blue waters oltre Taiwan e le Filippine, entro il 2025 fino alla linea immaginaria che corre da Sakhalin fino alle isole del Pacifico del Sud, e entro il 2050
fino a quella dalle Aleutine all’Antartico. In un articolo del Jiefanjun bao del
1987, firmato da un autorevole esponente delle forze armate, era utilizzato il
termine “spazio vitale” (konjian) per affermare la necessità, dovuta alla crescita del popolo cinese, di aver accesso alle risorse del fondo del mare e dello spazio, implicando l’allargamento dell’area interna alla “frontiera strategica” a tre
milioni di kmq e l’esigenza di raggiungere l’area oceanica attraverso tre vie
d’accesso principali. Venivano menzionati anche il miglioramento e il rafforzamento degli armamenti navali, per garantire in ogni caso la possibilità di
proteggere gli interessi nazionali10. Tutto ciò pare aver sottinteso un altro passaggio nell’evoluzione del concetto di sicurezza. Nella tradizione cinese il con9 Vedi per esempio, Yu Sui, Lun Zhong E xinxing guanxi (Commenti sui nuovi rapporti
fra Cina e Russia), «Xiandai guoji guanxi», n. 6, 2003, pp. 1-6.
10 D. Shambaugh, Modernizing China’s…, cit., pp. 66-69.
55
fine11 rappresenta un’idea con sfumature diverse da quella che se ne ha in Occidente. Sul piano formale esso è rigoroso e irrinunciabile, coinvolgendo il
prestigio del paese, ma in concreto le questioni ad esso relative, anche data l’estensione della Cina, possono essere trascurate per periodi anche lunghi, salvo ad essere sollevate di nuovo, in relazione a specifici problemi che eventualmente si affaccino, quando ciò appaia opportuno. Inoltre nella tradizione cinese premoderna non esisteva una forte idea del confine marittimo ed era invece fondamentale l’importanza e il ruolo assegnato ai cosiddetti stati tributari, dei quali abbiamo parlato. Nel senso del diritto internazionale moderno,
essi non facevano parte dell’impero, il quale però si riservava di intervenire anche militarmente nel loro territorio in certi casi, non nettamente definiti, considerandosi interessato alla loro stabilità. Tutta questa concezione pare sottintesa ad alcuni nella politica navale della RPC dall’inizio degli anni ’90. Evidentemente tuttavia, i progetti strategici sopra ricordati, rivelano una certa elasticità. In quegli anni il Comandante in Capo della Flotta Cinese, l’ammiraglio
Zhang Liangzhong, insistette che la funzione della marina era di respingere un
attacco dall’esterno contro il territorio della repubblica, ma la legge navale del
1992 contiene la clausola per la quale la Cina si riserva il diritto di ricorrere alla forza per rimuovere intrusioni non solo nel suo mare territoriale, ma anche
nelle acque adiacenti. Se da un lato quindi, l’intento principale parrebbe essere stato di perfezionare le difese della RPC, dall’altro le implicazioni del concetto di “difesa attiva” hanno gettato dubbi sul senso potenzialmente espansionistico di questa politica navale. Insomma un fondamentale cambiamento
si stava verificando. Per importante che sia l’Asia Centrale sul piano generale
della politica estera, il Confine Oceanico, per ragioni militari ed economiche,
e per le implicazioni che porta nei rapporti relativi alla sicurezza con le altre
grandi potenze, ha assunto dall’inizio dell’ultimo decennio del ’900 un valore
probabilmente superiore, includendo in certi casi ipotesi di guerra o di conflitto armato. Tutto questo ha portato un elenco di implicazioni e di conseguenze, che riguardano innanzi tutto, a conferma di quanto si diceva sul significato del confine per i cinesi, la questione delle isole Dyao-yu e di conseguenza il rapporto in fase di trasformazione con il Giappone; poi il valore nuovo
che assumono i temi di Taiwan e della Corea; infine verosimilmente una nuova pianificazione strategica sul mare, la quale inevitabilmente si estende anche
alla questione delle Spratley. Cominciando da quest’ultima non c’è dubbio che
11 Cfr. E. A. Hyer, The Politics of China Boundary Disputes and Settlements, Phd disserta-
tion, Columbia University, New York, 1990.
56
la prima Guerra del Golfo, con lo spettacolo che ha offerto intorno all’uso delle portaeree e dei missili Tomahawk e Cruise, abbia consolidato non solo l’idea della necessità di garantire il territorio metropolitano contro attacchi provenienti dal mare ad opera di potenze dotate di strumenti bellici più moderni
della RPC, ma anche la convinzione per la quale equilibrare le pretese egemoniche di altre potenze richiede di per sé una consistente modernizzazione della flotta. È probabile in questo contesto che il Giappone sia stato riconsiderato fra i nemici ipotetici, nel senso tecnico del termine, della marina cinese e
che questa sia stata un’altra delle novità fondamentali introdotte nella sua strategia. All’epoca della Guerra Fredda essa disponeva di tre flotte: quella del
Mare Settentrionale (Beihai Jiandui), acquartierata nel porto di Qingdao nello Shandong, incaricata dell’area del Mar Giallo e del Confine Coreano, la cui
funzione era di respingere un’ipotetica avanzata verso Sud della flotta sovietica del Pacifico, che fu potentemente rafforzata negli anni ’80; quella del Mare Orientale (Donghai Jiandui), acquartierata nel porto di Ninbo, nella provincia del Jiangsu, da usare nell’ipotesi di un attacco contro Taiwan, e quella del
mare meridionale (Nanhai Jiandui), la cui base principale era a Zhanjiang nella provincia del Guandong, e la cui sfera di azione comprendeva il confine col
Vietnam e le isole Paracel e Spratley. Nella nuova impostazione invece, le flotte del Nord e dell’Est evidentemente guardano verso quelle americana e giapponese, mentre sempre la flotta dell’Est più quella del Sud devono occuparsi
non soltanto del Mar Cinese meridionale, dove sono le Spratley, ma, in una
prospettiva peraltro non troppo definita o conosciuta, anche dell’Oceano Indiano, dove il “confine stretegico” copre gli stretti di Malacca.
Limitandoci per ora alla materia della sicurezza navale, questo tema è
collegato ai problemi relativi alle isole Dyao-yu, alla Corea, a Taiwan e alla
collaborazione militare fra gli Stati Uniti e il Giappone, la quale ha assunto
un significato naturalmente diverso dopo la fine del Triangolo Strategico. La
questione delle Dyao-yu12 più direttamente ha rilevanza rispetto al problema
in esame. Come quella delle Spratley, è sostanzialmente legata alle nuove esigenze dell’economia cinese. Fino agli anni ’60 questo piccolo arcipelago, situato tra Taiwan e Okinawa, disabitato e vicino alle isole Ryū Kyū (Liuqiu in
cinese), era stato occasionalmente al centro di una disputa largamente teorica di diritto internazionale. Nel 1967 però, una commissione mista nomina12 Su questo problema è esauriente, Suganuma Unryu, Sovereign Rights and Territorial
Space in Sino-Japanese Relations. Irredentism and the Dyaoyu/Senkaku Islands, Association for
Asian Studies and University of Hawa’i Press, Honolulu, 2000.
57
ta dalle repubbliche della Corea e delle Filippine, con la collaborazione dell’Ufficio Oceanografico Navale degli Stati Uniti per conto dell’ECAFE, eseguì uno studio, completato nel 1968, per il quale le riserve di petrolio e gas
naturale nel loro circondario erano comparabili a quelle del Golfo Persico.
Abbiamo prova che l’arcipelago era stato difeso dai funzionari cinesi all’epoca della dinastia Ming durante il secolo XVI° e documenti cinesi testimoniano che esso era considerato parte dell’impero Qing fino all’inizio della seconda metà del XVIII° secolo. Nel 1879 il Giappone annesse formalmente il regno delle Ryū Kyū, di fatto sotto il suo controllo dal 1864, e nel 1884 un uomo d’affari giapponese interessato nel commercio del guano e delle penne di
albatross affermò di aver “scoperto” queste isole. Il governo di Tokyo però,
sebbene sollecitato dal governatore di Okinawa, non prese in considerazione la proposta di porlo entro i confini del paese, sebbene non affermasse che
non rientrava nella sua sovranità. Nel gennaio del 1895, mentre era in corso
la guerra sino-giapponese, ma due mesi circa prima del trattato di pace di Shimonoseki, che annesse Taiwan al Giappone, ma non menziona le Dyao-yu,
una decisone del governo nipponico pose le isole sotto la giurisdizione di
Okinawa e all’interno dei suoi confini. Poco prima, nel 1893 un editto dell’Imperatrice Vedova, reggente cinese in quel momento, aveva concesso in
proprietà privata le Dyao-yu (Senkaku in giapponese) al Ministro dei Sacrifici Sheng Xuanghuai. I due documenti del 1895 e del 1893 sono la base principale della disputa giuridica che da tempo si trascina, ma a causa del discusso valore di queste testimonianze e dei criteri e modalità di valutare le fonti
giapponesi e cinesi per il periodo premoderno, finora non si è raggiunta una
soluzione tecnica universalmente accettata, malgrado le pretese contrastanti
dei governi interessati.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, queste isole furono poste sotto
l’amministrazione americana di Okinawa e, dal momento di restituire quest’ultima al Giappone nel 1971-73, il governo di Washington ha più volte preso la posizione per la quale lo stato giuridico delle Dyao-yu tornava ad essere
quello del momento in cui l’occupazione era cominciata e stava agli stati interessati definirlo e risolverlo13. Fra il 1968 e il 1970, il Giappone, la RPC e la
ROC (Taiwan), riaffermarono tutti la loro sovranità, ma nel clima di riconciliazione del momento, il governo giapponese sospese i rilevamenti petroliferi
nel territorio delle isole. Dopo l’ingresso della RPC all’Onu, la questione del13 J-M. F. Blanchard, The U.S. Role in the Sino-Japanese Dispute over the Diaoyu (Senkaku)
Islands, 1945-1971, «The China Quarterly», n. 161, 2000, pp. 95-123.
58
la sovranità fu portata anche in quella sede e la posizione strettamente neutrale degli Usa nella controversia fu causa di contrasto tra i governi di Tokyo e di
Washington negli anni ’70. Al momento delle intese diplomatiche e dei trattati del 1972 e del 1978, comunque, la Cina e il Giappone decisero di non tirare la spina e di rimandare la soluzione al futuro. Nel 1983 Deng Xiaoping dichiarò che “[….] quanto alla questione delle isole Dyao-yu, ho detto che le future generazioni possono risolverla; le future generazioni saranno più intelligenti di noi”. Negli anni fino al 1989 il governo cinese occasionalmente dichiarò comunque che la disputa non era stata conclusa, riaffermando il principio della sua sovranità. La controversia tuttavia, all’inizio degli anni ’90 riesplose con un vigore che testimonia l’importanza tutta nuova che il Mar Cinese stava riacquistando. Nel 1990 l’Agenzia per la Sicurezza Marittima del
Giappone autorizzò la costruzione di un faro sulla principale delle isole, provocando una formale protesta del Ministero degli Esteri Cinese e massicce dimostrazioni a Taiwan e Hong Kong. Forze di polizia giapponesi impedirono
ai manifestanti di raggiungere le isole: il governo di Tokyo riaffermò la sua sovranità, ma sia questo che quello di Pechino si sforzarono di lasciare la questione nei termini concordati nel 1972. Il sentimento nazionalista tuttavia continuava a gonfiare l’atmosfera e si accese anche nell’opinione pubblica giapponese, quando in occasione della visita dell’imperatore Akihito nella RPC, le
polemiche da tutte e due le parti rinfrescarono con opposti intenti il ricordo
del “massacro di Nanchino” compiuto dall’esercito giapponese nel 1937. In
questo quadro, sebbene la posizione del Giappone dopo la crisi di Tien Anmen sia stata fra le meno rigide verso il governo cinese, Pechino raffermò la
sovranità sulle Dyao-yu, che nel 1992 furono incluse nel mare territoriale dalla già ricordata legge marittima. Benché esse siano pattugliate da unità della
guardia costiera giapponese, la legge cinese affermava il diritto di interdire il
passaggio con qualsiasi strumento a “vascelli” che disturbassero le isole14.
Mentre nelle due opinioni pubbliche le manifestazioni di nazionalismo continuavano, il Giappone, che desiderava non suscitare proteste da parte della Cina dopo aver autorizzato con una legge del 1990 la partecipazione delle sue
truppe alle Peace Keeping Operations delle Nazioni Unite, cercò di non riscaldare il clima. Pechino anche cercava di gettare acqua sul fuoco, dato che l’amministrazione Bush quell’anno vendette 150 aerei F16 a Taiwan. La Cina, timorosa dei primi segni di “neoegemonismo” Usa, come più spesso i suoi ana14
T. J. Dreyer, Sino-Japanese Relations, «Journal of Contemporary China», vol. 10, n. 28,
2001, pp. 375-385, specialmente pp. 375-76.
59
listi diranno in seguito, diede prova di voler evitare per il momento un attrito
con Tokyo. La prima Guerra del Golfo però, e le vicende relative a Taiwan e
alla Corea, su cui torneremo, dal 1992-93 non migliorarono il clima anche col
Giappone. Nel 1993 per la prima volta un articolo sul New York Times15 affermò che era allo studio la partecipazione del Governo di Tokyo al progetto
di TMD (Theater Missile Defense). I cinesi ebbero la percezione che Tokyo e
Washington stessero rafforzando la loro alleanza contro di loro. Un segno
sembrò mostrare che la politica di espansione sul mare promossa da Pechino
e le pretese giapponesi fossero in rotta di pericolosa collisione. Nell’agosto del
1995, alcuni caccia SU 27 (un modello simile al F15 occidentale) cinesi, da poco acquistati dalla Russia, entrarono nello spazio aereo delle Dyao-yu, provocando per risposta l’innalzamento di aerei da combattimento delle Forze di
Autodifesa (JSDF) giapponesi che li fronteggiarono16. Le JSDF annunciarono
con l’occasione l’intenzione di migliorare il sistema di allarme radio nella zona e di inviarvi caccia di tipo più moderno per prevenire non meglio identificate violazioni nello spazio territoriale nipponico.
La questione marittima rivelava la sua nuova dimensione, confluendo con
quelle della Corea e di Taiwan, ma anche con la tendenza della Cina di quegli
anni a flettere i muscoli di fronte ai paesi vicini e agli Usa, probabilmente incoraggiata dai suoi successi economici e spinta dal risveglio di nazionalismo di
cui si notavano i primi segni, oltre che forse stimolata dal senso di isolamento
e di minaccia scaturiti dalla fine del Triangolo Strategico.
Nel 1993, sviluppando alcune premesse della sua campagna elettorale, il
Presidente americano Clinton minacciò di cancellare la Clausola della Nazione Più Favorita verso la RPC o di ridurre altri privilegi doganali, se Pechino non
avesse “significativamente”migliorato la sua legislazione in materia di diritti
umani, liberato i prigionieri politici, permesso alla Croce Rossa di entrare nei
campi di lavoro, assunto un atteggiamento liberale nella questione tibetana etc.
Fra il novembre del 1993 e il marzo del 1994 diversi tentativi di soluzione diplomatica ebbero luogo, concludendosi con la visita senza successo del Segretario di Stato americano Christopher a Pechino. Nel frattempo però la Corea
del Nord diede inizio ad esperimenti nucleari che preoccuparono il governo
americano, il quale minacciò sanzioni economiche contro Pyongyang e chiese
che ispezioni venissero effettuate nel piccolo paese comunista attraverso le Na15 T. J. Christensen, China, the Us-Japan Alliance, and the Security Dilemma in East Asia,
«International Security», vol. 23, n. 4, 1999, pp. 49-80, specialmente p. 64.
16 Ivi, p. 376.
60
zioni Unite, mettendosi così nella condizione di aver bisogno che la Cina non
esercitasse il suo diritto di veto al Consiglio di Sicurezza. La Corea del Nord
però non mostrò di voler collaborare fino al mese di aprile, ma nel giugno seguente gli Usa, dopo alcuni gesti concilianti da parte del governo cinese, che liberò alcuni dissidenti, rinunciò alle sue minacce di sanzioni economiche. È verosimile che Deng usasse l’influenza che ancora aveva sul regime nord-coreano e che il baratto finale con Washington sia stato la risultante conclusiva17. Ancora più significativo fu l’incidente che si verificò dal luglio del 1995 al marzo
del 1996 prendendo spunto dalla tendenza di una parte delle forze politiche
taiwanesi a sostenere non più che la ROC è il legittimo governo cinese, ma l’indipendenza dal continente. Questo episodio fu la conseguenza della visita del
Primo Ministro taiwanese Lee Teng-hui negli Stati Uniti, per prendere parte a
una cerimonia alla Cornell University dove si era laureato. La concessione del
visto da parte americana fu interpretata come un’infrazione degli impegni presi dagli Usa nel 1978 e l’APL intraprese esercitazioni militari e tests missilistici,
i quali diedero l’impressione a parte della stampa straniera che un’invasione
fosse imminente. L’episodio comunque raggiunse il massimo della tensione,
quando, confermando la posizione di Washington contro l’uso della forza per
risolvere il problema dell’appartenenza dell’isola alla Cina, due portaeree Usa
furono inviate nello stretto di Taiwan, che Pechino fa rientrare nelle sue acque
territoriali. Insomma il 1995 da alcuni autori viene considerato uno spartiacque per il nostro tema lungo tutta la “frontiera oceanica”. Anche nelle Spratley
la marina cinese aprì il fuoco al Mischief Reef18 contro imbarcazioni filippine e
pescatori che vennero espulsi da quella località. Il governo indonesiano lo stesso anno strinse un accordo con l’Australia volto a contrastare le pretese della
Cina sulle isole Natuna, sebbene queste non riguardino la sovranità sulle medesime, ma unicamente le EEZ della RPC e dell’Indonesia19. Mai nello scorso
secolo era sembrato che la Cina prendesse una posizione così assertiva. Indipendentemente dalle interpretazioni dei singoli eventi, comunque, negli Usa,
in Giappone e nei paesi dell’ASEAN, i cui Ministri degli Esteri produssero una
dichiarazione comune, reiterandone una precedente del 199220, l’impressione
17 B. Yang, Deng… cit., pp. 269-71.
18 B. M¢ller, “The Military aspects of the Disputes”, in T. Kivimäki, War Or Peace…, cit.,
p. 63.
19 Cfr. R. Amer, “Claims and conflicy Situations”, in T. Tivimäki (ed.), War and Peace….
cit., pp. 24-40, specialmente p. 31.
20 T. Tivimäki, L. Odgaard e S. Tønnesson, “What Could Be Done”, in T. Tivimäki (ed.),
War and Peace….cit., p. 137.
61
che la RPC fosse una potenza in ascesa e almeno in parte una minaccia, acquistò spazio, sebbene sia impossibile per noi avere una certezza documentaria
sugli eventuali collegamenti fra tutti gli episodi sopra menzionati nei disegni
del governo cinese.
Dal 1995 al nuovo Secolo
La situazione complessiva che abbiamo esaminato ha contribuito a determinare un particolare scenario, il quale ha segnato le relazioni esterne della Cina sotto il profilo della sicurezza nel periodo che va dalla metà degli anni ’90
fino all’attentato terroristico compiuto contro le Torri Gemelle di New York
l’11 settembre 2001 e agli ultimi anni. L’elemento nuovo che si nota ora riguarda una serie di problemi, i quali da un lato toccano il modo di vedere certi temi, ad esempio il rapporto col Giappone, dall’altro l’interpretazione complessiva della politica mondiale e più in generale un certo ripiegamento della RPC,
sicuramente sotto l’impressione, rafforzata prima dell’11 settembre 2001 da
certe posizioni dell’amministrazione Bush, di essere in una condizione di debolezza di fronte ad avversari che stavano diventando più aggressivi o comunque meno concilianti. Naturalmente esiste qui un serio problema di lettura
delle fonti, che spesso non permette di andare oltre ipotesi interpretative, ma
in questo periodo si assesta definitivamente il quadro, nel quale nascono le domande relative a ciò che possiamo aspettarci circa le intenzioni future della
RPC. Le prenderemo in esame nell’ultimo capitolo, sempre con la riserva, per
giunta, che è molto difficile seguire a questo proposito il delicato meccanismo
del decision making nella Cina, anche a causa dell’evoluzione nel ruolo e nell’influenza della classe militare. In altre parole è facile seguire le posizioni che
sono state prese caso per caso, ma è difficile ricostruire l’origine di ciascuna
attraverso l’elaborazione che le precedette. Ad esempio, come si vedrà, è legittimo pensare che nell’élite dirigente convivano posizioni diverse intorno al
problema se il Giappone debba essere considerato una minaccia o meno e se
la diplomazia verso i paesi dell’ASEAN sia stata uno strumento per affrontare
questo problema; o fino a che punto la questione di Taiwan sia da considerare il nocciolo di tutta la politica estera almeno per ciò che riguarda la “fascia
oceanica”. Ci è impossibile risalire con certezza scientifica però, alla dinamica dei contributi che l’APL o il Ministero degli Esteri hanno dato alla discussione dei singoli problemi, vari dei quali presentano anche riflessi di politica
interna.
62
Il 1996 si apre con la dichiarazione congiunta emessa nell’aprile al momento della visita del Presidente Clinton in Giappone, da quest’ultimo e dal
Primo Ministro giapponese Hashimoto. Essa avrebbe dovuto essere rilasciata
il precedente novembre, in occasione del vertice di Osaka dell’APEC ed era
stata rimandata a causa dell’annullamento della visita di Clinton21. In altre parole, sebbene la dichiarazione fosse sicuramente influenzata dal senso di squilibrio creato negli americani e nei giapponesi dalla crescita della potenza della Cina rispetto alla situazione dell’Asia Sudorientale, verosimilmente non ebbe a che fare con la crisi di Taiwan del 1996. La dichiarazione fu perfezionata
da un elenco di guidelines relative alla collaborazione fra i due paesi, pubblicate nel 1997 e definitivamente approvate con una legge del parlamento nipponico del 1999.
Strettamente parlando essa trovò origine nella preoccupazione per gli
esperimenti nucleari della Corea del Nord e nel fatto che il trattato di Amicizia e Sicurezza fra il Giappone e gli Stati Uniti, rinnovato nel 1970, non considerava alcuna ipotesi di collaborazione al di fuori di un attacco contro il territorio giapponese, non comprendendo alcun obbligo a carico del Giappone
nel caso di episodi bellici in cui gli Stati Uniti fossero coinvolti al di fuori di
quello sopra esaminato. In tale quadro rientrava anche la questione coreana,
dalla quale nasceva l’interesse del Giappone per il TMD, allo studio del quale
il governo di Tokyo si impegnò ora esplicitamente a collaborare. Una serie di
testimonianze memorialistiche e di interviste permette però di capire che il governo americano e l’amministrazione giapponese avevano deciso di rendere
più impegnativa l’alleanza in corso fra loro proprio perché preoccupati dalla
crescita della potenza cinese. Facendo una parentesi, non sembra un caso che
nel 1996, anche Tokyo estendesse a 200 miglia nautiche la propria Zona Economica Speciale, comprendendovi le Dyao-yu, mentre il Giappone ha notoriamente bisogno di lasciare libere le vie marittime che passano per lo stretto
di Taiwan e che, in base alla legge del 1992, la Cina fa rientrare nella sua area
di sovranità riservandosi formalmente il diritto di espellere con la forza chi
eventualmente la violasse. L’accrescimento della potenza cinese si accompagnava nelle idee dell’amministrazione Usa al convincimento che fra i militari
cinesi esistesse la tendenza a riempire il vuoto di potenza lasciato in Estremo
Oriente dalla fine dell’Unione Sovietica e che anche per questa ragione gli Stati Uniti non potessero rinunciare al ruolo stabilizzatore che avevano svolto dal21
Soeya Yoshihide, Taiwan in Japan’s Security Considerations, «The China Quarterly», n.
165, 2001, pp. 130-146, specialmente p. 144.
63
la Seconda Guerra Mondiale in poi. Sembrava perciò loro necessario rafforzare la collaborazione col Giappone. Essi non desideravano però isolare la Cina o applicare nei suoi riguardi una forma di containment oppure favorire la
rinascita di una vera potenza militare giapponese, la quale avrebbe certamente trovato numerosi ostacoli e opposizioni fra i paesi asiatici. Rivedere il legame esistente con Tokyo in termini moderatamente più impegnativi, avrebbe
dato stabilità alla regione e consacrato normali relazioni con Pechino, da inquadrare in una strategia di engagement più che di constrainment22. Il contenuto delle nuove guidelines, che presenta alcune complessità giuridico-interpretative, nelle quali non scendiamo, portava con sé un modesto aumento degli obblighi delle due parti rispetto ai trattati precedenti23. Esse prevedevano
la collaborazione nella difesa non solo nel respingere attacchi diretti contro il
Giappone, ma anche nel caso di “crisi”, nelle aree circostanti quest’ultimo. Il
testo aggiungeva che “the concept, situations in areas surrounding Japan, is
not geographical but situational”. L’impegno militare da parte del governo di
Tokyo avrebbe dovuto essere soltanto di tipo logistico ed escludere le aree dove si combatteva, comprendendo il trasporto di persone e materiale (comprese armi, ma solo americane), evacuazione di personale non combattente, sorveglianza, sminamento di acque, ricerca e salvataggio in mare, gestione dello
spazio aereo e del mare. L’uso della forza da parte del Giappone era previsto
solo nel caso che una nave si fosse rifiutata di essere ispezionata in mare aperto nel quadro di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle NU. La collaborazione fra le forze armate dei due paesi era prevista. In particolare l’alleanza si riferiva a operazioni di peace keeping o di soccorso internazionale ed
emergenza, ovvero al caso di sanzioni economiche applicate dalle Nazioni
Unite, che comprendessero ispezioni di navi in alto mare. Era prevista anche
la partecipazione del Giappone alle ricerche nel quadro del TMD. Il Giappone riaffermava di essere vincolato alle clausole che escludevano il ricorso alla
guerra nella sua carta costituzionale e ai cosiddetti “tre principi”, enunciati nel
1969, che escludevano la produzione, l’uso e la presenza sul suo territorio di
armi nucleari. È opinione diffusa che la reazione della RPC a quest’alleanza sia
stata eccessiva rispetto al suo contenuto, ma proprio per questa ragione val la
22 J. S. Nye, The “Nye Report”. Six years later, «International Relations of the Asia-Pacific», vol. 1, n. 1, 2001, pp. 95-103.
23 Per un esame approfondito di questa “alleanza”, P. Midford, China views the revised
US-Japan Defense Guidelines: popping the cork?, «International Relations of the Asia-Pacific»,
vol. 4. n. 1., 2004, pp. 113-145.
64
pena di analizzare il problema in dettaglio24. Il periodo dopo il 1972 era stato
segnato da una cordialità senza precedenti verso Tokyo e a partire dal 1980
anche regolari incontri a livello ministeriale avevano cominciato a tenersi, sebbene rimanesse una generalizzata ostilità diffusa contro il vicino paese fra la
gente, che continuava ad essere legata al ricordo degli abusi e delle gravi violazioni di diritti umani commesse dall’esercito giapponese durante la Guerra
durata dal 1937 al 1945. In particolare tuttavia anche il governo non aveva mai
smesso di sbandierare il pericolo di un ritorno al militarismo da parte di Tokyo
e all’interno dell’APL questa posizione era particolarmente rigida. Uno studioso americano raccolse in un’intervista l’opinione che se un ufficiale cinese
avesse affermato che il pericolo giapponese non esisteva più, questo avrebbe
potuto nuocere alla sua carriera. Nel corso degli anni ’80, si verificarono attriti diplomatici e proteste o dimostrazioni a livello popolare per diverse ragioni. Una parte della pubblica opinione cinese reagì negativamente al massiccio
ingresso di prodotti giapponesi dopo la normalizzazione del 1972 e a causa del
modo in cui i testi scolastici giapponesi presentavano l’invasione della Cina nel
1937, oppure per le visite di membri del governo di Tokyo al santuario di Yasukuni, dedicato ai soldati morti in guerra, fra i quali sono compresi 14 personaggi condannati come criminali di tipo A dal processo di Tokyo del 1946-47;
o anche per il modo di presentare da parte della stampa nipponica il “massacro di Nanchino” del 1937 e perché nel 1987 il bilancio militare giapponese
sfondò il tetto dell’1% del GNP, fissato da una decisione governativa precedente. In una serie di occasioni che sono andate da dichiarazioni pubbliche di
uomini di stato a editoriali sulla stampa ufficiale, comprese le affermazioni del
Presidente della repubblica Jiang Zemin durante la sua visita negli Stati Uniti
nel 1997, fino ad altri articoli più sofisticati comparsi sulle riviste di politologia e di studi strategici, una serie di critiche molto pesanti sono state rivolte
contro la nuova alleanza. I cinesi furono preoccupati dal fatto che durante i
negoziati alcuni esponenti giapponesi avessero proposto di includere Taiwan
all’interno del perimetro dell’alleanza e fu ventilato che quest’ultima implicava che il Giappone si fosse accordato con gli Usa per dominare l’intera area
asiatica del Pacifico, trasformandosi in uno strumento puro e semplice della
strategia americana. Il primo Ministro Li Peng affermò che la Cina doveva ve-
24 Vedi diversi saggi sull’argomento, T. J. Christensen, China, the Us-Japan Alliance, cit.;
B. Garrett and B. Glaser, Chinese Apprehensions About Revitalization of the U.S.-Japan Alliance, «Asian Survey», vol. XXXVII, n. 4, 1997, pp. 383-402; J. T. Dreyer, Sino-Japanese Relations..., cit., pp. 377-78.
65
gliare contro gli “elementi militaristici” in Giappone e in più occasioni fu ripetuto che la lezione di Pearl Harbor non andava dimenticata. Fu affermato
che la nuova alleanza apriva la strada alla rimilitarizzazione del Giappone.
L’inclusione, sebbene non esplicita di Taiwan nell’area coperta dal nuovo patto, fu collegata da Jiang Zemin alla domanda se il Giappone avesse imparato
qualcosa dalla guerra di aggressione che aveva condotto. Il capo di Stato maggiore dell’esercito cinese lasciò cadere l’ammonimento al Giappone di “adottare un atteggiamento prudente”. Il Quotidiano del Popolo scrisse che in questo modo si coltivavano i “semi del militarismo giapponese”. A un livello più
specialistico, fu osservato che il nuovo trattato aveva rinnovato un patto, il
quale dopo la fine della Guerra Fredda aveva perso il suo valore, mentre creava instabilità in Asia, in quanto svuotava le clausole pacifiste della costituzione nipponica del 1947. I contatti a livello ministeriale fra le due Difese furono sospesi. L’inclusione del TMD nelle guidelines ha particolarmente irritato i
cinesi. Essi hanno sentito che lo scudo era diretto contro di loro e un periodico di grande diffusione è ricorso all’immagine della “danza della spada”, che
il Giappone avrebbe fatto mostrando di allestire uno strumento contro la Corea del Nord, ma pensando invece alla RPC. Un’osservazione del resto forse
esatta visto che alcune interviste effettuate in Giappone hanno confermato che
il timore della “minaccia” proveniente dalla Cina è stata fra le motivazioni del
nuovo patto, probabilmente in relazione allo sviluppo dell’arma missilistica
sulla costa cinese dello stretto di Taiwan e agli episodi sopra indicati durante
i quali nel 1995/6 la Cina aveva mostrato i muscoli ai paesi vicini25. E d’altra
parte i dirigenti della RPC sanno che comunque esiste un settore della pubblica opinione in Giappone che è apertamente favorevole all’indipendenza di
Taiwan ed è rappresentato da un’attiva lobby parlamentare. Il Sol Levante viene talvolta rimproverato di non aver dimenticato il passato coloniale dell’isola, rimasta territorio giapponese dal 1895 al 1945, e di aspirare più o meno nascostamente a ristabilire una sorta di mainmise su Formosa o almeno a tenerla vicina all’orbita del Giappone, impedendo la riunione con Pechino. Più critici si sono chiesti cosa ci fosse dietro l’“alto allarme riguardo al trattato giapponese-americano”26 gettato da Jiang Zemin, anche al di là dell’esteriore vivacità delle polemiche. La risposta più frequente riguardava il timore di una rinascita del militarismo nipponico. Inoltre sebbene ci si rendesse conto dei li25 L’articolo comparve sul numero 7, del 1/4/1999, della rivista «Shijie Zhishi», cfr. J. T.
Dreyer, cit., p. 380.
26 T. J. Christensen, China, the Us-Japan Alliance, cit., p. 63.
66
miti imposti dalla costituzione e del fatto che per ragioni di convenienza economica, legata al bisogno di non preoccupare i suoi partners commerciali asiatici, il governo di Tokyo fosse rimasto sempre fedele alle sue posizioni pacifiste, era opinione diffusa fra i dirigenti cinesi che questi condizionamenti potrebbero venire agevolmente a cadere. Le alleanze, sia pur usando questo termine in modo generico, fra il Giappone e gli Stati Uniti del 1951, ’60 e ’70, venivano in quel momento viste con favore perché avrebbero avuto la funzione
di “bottle cab”, finendo per agire di fatto come limite e freno di fronte alla connaturata tendenza imperialistica attribuita al Giappone. Esse erano state presentate da diplomatici americani come la miglior garanzia di fronte al pericolo della rimilitarizzazione di Tokyo e in questo senso erano anche apprezzate
dagli altri paesi asiatici, come vari Primi Ministri giapponesi, da Nakasone Yasujirō a Murayama Tomiichi, avevano riconosciuto.
Nella sua nuova forma però, venne obiettato, l’alleanza del 1996-99 sembra svolgere una funzione diversa, non più di “bottle cab”, ma di “egg
shell”27, tale cioè da fare esplodere e non da contenere la presunta vocazione
aggressiva del Giappone. Un altro giornale cinese affermò che essa prefigurava una mobilitazione generale e rappresentava una “copia” della Nato. Probabilmente però, esiste anche una ragione più reale e meno ossessiva, se possiamo permetterci questo termine, dietro le preoccupazioni di analisti e uomini politici cinesi, vale a dire il timore che l’alleanza possa funzionare in caso di confronto militare fra la RPC e gli Stati Uniti a causa di Taiwan. È opinione generale, confermata da numerose dichiarazioni di responsabili e organi delle forze armate, che se Taiwan proclamasse la sua indipendenza, come
suggerito dalla parte preponderante del Partito Progressista del Popolo
(Minjindang), più favorevole a questa linea rispetto al Guomindang degli eredi di Jiang Jieshi (Chiang Kaishek), che tradizionalmente vede la ROC come
legittimo governo di tutta la Cina, la RPC farebbe ricorso alla forza per “completare l’unificazione”. In questo caso è probabile, sebbene certi specialisti
parlino di “dilemma” americano, che gli Usa interverrebbero. Trattandosi di
un ipotetico scenario futuro, lo discuteremo nell’ultimo capitolo, ma giova
qui considerare che le clausole dell’alleanza creano il concreto pericolo che
il Giappone venga coinvolto in una guerra fra i due paesi. Non solo infatti,
esso potrebbe essere esposto ad azioni di rappresaglia se aerei o missili americani partissero dalle basi sul territorio giapponese, compresa Okinawa, ma
il modello di TMD sinora studiato prevede che lo scudo missilistico dovreb27
Ivi, p. 62.
67
be essere basato sul mare, il che ha fatto probabilmente sì che nell’accordo
venisse compreso l’obbligo del Giappone a partecipare ad operazioni di sminamento, per le quali la Settima Flotta Americana, di stanza in Estremo
Oriente, è particolarmente carente. In caso di attacco cinese contro Taiwan è
possibile che le acque intorno all’isola verrebbero minate della RPC, il che potrebbe obbligare il Giappone a usare i suoi dragamine, su richiesta americana, esponendosi ad azioni di retaliation da parte cinese con tutte le conseguenze del caso28. La stessa situazione si potrebbe verificare, meno probabilmente, se le NU decidessero sanzioni economiche o una PKO contro la Cina,
e la marina di Tokyo usasse la forza per costringere una nave cinese ad una
ispezione, sebbene quest’ipotesi sia resa improbabile dal fatto che Pechino è
membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. D’altra
parte la questione va vista anche in connessione ai rapporti fra la RPC e i paesi dell’ASEAN, il che ha probabilmente causato secondo alcuni osservatori un
sottile contrasto all’interno della RPC stessa fra i militari e la diplomazia professionale, a suo tempo sostenuta dal Primo Ministro Zhu Ronji. È chiaro infatti che se la questione di Taiwan resta un prioritario problema di sicurezza
nazionale, per una parte del gruppo dirigente cinese, è anche fondamentale
non guastare i rapporti commerciali né con gli Stati Uniti né con il Giappone che sono entrambi indispensabili a mantenere il fine ultimo di conservare
un alto tasso di sviluppo economico, vale a dire l’obiettivo già indicato da
Deng Xiaoping e confermato dai suoi successori come primario. Inoltre una
strategia che puntasse tutto sul deterrente militare non potrebbe che accrescere la diffidenza di almeno la maggior parte dei paesi dell’ASEAN. Sebbene tutte le questioni relative al Mar Cinese siano in genere considerate strettamente interne dalla RPC, da quando nel 1994 quest’ultima è entrata nel cosiddetto ARF ossia nei forums tenuti dai paesi dell’ASEAN [anche nella versione APT, cioè ARF più 3, allargato a Cina, Corea e Giappone], tale partecipazione, a dispetto di incidenti isolati che hanno continuano a verificarsi,
ha ampiamente contribuito a sdrammatizzare il clima principalmente sul
problema della Spratley. Nel 1995, per fare un simbolico esempio, la RPC ha
accettato di trattare la questione in armonia con la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. Ora per ovvie ragioni geografiche la questione di Taiwan non è indifferente da questo punto di vista. Nel 1997 fu tenuto un forum dell’ASEAN a Pechino nel corso del quale il rappresentante
cinese attaccò vigorosamente l’alleanza fra il Giappone e gli Stati Uniti, ac28
68
Ivi, pp. 65-68.
cusandola di essere uno strumento che corrispondeva a quelli usati all’epoca della Guerra Fredda, in contrasto con i valori dei nuovi tempi. Vari analisti interpretarono questo discorso nel senso di una linea alternativa che il
Ministero degli Esteri cinese ostentava, malgrado i toni accesi, per contrastare l’influenza dell’APL e rassicurare implicitamente i paesi asiatici vicini,
se non, aggiungerei, il Giappone stesso, mostrando di voler mantenere la
collaborazione con i primi e di essere fedele ai principi dell’ONU, ma senza
abdicare alle pretese verso Taipei29. In effetti i rapporti con il Giappone sono diventati sempre più importanti negli ultimi anni e hanno cominciato a
presentare angolazioni contrapposte da cui evidentemente dipenderanno
anche le vicende del futuro. Tra il 1996 e il 1999 la disputa sulle Dyao-yu ha
trascinato ancora una volta l’opinione pubblica, mentre altri riverberi hanno avuto dichiarazioni di esponenti politici giapponesi intorno al pericolo
che gli armamenti missilistici cinesi hanno per il Giappone, oppure sulla
questione dello Yasukuni Jinja. Nello stesso tempo però c’è stato un sostanziale sviluppo nelle relazioni economiche, accompagnate da progetti di cooperazione in campi che vanno dall’ambiente alla medicina, il quale ha giovato a migliorare l’atmosfera. In un campo delicato come quello delle zone di
pesca un accordo soddisfacente è stato raggiunto nel 2000. La decisione cinese di non svalutare lo yuan durante la crisi delle borse asiatiche nel 1997
ha potentemente giovato al cambio dello yen, indebolito dalla recessione
dall’inizio del decennio, mentre negli ultimi anni la crescente domanda di
prodotti stranieri, conseguita all’espansione dell’economia cinese, ha contribuito a frenare la recessione di quella nipponica. C’è però da osservare anche che il clima in Giappone si è modificato per molti aspetti. Dal punto di
vista della sicurezza la questione fondamentale resta in larga parte la scelta
della classe politica nipponica dall’inizio del dopoguerra, di non modificare
la costituzione del 1947 per evitare di essere accusata dai paesi asiatici di preparare un ritorno al militarismo, un atteggiamento che è risultato vincente
perché condiviso, sia pur per motivi diversi, dalla maggior parte dell’opinione pubblica interna fino agli anni ’80. In seguito, tuttavia si è verificato un
cambio anche generazionale, che spinge sempre più giapponesi a non considerarsi più responsabili delle vicende della Seconda Guerra Mondiale, pur
molto spesso disapprovando il comportamento dell’esercito nipponico di allora, e a non accettare più una sorta di minorità in campo internazionale a
29
R. Foot, China in the ASEAN Regional Forum: Organisational Processes and Domestic
Models of Thought, «Asian Survey», vol. XXXV, n. 5, 1998, pp. 425-440, specialmente p. 435.
69
causa delle colpe di quel momento30. In questo contesto una legge nel 1990
approvò la partecipazione delle SDF alle PKO delle Nazioni Unite e nel 2001
per la prima volta una campagna della stampa conservatrice ha contrattaccato direttamente di fronte ai continui richiami e alle interpretazioni storiche
di quella cinese sulle tragicità degli anni ’30 e il Massacro di Nanchino. Nel
1998 la visita di Jiang Zemin a Tokyo, che si accompagnò ad un’ulteriore serie di richieste di scuse sul tema delle colpe di guerra, considerato chiuso dal
Giappone dal 1972, si concludeva con un sostanziale insuccesso. In questo
contesto, esacerbato da episodiche polemiche e prudenza ufficiale su altri
problemi come l’ingresso di navi non identificate, verosimilmente cinesi, in
acque nipponiche, vediamo cominciarsi a delineare in Cina però due atteggiamenti diversi. Da un lato nell’opinione pubblica continuano le critiche,
che si richiamano al passato storico e alla questione di Taiwan, ove talvolta il
Giappone è stato anche indicato come un nemico più pericoloso degli Stati
Uniti, mentre poche variazioni si notano sulle riviste e nelle dichiarazioni dell’APL; dall’altro però diversi analisti riconoscono il progresso che il Sol Levante ha fatto dopo lo Seconda Guerra Mondiale e il pacifismo della sua Politica Estera. Nell’anno 2000 un articolo sull’importante periodico Shijie Zhishi sostenne che lo sviluppo di amichevoli rapporti e la cooperazione avrebbe giovato a entrambi i paesi, che i cinesi avevano un atteggiamento inutilmente emotivo, che la maggior parte dei giapponesi non negavano che la
guerra del 1937 fosse stata di aggressione, che non bisognava continuare a sopravalutare l’importanza dei nazionalisti estremi in Giappone. Nello stesso
anno il Primo Ministro Zhu Ronji compì un viaggio nel vicino arcipelago, riconoscendo il progresso che questo aveva compiuto nel dopoguerra e affermando che non era più necessario che i giapponesi si sentissero responsabili
dei crimini della Seconda Guerra Mondiale. Ambedue tali prese di posizione sono andate incontro a repliche molto dure sia sulla stampa popolare che
sulla rete internet, dove Zhu fu addirittura indicato come traditore, mentre
altri periodici continuavano a tener distinto il discorso della convenienza economica da quello sulle ambizioni politiche nascoste, anche di dominare il
mondo, o alle intenzioni di tenere la Cina in una condizione di inferiorità, che
venivano attribuite a Tokyo. In sostanza apparve chiaro che un ostacolo ad
un clima più disteso nei reciproci rapporti veniva più dalla pubblica opinione,
30 Molte informazioni in, G. Rozman, China’s changing images of Japan, 1989-2001: the
struggle to balance partnership and rivalry, «International Relations of the Asia-Pacific», vol. 2,
n. 1, 2002, pp. 95-129.
70
che indubbiamente risentiva anche di decenni di pressione della propaganda ufficiale, che dal governo stesso. A livelli più sofisticati, si può in genere dire che da
allora, insieme al riconoscimento dei positivi rapporti economici, viene spesso affermato che il Giappone tenda a ricavare via via una crescente area di potere a livello mondiale, giocando sulla decadenza dell’Urss, sul declino in prospettiva degli Stati Uniti e sul loro crescente bisogno di alleati, sicché è necessario stare in
guardia di fronte all’ampliarsi della sua influenza politica. Ma sono comparse anche considerazioni come quella per la quale la collaborazione a livello diplomatico fra i due paesi può rivelarsi utile, considerando ad esempio che il Giappone
aspira ad un seggio permanente al Consiglio d Sicurezza delle Nazioni Unite, del
quale la Cina fa già parte, mentre la Cina aspirava entrare nel G8 del quale il
Giappone è già membro31.
La palese contraddizione fra le due correnti di opinione ha continuato a
svilupparsi fino ai giorni nostri con grande ricchezza di argomenti da entrambe le parti, ma va osservato che i commentatori più preparati nella RPC tendono spesso a staccarsi dagli stereotipi. È sui loro articoli che si trova il discorso,
divenuto più pressante a cavallo della fine del secolo scorso, per il quale non
c’è da illudersi di frenare il potere unipolare degli USA consolidando i legami
con la Russia. L’alleanza fra Giappone e gli USA presenterebbe secondo certe
analisi ancora elementi di fragilità e se la Cina si avvicinasse al Giappone, quest’ultimo potrebbe assumere un atteggiamento maggiormente autonomo, così
da rendere più sicura ed equilibrata anche la posizione della RPC.
Questo discorso risente chiaramente della percezione di maggior isolamento e debolezza avvertito dal governo di Pechino alla fine del ’900 ed è basato sulla fine dell’illusione, nutrita negli anni ’80, che la società internazionale si stesse trasformando in senso multipolare. In special modo le vicende della guerra del Kosovo, a distanza di 8 anni dalla prima Guerra del Golfo, oltre
a stimolare la riflessione sull’arretratezza delle forze armate cinesi, hanno alimentato un’esplosione di sentimenti ostili verso la Nato e il governo di Washington, accusati di cercare un’egemonia nel mondo e di utilizzare come pretesto il tema dei diritti umani per violare la sovranità di altri paesi, come espli-
31 Sui rapporti fra Cina e Giappone sono interessanti, Wang Yizhou, Zhong Ri guanxi de
shi ge wenti (Dieci questioni nelle relazioni tra Cina e Giappone), «Shijie jingji yu zhengzhi»,
n. 9, 2003, pp. 8-9; Wu Sheng, “guoji tixi bianqian yu riben waijiao de xuanze” (Il cambiamento nel sistema internazionale e le scelte della diplomazia giapponese), «Shijie jingji yu zhengzhi»,
n. 4, 2003, pp. 34-40; Shi Yinhong, Guanyu Zhong Ri guanxi de zhanluexing sikao (Riflessioni
strategiche sui rapporti tra Cina e Giappone), «Shijie jingji yu zhengzhi», n. 9, 2003, pp. 10-13.
71
citamente recitava un articolo sul Renmin Ribao del maggio del 199832. La Cina, oggetto di continue critiche a causa del trattamento delle minoranze, della questione tibetana, del dissenso religioso e ideologico, delle accuse americane di pirateria informatica e industriale, o anche militare come affermato dal
noto rapporto Cox del 199933, si è sentita fra i possibili oggetti di una PKO autorizzata dall’Onu e il noto incidente del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado fu causa di forti proteste di piazza e di un’aspra reazione ufficiale34. Non c’è dubbio che questi stati d’animo si riflettessero, dopo che i
due governi di Mosca e Pechino si erano trovati vicini nelle vicende diplomatiche che precedettero l’intervento della Nato contro la Serbia, nel rafforzamento dei legami con la Russia, testimoniato dal Trattato di Buon Vicinato,
Amicizia e Cooperazione del 200135. Esso all’art. 9 stabilisce cha le due parti
si consulteranno ogniqualvolta una minaccia di aggressione o di perturbazione della pace, comunque rivolta agli interessi di sicurezza di entrambi si presentasse ad opera di terzi. Le ragioni umanitarie portate per giustificare l’intervento in Yugoslavia hanno coperto secondo gli analisti cinesi la volontà egemonica del governo americano e coincidono con una fase nella quale la Cina
complessivamente ha visto declinare la sua influenza generale, per esempio
verso la Corea nel Nord, che tuttavia è vitale per la sua sicurezza, dopo la morte di Deng Xiaoping nel 1997 e la fine del suo rapporto privilegiato con i capi politici di Pyongyang36. In queste condizioni è logico che un atteggiamento più studiato verso il Giappone cominciasse a farsi notare all’interno della
classe dirigente, come è diventato ancora più chiaro dopo l’Incidente delle
Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 e i successivi episodi bellici dell’Afghanistan e dell’Iraq. Giova qui ricordare che la Cina ha sempre manifestato la
sua opposizione a qualsiasi anche minimo aumento delle capacità militari del
Giappone, compresa la legge del 1990 sull’uso delle SDF nell’ambito delle
PKO delle Nazioni Unite, viste come un primo passo verso il ritorno alla costituzione di un’armata vera e propria. Analogo discorso è valso per l’invio del-
32
33
34
Riportato nell’“Appendice” passim.
D. Shambaugh, Modernizing China’s Military. Progresses…, cit., p. 347.
Cfr. R. Chen, China Perceives America: Perspectives of International Relations Experts,
«Journal of Contemporary China», vol. 12, n. 35, 2003, pp. 285-297, che offre un utilissimo profilo di studi cinesi, e, R. Foot, Chinese Power and the Idea of a Responsible State, «The China
Journal», vol. 45, 2001, pp. 1-20.
35 Riportato in “Appendice”, passim.
36 Cfr. V. D. Cha, Hawk Engagement and Preventive Defense on the Korean Peninsula, «International Security», 2002, vol. 27, n. 1, pp. 40-78, specialmente p. 54.
72
le JSDF in Cambogia nel 1992 e per quello di una squadra di dragamine in
Kuwait dopo la guerra del 1991. Tuttavia la risposta dell’America alla sfida del
terrorismo islamico ha messo il governo di Pechino di fronte ad una serie di
bivi. Le polemiche partite all’epoca della Guerra del Kosovo contro il “neoegemonismo” degli Usa sono continuate insieme alle prese di posizione in favore del multilateralismo nelle relazioni internazionali e alla difesa del ruolo e
del valore dell’ONU. Vari analisti cinesi hanno giudicato la campagna in Afghanistan come un pretesto per stabilire il controllo degli Usa sull’Asia Centrale e portare una minaccia strategica verso la Cina. Il contributo del Giappone a quest’ultima tuttavia ha trovato una moderata risposta da parte dei leaders della RPC durante la visita del Primo Ministro Koizumi a Pechino nel novembre del 200137, quando invece i toni molto decisi dell’uomo di stato giapponese nel presentare scuse per l’invasione del 1937 e la seguente guerra sembrano essere stati particolarmente apprezzati. Ora non c’è dubbio che la campagna contro il terrorismo lanciata dall’amministrazione Bush, se ha offerto
ulteriori argomenti a tutti quei critici, in Cina e fuori, che vi hanno vista una
mascheratura per affermare l’egemonia unilaterale degli Stati Uniti sul mondo, paradossalmente ha contribuito a migliorare il clima dei rapporti proprio
con la RPC. Nel corso della campagna elettorale del 2000 diverse figure destinate ad assumere incarichi di governo nella successiva amministrazione, come
Condoleezza Rice38 e Paul Wolfowitz39 svilupparono la tesi che la Cina intendeva “alterare la balance of power in Asia in suo favore” e che presentava una
sfida storica l’idea di convincerla a cambiare lo status quo “solo pacificamente”, essendo una nazione emergente, ma non ancora una grande potenza. In
altre parole essi la dipingevano come un paese insoddisfatto, guidato da un regime presentato come pericolante, che esprimeva una minaccia per la stabilità
internazionale, non rispettava i “diritti umani” e andava tenuto sotto controllo. Nel corso della campagna elettorale, Bush usò il termine “strategic competitor” a proposito della Cina e, dopo l’elezione, il clima nei rapporti fra i due
paesi peggiorò drasticamente sia dal punto di vista dei contatti fra le due amministrazioni, che nelle relazioni commerciali, mentre iniziative che mostravano simpatia per Taiwan, compresa la vendita di sottomarini, vennero prese.
Nell’aprile del 2001 l’atmosfera che accompagnò l’incidente dell’aereo spia EP3, malgrado gli sforzi poi dotati di successo di trovare una soluzione diplo37 G. Rozman, op. cit., p. 123; P. Midford, op. cit., p. 139.
38 C. Rice, Promoting the National Interest, «Foreign Affairs», vol. 79, n. 1, 2000, pp. 45-62
39 P. Wolfowitz, Remembering the Future, «The National Interest», Spring 2000, pp. 35-45.
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matica, sembrò mostrare il livello di tensione oramai raggiunto. Per usare le
parole di un sinologo francese, una nuova “Guerra Fredda” era cominciata40.
L’incidente delle Torri Gemelle e la campagna contro il terrorismo tuttavia determinarono un rovesciamento nelle priorità degli Stati Uniti, disposti a considerare loro alleati tutti quei paesi che fossero disposti a collaborare con loro.
Anche se all’interno dell’amministrazione continua ad esistere un partito che
vede nel governo di Pechino una minaccia per la stabilità internazionale e attribuisce alla Cina un elenco di illeciti e di difetti, Washington mostra di considerare in ogni caso questo un problema che almeno per il momento deve essere considerato secondario di fronte alle minacce più gravi del fondamentalismo
islamico. Dal canto suo la Cina ha offerto la sua collaborazione, senza neanche
cercare di averne in cambio concessioni o vantaggi di carattere diplomatico come alcuni osservatori avevano pensato che avrebbe fatto. La minaccia terroristica esiste anche per Pechino e può essere collegata a quella dei separatisti del
Xinjiang, il che ha reso possibile un utile ponte con l’America. Le critiche degli Stati Uniti verso la Cina sul tema dei diritti umani sono fortemente scemate, andando incontro ai desideri del governo cinese, e nell’agosto del 2002 l’amministrazione americana ha posto sulla lista delle organizzazioni terroristiche il
Movimento Islamico del Turchestan Orientale, già considerato un’organizzazione criminale dalla RPC. Sul piano militare, la Cina ha disapprovato in termini molto leggeri la denuncia da parte degli USA di ritirarsi dal trattato ABM (Anti-balistic-missile) del 1972. Sintomi di cordialità si manifestarono al momento
del Summit dell’APEC tenuto a Shanghai nel 2002, con la partecipazione del
presidente e del Segretario di Stato americano. Non solo esso ha rappresentato un’altra tribuna dalla quale confermare la lotta al terrorismo, con l’evidente
approvazione della Cina, ma sembra che abbia costituito un’occasione in cui i
funzionari cinesi hanno rassicurato le loro controparti americane che Pechino
non è contraria alla presenza degli Usa in Asia, purché non sia nociva per i suoi
interessi. Il Presidente e gli altri delegati americani dichiararono che la Cina
non era un loro nemico, la ringraziarono per il suo appoggio e usarono un linguaggio incoraggiante sui reciproci rapporti. L’anno seguente l’invito di Jiang
Zemin al ranch di Crawford parve simboleggiare il cambiamento intervenuto41.
40 Per i relativi riferimenti Lanxin Xiang. Washington’s Misguided China Policy, «Survival», vol. 43, n. 3, autunno 2001, pp. 7-24.
41 Per una sintesi di questi recenti eventi, cfr., ad esempio, J. D. Pollock, China and the
United States Post-9/11, «Orbis», vol. 47, n. 4, 2003, pp. 617-627; D. Roy, China and the War
on Terrorism, «Orbis», vol. 46, n. 6, Summer 2002, pp. 511-521.
74
In sostanza, riassumendo i dati e gli avvenimenti di questo paragrafo, sembra
lecito intravedere una traiettoria. La Cina ha dovuto riconoscere che l’evoluzione dell’equilibrio internazionale di potenza in senso multilaterale, che
Deng si aspettava all’inizio degli anni ’90, non si è verificato e, invece, soprattutto sul piano militare, Pechino ha preso atto che la modernità tecnologica di
altri paesi, in primo luogo gli Usa, ma anche il Giappone, resta superiore alla
sua. Questo l’ha fatta sentire esposta ad un attacco in condizioni di inferiorità,
mentre la partnership con la Russia non sembra sufficiente a compensare il relativo svantaggio. Mentre le relazioni economiche con i grandi paesi sviluppati conservano la loro importanza, tutto ciò ha verosimilmente portato a irrigidire la posizione della RPC nella difesa dei principi della sovranità nazionale,
un aspetto nel quale evidentemente rifluiscono sensi di frustrazione legati al
passato storico e alla condizione ancora arretrata di una gran parte del paese
con i sensi di debolezza che ne nascono. Tali due aspetti, il vantaggio economico e il sospetto o la vigilanza dal punto di vista strategico, valgono anche
verso il Giappone. Nelle varie situazioni legate a dispute territoriali lungo la
“fascia oceanica” si è tuttavia notata nell’ultimo decennio una crescente inclinazione a rinunciare all’uso o alla minaccia della forza e a ricorrere a strumenti diplomatici42. Fra tutti i problemi legati ai rapporti con le grandi potenze, si
notano anche, principalmente sulle riviste dell’APL, segnalazioni sull’asserito
pericolo costituito dall’India, con la sua flotta e la sua attenzione agli Stretti di
Malacca, oppure le sue presunte pretese egemoniche, la sua inclinazione alla
competizione negli armamenti e nelle dispute confinarie43, alla tendenza a vedere il Tibet come un territorio “cuscinetto”. Viene anche sottolineata la questione nucleare in relazione alla Corea del Nord. Invece le dispute sulle Spratley sembrano oramai passate su un piano pressoché esclusivamente diplomatico o giornalistico e soltanto la questione di Taiwan, con l’eventuale aggiunta
del problema delle Dyao-yu, ma a un livello assai più leggero, pare ancora presentare densità dal punto di vista della sicurezza.
42 A. Carlson, Constructing the Dragon’s Scales. China’s approach to territorial sovereignity
and border relations in the 1980’s and 1990s, «Journal of Contemporary China», vol. 12, n. 37,
November 2003, pp. 677-698.
43 D. Shambaugh, op. cit., pp. 305-7.
75
Capitolo III
Sicurezza e Strategia. La funzione dell’APL
Pensiero strategico e Istituzioni Militari:
il Lascito del Passato
Il pensiero strategico, inteso come “il modo in cui la forza militare è utilizzata per ottenere il desiderato risultato di un conflitto militare attuale o potenziale” costituisce un settore antico e rilevante della cultura cinese, il quale
non ha mancato di lasciare tracce nel pensiero di Mao Zedong e nella civiltà
della Cina moderna. Non sono pochi gli autori, i quali hanno sostenuto che
questa tradizione ha continuato a condizionare anche nel XX° secolo la mentalità e le scelte politiche, oltre che naturalmente il comportamento dei cinesi
in guerra. Non si tratta tuttavia di una tradizione omogenea. Al suo interno si
possono infatti ricavare almeno due filoni importanti, l’integrazione dei quali
ha dato luogo a scuole e dottrine diverse1. La tradizione principale è costituita essenzialmente di regole e criteri sapienziali o filosofici, esposti nei cosiddetti classici, i quali nel periodo imperiale rappresentavano la sede ultima della cultura ufficiale e raccoglievano l’insegnamento attribuito a Confucio
(Kongfuzi) e Mencio (Mengzi). A questo filone, ma non in senso stretto, appartenevano anche le opere delle scuole cosiddette legista e daoista, i cui testi
si occupano anche di scienza militare e rappresentano due tradizioni antagoniste a quella dominante, anche se il contrasto non è particolarmente pronunciato nel campo che ci interessa. Specificamente alla materia della guerra nei
suoi diversi aspetti (strategia operativa, grande strategia, tattica, organizzazione militare, logistica, spionaggio etc.) erano invece dedicati i cosiddetti Sette
Classsici Militari, un gruppo di opere appartenenti a più autori e scritte in momenti diversi, approssimativamente fra il V° secolo a.C e il X° d.C, le quali coprivano anche la materia del buon governo e degli ammaestramenti per i principi. Ciascuno di questi presenta problemi diversi di datazione e attribuzione,
nonché specificità di contenuto. Essi si collegavano variamente alla cultura uf1 I. J. Johnston, Cultural Realism. Strategic Culture and Grand Strategy in Chinese History,
Princeton University Press, Princeton N. J., 1996.
79
ficiale, ma sembravano in molti casi, almeno secondo una parte dei critici, sviluppare una riflessione alternativa rispetto ad essa. Nel complesso mostrano
la consapevolezza di appartenere ad un’unica tradizione continuativa nel tempo, a partire dal periodo dei cosiddetti Stati Combattenti (453-222 a.C.) per
arrivare al periodo Song (960-1279 d.C.), durante il quale i testi furono definitivamente fissati. È importante che rientrasse nel contenuto di alcune di queste opere anche come tutelare l’unità dell’impero contro i pericoli di frazionamento, secondo una tematica più volte attuale nella storia della Cina antica.
Come si è detto, è una questione aperta se le elaborazioni dei Sette Classici Militari non abbiano in realtà finito per costruire una dottrina diversa rispetto ai principi filosofici della cultura ufficiale. La questione peraltro è molto complessa e squisitamente sinologica. Ci limiteremo perciò a esporre i principi generali riscontrabili nelle due tradizioni, suggerendo solo in generale
possibili elementi di accordo o di disaccordo e mostrando alla fine la sopravvivenza di questa eredità nel moderno pensiero cinese, che secondo alcuni
giunge al punto di influenzare il modo in cui certi autori hanno visto l’uso degli armamenti nucleari.
È comunque da tener presente preliminarmente lo scenario geografico
con riferimento al quale l’insieme di tali dottrine prese forma. L’antica Cina
era infatti cosciente di possedere una civiltà superiore rispetto ai popoli confinanti e di differenziarsi da loro per il carattere stanziale della sua società, fondata sull’agricoltura. Si tratta di un elemento che contribuì molto probabilmente a dare un indirizzo difensivo al pensiero militare. In entrambi i filoni
che abbiamo accennato comparivano una serie di concetti molto generali, alla base dei quali era la dottrina per la quale la rettitudine del principe, la sua
benevolenza verso i sudditi e il buon governo determinano la sicurezza e la
prosperità dello stato. Tutto questo avrebbe dovuto indurre gli avversari e i
nemici esterni di un sovrano virtuoso a sottomettersi alla sua autorità, sicché
anche le minacce provenienti dall’esterno sarebbero cessate. Solo in casi estremi, e in mancanza di altre soluzioni, i confuciani e i daosti ammettevano il ricorso alla forza militare. In questa concezione il nemico è essenzialmente un
essere barbaro e incivile, il quale smette di essere tale nel momento in cui, con
la sinizzazione, viene purgato dei suoi difetti. Analogamente essa contiene
un’ovvia preferenza per la guerra limitata e una preventiva avversione alle escalations nei conflitti. Troviamo generalmente presente e dominante il concetto
di “guerra giusta”, intesa come punizione verso qualcuno, tipologicamente il
sovrano di un altro stato, che si sia comportato in modo “improprio” o “ingiusto”, creando disordine rispetto al modo in cui le cose dovrebbero andare.
80
Se un intervento benevolo non è sufficiente a riportare un principe alla moralità, allora diventa legittimo l’uso della guerra, che non deve determinare comunque violenze o abusi non necessari contro i sudditi del vinto, una volta
che questo sia stato debellato. È caratteristico di questa tradizione, tuttavia,
che una volta deciso il ricorso alla guerra, diventi legittimo continuarla fino all’eliminazione del nemico, eventualmente anche oltre i propri confini, e non
esclusivamente fino al momento di far cessare il disturbo o la minaccia per il
regno che è stato aggredito. La tradizione confuciana contiene un chiaro principio per il quale di fronte ad una minaccia esterna sia in primo luogo preferibile far ricorso a soluzioni pacifiche e ad aggiustamenti di natura diplomatica; solo in seconda istanza è giusto far ricorso alla forza con finalità difensive
e, in caso di estrema necessità, si può ricorrere alla guerra offensiva. Sebbene
però queste regole, ad un livello idealizzato e generale, non vengano contestate nei Sette Classici, una attenta lettura fa comprendere che, con sfumature
differenti, i loro autori accettavano l’uso della violenza, a seconda delle situazioni concrete, introducendo una sorta di logica da adottare caso per caso, accompagnata da una vasta gamma di insegnamenti di carattere più pratico. L’idea che si possa ricorrere ad invadere un paese nemico e a distruggerne le forze militari è ampiamente presente in questi testi. Non a caso la loro filosofia è
in gran parte raccolta intorno al principio del cosiddetto quan bian ovvero
della “flessibilità estrema”, in base al quale decidere quando il ricorso alla
guerra diventi necessario non può essere stabilito altrimenti che caso per caso. Certi critici hanno ritrovato qui il criterio finale attraverso cui armonizzare i concetti generali della filosofia con gli insegnamenti più pratici impartiti
dai Sette Classici. Mentre la tradizione confuciana avrebbe avuto un significato a livello astratto e avrebbe essenzialmente contenuto dei principi morali, i
Sette Classici, con l’aggiunta di una vasta letteratura sussidiaria, più che altro
avrebbero presentato insegnamenti operativi. In sostanza perciò nessuno dei
due tipi di fonti avrebbe offerto indicazioni sul livello al quale era ammesso il
ricorso alla violenza. I primi essenzialmente si preoccupano di definire quando questa sia legittima, i secondi tendenzialmente presumono situazioni nelle
quali il comportamento del nemico sia già tale da giustificarla.
In tempi moderni, vari studiosi di strategia hanno insistito sulla validità
della tradizione per il pensiero di Mao. Un elemento sicuramente presente nella sua filosofia era appunto la fedeltà al principio del quan bian, mascherata
già nelle sue opere degli anni ’30. Negli scritti del Grande Timoniere comunque, l’influenza dei Sette Libri e principalmente del Sun Zi appare più chiaramente di quella confuciana. Mao infatti rifiuta in toto la regola del “non com81
battere e sottomettere il nemico”, nella quale si riassume l’idea per la quale la
virtù del principe determinerà la sottomissione dei nemici. Per lui la guerra è
un “bagno di sangue”, che può e idealmente deve essere evitato o fatto cessare, ma ciò può essere in ogni caso ottenuto soltanto attraverso la guerra stessa e implica la necessità di avere adeguate forze militari. Una serie di cenni specifici mostra in ogni caso il suo debito verso il pensiero più antico, naturalmente compreso il contenuto essenzialmente difensivo della sua dottrina strategica. Notoriamente Mao poneva il centro dell’attenzione sulla cosiddetta “guerra del popolo”, a sua volta basata sull’ipotesi fondamentale di un attacco contro la Cina dall’esterno e sulle esperienze che avevano nutrito le sue riflessioni negli anni ’20 e ’30. L’invasore avrebbe dovuto essere fronteggiato attirando l’avversario nel territorio cinese, logorandolo attraverso la guerriglia e esaurendolo, fino al punto di indurlo a ritirarsi. Caratteristicamente tuttavia, il suo
comportamento durante la guerra di Corea pare aver mostrato che, una volta
presa la decisione di combattere oltre i confini nazionali, il fine diventava la
sconfitta dell’avversario in sé, più che la finalità pura e semplice di respingere
l’invasione2.
Classe Militare e Istituzioni Costituzionali.
Dal punto di vista organizzativo l’Armata Popolare di Liberazione (APL)
era concepita dall’epoca della sua nascita come una forza di popolo, dotata di
una funzione di educazione politica dei contadini o delle “masse”, pensata all’epoca della Guerra Civile contro il Guomindang e della resistenza contro il
Giappone. L’APL risentiva notevolmente del modello sovietico, una caratteristica perfezionata dopo la nascita della RPC nel 1949. Essa originariamente
prese forma come strumento del Partito, nel quale l’attività dei Commissari
Politici si affiancava e si sovrapponeva a quella degli ufficiali nel senso professionale del termine. Come conseguenza di questo discorso si assiste nella prima fase della storia della RPC ad una duplice prospettiva. Da un lato ad una
sostanziale subordinazione dei secondi ai primi, dall’altro in alcuni momenti,
il più noto dei quali copre la seconda parte degli anni ’50, a tentativi di rivendicare autonomia negli aspetti più tecnici da parte della gerarchia militare in
senso stretto. Tali eventi, peraltro, come accadde nel 1959 al momento della
2
T. C. Christensen, Threats, Assurances and the Last Chance for Peace: The Lessons of
Mao’s Korean War Telegrams, «International Security», vol. 17, n. 1, 1994, pp. 122-154.
82
destituzione del Ministro della Difesa Peng Dehuai, non furono indipendenti da diversità di impostazione in materia di sicurezza e di Politica Estera, dato che in quell’epoca i circoli militari vicini a questo personaggio erano favorevoli, al contrario di Mao, a conservare un rapporto preferenziale con l’Unione Sovietica e avevano vedute opposte al Grande Timoniere sul problema dell’adozione di un armamento nucleare. Dopo una fase preparatoria, all’epoca
della costituzione del 1954 venne regolata definitivamente la posizione istituzionale delle forze armate cinesi. La costituzione3 introdusse una “Commissione Militare Nazionale” (Guofang Weiyuanhui) come organo consultivo,
mentre il Comitato Centrale del PCC decise di creare una Commissione Militare Centrale (Zhongyang Junshi Weiyuanhui, usualmente abbreviato in CMC),
sottoordinata al partito stesso, con il compito di “guidare completamente”(quan
lingdao) le forze armate. La prima delle due smise di funzionare durante la Rivoluzione Culturale e fu abolita nel 1975 dal Congresso Nazionale del Popolo. La seconda fu in gran parte disattivata anch’essa durante la Rivoluzione
Culturale e fu interamente riformata al momento dell’ascesa di Deng Xiaoping. Nel 1982 fu ristabilita una Commissione Militare Centrale dello Stato.
Ciò ha portato all’esistenza di due corpi identici nella composizione e nelle
funzioni, distinti fra loro solo formalmente nel senso che la CMC di Stato risponde al Presidente della Repubblica e al Comitato Permanente del Congresso del Popolo. Anche se la nomina dei membri segue procedure diverse, la
prassi vuole che in concreto anche la composizione delle due commissioni non
cambi. L’apparente incongruità di questo sistema, si spiega, secondo la dottrina cinese, con la complementarità tra lo stato e il partito. La Commissione è
sottoordinata all’Ufficio Politico del Comitato Centrale del PCC e un rapporto verticale sussiste perciò fra le forze armate e il Partito. L’effettivo pinnacolo delle forze armate cinesi è quindi questo organo, ed è al suo interno che si
proietta il rapporto fra militari e civili, con tutte le sue conseguenze anche sulla politica estera e la sicurezza nazionale, mentre il Ministero della Difesa in
Cina ha in pratica una funzione prevalentemente di rappresentanza nell’ambito dei rapporti con altri stati, con la chiosa che anche l’attività degli Addetti Militari e Navali all’estero fa prevalentemente riferimento alla CMC. La
composizione della CMC non è rigidamente prefissata. La costituzione oggi in
vigore prevede che il Congresso Permanente del Popolo elegga il Presidente
della CMC di stato e che quest’ultimo nomini gli altri membri. In pratica nel
3
Sulla CMC, è esauriente D. Shambaugh, cit., pp. 108-124, che offre informazioni anche
sui precedenti di questa figura nel periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale.
83
periodo maoista a Mao stesso e a un piccolo gruppo di circa sei membri si aggiungeva un numero variabile di altre figure. A partire da Deng Xiaoping, e
definitivamente dopo l’abolizione della carica di Segretario Generale nel
1992, la prassi ha fissato un certo numero di membri di diritto, che sono i Capi dei Tre Dipartimenti delle forze armate, più il Capo di Stato Maggiore e il
Ministro della Difesa, ai quali si sommano alcuni Vice-Presidenti e un Presidente, e inoltre altri personaggi nominati senza un organigramma prefigurato.
Attualmente tutti i membri, salvo il Presidente, sono alti ufficiali delle forse
armate. La carica di Presidente della Repubblica e di Presidente della CMC
hanno smesso del tutto di coincidere dopo la rinuncia di Jiang Zemin, il 19
settembre 2004, a quest’ultimo rango, che egli, come Deng Xiaoping, aveva
continuato a occupare anche dopo esser cessato da quella di Presidente della
Repubblica. La CMC, che al suo interno comprende svariati uffici, controlla
direttamente lo Stato Maggiore e i tre Dipartimenti delle forze armate (Politico, Logistico e degli Armamenti). Inoltre, attraverso lo Stato Maggiore, esercita il comando diretto sulle sette regioni militari in cui è divisa la Cina e sovrintende amministrativamente all’Accademia delle Scienze Militari e all’Università Nazionale della Difesa, oltre che ai corpi responsabili della protezione
delle alte cariche politiche. L’organizzazione interna, sebbene descritta da varie opere di studiosi occidentali, è ufficialmente segreta, ma comprende certamente il comando diretto, sempre filtrato attraverso lo Stato Maggiore, della
cosiddetta “Seconda Artiglieria” (DI ER PAO BING), una struttura creata originariamente da Zhou Enlai nel 1966, che oggi si occupa delle testate e dell’arsenale missilistico, sia convenzionali che nucleari, e gode di un particolare
prestigio e di una speciale posizione, indipendente rispetto agli altri servizi
dell’esercito e della marina, rappresentando probabilmente il settore più avanzato delle forze armate cinesi.
Da quando la presidenza della CMC fu assunta da Jiang Zemin nel 1989,
si è assistito a importanti cambiamenti, perché il numero dei membri civili si
è andato riducendo notevolmente, mentre le attività dell’organo sono andate
concentrandosi sempre di più sulla gestione professionale delle forze armate.
Sembra che la confusione di ruoli civili e politici tipici del periodo maoista si
sia attenuata. Si è ridotto il numero delle occasioni nei quali il parere delle forze armate è richiesto su temi di altra natura e sembra che sia diminuito il valore del ruolo di Commissario Politico, anche se il Dipartimento Politico Generale, che controlla e registra il comportamento appunto politico degli ufficiali, pare continui ad avere una certa influenza sulle carriere di questi ultimi.
Sono aumentate le funzioni della Polizia Armata del Popolo, responsabile del84
l’ordine interno, che ha parzialmente scaricato l’APL di alcuni suoi compiti,
sebbene le resti attribuita la responsabilità fondamentale in materia di sicurezza interna dello stato, che secondo la legge fa capo alla CMC. La professionalizzazione delle forze armate, che è stata rallentata nel periodo fra la strage di
Tien Anmen e il 1992 da una fase di rinnovato controllo ideologico sui quadri, ha inoltre preso la forma di un elenco di norme e di regolamenti, formalizzando tutta la materia in un modo nuovo per la tradizione cinese. La legge
per la Difesa Nazionale del 1997 inoltre, secondo alcuni sfiorando la contraddizione o almeno una certa ambiguità rispetto al ruolo del PCC, ha posto l’intera struttura militare sotto lo Stato4. Probabilmnte i fatti di Tien Anmen del
1989 hanno favorito, contro ogni previsione, il distacco fra la classe politica e
quella militare. Dopo la repressione, molti ufficiali furono puniti per essersi
opposti all’intervento dell’esercito, oppure per essersi sottratti a prendervi
parte e, negli anni dal 1989 al 1992, sotto la guida dei generali Yang Baibing,
all’epoca Segretario Generale della CMC e Capo del Dipartimento Politico
Generale, e di suo fratello Yang Shangkun, all’epoca Presidente della Repubblica, venne sviluppata una campagna che tendeva a riaffermare il controllo
del partito sulle forze armate e a promuoverne e proteggerne la purezza ideologica. Si trattava di un processo, già iniziato precedentemente in evidente
contrapposizione alle tendenze più liberali della classe politica, più o meno
contemporaneamente allo scontro politico che portò alla caduta del Segretario Generale del PCC Hu Yaobang nel 1987. Di fatto però il clima creato sotto l’influenza dei “due Yang” provocò forti reazioni e favorì il sospetto che essi mirassero ad aumentare soprattutto il loro potere personale. Alla fine il 14°
Congresso del 1992 privò il primo di entrambe le cariche, che rivestiva, e ridimensionò la posizione del secondo. Questo fatto aprì la strada all’era di
Jiang Zemin, il primo non militare ad aver presieduto la CMC. Una serie di
riforme che hanno drasticamente ridotto l’autonomia economica e finanziaria
delle forze armate hanno in seguito ulteriormente contribuito a dare loro una
fisionomia decisamente più “tecnica” rispetto ai decenni precedenti5. Può essere interessante ricordare che il problema della professionalizzazione delle
forze armate con i suoi riflessi sulla lotta politica non è stato probabilmente
indipendente dalla crescita dell’importanza della marina fra gli anni ’80 e ’90.
Abbiamo visto che in quegli anni per una serie di ragioni diverse, la RPC sviluppò una politica navale più attiva che in passato. Dal punto di vista econo4
5
D. Shambuagh, op. cit., pp. 20 ss.
D. Shambaugh, op. cit., capp. 5 e 6.
85
mico era cresciuto l’interesse per le risorse del mare territoriale e della EEZ;
dal punto di vista strategico i concetti di “difesa attiva” e “deterrenza limitata”, su cui torneremo nel prossimo paragrafo, incoraggiavano la visione per la
quale c’era da essere pronti ad agire militarmente oltre il mare territoriale e bisognava modernizzare tecnologicamente la flotta; dal punto di vista di politica interna questo andava incontro ai desideri delle regioni della Cina meridionale, come l’isola di Hainan, dove sorgevano le prime Zes e, nello stesso tempo, secondava un certo rinascente nazionalismo della pubblica opinione; dal
punto di vista internazionale era parallelo alla rivendicazione di diritti di sovranità da parte della RPC sulla “fascia oceanica”. Ora sembrerebbe che Deng
Xiaoping favorisse la modernizzazione navale anche perché i fautori di quest’ultima, essendo in linea di massima vicini all’ala più “liberale” del PCC, controbilanciavano l’influenza dei conservatori, assai più forti nell’esercito, come
i fratelli Yang, la cui linea non coincideva anch’essa col riformismo di Deng.
In questo contesto si verificò l’ascesa politica del principale leader navale cinese del dopoguerra. Dopo una militanza che risaliva ai tempi della Lunga Marcia e un successivo elenco di cariche minori, nel 1979 Liu Huaqing fu nominato Vice-capo di Stato Maggiore e membro della CMC, e nel 1982 Comandante
della Flotta. Nel 1984 prese pubblicamente posizione in favore dei tre principi di “eliminare i …perniciosi effetti del sinistrismo”, creare le condizioni per
avere una marina potente, rafforzando l’economia e migliorare la preparazione del personale navale. Liu fu un attivo sostenitore del rafforzamento sul mare e delle tendenze espansive di quegli anni, ma all’interno della CMC sembra
essersi schierato con Deng contro i conservatori. Nel 1987 prese pubblicamente posizione a favore del riformismo del Segretario Generale del PCC Zhao
Zhiyang e nel 1989 la marina con vari pretesti cercò di sottrarsi alla repressione di Tien Anmen, mentre vari ufficiali si disse che avessero simpatia per i dimostranti. Nel 1989 Liu fu nominato Vice-Presidente della CMC, dove contribuì a frenare il l’influenza del gruppo dei “due Yang” fino al 1992. È stato sostenuto che lo sviluppo degli armamenti e l’importanza delle politica navale degli anni ’80 e ’90 siano stati una conseguenza dell’alleanza fra Deng e Liu e della delicata funzione esercitata in quel momento dall’ammiraglio nel quadro dei
rapporti fra Deng ed altri esponenti delle forze armate, i quali dal 1977 cercavano di frenare il corso riformatore del successore di Mao6 e approfittavano
6 Oltre al citato articolo di J. W. Garver, vedi soprattutto E. Heginbotham, The Fall and
Rise of Navies in East Asia, Military Organizations, Domestic Politics and Grand Strategy, «International Security», vol. 27, n. 2, 2002, pp. 86-125, specialmente pp. 113-114.
86
della formale parità fra i membri della CMC. Il rallentamento nel tasso di crescita nelle costruzioni navali e nella dinamica della politica navale durante l’ultima decade del ’900 potrebbero esser dipesi dal fatto che, dopo il 1992, la marina perse la posizione politicamente privilegiata del decennio precedente.
È possibile tuttavia che nel sistema politico cinese più che altro si sia modificata la cintura di trasmissione dei suggerimenti che vengono dalle forze armate alla classe politica, in gran parte grazie alle personali qualità di Jiang Zemin. Tipicamente egli riuscì a rivestire il ruolo di portavoce all’interno del governo delle istanze dell’APL, evitando espliciti confronti fra militari e civili e
problemi costituzionali all’epoca della crisi di Taiwan nel 1995-96 e durante la
crisi del Kosovo. È interessante che vari critici e osservatori abbiano attribuito a questo personaggio una funzione arbitrale essenzialmente spoglia delle
tendenze autoritarie dei suoi predecessori, tra i diversi segmenti dell’élite dirigente. Sotto di lui si è assistito ad un avvicendamento senza precedenti, dalla morte di Lin Biao nel 1971 in poi, nella composizione della CMC e nelle altre cariche militari, ma questo si è accompagnato ad un rapporto di fiducia e
di sostegno tutto sommato continuativo di cui Jiang ha goduto da parte della
gerarchia militare. In sostanza, anche per un fenomeno di ricambio generazionale, probabilmente si sta modificando in Cina il modo in cui le forze armate
influiscono sui meccanismi di formazione delle decisioni politiche.
La “Rivoluzione negli Armamenti” e le sue conseguenze sulla Sicurezza
Come si vedrà nell’ultimo capitolo e in parte abbiamo anticipato, al centro dei problemi legati alla sicurezza internazionale per la RPC, con le sue implicazioni di politica estera, si trovano oggi, fra le altre, alcune questioni, come il problema di Taiwan e le altre relative al “Confine Oceanico”, le quali
portano con sé problemi di confronto in termini di equilibrio negli armamenti con paesi vicini e ipotesi almeno teoriche di guerra in certe circostanze. È
evidente che questo tipo di quadro è collegato alle scelte politiche e alla voce
in capitolo complessiva esercitata dall’APL, non fosse altro che per i condizionamenti di tipo tecnico che ne derivano rispetto alle scelte strategiche.
Consegue da questa premessa che le questioni relative alla sicurezza, anche
per ragioni economiche come vedremo, sono state fortemente influenzate dal
nuovo volto della dottrina militare che si è affermato dall’ultimo decennio del
’900, attraverso le esperienze pratiche della Prima Guerra del Golfo nel 1991 e
della Guerra del Kosovo nel 1998. Ambedue gli episodi hanno contribuito a
87
mettere in evidenza il potente scarto in termini di capacità bellica che esiste oggi fra gli Stati Uniti e tutte la altre potenze del mondo, compresa la Cina, rendendo più intensa la preoccupazione per il cosiddetto “unilateralismo americano”, che è uno dei targets più presenti nei contributi degli analisti e nelle preoccupazioni del governo cinese. Inoltre questa cosiddetta “Rivoluzione negli Armamenti” (RMA), ha determinato un ripensamento profondo nella dottrina militare cinese, che a sua volta contribuisce a influenzare l’atteggiamento della RPC
in tutte le questioni a proposito delle quali si possa parlare di competizione strategica. Per fare un esempio, se la Cina avviasse oggi una gara col Giappone, che
ha armamenti tecnologicamente più avanzati in media dei suoi, ciò porterebbe
un onere economico molto notevole per la RPC, la quale dal 1989 ha sostenuto
un incremento annuo della spesa militare sopra l’11%, raggiungendo il 17% nel
2001, ma ancora adesso ha standards di spesa per le esercitazioni militari che risultano estremamente ridotti, e in qualche caso ridicoli a detta di alcuni esperti, rispetto a quelli americani, e in ogni caso un GNP calcolabile tra il 20 e il
30/35% di quello giapponese. Le necessità tecnologiche mettono la Cina in una
specifica difficoltà, perché la sua base industriale, a dispetto degli alti ritmi di
crescita economica, risulta inadeguata rispetto ai nuovi tipi di armamenti, largamente basati sull’informatica e l’elettronica. Inoltre la RMA rende indispensabile una innovazione radicale della dottrina strategica, a cui i vertici delle forze armate sembrano non essere preparati. Una conseguenza di questo discorso, che
ha evocato un dibattito volto a paragonare la situazione attuale a quella della fine dell’Ottocento, quando si pose il problema di modernizzare le forze militari
dell’impero Qing, è che l’adeguamento della Cina alla nuova situazione passa in
gran parte attraverso l’acquisto di armamenti moderni principalmente dall’exUnione Sovietica, contribuendo notevolmente a consolidare la partnership fra i
due paesi, specialmente dopo che l’approvvigionamento dai paesi occidentali fu
interrotto all’indomani della strage di Tien Anmen nel 1989. La complessiva debolezza che da questo consegue, però, indubbiamente contribuisce ad alimentare l’atteggiamento difensivo della RPC e il suo geloso attaccamento al principio classico della sovranità nazionale. Anche le polemiche contro gli Usa dall’invasione dell’Afghanistan in poi, hanno probabilmente un retroterra nella consapevolezza dell’inferiorità militare nella quale la Cina si trova. Venendo allo
specifico discorso della trasformazione nelle dottrina militare, ricorderemo che
nel periodo maoista essa conservava un carattere essenzialmente difensivo e fondato sull’ipotesi di una guerra terrestre, nella quale l’elemento umano avrebbe
giocato la parte principale. L’adozione di un armamento nucleare, con la prima
esplosione nel 1964, modificò solo marginalmente questo quadro di riferimen88
to, poiché, anche dopo che nel 1980 l’arsenale cinese venne a comprendere missili balistici capaci di colpire il continente americano, l’ipotesi di utilizzo di queste armi rimase quella della “deterrenza minima”7, la quale prevedeva il loro uso
esclusivamente nel caso che, nel corso di una guerra di aggressione portata dall’Urss oppure dagli Usa, gli invasori avessero utilizzato armamenti nucleari per
primi. Per questa ragione è legittimo vedere qui la traccia del pensiero cinese
tradizionale.
L’esigenza di ammodernare la macchina militare fu fatta rientrare nelle
“Quattro Modernizzazioni” di Zhou Enlai e poi riaffermata da Deng Xiaoping, il quale tornò sull’argomento con maggior vigore dopo la povera prova
di sé che l’esercito cinese aveva dato nella guerra contro il Vietnam del 1979.
Nel corso degli anni ’80, anche nel quadro dell’attenzione per le questioni marittime, venne modificato uno dei cardini della dottrina tradizionale, poiché si
affermò l’idea che la Cina, per proteggere i suoi diritti ed interessi territoriali,
doveva essere pronta ad intervenire anche oltre i suoi confini, seppure in risposta ad un colpo vibrato dall’esterno. Ciò implicava la necessità di essere
pronti ad agire in episodi limitati, allontanandosi così dal principio maoista
per il quale la guerra era vista come totale. La difesa cioè, avrebbe dovuto essere considerata non più come passiva, ma come “attiva”. Gli avvenimenti della Prima Guerra del Golfo nel 1991 tuttavia8, colsero fortemente di sorpresa
gli esperti cinesi, i quali avevano previsto che le forze della coalizione occidentale sarebbero affondate in una lunga guerra di esaurimento sul tipo del conflitto fra Iran e Iraq ovvero dello stallo in cui erano cadute le forze sovietiche
nel corso dell’invasione dell’Afghanistan. Al contrario, la rapida disfatta irakena, dovuta agli armamenti e alle tecniche moderne, fondate sull’uso di tecnologie avanzate da parte degli Usa, offrì un quadro del tutto diverso. La coalizione che combatteva sotto la bandiera delle Nazioni Unite vinse grazie all’uso intensivo di una serie di strumenti che le forze armate cinesi ancora non
possedevano, quali la tecnologia stealth, le “armi intelligenti” e i bombardamenti di precisione, il numero calcolato di sortite aeree, il coordinamento delle operazioni attraverso il comando aereotrasportato e i sistemi di controllo
informatizzato, il fatto di far partire gli aerei da migliaia di chilometri lontano
7
8
D. Shambaugh, op. cit., pp. 91-92.
Per l’evoluzione della dottrina strategica cinese vedi J. T. Dreyer, The PLA and Kosovo:
A Strategy Debate, «Issues & Studies», vol. 36, n. 1, January-February 2000, pp. 100-119. In
particolare per l’impatto della Prima Guerra del Golfo, Chong Pin-lin, Chinese-Military Modernization. Perceptions, Progress and Prospects, «Security Studies», vol. 3, n. 4, 1994, pp. 718-753;
D. Shambaugh, op. cit., cap. 3.
89
facendo uso del rifornimento in volo, la capacita di “accecare” gli strumenti
informatici irakeni, la logistica avanzata e capace di agire nel deserto, l’uso degli Awacs, dei satelliti e dei computers per individuare gli obiettivi, la capacità
di agire in qualsiasi tipo di spazio, l’importanza dei missili patriot, i sensori space based, l’uso aereo dei raggi laser e dei virus informatici, che disattivavano i
computers avversari. Sul piano tattico l’importanza di un comando integrato
che facesse uso di computers e satelliti, dirigendo nello stesso tempo forze aeree, terrestri e navali ha probabilmente mostrato agli strateghi cinesi l’elemento che era maggiormente carente nel loro bagaglio. Nello stesso tempo il costo economico di un dispositivo di questo tipo li ha posti di fronte ad una alternativa, la quale ha dato origine a diverse scuole di pensiero, così da stimolare una intensissima attività di ricerca e di dibattito. Da un lato alcuni osservatori hanno ribadito che le tradizionali dottrine maoiste mantenevano il loro
valore, anche considerando che le difese irakene nel corso della guerra avevano raggiunto risultati positivi nell’occultare non solo mezzi e unità militari, ma
anche la strumentazione relativa all’intelligence, al comando e ai computers, e
sfruttando opportunità naturali probabilmente inferiori rispetto a quelle che
la Cina poteva offrire. Certi osservatori sostennero la validità dell’uso di armi
chimiche o batteriologiche, o persino di tipo terroristico, tali da colpire in
profondità un paese avversario, dotato di una struttura profondamente integrata come gli Stati Uniti e vulnerabile ad esempio ad un attacco contro le sue
istituzioni finanziarie. Al di là delle ricadute nel romanzesco, un po’ tutte queste impostazioni tendevano a sostenere che esistevano rimedi o compensazioni per la condizione di arretratezza delle forze armate cinesi rispetto ai paesi
più sviluppati, anche perché alcuni prevedevano di poter integrare questi mezzi anche con certe forme di armamento molto moderno. Ad esempio, furono
sviluppate teorie sulla tecnica cosiddetta dell’“agopuntura” ovvero dell’uso
dei cannoni laser per accecare i satelliti avversari9. La corrente di pensiero comunque, che ha insistito sul fatto che per la Cina gli strumenti tradizionali conservano il loro valore, evidentemente continua ad avere un valore soltanto nell’ipotesi di una guerra puramente difensiva, seguita all’invasione del territorio
nazionale. Sul versante opposto, altri studiosi presero in esame la possibilità
che la Cina si dotasse di armamenti tecnologicamente avanzati, tali da modernizzare interamente tutto il suo dispositivo militare. Questa seconda ipotesi
portava con sé il corollario di essere pronti ad affrontare una guerra generale
oppure a costruire un deterrente valido per l’ipotesi di guerra totale utilizzan9
90
J. T. Dreyer, The PLA and Kosovo….., cit., p. 115.
do gli strumenti di alta tecnologia sopra riassunti. Tale visione però, implicava un livello di spesa per gli armamenti di gran lunga al di sopra delle possibilità della Repubblica Popolare e deve essere considerata puramente teorica.
La guerra nell’ex-Yugoslavia sollecitò ancor di più l’attenzione degli esperti cinesi, che si resero conto della necessità di rivedere alla radice la loro dottrina
strategica. L’applicazione di potenza aerea proveniente da migliaia di chilometri lontano, di satelliti, di impulsi elettromagnetici inviati dal cielo e di ondate
di virus informatici tali da confondere o accecare la strumentazione elettronica serba, fecero capire ai cinesi che al centro della guerra moderna non è più
la terraferma, ma piuttosto il “ciberspazio”10 dove agiscono i diversi tipi di
strumenti ad alta tecnologia in modo combinato, rinunciando alla terraferma
come riferimento principale. La particolare debolezza della Serbia, dovuta alla scarsità di strumenti difensivi, in special modo aerei, fu anche notata in questo contesto. Come conclusione l’APL ha elaborato il concetto di “Guerra Limitata in Condizioni di Alta Tecnologia”11. In pratica si è continuato a sviluppare l’impostazione decisa da Deng Xiaoping nel 1985 per la quale la Cina potrebbe essere coinvolta in guerre limitate, arricchendo questo punto di partenza con lo studio delle necessarie innovazioni tecniche, e di conseguenza strategiche e tattiche, che le varie situazioni particolari potrebbero richiedere. Anche per il campo delle armi nucleari, gli specialisti dalla RPC hanno elaborato
una nuova dottrina, diversa da quella sopra accennata della “deterrenza minima” e invece chiamata della “deterrenza limitata”12.
La prima mancava in sostanza di qualsiasi operatività, dietro l’assunto
teorico che la possibilità di colpire comunque un avversario, anche il più potente, scoraggia quest’ultimo dall’usare per primo le armi nucleari. La “deterrenza limitata” invece sta ad indicare che in particolari conflitti, appunto limitati, e sempre nell’ipotesi di second strike, le forze armate cinesi dovrebbero
essere pronte ad utilizzare armamenti nucleari anche tattici, eventualmente
esplosi da terra oltre che dal cielo. Durante la Guerra del Kosovo, venne attribuita al Vice-Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Xiong Guankai13 la battuta che se gli Usa avessero colpito la Cina, questa avrebbe risposto con le armi nucleari. I critici si sono domandati però, fino a che punto tale nuova im-
10 D. Shambaugh, op. cit., pp. 75-76.
11 Ivi, pp. 81-94.
12 Sulle questioni relative alla deterrenza, cfr. I. J. Johston, China’s New “Old Thinking”. The
Concept of Limited Deterrence, «International Security», vol. 20, n. 3, Winter 1995/96, pp. 5-42.
13J. T. Dreyer, The PLA and Kosovo, cit., p. 105.
91
postazione abbia realmente portato qualcosa di nuovo, considerando che il
numero delle testate nucleari cinesi resta considerevolmente al di sotto, probabilmente nella proporzione di uno a sette, rispetto agli Stati Uniti e che la
complessiva strumentazione è più arretrata. I missili balistici cinesi, di regola,
devono essere montati e alimentati di carburante prima del lancio, il che richiede una quantità di tempo che li espone ad essere distrutti, non hanno piattaforme di strategic reconnaissance, sfruttando invece spesso opportunità naturali come caverne o foreste, e non sono tenuti in silos tali da proteggerli adeguatamente in caso di attacco anche convenzionale. Non abbiamo notizie particolarmente attendibili, ma è lecito affermare che oggi la RPC stia cercando
di ovviare a tutti questi inconvenienti e che disponga di una piena gamma di
missili balistici a medio e lungo raggio, anche a combustibile solido, che possono essere lanciati sia da terra che dal mare14. Il combinato di strumenti come i missili balistici a medio raggio e il dispositivo nucleare sopra accennato
ha fatto parlare di “deterrenza credibile”. Si è così sviluppata una produzione
amplissima di studi e contributi su pubblicazioni di carattere specializzato, nei
quali i tecnici cinesi hanno mostrato il loro profondo interesse verso i vari
aspetti della guerra condotta secondo l’high tech e la loro conoscenza delle riviste scientifiche straniere, ulteriormente sollecitato dalla campagna in Afghanistan, condotta per iniziativa degli Usa contro i Talebani.
Questo fatto non manca di portare con sé un elenco di sfaccettature almeno in parte contraddittorie. Non esiste al momento attuale prova che l’attenzione dei centri di ricerca e di studio abbia generato una revisione effettiva e generalizzata nei programmi, nelle dotazioni e nell’operatività delle forze
armate, sebbene alcuni settori di queste ultime siano stati indubbiamente modernizzati. In certi aspetti importanti, come l’integrazione dei servizi militari
(forze di terra, navali ed aeree) ad esempio i progressi, sebbene iniziati, sembra che siano ancora molto limitati. Per fare un esempio concreto, i caccia
Sukhoi 27 e 30, dotati di strumenti elettronici e acquistati dalla Russia, sembra che siano stati usati con un certo disagio dall’aeronautica cinese, mentre il
livello medio dei piloti resta probabilmente al di sotto di quelli giapponesi15.
14
15
D. Shambaugh, op. cit., p. 280.
Ivi, pp. 262-265. La recente visita del Primo Ministro Hu Jintao in Europa, ha generato l’impressione a livello giornalistico che la RPC intenda riparare a questa difficoltà avviando
forme di collaborazione con paesi europei, principalmente la Germania e ancor più la Francia,
che potrebbero succedere al riavvio delle esportazioni di materiale bellico sospese in seguito
alla crisi di Tien Ammen, cfr. R. Ferretti, Cina, fine dell’embargo? Panorama Difesa, 2004, pp.
42-47.
92
Ancor peggio, sebbene le istruzioni di studiare la nuova scienza militare siano
state formalmente impartite dalla CMC, diversi osservatori ritengono che la capacità di afferrare tutti gli aspetti e la implicazioni della RMA al livello più alto delle autorità militari resti insufficiente. Da un altro punto di vista l’APL si
trova di fronte a un problema insidioso. Come si è detto, il problema di adattarsi alle nuove condizioni deriva in gran parte dall’inadeguatezza della base
industriale della Cina rispetto alle esigenze dell’informatica e della tecnologia
moderna, applicate alle esigenze militari. Ora a questo punto da un lato l’APL
si sente spinta a potenziare i suoi strumenti, chiedendo adeguati fondi al governo, dall’altra la rapidità dei progressi scientifici sul piano globale permette
ai concorrenti strategici della Cina, i quali già si trovano su posizioni avvantaggiate, di aggiornarsi con una rapidità che per le forze armate della RPC rimane poco raggiungibile. Di conseguenza l’impegno crescente, che risponde
anche a certi impulsi della pubblica opinione sollecitata dal nazionalismo in
sviluppo, non riesce probabilmente a impedire che il divario in termini di potenza fra la Cina e i suoi ipotetici avversari, anziché ridursi, come molti pensano, proporzionalmente alla crescita dell’economia cinese, si vada invece allargando, malgrado il tasso di aumento della spesa militare resti alto.
93
Capitolo IV
Un bilancio: Incertezze Presenti e Prospettive Future
Come si è visto nel Secondo Capitolo, l’episodio delle “Torri Gemelle”
dell’11 Settembre 2001 ha segnato una svolta nelle relazioni fra la RPC e gli
Stati Uniti, la quale paradossalmente ha contribuito a migliorare i rapporti fra
la Repubblica Popolare e gli Usa. Da un lato, Pechino ha infatti collaborato
alla lotta contro il terrorismo, richiedendo un apposito documento anche in
sede APEC; dall’altro al vertice di Shanghai del 2002 il Presidente americano
Bush ha rinunciato a usare il termine “concorrente strategico” (strategic competitor) nei riguardi della Cina. Malgrado siano continuate le polemiche sulla
vendita di armi a Taiwan, al momento della visita del Primo Ministro Wen Jiabao a Washington nel dicembre del 2003, l’amministrazione Usa ha ribadito
la posizione per la quale l’America si oppone sia ad una dichiarazione di indipendenza da parte di Taiwan che ad una soluzione militare della questione
operata da Pechino. Non solo ma Bush ha precisato, ricevendo nella Sala Ovale della Casa Bianca il Premier cinese, che Taipei non dispone di un “blank
cheque to be filled out in American blood”1. In sostanza l’impressione è che gli
Stati Uniti potrebbero intervenire in difesa di Taipei se la Cina tentasse una
soluzione militare, ma si riservino di evitare impegni esteriori tali da incoraggiare uno qualsiasi dei due governi cinesi a forzare la situazione precipitando
una guerra. Il clima di “guerra fredda” segnalato da alcuni sinologi prima
dell’11 settembre, perciò, parrebbe essersi dileguato, anche se la situazione attuale presenta per Pechino una serie di aspetti probabilmente sgradevoli: continua la polemica contro l’“unilateralismo americano”, la presenza di forze armate statunitensi in Asia Centrale suscita sospetti2, la collaborazione offerta
1 Fang Hsu-hsiang, The Transformation of U.S.-Taiwan Military Relations, «Orbis», vol.
58, n. 3, 2004, pp. 551-561.
2 Questo punto compare spesso nelle riviste politologiche cinesi, cfr. ad esempio, Sun Jianshe, Dangqian Zhongguo zhoubian anquan huanjing yu Zhong Mei guanxi (L’ambiente della si-
97
contro il radicalismo islamico rischia di alienare alla RPC la simpatia dei paesi islamici e in parte di quelli in via di sviluppo. Inoltre, in particolare la Seconda Guerra del Golfo ha visto la RPC prendere un atteggiamento molto tollerante di fronte ad un invio di soldati giapponesi in Iraq, rompendo di fatto
la tradizione di costante condanna di fronte alla partecipazione del Giappone
alle PKO e più in generale ad ogni scostamento da parte del governo di Tokyo
dall’interpretazione più rigidamente pacifista della Costituzione del 1947. In
sostanza in questo modo si è stabilito un altro precedente in contrasto con la
diplomazia già consolidata. È interessante in queste condizioni osservare che
più di una pubblicazione politologica cinese ha presentato un quadro della situazione attuale secondo cui esisterebbe al mondo una sola superpotenza militare (gli Usa), la quale chiaramente presenterebbe tendenze egemoniche (con
un’allusione al primato in termini di forza implicito nel termine baquan = egemonia), mentre invece sul piano economico essa risulta inferiore all’Unione
Europea da sola e, a maggior ragione, all’insieme di quest’ultima e degli altri
“grandi” paesi, come Giappone, Russia, India e Cina. Anche la situazione che
ha portato alla guerra in Iraq è stata spiegata col conflitto, latente nel mondo
di oggi, fra l’“estremismo religioso”, termine che implicitamente richiama il
problema del terrorismo islamico nel Xinjiang, e la superpotenza americana.
La soluzione a queste carenze di equilibrio viene in genere vista in un maggior
multilateralismo, da coltivare potenziando il ruolo delle Nazioni Unite3. Le riviste degli internazionalisti cinesi in più occasioni hanno polemizzato contro
l’incremento della spesa militare da parte dell’India, talvolta accusata di voler
mantenere il Tibet come zona cuscinetto fra i due paesi e di inseguire, soprattutto sotto il passato governo Vajpayee, la parità negli armamenti con la Cina
specialmente in campo navale4. A New Delhi si attribuisce il progetto di costruire portaerei e una tendenza espansionistica se non egemonica verso l’Oceano Indiano e gli stretti di Malacca. Verso la Russia, particolarmente nelle
riviste dell’APL si nota spesso un atteggiamento apparentemente in contrasto
con la partnership fra i due paesi, dato che esse sottolineano la residua potenza delle forze armate di Mosca, ancora dotate di un deterrente nucleare e di
curezza attuale circostante la Cina e i rapporti tra la Cina e l’America), «Shijie jingji yu zhengzhi
luntan», n. 3, 2003, pp. 64-68.
3 Lu Zhongwei et alii, 2004nian shijie da shi qian zhan (Le previsioni su scala mondiale
mondiale del 2004), «Xiandai guoji guanxi», n. 1, 2004, pp. 1-20.
4 Liu Wanwen, Yin Zhong guanxi yu wo guo Xibu anquan (I rapporti fra India e Cina e la
sicurezza ad Est del nostro paese), «Shijie jingji yu zhengzhi luntan», n. 1, 2004, pp. 65-99.
98
consistenti effettivi di terra, il che tradirebbe la tendenza a restaurare l’influenza russa in Asia. In pratica l’immagine della sicurezza, che da questo rapido
quadro deriva, mostra che se è vero che una certa distensione di toni si è prodotta dopo l’11 settembre, la giustapposizione sul piano strategico fra la RPC
e varie fra le maggiori potenze del mondo obbedisce ancora, almeno per una
parte dei suoi esperti, a quella dei primi mesi del 2001 e richiama certi toni del
passato.
Si tratta di una situazione che aveva cominciato a delinearsi verso la metà
degli anni ’90 e che trova la sua origine da un lato nella crescita economica della Cina di Deng Xiaoping e nella maggior assertività della sua politica estera;
dall’altra nell’isolamento in cui essa si è trovata rispetto alle tendenze della società internazionale, sempre meno legata ai valori della sovranità nazionale, e
al vigore mostrato dalla potenza americana anche al di fuori del sistema delle
Nazioni Unite (sebbene non necessariamente in contrasto con quest’ultimo) e
specialmente in parallelo alla RMA.
È proprio sulla base di queste premesse che si può valutare il dibattito
scientifico in corso, che cerca di inquadrare la posizione della RPC sul piano
della sicurezza mondiale e regionale, tentando nello stesso tempo previsioni
per il futuro. Prendendo in considerazione un po’ tutti gli elementi già esaminati, si può dire che fra gli osservatori contemporanei si siano posti alcuni problemi e siano emerse certe prese di posizione, secondo una linea divisoria la
quale, a nostro avviso, ha visto coagularsi fondamentalmente due scuole di
pensiero, sebbene un netta distinzione, nella variegata galassia di contributi
scientifici comparsi, sia difficile da tracciare e forse non abbia senso, dato che
essa non nasce da una consapevole contrapposizione dottrinale, ma piuttosto
dalla somiglianza di fatto nelle conclusioni di singoli autori.
Da un lato un gruppo di analisti fra i quali si segnalano Kishore Mahbubani5, uno studioso dell’università di Singapore, Samuel P. Huntington6 e, con
le forti riserve e precisazioni che vedremo più avanti, Gerald Segal7, ha insistito sulla tendenza per così dire automatica verso l’egemonia da parte della Cina almeno in Asia. Quest’argomento parte dai considerevoli tassi di crescita
5 K. Mahbubani, The Pacific Impulse, «Survival», vol. 37, n. 1, 1995, pp. 105-120.
6 S. P. Huntington, Lo Scontro Delle Civiltà, e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2003 (tr.
Italiana dell’originale The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York,
Simon and Shuster, 1996), pp. 243 ss.
7 Nell’articolo G. Segal, East Asia and the “Constrainment” of China, «International Security», vol. 20, n. 4, 1996, specialmente pp. 116 ss.
99
economica realizzati da questo paese e dall’estensione della sua superficie rispetto a quella complessiva del continente, che può essere paragonata esclusivamente agli Stati Uniti per l’America del Nord. Questi autori hanno notato che, in base ad una regolarità usuale nelle relazioni internazionali, tale fenomeno dovrebbe aver portato già ad una forma di coalizione fra i paesi vicini alla Cina e principalmente tra quelli relativamente più potenti, come l’India, la Russia e il Giappone, in modo di controbilanciarne l’aumento della potenza. Il fatto però che la suddetta tendenza non si sia manifestata, andrebbe
spiegato con l’argomento che nelle società asiatiche varrebbero precondizioni culturali, diverse da quelle della società “westphaliana” dei paesi occidentali, governata dal principio della parità orizzontale fra gli stati e dalle regole
dell’equilibrio e dell’aggiustamento di potenza. Nelle culture asiatiche, e sarebbe meglio dire dell’Estremo Oriente, si è osservato, esiste la disponibilità
ad accettare il primato, esercitato normalmente in epoca premoderna in modo più blando rispetto alla storia europea, da uno stato, secondo il modello
del cosiddetto “sistema del tributo”, il cui ricordo va storicamente ai rapporti fra l’Impero Celeste e i suoi vicini. In pratica l’immagine dell’“ordine mondiale confuciano” non si sarebbe ancora del tutto estinta nella mentalità degli
asiatici, compreso il Giappone, e, con la rinascita della potenza cinese, ci sarebbe la tendenza ad accettare di vederlo restaurato.
A questa teoria si contrappone specularmente un’altra impostazione,
che paradossalmente ha avuto uno dei suoi più noti sostenitori in uno degli
studiosi che sopra abbiamo citato. In particolare Gerald Segal, principalmente scrivendo in un saggio pubblicato nel 19998, osservò che l’insistenza
sull’importanza della Cina e sul suo essere diventata una grande potenza doveva essere considerata un’esagerazione, la quale non teneva conto delle gravi difficoltà dell’economia cinese attuale, dell’inferiorità della RPC in termini di armamenti di fronte ai paesi occidentali, del fatto che, anche sul piano
economico, il suo GNP restava allora inferiore a quello dell’Italia e comunque il reddito pro-capite dei cinesi era inferiore a quello della Nuova Guinea. Il GNP cinese era allora solo il 3.5 di quello mondiale, contro il 25.6 degli Stati Uniti. Analogamente l’autore mostrava che le vendite di armi e le
capacità belliche cinesi non erano tali da rappresentare un effettivo pericolo per il mondo occidentale o per gli Stati Uniti ed erano prese in considerazione solo perché la Cina non si inquadra nel sistema delle alleanze occi8
G. Segal, Does China matter?, «Foreign Affairs», vol. 75, n. 5, 1999, pp. 24-36, ristampato in B. Buzan and R. Foot, Does China Matter? A Reassessment, cit., pp. 11-20.
100
dentali. Segal concludeva che dare enfasi all’idea di una superpotenza cinese poteva servire a giustificare la necessità di prevenirla come pericolo, per
esempio da parte del Pentagono, giustificando i progetti del NMD (national
missile defense) oppure del TMD (theater missile defense), ma nello stesso
tempo spingeva i cinesi a far cattivo uso della falsa immagine del loro paese
che si stava diffondendo nel mondo. Invece, egli consigliava, sarebbe stato
giusto riconoscere che la Cina è soltanto una media potenza, la quale, una
volta preso atto di questo, potrebbe serenamente concentrarsi sul tema della propria crescita interna, rinunciando a pericolose iniziative o propositi sul
terreno internazionale, da dove un’accorta pressione proveniente dalle maggiori potenze secondo lui sarebbe stato auspicabile che la spingesse verso la
democrazia. Il dibattito degli ultimi anni ha rielaborato la maggior parte delle vedute contenute in questi due punti di vista. Per quanto riguarda il primo, c’è da osservare che l’idea di un ritorno all’“ordine mondiale confuciano”, a parte la vaghezza dei concetti che usa, urta contro una serie di realtà
assai tangibili. Molti paesi asiatici, come l’India, ma anche la Russia, di quest’ultimo non hanno mai fatto parte. Inoltre le caratteristiche degli armamenti e dei mezzi di comunicazione odierni darebbero ad un primato cinese una concretezza del tutto diversa dalla platonica autorità degli imperatori Ming e Qing. Infine alcuni paesi che accettarono quell’ordine, come il
Giappone nel XV° secolo, per ragioni attinenti alla storia successiva, hanno
costruito un’immagine negativa di sé fra i cinesi e proprio per questo è assai
difficile che sarebbero disposti a entrare in un nuovo sistema sinocentrico,
osservazioni che ci sembrano tanto più calzanti visto che l’economia nipponica è oggi in ripresa rispetto allo slump degli anni ’90 e gli armamenti giapponesi sono probabilmente superiori a quelli cinesi. Infine, entrando in un
discorso specificamente strategico, bisogna considerare che il Giappone sarebbe quasi certamente contrario se la Cina si riunificasse con Taiwan, qualora quest’ultima isola si trasformasse in un avamposto militare della RPC9.
Infine c’è da considerare che non necessariamente il fatto che non si sia formata una coalizione di paesi confinanti volta a equilibrare la crescita della
potenza cinese, sta a significare che la regola della bilancia dell’equilibrio
nella sicurezza in questo caso non ha funzionato. Bisogna infatti considerare un elenco di fattori diversi. Anzitutto la teoria non dice nulla sugli scarti
9 Gli archivi storico-diplomatici giapponesi sono oggi aperti fino agli anni ’60, come quelli della maggior parte dei paesi europei. La ricerca storica ha ritrovato la posizione esposta nel
testo nella documentazione risalente a quel periodo. Cfr. Soeya Yoshihide, cit., p. 137.
101
temporali di questo tipo di aggiustamenti, che potrebbero già aver cominciato ad innestarsi, ma in modo reso poco percepibile, oppure scattare più
o meno gradualmente nel prossimo futuro10.
Inoltre un protagonista strategico dell’Asia Orientale sono ancora gli
Stati Uniti, i quali hanno consolidato nel 1996-97 la loro alleanza col Giappone. Ora Tokyo sembra oggi incerta fra ricorrere a quest’ultima, per neutralizzare la potenza cinese, e una politica che è stata definita di “circumscribed
balance”, basata sul fatto che essa è comunque in grado di provvedere da sola alla propria sicurezza, ma non vuole sviluppare oltre certi limiti i propri armamenti, pur essendo consapevole che i propri interessi non coincidono
completamente con quelli degli Usa, specialmente perché le relazioni economiche della Cina sono molto più rilevanti per il Giappone che per gli Stati
Uniti e le reazioni dei paesi del Sudest asiatico sarebbero probabilmente negative e tali da danneggiare gli scambi economici. In altre parole il Giappone sarebbe nella condizione di sottrarsi all’effetto “di sistema” per il quale,
di fronte alla crescita di una potenza vicina, dovrebbe allearsi con un’altra o
più di un’altra per garantire la propria sicurezza11. Un ulteriore tema di riflessione a questo punto finisce per diventare un’esercitazione intellettuale su
tutto il tema che stiamo discutendo. Esso riguarda quali potrebbero essere la
conseguenze per il Giappone se uno scontro militare avvenisse tra gli Stati
Uniti e la Cina, in seguito ad un attacco di quest’ultima contro Taiwan. Come vedremo, l’unica ipotesi di successo ritenuta verosimile riguarda probabilmente la riuscita di un blocco navale posto intorno all’isola dalle forze militari della RPC, tentando di minarne il mare. In base alle guidelines dell’alleanza del 1997, gli Usa potrebbero in tal caso chiedere l’intervento dei dragamine giapponesi e questo potrebbe precipitare il casus belli fra i due paesi
asiatici, come nell’ipotesi che aerei americani provenienti dalle basi sul territorio giapponese, attaccassero quello della Cina. Alcuni politologi hanno fatto l’ipotesi però, che in questo caso il Giappone potrebbe dissociarsi dall’alleanza con gli Stati Uniti, pensando soprattutto ai danni economici di una crisi di ampie dimensioni con Pechino. Ciò, secondo loro potrebbe indurre gli
Usa a ritirarsi del tutto dall’Asia Orientale, e segnare l’avvento di un “ordine
del mondo confuciano” in Asia, il quale necessariamente obbligherebbe a ri-
10 Seguiamo qui in sostanza K. N. Waltz, Structural Realism after the Cold War, «International Security», vol. 25, n. 1, 2000, pp. 5-41.
11 C. P. Twomey C. P., Japan, A Circumscribed Balancer, «Security Studies», vol. 9, n. 4,
2000, pp. 167-205.
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considerare il ruolo degli Usa anche su scala mondiale12. In realtà è del tutto
astratta, e considerata fantasiosa da parecchi diplomatici e studiosi, l’ipotesi
che il Giappone possa staccarsi oggi dagli Usa. Qualsiasi episodio di guerra
nelle acque fra il Mar Cinese Orientale e il Mar del Giappone, visto che sia la
Cina che il Giappone hanno una capacità molto ridotta di trasporto di forze
militari di terra per via aerea o navale, non potrebbe inoltre che avere dimensioni locali e non c’è ragione per pensare che comunque andassero le cose questo livello verrebbe superato13. Se anche si volesse ammettere che in futuro gli
Usa si ritirerebbero dall’Asia Orientale, mancando un’organizzazione regionale della sicurezza in quell’area, viene da concludere piuttosto che si arriverebbe a una forma di equilibrio internazionale di tipo tardo-ottocentesco o post-bismarckiano, che non a uno di tipo “confuciano”14. Inoltre l’equilibrio della sicurezza nell’Asia Orientale non può essere concepito indipendentemente
da quello globale, ma l’interazione fra i due sistemi in futuro resta difficile da
prevedere. La presunta coalizione di potenze confinanti che dovrebbe formarsi per equilibrare secondo le teorie realiste o neo-realiste la potenza della Cina è logico che dovrebbe comprendere la Russia, ma è giocoforza anche pensare, sul piano globale, ai precedenti della crisi yugoslava del 1998 o della crisi irakena, quando è stata la Cina ad adeguarsi più o meno esplicitamente, ma
sempre con prudenza, alla linea della Russia o della Francia, di fronte all’“unilateralismo” americano. In altre parole l’aggiustamento degli equilibri di potenza in Asia tende a non prodursi quando si scontri con impulsi contrastanti provenienti dal sistema globale su scala mondiale. È difficile vedere la Russia come partner della Cina in una coalizione volta a frenare (come nel trattato del 2001 o fra i “cinque di Shanghai”) il potere dell’America e nello stesso
tempo come parte di una coalizione, anche soltanto in fieri fra paesi asiatici
volti a imbrigliare la Cina stessa. Quest’argomento d’altra parte non fa che
confermare un’altra considerazione innestata dalle riflessioni di Gerald Segal.
Le valutazioni sul peso della potenza cinese hanno senso più che altro se vengono sviluppate con riferimento alla percezione della medesima da parte di al-
12 B. Buzan, ‘Conclusions: how and to whom does China matter’, in, B. Buzan and R. Foot,
Does China Matter? A Reassessment… cit., pp. 143-164, specialmente pp. 162-163.
13 Ho ricavato queste impressioni da interviste avute con alcuni diplomatici europei e con
specialisti del National College for Defense Studies giapponese, che non mi hanno autorizzato a
riferire il loro nome, durante un viaggio di studio effettuato a Tokyo nel settembre 2004.
14 L. A. Friedberg, Will Europe’s Past be Asia’s Future, «Survival», vol. 42, n. 3, 2000, pp.
147-159, specialmente pp. 151-153.
103
tri stati15. Rispetto alla maggior parte dei paesi vicini, indubbiamente la Cina ha
dimensioni e mezzi superiori, anche se per ora essa resta molto al di sotto del
Giappone. La divisione fra i paesi dell’ASEAN probabilmente anche per questa ragione favorisce il mantenimento della funzione equilibratrice degli Stati
Uniti, dato che una ripugnanza storica li porta a diffidare del Giappone, il quale a sua volta non da segno di volersi sostituire all’America, mentre in tempi recenti Myanmar e Singapore si sono avvicinati alla RPC. Nello stesso tempo i paesi dell’ASEAN mancano di mezzi adatti al pattugliamento delle loro acque territoriali e diffidano della RPC. Recentemente la collaborazione fra diversi di loro e gli Usa è stata rilanciata. In queste condizioni è fondata l’ipotesi che una
forma di competizione strategica fra la Cina e gli Stati Uniti stia emergendo nel
Mar Cinese Meridionale16. Su scala globale però, il problema di Washington
non è tanto quello della presente portata della potenza cinese, quanto quello
delle dimensioni che essa potrà assumere in futuro, sempre che le difficoltà interne non ne fermino l’espansione economica. In questo senso va giudicata anche la tendenza ad arginarla. Di questa possibilità, manifestata dall’intervento
degli Usa nella crisi di Taiwan del 1996, dal rafforzamento dell’alleanza con
Tokyo e dal progetto di TMD, Pechino si rende perfettamente conto. Essa nelle acque dell’Estremo Oriente si estende inevitabilmente agli spazi marittimi intorno al Giappone, posta la determinazione dell’America, anche per ragioni finanziarie, ad ottenere la collaborazione di Tokyo nel TMD (si calcola che in questo modo gli Usa potrebbero risparmiare circa il 20% della spesa17), che potrebbe riguardare anche la Corea. Inoltre non si può escludere che se la coalizione
di cui parlano i teorici “realisti” prendesse forma in futuro per abbracciare l’India, il Giappone e almeno alcuni paesi dell’Asia Sudorientale, è abbastanza logico che tale scenario potrebbe articolarsi intorno al problema, che però è implicitamente risolto dalle regole del WTO, accettate dalla Cina, di lasciare libere le vie marittime dell’Asia Sudorientale, compresi gli stretti di Taiwan e di Malacca. Insomma sul piano della sicurezza, mentre risulta piuttosto astratto far ricorso alle regolarità politologiche dell’equilibrio, bisogna invece notare che c’è
un’attenzione concentrica da parte della Cina, del Giappone e dell’India per gli
stessi bracci di mare e che tutti e tre questi paesi di recente hanno potenziato le
loro forze navali. Tutto lascia pensare che questa sarà in futuro l’area più deli-
15 Cfr. soprattutto, L. Freedman, “China as a global strategic actor”, in B. Buzan and R.
Foot, Does China Matter? A Reassessment… cit, pp. 20-36.
16 T. Tivimäki, I. Odgaard and S. T¢nnesson, op. cit., pp. 139 ss.
17 T. J. Christensen, China, the Us-Japan Alliance…, cit., p. 78.
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cata, anche se gli Usa dovessero lasciarla e giustifica l’attenzione degli analisti
cinesi per la politica navale dei grandi paesi vicini18. Naturalmente alcuni sintomi fanno presagire rivalità in campo strategico, come avvenne nel 2000, quando la Cina si oppose alla proposta avanzata dal Giappone a vari paesi asiatici di
esercitare congiuntamente il controllo navale contro la pirateria19. È anche da
osservare però che l’effettiva forza della marina cinese, le cui navi più potenti
sono due cacciatorpedinieri Sovremennyi acquistati dalla Russia nel 200020, fa
pensare più che altro alla volontà di prepararsi ad affrontare le portaeree americane se dovessero entrare nello stretto di Taiwan come nel 1996, ma in ogni
caso rimane troppo limitata per suggerire una forma di effettivo imperialismo
espansivo verso i mari dell’Asia del Sud-Est. Bisognerebbe considerare altresì
che la disposizione dell’apparato missilistico cinese sembra concepito prevalentemente in vista di una crisi per Taiwan, mentre gli armamenti dell’India e del
Giappone guardano alle stesse acque, ma con l’occhio prevalentemente rivolto
alla tutela delle vie marittime. Perciò, ovviamente avendo presente che si entra
qui in una materia avvolta nel segreto e per noi largamente induttiva, forse non
bisognerebbe pensare ad una contrapposizione speculare in termini di “ostilità
ipotetica” nel senso della teoria strategica tradizionale. Invece si apre la porta
su un altro problema, che è stato dibattuto, in particolare prima dell’“Incidente delle Torri Gemelle” del 2001, ovvero se la Cina sia oggi un paese che da un
lato rappresenta un pericolo per lo Status Quo internazionale ovvero alternativamente, proprio perché orientato a conservare la condizione attuale, non produca spinte od effetti con il suo comportamento, i quali, benché conservatori,
potrebbero rischiare di mettere in pericolo la stabilità globale. In altre parole
alcuni studiosi hanno osservato che non necessariamente un paese che tenda a
18 Cfr. Liu Yijian, Zhongguo weilai de haijun jianshe yu haijun zhanlue (Strategia e armamenti navali nel futuro della Cina), «Zhanlue yu guanli», n. 5, 1999, pp. 96-100. Sebbene sia
troppo presto per darne una valutazione di tipo storico definitiva, sembra naturale vedere negli accordi del 11 aprile 1905, firmati in occasione della visita del Primo Ministro Wen Jiabao
a New Delhi (sui quali cfr. ad esempio, L. Muscarà, Gli sconfinati confini tra Tibet e Himalaya,
«liMes Rivista Italiana di Geopolitica», 4, 2005, pp. 83-94, specialmente p. 93), qualcosa di più
del disegno di risolvere i residui contenziosi territoriali e di valorizzare le opportunità di rapporti economici fra i due paesi. È lecito immaginare che Pechino abbia anche inteso neutralizzare in prospettiva la possibilità che l’India si lasci attrarre verso qualche genere di combinazione con gli Stati Uniti, e potenzialmente col Giappone, alcuni paesi dell’ASEAN e forse l’Australia, la quale potrebbe frenare la carica espansiva della RPC verso l’Oceano Indiano e il Mar
Cinese Meridionale.
19 J. T. Dreyer, op. cit., p. 383.
20 D. Shambaugh, op. cit., pp. 266-268.
105
difendere lo Status Quo è anche uno orientato a proteggere la stabilità globale,
perché in un momento storico caratterizzato da rapidi cambiamenti, accettati e
riflessi anche nelle regole di comportamento internazionali, come nella nostra
epoca segnata dalla “globalizzazione”, un paese troppo tenacemente legato a
una prassi più antica, finisce esso stesso per creare situazioni di attrito e di crisi. A questo proposito sono da osservare una serie di punti che fanno da quadro al discorso. In larga misura gioca qui il fatto che, dopo la fine della Guerra
Fredda, la Cina sia rimasta il solo paese di grandi dimensioni al mondo ad avere un sistema politico modellato sull’ideologia marxista-leninista, il quale tuttora manca di istituti democratici, fondati sulla libertà d’espressione, mentre viene accusato di non tutelare abbastanza i diritti umani e le libertà politiche, a cui
tuttora alcuni aggiungono certe regole del libero mercato. La sua pericolosità
deriverebbe dal fatto che in ultima analisi le strutture dello stato cinese hanno
una base culturalmente allogena rispetto a quella oggi maggiormente affermata nella società internazionale. Questo dibattito è stato ispirato dalla tensione
che si era prodotta nei rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti durante la prima fase dell’amministrazione Bush, dopo le elezioni del 2000, sicché certi autori hanno identificato la presunta minaccia della Cina allo Status Quo con l’aspirazione del governo di Pechino a costruire un sistema internazionale in Asia nel quale gli Usa non avessero la posizione di primato che hanno oggi21. Si è partiti dalla considerazione che la Cina attuale presenta una contraddizione perché, a
fianco del rapido sviluppo economico, esprime un elenco di difficili e potenzialmente esplosivi problemi interni, i quali inevitabilmente potrebbero influenzare il suo comportamento internazionale. Per non tornare che su due esempi, la
differenziazione regionale fa pensare che l’unità nazionale potrebbe spaccarsi
se certe difficoltà diventassero più acute in futuro e il governo centrale indebolirsi; mentre il fatto che la legittimazione del PCC si fondi sempre di più sul rifiorire del sentimento nazionale potrebbe spingere il governo di Pechino ad una
non necessaria rigidità sulla questione di Taiwan, ma anche su altri temi, facilitando gravi complicazioni internazionali e scelte intransigenti. Ora per esperienza storica, da paesi “ascendenti” come è la Cina di oggi, i quali però abbiano problemi di questo genere, ci si possono aspettare anche comportamenti avventati o pericolosi, soprattutto quando rimangono nella loro cultura politica
fattori di insoddisfazione e di frustrazione, connessi con la memoria storica e le
umiliazioni subite in passato, che a loro volta alimentino il nazionalismo. Sem21
Per un’ampia discussione di questo punto, I. J. Alastair, Is China a Status Quo Power?,
«International Security», vol. 27, n. 4, 2003, pp. 5-56.
106
pre con riferimento alla storia, ma a questo punto dando per acquisito che la
Cina di oggi sia una “grande potenza”, alcuni studiosi, sollecitati da uno degli
articoli ricordati di un importante esponente politico dell’attuale amministrazione di Washington, hanno discusso il parallelo tra la relazione che sarebbe esistita all’inizio del 2001 fra gli Usa e la Cina e il contrasto maturato all’inizio del
’900 tra l’impero britannico e la Germania, il quale finì per portare alla Prima
Guerra Mondiale. Gli autori che hanno sviluppato questo punto, sono partiti
dall’interpretazione storiografica per la quale all’inizio del ’900 il Regno Unito, all’epoca massima potenza mondiale, stava cominciando ad entrare in un
‘epoca di relativo declino e si sarebbe sentito sfidato da un elenco di maldestre provocazioni sul piano diplomatico, oltre che dall’aggressiva competizione commerciale e industriale dell’impero guglielmino, sebbene sia discutibile
che fra i due esistessero effettive ragioni di attrito proporzionali ai contrasti
politici che presero forma. Di qui sarebbero germinati la gara negli armamenti navali fra il 1906 e il 1907 e alla fine lo scontro in guerra. A parte il fatto, tuttavia, che non tutti gli storici della diplomazia accettano questa linea interpretativa sulle origini della Prima Guerra Mondiale, il dibattito si è anche rovesciato nel senso che è stato domandato quale dei due “concorrenti strategici”,
per usare l’espressione di Bush, potrebbe oggi recitare la parte della Germania e quale dell’Inghilterra. Lanxin Xiang ha osservato che, sebbene la concezione “westphaliana” per ironia sia estranea alla civiltà cinese, dopo decenni
di penoso adeguamento, la RPC ne ha completato la sua definitiva accettazione al momento dell’ingresso nel WTO. Proprio per questa ragione, la Cina, che
in sostanza pone come proprio principio fondamentale la tutela della sovranità nazionale, si viene oggi a trovare essa nella posizione di tutrice della stabilità internazionale, che invece sarebbe stata messa in discussione da numerose iniziative americane, sia di carattere generale (come il ripudio, ad esempio, del trattato ABM del 1972 oppure le minacce e i bombardamenti effettuati nel periodo fra la Prima e la seconda Guerra del Golfo nei riguardi della Serbia, della Corea del Nord, dell’Iran, di Cuba), sia rivolte direttamente contro
la RPC stessa (quali le vendite di armi a Taiwan, la visita dl Dalai Lama alla Casa Bianca il 23 maggio 2003, l’accoglienza riservata al presidente di Taiwan
Chen Shuibian a New York nel 2001, l’interruzione di tutti i contatti a livelli
militare fra i due paesi, alcune pubbliche dichiarazioni che sembravano favorevoli all’indipendenza di Taipei, la possibilità che il TMD venga esteso a Formosa). L’autore è tornato sulla tesi per la quale l’“intervento umanitario” col
quale fu giustificata l’azione della Nato all’epoca della questione del Kosovo
mascherava l’infrazione dei principi del rispetto della sovranità nazionale e
107
che, mentre le dispute territoriali sul mare nelle quali la Cina è coinvolta, riguardano la sua periferia e sono accompagnate da un riarmo navale obiettivamente modesto, i programmi NMD e TMD degli Stati Uniti mirano a neutralizzare in profondità il potenziale difensivo cinese.
A questi, che sono soltanto alcuni fra glia argomenti utilizzati, è stato risposto che il sistema internazionale dopo la fine della Guerra Fredda continua ad
essere fondato su alcune alleanze, che ne sono l’ossatura, come la Nato e quella
fra gli Usa e il Giappone22, sicché la polemica contro queste ultime da parte di
Pechino inevitabilmente lo colpisce; che il multilateralismo invocato dalla RPC
maschera l’intento di indebolire la posizione dell’America, oppure che il sistema internazionale ai giorni nostri non è più basato sul rispetto assoluto del concetto di sovranità nazionale e ammette, in una serie di circostanze, il diritto all’intervento negli affari interni di un stato. Sarebbe perciò la Cina a mettersi in
contrasto con l’evoluzione stessa delle norme e dei principi internazionali, specialmente con riferimento all’ultimo dei tre punti appena elencati, legato alla polemica sui “diritti umani”, come quando criticò l’arresto e il processo di Slobodan Milosevic per crimini contro l’umanità, assumendo quindi proprio essa l’aspetto di paese in collisione aperta o potenziale con lo Status Quo. In alcuni casi la polemica si è fatta, a noi sembra, sottile e sfuggente. A chi obiettava che dopo la fine della Guerra Fredda, Pechino è uscita dall’isolamento del periodo
maoista e ha aderito a circa un 80% delle organizzazioni internazionali, osservandone gli statuti e le regole, è stato replicato che in realtà tale osservanza rimane superficiale, passiva nel comportamento e sostanzialmente indifferente ai
principi generali sottintesi dalle norme formali delle diverse organizzazioni.
Analogamente la polemica sui diritti umani, che largamente è fondata sul principio per il quale il rispetto di questi ultimi riposa sul diritto internazionale generale, si può ridimensionare, secondo i cinesi e varie Organizzazioni Non Governative, a causa dei diversi modi di concepire questa figura giuridica nelle diverse realtà sociali e nei paesi in via di sviluppo. Ai fini del nostro discorso comunque, ci sembra che concetti come quello di Status Quo risultino oggettivamente difficili da utilizzare, quando li si intenda con riferimento non all’oggettiva distribuzione di potenza in un determinato scenario, e alle sue basi giuridiche, ma invece in rapporto all’evoluzione generale del sistema internazionale, in
22 D. Shambaugh, China or America: Which is the Revisionist Power?, «Survival», vol. 43,
n. 3, Autumn 2001, pp. 35-30. Per le posizioni di Lanxin Xiang, vedi l’articolo citato passim.
Cfr. anche A. Goldstein, The Diplomatic Face of China’s Grand Strategy: A Rising Power’s Emerging Choice, «The China Quarterly», n. 168, 2001, pp. 835-864.
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quanto regolato da una serie di principi non soltanto formali, ma addirittura morali. Gran parte degli autori che sono intervenuti in questa disputa ci sembrano
prendere per spinte aggressive della politica estera cinese la pressione che la RPC
esercita sui paesi confinanti semplicemente per le sue dimensioni e le sue prospettive di sviluppo e con obiettivi magari di potenza, ma che restano legittimi
finché essa faccia uso di strumenti conformi al diritto internazionale, come pare il caso per gli ultimi anni, comprese naturalmente le norme che vietano il ricorso all’uso della forza.
Per fare un esempio, nella seconda metà degli anni ’90, l’APL propose all’interno dell’ARF che i paesi membri invitassero reciprocamente rappresentanze delle rispettive forze armate ad assistere alle manovre militari23. Non c’è
dubbio che un’iniziativa del genere si situasse nel quadro del “Nuovo Concetto di Sicurezza”24 sostenuto dalla RPC, che rifiutando il sistema delle alleanze
di tipo tradizionale, dovrebbe essere fondato sui “Cinque Principi sulla Coesistenza Pacifica”, sulla stabilità dei rapporti e sulla partnership strategica, ma
è anche evidente che essa mirava in ultima analisi a staccare diplomaticamente dagli Stati Uniti i paesi dell’ASEAN e a favorire forme di intesa con questi
ultimi. Tale strategia restava confinata ad un metodo, tuttavia, che non si vede in quale modo mancasse di correttezza sul piano internazionale.
Proseguendo nel nostro discorso, il dibattito sopra accennato risulta molto
interessante dal punto di vista teorico, e apre la porta a penetranti considerazioni storiografiche, ma tutto sommato sembra perdere almeno in parte di vista le
situazioni concrete, le quali danno la misura reale del contributo della Cina alla
stabilità globale, addirittura perdendosi nell’analisi di aspetti obiettivamente difficili da analizzare nelle motivazioni del suo comportamento. Bisognerebbe stare attenti a non confondere, anche senza perdere di vista che le due questioni sono collegate, il problema se si vada in futuro verso uno scontro tra la RPC e gli
Stati Uniti a causa del problema di Taiwan, o invece, per le tensioni fra i due paesi, che nascono dall’impressione per la quale la crescita della potenza cinese sia
proiettata in futuro a scalzare, sul piano della deterrenza e dell’equilibrio complessivo, l’influenza degli Usa in Asia Orientale. Materialmente non va dimenticato che il problema della sicurezza della RPC è sentito dagli stessi cinesi prevalentemente in rapporto alla questione di Formosa nella sua dimensione storica.
A un sondaggio statistico effettuato nell’area di Pechino nel 2001, la maggior parte degli intervistati rispose che le preoccupazioni più gravi per la sicurezza della
23
24
R. Foot, China And The Asean…, cit., p. 430.
R. Foot. China in the Asean, cit., pp. 434-5; D. Shambaugh, op. cit., pp. 292-293.
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Cina derivava secondo loro dal problema di Taiwan, con i connessi rapporti con
gli Stati Uniti, o dai problemi interni del paese, mentre solo l’8% rispose di temere la rinascita dell’imperialismo giapponese25. Val la pena di considerare che
è sicuramente nell’area prospiciente Taiwan che è schierata la maggior parte del
sistema missilistico cinese, compresi circa 300/350 SRBM (short range balistic missiles) di tipo prevalentemente DF-15 (secondo un calcolo effettuato nel 2002 e
che oggi potrebbero ammontare a molte più unità), del tipo utilizzato all’epoca
della crisi del 1995-96, i quali rappresentano un’arma molto pregevole (difficile
da individuare, adatto a portare bombe al neutrone e alimentato con combustibile solido, che richiede poco tempo per il lancio, dotato di strumentazione che
consente di modificare la traiettoria in volo etc.)26. Questo sembra stare a dimostrare che l’ipotesi di scontro armato riguarda essenzialmente l’isola e che solo
come corollario di questo problema l’apparato militare cinese è rivolto contro gli
Usa. Insomma, indipendentemente dalla discussione teorica sopra sviluppata, l’ipotesi cruciale non sembra dipendere da calcoli strategici di natura generale,
eventualmente estesi a tutto l’Estremo Oriente, ma dalla concreta eventualità che
un conflitto si sviluppi forse unicamente per la querelle sull’indipendenza di Formosa. Non è un caso che la disposizione delle forze militari cinesi non faccia pervenire messaggi altrettanto sicuri a causa dei problemi delle isole Dyao-yu oppure delle Spratley. In special modo a proposito delle prime, mentre Pechino ha
proposto di risolvere il problema attraverso lo sfruttamento economico congiunto delle risorse dell’arcipelago, si ritiene che Tokyo sarebbe anche disposta a sottomettere la questione alla Corte Internazionale di Giustizia e attualmente non ci
sono segni chiari di tensione vera e propria in proposito, anche se la questione è
tornata alla ribalta durante le dimostrazioni antigiapponesi, che si sono verificate a Pechino e in altre città nella primavera del 2005.
Ora sembra evidente che la Cina potrebbe ricorrere all’uso della forza contro il regime di Taipei in due circostanze ben distinte, le quali tuttavia fanno riferimento alla stessa tematica. Se Taiwan proclamasse la sua indipendenza, l’APL ha più volte dichiarato che potrebbe essere costretta a “forzare l’unificazione”, ma è anche possibile una seconda eventualità, ovvero che un’azione militare di tipo dissuasivo sarebbe intrapresa allo scopo di trattenere il governo di
Taipei, se esso facesse credere di essere avviato a prendere la fatale decisione27.
È bensì opinione comune che la Cina per ragioni politiche ed economiche, e
25
26
27
110
I. J. Alastair, op. cit., p. 45.
Sull’apparato missilistico cinese, D. Shambaugh, op. cit., pp. 274-282.
D. Shambaugh, Modernizing China’s Militay. Progresses, Problems…, cit., pp. 307 ss.
con essa gli Usa e il Giappone, desiderino comunque che a esiti del genere non
si giunga e in effetti recentemente la RPC ha preso svariate misure volte a favorire iniziative economiche taiwanesi sul suo territorio, così da attenuare il senso della distanza fra i due paesi nei circoli di affari di Taipei e in prospettive rendere più facile in questo modo la riunificazione o almeno indebolire l’ala oltranzista del Minjindang28. Tuttavia, ragionando in termini di sicurezza, rimane fondamentale rispondere al quesito relativo all’esito che un eventuale confronto militare avrebbe. La letteratura in cinese sull’argomento è praticamente inesistente e la posizione ufficiale dell’accademia, come del governo della
RPC, è che la questione di Taiwan sia un problema interno, del quale sotto il
profilo strategico anche le riviste, per quanto con eccezioni, non si occupano.
L’opinione degli studiosi stranieri in genere tuttavia è che oggi la RPC, anche a
prescindere dall’ipotesi di un intervento americano, non avrebbe le forze per
conquistare Formosa e potrebbe esclusivamente cercare di indurla alla resa attraverso un blocco navale, sempre che riuscisse ad effettuarlo.
In genere29 si pensa che un attacco contro l’isola potrebbe essere preceduto
da un intenso bombardamento di virus informatici tali da accecare i computers
della ROC e da disattivarne le strutture difensive di comando e di controllo. A
questo potrebbe seguire un intenso bombardamento missilistico e aereo, il quale dovrebbe colpire in primo luogo il sistema delle comunicazioni e sarebbe alla
fine completato da un attacco anfibio di proporzioni adeguate. Preventivamente la RPC potrebbe far precedere l’attacco dalla conquista delle isole di Jinmen
(Quemoy) e Mazu, che furono già bombardate negli anni ’50. Un attacco solo
contro queste ultime, potrebbe eventualmente essere portato anche soltanto come misura dissuasiva o come ammonimento per il governo di Taipei. Sebbene in
interviste rilasciate a studiosi occidentali, alcuni ufficiali dell’APL abbiano affermato che questa è abituata a vincere anche in condizioni di inferiorità, mostrando fiducia di superare l’insufficienza di risorse e ricordando che il divario con i
possibili avversari è oggi in ogni caso minore rispetto all’epoca della Guerra di
Corea (a proposito della quale l’APL orgogliosamente ha sempre insistito di essere riuscita a impegnare le forze occidentali), si può legittimamente pensare che
la Cina non sia in condizioni di sviluppare fino in fondo la strategia di conquista
28 In generale su questo problema, D. Roy, Tensions in the Taiwan Strait, «Survival», vol.
42, n. 1, Spring 2000, pp. 76-96, ma la letteratura è vastissima.
29 Cfr. M.O’Hanloon, Why china Cannot Conquer Taiwan, «International Security», vol.
25, n. 2, 2000, pp. 51-86; D. Shambaugh, Modernizing China’s Militay, Progresses, Problems, ...
cit., pp., 307-327.
111
militare dell’isola. La fase informatica dell’attacco, infatti potrebbe essere micidiale, ma non si dispone di informazioni adeguate sull’effettiva dotazione dell’esercito cinese da questo punto di vista, mentre le difese taiwanesi, sebbene incomplete, per esempio nella protezione dei siti missilistici, sicuramente sono agguerrite. Dal punto di vista convenzionale, bisogna tener inoltre presente cha la
Cina comunque non sarebbe in condizioni di usare che una parte delle sue forze terrestri per conquistare l’isola e che un attacco diretto la esporrebbe all’isolamento e alla disapprovazione internazionale, a parte il fatto che la tradizione cinese suggerisce sempre di ricorrere ad un uso minimo della forza, mentre è da
escludere che l’obiettivo di Pechino sarebbe di provocare distruzioni troppo estese o di usare armi nucleari. Le forze aeree cinesi inoltre non sembrano di entità
tale da superare le difese taiwanesi. L’isola dispone di missili SAM antiaerei e la
PRC difetta di bombe di precisione e di capacità di bombardamento ad alta quota, sicché gli aerei sarebbero esposti ad essere colpiti e certamente subirebbero
ingenti danni. In pratica i precedenti dell’attacco inglese contro le Falkland o di
quello della Nato contro la Serbia non varrebbero in questo caso. Discorso diverso vale per l’arma missilistica. L’isola dispone di difese apposite, alcune delle
quali fornite dagli Stati Uniti, che potrebbero essere insufficienti a fronteggiare i
missili balistici cinesi, ma si pensa che l’APL dovrebbe fare uso anche di missili
convenzionali M-9, i quali mancano di precisione e presumibilmente non avrebbero che scarsi effetti sugli obiettivi propriamente militari. Ancora meno incoraggianti sono le prospettive sul piano geografico. Lo stretto di Taiwan è caratterizzato da forti venti, in particolare nella stagione dei monsoni e da onde alte anche
decine di metri, mentre l’APL ha scarsa capacità operativa in scenari ventosi e male illuminati. In media lo stretto ha una profondità di cento metri, il che ha permesso agli specialisti di arguire che è nello stesso tempo favorevole all’uso dell’arma sottomarina, ma anche che quest’ultima diventa più vulnerabile. Inoltre la costa dell’isola prospiciente la Cina è rettilinea per un lungo tratto, ma presenta un
litorale fangoso profondo circa due miglia, lungo il quale le operazioni di sbarco
sarebbero comunque rese difficili da un intenso fenomeno di maree. L’isola inoltre è ben fornita di radar e satelliti, il che renderebbe verosimilmente facile rendersi conto della necessaria concentrazione precedente di forze militari e mezzi
navali necessari per lo sbarco, che in ogni caso dovrebbe utilizzare un anomalo
numero di imbarcazioni, molte delle quali di natura civile. Inoltre la flotta cinese ha soprattutto funzioni di difesa costiera ed è per vari aspetti inferiore a quella di Taiwan, che le è superiore sul piano dei mezzi informatici ed elettronici,
mentre indubbiamente entrambe le parti sarebbero in condizioni di infliggere
gravi perdite l’una all’altra in caso di guerra sottomarina. Il piano fondamentale
112
dovrebbe consistere in una rapida invasione, dopo la quale le armate cinesi dovrebbero presumibilmente prepararsi a respingere un contrattacco americano,
anche giocando sulla capacità del territorio cinese di assorbire bombardamenti e
azioni aeree americane di ritorsione, ma tale scenario risulta poco credibile.
Un’invasione dell’isola, ammesso che si riuscisse a passare lo stretto, sarebbe possibile a condizione di utilizzare un numero di soldati, pari si calcola
a cinque volte approssimativamente l’esercito taiwanese, che molto improbabilmente la RPC sarebbe comunque in grado di utilizzare tutti in questa operazione. Soprattutto però, la marina e l’aviazione cinesi mancano delle capacità di trasporto necessarie. L’invasione perciò dovrebbe avvenire a ondate
successive, e passare attraverso lo stabilimento di almeno una o più teste di
ponte, da alimentare successivamente. A causa dello scenario naturale e delle
difese taiwanesi è ragionevole pensare che una strategia del genere diventerebbe irrealizzabile o comunque richiederebbe tempi non istantanei. Sarebbe
inoltre molto difficile se non impossibile giocare su un effetto sorpresa e non
sembra verosimile che la RPC abbia attualmente strumenti, come i cannoni laser, il cui uso è stato teorizzato per accecare i satelliti avversari.
Questo darebbe tempo agli Usa, ed eventualmente (anche se non probabilmente) al Giappone, di intervenire oppure di sviluppare azioni diplomatiche dirette contro le iniziative cinesi. In particolare si tratta di un aspetto che
va a tutto vantaggio dell’eventuale reazione degli Stati Uniti. Washington
avrebbe infatti la possibilità di decidere senza fretta se intervenire e farebbe
probabilmente in tempo a soccorrere le difese di Taipei, anche se gli specialisti ritengono che le porterei americane potrebbero essere trattenute ad entrare nello stretto, dove sarebbero esposte al tiro delle batterie missilistiche cinesi e contemporaneamente all’azione dei sottomarini della RPC e dei cacciatorpedinieri del tipo sovremennyi.
Un discorso completamente diverso vale invece se si prende in esame l’ipotesi del blocco che potrebbe essere posto dalla RPC intorno all’isola, sia a
scopo dissuasivo che per indurla alla resa.
A proposito del blocco, c’è da osservare che esso potrebbe prendere tre
forme, eventualmente completate da parallele iniziative di carattere aereo: respingere le navi, o la maggior parte dei tipi di nave che volessero raggiungere
l’isola, completare forse questa misura con azioni contro i sommergibili o le
navi da guerra taiwanesi, eventualmente aprendo il fuoco contro alcuni tipi di
vascelli, operare una chiusura assoluta contro tutti i tipi di imbarcazioni che
si avvicinassero. È stato osservato che la flotta cinese non ha mezzi sufficienti
per provvedere ad un blocco completo di Taiwan, ma molto probabilmente lo
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ha per i suoi due principali porti, Kaohsiung e Jeelung. Tale misura avrebbe
effetti disastrosi sull’economia dell’isola, che è dipendente dal commercio marittimo per i suoi approvvigionamenti di materie prime e di petrolio, e sarebbe esposta ad aumenti esponenziali nei costi dei noli e delle assicurazioni marittime, con la conseguenza in caso di blocco che probabilmente anche il mercato finanziario e la borsa sarebbero esposti a gravi perturbazioni. Ovviamente tentativi di mitigare il blocco con strumenti militari sarebbero possibili, come anche di romperlo da parte delle forze aeree o navali della ROC. A parte
però il giudizio di carattere strettamente tecnico, c’è da osservare che il blocco è considerato un atto di guerra dal diritto internazionale e potrebbe innescare una reazione a catena, la quale potrebbe evolversi in una guerra totale,
facendo ricadere questo discorso in quello trattato nei paragrafi precedenti ed
eliminando l’ipotesi di un suo uso in funzione esclusivamente dissuasiva. Se
poi la marina cinese dovesse ricorrere allo strumento di minare il mare intorno a Taiwan, questo potrebbe far scattare l’alleanza nippo-americana del 1997,
come abbiamo visto, e mettere in movimento una crisi internazionale dalle dimensioni imprevedibili e che eventualmente potrebbe allargarsi, secondo alcune delle speculazioni teoriche già analizzate, ad una dimensione globale.
Insomma sono numerose le incertezze che accompagnerebbero i tentativi di risolvere con la forza la questione taiwanese, mentre indubbiamente potrebbero determinare considerevoli difficoltà per il governo di Pechino, il quale sarebbe esposto a gravi fallimenti di fronte all’opinione interna, sia in caso
di insuccesso che di sviluppi negativi sul piano internazionale. Inoltre, le sue
forze armate sarebbero esposte a ingenti sacrifici di uomini e mezzi, peraltro
nei settori maggiormente avanzati, persino nella limitata ipotesi di un successo, a cui dovrebbero aggiungersi i danni di carattere economico che sicuramente seguirebbero il peggioramento dei rapporti, anche se non si arrivasse
ad una guerra generale, con gli Stati Uniti.
In sostanza si può accedere all’opinione che tanto la RPC che la ROC abbiano la possibilità, ciascuna per suo conto, di precipitare una crisi militare e
che in tutte e due la pressione psicologica o le ragioni di politica interna potrebbero decidere il corso in questa direzione, essenzialmente nel caso che il
governo di Taipei proclamasse l’indipendenza. È anche vero però, che le opportunità dell’economia scoraggiano questa tendenza, andando in sostanza incontro alla politica americana di mantenere la situazione attuale.
Per concludere si può notare che i fattori di stabilità nell’attuale politica
estera cinese siano prevalenti, dato che la percezione di minacce provenienti
dall’esterno risulta nell’insieme scarsa e comunque non tale da spingere la RPC
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a ricorrere all’uso della forza, turbando la stabilità internazionale. Nel lungo
periodo il discorso risulta inevitabilmente diverso, dato che verso il 2010 l’attuale condizione di inferiorità militare della Cina potrebbe venire meno, ma
nello stesso tempo sono molti i fattori che potrebbero non necessariamente
mutare rispetto ad oggi, a cominciare dai livelli stessi dello sviluppo economico della RPC, i quali potrebbero ridursi. Sono inoltre incerte altre variabili internazionali, che vanno dal mantenimento delle posizioni americane in Asia,
alla politica della sicurezza seguita, eventualmente controbilanciando l’aumento della potenza cinese, dall’India, dalla Russia e dal Giappone.
Sull’altro piatto della bilancia si può mettere l’ipotesi di ritorno all’“ordine mondiale confuciano”. Come si è anche visto però, per il numero di fattori che entrerebbero in gioco, questo è un discorso prevalentemente teorico, almeno secondo noi, ed è difficile intravedere quale sistema di rapporti davvero nascerebbe se gli Stati Uniti decidessero di non apporsi all’avvento di un’ipotetica supremazia cinese nell’Asia Orientale e nel Pacifico Occidentale.
In concreto invece, l’intreccio fra il problema della libertà delle vie marittime e degli approvvigionamenti energetici con le questioni di Formosa, delle
Dyao-yu/Senkaku, delle Spratley, e più in generale della fascia di mare fra l’Asia Sudorientale e l’Oceano Indiano, fa pensare che nel vicino futuro sarà su
quest’area, collegata anche alle prospettive del destino della penisola coreana,
che si concentreranno l’attenzione strategica e la deterrenza militare dei paesi interessati, sicché continuerà anche la tendenza a svilupparsi delle forze armate cinesi, nei settori ad alta tecnologia, nell’ambito aereo e in quello navale, che la geopolitica suggerisce come più funzionali al nostro discorso.
Volendo azzardare una previsione finale, ci sembra che due andamenti
collegati fra loro potrebbero prendere forma. Da un lato la crescita dell’economia e conseguentemente del peso internazionale della Cina dovrebbe continuare ancora per vari decenni, sia pure a ritmi decrescenti man mano che essa si allontanerà dalla tipologia dei paesi in via di sviluppo. Ciò presumibilmente solleciterà il consolidamento di un qualche genere di alleanza o intesa
in funzione di più o meno blando contenimento ad opera di altri stati, lungo
la fascia marittimo-oceanica della RPC. È difficile che essa assuma le forme
classiche alla quale ci ha abituato la storia generale degli ultimi secoli, date le
particolari caratteristiche dei paesi dell’ASEAN, ma è verosimile che vi partecipino in un modo per ora poco prevedibile gli Stati Uniti, mentre restano incerte le scelte future del Giappone e l’evoluzione dell’alleanza fra quest’ultimo
e gli Usa del 1996-99, che svolge un ruolo comunque centrale per l’area geografica a Nord di Taiwan.
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Dall’altro lato la RPC cercherà di prevenire o arrestare questo sviluppo, attraverso la gestione delle opportunità offerte al mondo sviluppato dalla propria
economia in espansione, oltre che rafforzando la presenza nelle organizzazioni
internazionali e migliorando l’immagine della Cina sul piano globale. Inoltre i
successori di Mao presumibilmente si sforzeranno di conseguire lo stesso scopo per via diplomatica. Gli importanti passi in avanti nella soluzione del problema della Corea del Nord nell’autunno del 2005, gli accordi con l’India dell’aprile precedente, l’andamento delle relazioni con paesi asiatici come Myanmar e Singapore, i sintomi di collaborazione in materia di armamenti con la
Francia e altri paesi europei, sembrano tutti indicatori di percorso nella stessa
direzione.
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Appendice
A) FONTI: DUE TESTI PARTICOLARI
Documento n. 1
Renmin Ribao – People’s Daily
Sul nuovo sviluppo dell’egemonia americana
www.english.peopledaily.com.cn
(traduzione italiana)
Il bombardamento sulla Repubblica federale di Yugoslavia da parte della NATO guidata dagli Stati Uniti e il suo oltraggioso attacco missilistico all’ambasciata cinese in Yugoslavia hanno suscitato grande indignazione nel governo e nel popolo cinesi e sono stati severamente condannati dai paesi e dai
popoli amanti della pace nel mondo. Questa barbarica atrocità commessa dagli Stati Uniti ha messo a nudo pienamente gli scopi feroci ed egemoni e la natura imperialista dell’aggressione. Un osservatorio mondiale mostra chiaramente come l’intervento armato statunitense contro la Repubblica federale di
Yugoslavia non sia un fenomeno isolato ed accidentale. È un’importante misura presa dagli Stati Uniti per costruire la propria strategia globale di ricerca
dell’egemonia alla fine del secolo e un’importante indicazione sui nuovi sviluppi dell’egemonia statunitense. Questo rappresenta un nuovo corso nella situazione internazionale attuale che merita seria attenzione.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti, essendo l’unica superpotenza nel mondo e contando sulla propria potente forza economica, tecnologica e militare, hanno cominciato a darsi delle
arie, a pavoneggiarsi e a considerarsi insuperabili nel mondo. La loro ambizione di ricerca del dominio mondiale è rapidamente aumentata.
Allo scopo di raggiungere il loro obiettivo strategico di dominio mondiale, gli Stati Uniti hanno affondato il naso ovunque negli affari degli altri pae139
si, per esempio nei Balcani, nel Medio e Vicino Oriente e in altre parti del
mondo, senza riguardo alla Carta delle Nazioni Unite o al diritto e alle convenzioni internazionali.
Gli Stati Uniti hanno stabilito, sui due fronti dell’Oriente e dell’Occidente, alleanze e gruppi militari a servizio dell’egemonia americana, e hanno costruito un sistema di sicurezza globale guidato da loro stessi. In Europa, gli
Stati Uniti usano la NATO come un importante strumento per esercitare la
propria strategia globale di ricerca dell’egemonia. L’attuale guerra d’aggressione lanciata dalla NATO guidata dagli Usa contro la Repubblica Federale di
Yugoslavia rappresenta l’inizio della costruzione della loro nuova strategia. È
la prima volta che la NATO usa la forza per interferire negli affari interni di un
altro paese al di fuori della sua tradizionale area di difesa, così tutto ciò diventa un pericoloso precedente di intervento armato della NATO negli affari interni di uno stato sovrano. Nella regione asiatica del Pacifico, gli Stati Uniti
hanno continuato a tenere i loro 10.000 soldati, hanno rafforzato l’alleanza militare Usa-Giappone, e firmato con il Giappone le linee guida per una nuova
cooperazione nella difesa. La Camera dei rappresentanti e il Senato giapponese hanno approvato il progetto di legge relativo a queste nuove linee guida,
che estendono lo scopo della cooperazione militare Usa-Giappone all’intera
regione asiatica del Pacifico includendo Taiwan, e ponendo una seria minaccia alla pace e alla sicurezza dell’area. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti e il
Giappone hanno deciso di impegnarsi nella ricerca e nello sviluppo del sistema di difesa missilistico delle zone di guerra (TMD), costruendo un sistema di
difesa missilistico volto a guadagnare un vantaggio militare. Queste attività
stanno ad indicare un maggiore sviluppo nella costruzione della strategia statunitense di alleanze militari a livello globale. Si incrementano gli investimenti militari e si sviluppano vigorosamente le armi ad alta tecnologia. Nel 1999,
il budget per la difesa americano è cresciuto a 276.2 bln di dollari, equivalente a 1.67 volte il totale delle spese militari di Francia, Russia, Gran Bretagna,
Germania, Giappone e Cina. Gli Stati Uniti hanno anche deciso di incrementare il loro budget della difesa di 112 bln di dollari nei prossimi sei anni. Per
garantire la loro assoluta superiorità in campo militare, gli Stati Uniti hanno
pubblicato il programma di sistema di difesa missilistico nazionale (NMD).
Gli Stati Uniti tentano di guidare il nuovo ordine economico internazionale e stabilire il loro status come potenza globale in campo economico, commerciale, scientifico, tecnologico e finanziario.
Si lancia una nuova Guerra Fredda contro i paesi socialisti e del terzo
mondo. Agli Stati Uniti non piace la partecipazione della Cina al sistema so140
cialista e sono contrari a vedere che la Cina si sta affermando come grande potenza. Si fa pressione per imbrigliare la Cina sul piano economico e politico
nel tentativo di soffocarla con un’unica azione. Comunque, invece di collassare sotto la pressione americana, la Cina si è sviluppata ed è cresciuta regolarmente e, nella nuova fiammante posizione di paese socialista in sviluppo, la Cina si afferma nella galassia delle nazioni mondiali. Gli Stati Uniti esercitano
una pressione e operano il cosiddetto contenimento anche di altri paesi socialisti. Comunque, i paesi socialisti non sono scomparsi dalla faccia della terra
come vorrebbe e desidererebbe l’Occidente guidato dagli Stati Uniti. Attraverso le esperienze e le lezioni riassunte e adottando un automiglioramento e
un autosviluppo, i paesi socialisti stanno dimostrando fresca vitalità e vigore.
Ostentando gli stendardi della libertà, della democrazia e dei diritti umani, gli
Stati Uniti interferiscono negli affari interni dei paesi in via di sviluppo. Gli
Stati Uniti hanno proposto, anno dopo anno, mozioni riguardanti i diritti
umani di altre nazioni e incontri sui diritti umani alle Nazioni Unite, tentando di interpretare il ruolo di giudice dei diritti umani e conducendo processi
ai paesi in via di sviluppo. Gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali pongono
sfide alle norme universalmente riconosciute del diritto internazionale e avanzano argomenti assurdi, creando nuove teorie per sostenere la loro egemonia
e le loro politiche di potenza. Hanno provato duramente a legalizzare le loro
azioni egemoniche. La sostanza di questi discorsi è, sotto la bandiera dei diritti umani e dell’umanitarismo, estendere la loro sfera politica ed economica di
influenza e portare avanti il proprio neo-colonialismo.
Grazie al potere che deriva della loro assoluta superiorità nel campo dell’informazione e dei media, gli Stati Uniti provano a sviare l’opinione pubblica mondiale e ad ingannare i popoli dei vari paesi, così da esercitare la loro arroganza egemonica. Il nuovo sviluppo dell’egemonia statunitense è determinato dalla sua natura imperialista ed è profondamente legato a fattori economici, politici sia di natura internazionale che interna.
È nella mentalità degli Stati Uniti che il modo per mantenere il proprio
status di signori incontrastati sia il più importante obiettivo della loro strategia globale del 21° secolo.
Comunque, è impossibile che il piano di creare un’egemonia Usa abbia
successo. La salvaguardia della pace mondiale e la promozione di un comune
sviluppo sono il forte desiderio e la generale richiesta dei popoli del mondo.
Che il mondo si muova verso una multipolarizzazione è l’inevitabile corso della storia. La sostanza e la chiave della pratica statunitense di una nuova egemonia sono rivolte a stabilire un ordine internazionale sotto la guida degli Usa.
141
Riguardo a ciò, i paesi in via di sviluppo non saranno d’accordo, come non lo
saranno anche gli alleati degli Stati Uniti. Gli imperialisti e gli egemoni sovrastimano la propria forza e sottostimano quella delle popolazioni del mondo.
Questo porta con sé che lo sviluppo degli eventi inevitabilmente produca un
sentimento contrario ai desideri di queste potenze e che la roccia che sollevano cadrà sui propri piedi. Un esempio lampante è la loro aggressione contro
la Repubblica federale di Yugoslavia. La costruzione statunitense dell’egemonia e della politica di potenza è la principale causa della minaccia alla pace e
alla stabilità mondiale, è una mossa ingiusta che va contro la tendenza storica
e per questo motivo è completamente impopolare nel mondo.
È certo che come l’egemonia non ha potuto raggiungere il suo scopo di
dominio del mondo nel periodo della Guerra Fredda, così fallirà a raggiungere tale obiettivo nel periodo post- Guerra Fredda.
Il mondo appartiene ai popoli dei diversi paesi. Nel nuovo secolo, tutte le
nazioni amanti della pace e le loro genti non permetteranno mai ai neocolonialisti e ai nuovi egemoni di rinnovare il loro dominio sul mondo.
Documento n. 2
Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole
tra la Repubblica popolare cinese e la Federazione russa
16/07/2001
Ministero degli Affari Esteri cinese
www.fmprc.gov.cn
(Traduzione italiana)
Il 16 luglio 2001, a Mosca, il Presidente Jiang Zemin della Repubblica Popolare Cinese e il Presidente Vladimir Putin della Federazione Russa hanno
firmato il Trattato di buon vicinato e di cooperazione amichevole tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa.
La Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa (da ora in poi indicati come parti contraenti), vista la tradizione storica di buon vicinato e di
amicizia tra i popoli della Cina e della Russia, tenuto conto che le Dichiarazioni comuni cino-russe firmate e adottate dai capi di stato dei due paesi dal 1992
al 2000 sono di grande significato per lo sviluppo dei rapporti bilaterali, credendo fermamente che consolidare i legami d’amicizia e di buon vicinato e la
reciproca cooperazione in tutti i settori tra i due paesi sia conforme con gli in142
teressi fondamentali dei popoli dei due paesi e di contributo al mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità in Asia e nel mondo, reiterando
gli obblighi presi in conformità alla Carta delle Nazioni Unite e ad altri trattati internazionali dei quali sono firmatari, con la speranza di promuovere e stabilizzare un nuovo e pacifico ordine mondiale basato sui principi universalmente riconosciuti e sulle norme del diritto internazionale, sforzandosi di accrescere le relazioni tra i due paesi su di un livello completamente nuovo, determinato a sviluppare l’amicizia tra i popoli dei due paesi di generazione in
generazione, hanno ricercato l’accordo che segue:
ARTICOLO 1
In accordo con i principi universalmente riconosciuti e con le norme di
diritto internazionale e sulla base dei Cinque Principi di reciproco rispetto
della sovranità di uno stato e della sua integrità territoriale, della reciproca
non-aggressione, della reciproca non-interferenza negli affari interni dell’altro, dei reciproci ed equi benefici e della coesistenza pacifica, le parti contraenti svilupperanno una partnership strategica di cooperazione, buon vicinato, amicizia, uguaglianza e fiducia tra i due paesi a lungo termine e in modo comprensivo.
ARTICOLO 2
Occupandosi delle loro reciproche relazioni, le parti contraenti non ricorreranno mai all’uso della forza; o alla minaccia della forza né ricorreranno a mezzi
economici o di altro tipo per fare pressione l’una sull’altra. Le parti contraenti risolveranno le loro differenze solo attraverso strumenti pacifici che corrispondono ai provvedimenti della Carta delle Nazioni Unite e ai principi e alle norme universalmente riconosciute dal diritto internazionale. Le parti contraenti riaffermano il proprio impegno a non essere i primi a utilizzare armi nucleari l’una contro
l’altra né missili balistici ad obiettivo strategico l’una contro l’altra.
ARTICOLO 3
Le parti contraenti rispettano la scelta l’una dell’altra del corso di sviluppo politico, economico, sociale e culturale in linea con le condizioni attuali
della loro nazione in modo da assicurare uno sviluppo stabile e a lungo termine delle relazioni tra i due paesi.
143
ARTICOLO 4
La parte cinese sostiene quella russa nelle sue politiche sulla questione di
difesa dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale della Federazione Russa.
ARTICOLO 5
La parte russa riafferma che la posizione iniziale sulla questione di Taiwan
come esposta nei documenti politici firmati e adottati dai capi di stato dei due
paesi dal 1992 al 2000 rimane invariata. La parte russa riconosce che c’è solo
un’unica Cina nel mondo, che la Repubblica popolare cinese è il solo governo legale rappresentante l’intera Cina e che Taiwan è una parte inalienabile
della Cina. La parte russa si oppone ad ogni forma di indipendenza di Taiwan.
ARTICOLO 6
Le parti contraenti puntualizzano con soddisfazione che ognuna non ha
rivendicazioni territoriali sull’altra ed entrambe sono risolute a fare degli
sforzi attivi per costruire il confine tra i due paesi in un modo che prevalga
una amicizia e una pace definitiva. Le parti contraenti aderiranno ai principi di non-usurpazione dei territori e dei confini nazionali come stipulato dalle leggi internazionali e guarderanno strettamente i confini nazionali tra i due
paesi. Le parti contraenti continueranno a tenere dei colloqui sugli allineamenti di confine rimasti in sospeso tra Cina e Russia in quanto non si è ancora arrivati ad un accordo attraverso delle consultazioni. Prima di sistemare questa situazione, le due parti manterranno lo status quo nei settori di confine.
ARTICOLO 7
In linea con gli accordi correnti, le parti contraenti adotteranno misure
per incrementare la fiducia tra i loro militari e ridurranno le forze militari nelle zone di confine. Le parti contraenti estenderanno e approfondiranno l’avvio di misure nel settore militare in modo da consolidare la sicurezza di entrambi e rafforzare la stabilità regionale ed internazionale. Le parti contraenti faranno gli sforzi necessari per assicurare la propria sicurezza nazionale in
accordo col principio di mantenere ragionevoli e adeguati armamenti e forze
armate.
144
La cooperazione militare e nella tecnologia militare delle parti contraenti avverrà in accordo con gli importanti accordi internazionali che non sono
diretti verso paesi terzi.
ARTICOLO 8
Le parti contraenti non entreranno in alcuna alleanza o blocco né prenderanno alcuna iniziativa, compresa la conclusione di trattati con un paese terzo che possa compromettere la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale
dell’altra parte contraente. Nessuna delle parti permetterà che il proprio territorio possa essere utilizzato da un paese terzo per mettere in pericolo la sovranità nazionale, la sicurezza e l’integrità territoriale dell’altra parte contraente. Nessuna delle due parti contraenti permetterà la fondazione di organizzazioni o bande sul proprio suolo che mettano a rischio la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale dell’altra parte contraente e proibiranno le loro attività.
ARTICOLO 9
Quando dovesse nascere una situazione nella quale una delle parti contraenti ritenesse che la pace sia minacciata e minata o che i suoi interessi di sicurezza siano coinvolti o quando ci si dovesse confrontare con una minaccia
di aggressione, le parti contraenti avvieranno immediatamente contatti e consultazioni allo scopo di eliminare tali minacce.
ARTICOLO 10
Le parti contraenti impiegheranno e perfezioneranno il meccanismo dei
regolari incontri a tutti i livelli, soprattutto summit e incontri ad alto livello,
per condurre scambi di punti di vista periodici e coordinare le loro posizioni
sui legami bilaterali e su importanti ed urgenti questioni internazionali di comune interesse in modo da rafforzare la partnership strategica di cooperazione, fiducia e uguaglianza.
ARTICOLO 11
Le parti contraenti riaffermano la stretta osservanza dei principi universalmente riconosciuti e delle norme di diritto internazionale e si oppongono a
145
qualsiasi azione di ricorso all’uso della forza per fare pressione sugli altri o interferire negli affari interni di uno stato sovrano ed entrambe sono pronte a
fare degli sforzi per rafforzare la pace, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione nel mondo.
Le parti contraenti sono contrarie ad ogni azione che possa costituire una
minaccia alla stabilità internazionale, alla sicurezza e alla pace e attueranno
un reciproco coordinamento riguardo alla prevenzione di conflitti internazionali.
ARTICOLO 12
Le parti contraenti lavoreranno insieme per il mantenimento della stabilità e dell’equilibrio strategico globale e compiranno grandi sforzi nel promuovere l’osservanza degli accordi di base riguardanti la salvaguardia e il mantenimento della stabilità strategica. Le parti contraenti promuoveranno attivamente il processo di disarmo nucleare e la riduzione di armi chimiche, promuoveranno e rafforzeranno i regimi sulla proibizione delle armi biologiche e
prenderanno misure per prevenire la proliferazione di armi di distruzione di
massa, i loro mezzi di distribuzione e la loro relativa tecnologia.
ARTICOLO 13
Le parti contraenti rafforzeranno la loro cooperazione nelle Nazioni Unite e nel Consiglio di Sicurezza così come nelle altre Agenzie dell’ONU. Le parti contraenti lavoreranno per rinforzare il ruolo centrale delle Nazioni Unite
come la più autorevole e universale organizzazione di stati sovrani che si occupi degli affari internazionali, particolarmente di pace e sviluppo e garantiranno la massima responsabilità del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel settore di mantenimento internazionale della pace e della sicurezza.
ARTICOLO 14
Le parti contraenti promuoveranno energicamente il consolidamento della stabilità delle zone circostanti ai due paesi, creeranno un’atmosfera di reciproca comprensione, fiducia e cooperazione, e promuoveranno gli sforzi necessari a fondare un meccanismo di coordinamento multilaterale che si
conformi con la situazione attuale delle zone sopramenzionate sui temi della
sicurezza e della cooperazione.
146
ARTICOLO 15
In armonia con gli accordi intergovernativi tra i due paesi e altri documenti relativi alle responsabilità e ai diritti dei creditori, ogni parte riconosce
il diritto legale di proprietà dei beni e di altre proprietà che appartengono all’altra parte e che sono localizzate all’interno del territorio dell’altra parte contraente.
ARTICOLO 16
Sulla base del reciproco beneficio, le parti contraenti svilupperanno la
cooperazione in alcuni settori come l’economia e il commercio, l’abilità militare, la scienza e la tecnologia, le risorse energetiche, i trasporti, l’energia nucleare, la finanza, l’aviazione e l’aerospazio, l’informazione tecnologica e altri
campi di comune interesse. Esse promuoveranno la cooperazione commerciale ed economica nelle aree di confine e nelle regioni locali tra i due paesi e creeranno le condizioni necessarie e favorevoli a questo riguardo in accordo con
le leggi di ciascun paese. Le parti contraenti aumenteranno energicamente e
svilupperanno scambi e cooperazione nella cultura, nell’educazione, nella salute, nell’informazione, nel turismo, nello sport e nei settori legali. In accordo
con le proprie leggi nazionali e con i trattati internazionali dei quali hanno preso parte, le parti contraenti proteggeranno e manterranno i diritti di proprietà
intellettuale, inclusi il copyright e altri rilevanti diritti.
ARTICOLO 17
Le parti contraenti svilupperanno la cooperazione all’interno di istituzioni finanziarie mondiali, organizzazioni economiche e forum, e in linea con i
ruoli e i regolamenti delle istituzioni, delle organizzazioni e forum sopramenzionati faranno gli sforzi necessari per promuovere la partecipazione di ogni
parte contraente nelle istituzioni sopramenzionate di cui l’altra parte contraente fosse già membro (o stato membro).
ARTICOLO 18
La parte contraente coopererà nel promuovere la realizzazione dei diritti
umani e delle libertà fondamentali in accordo con gli obblighi internazionali
in cui ciascuna si è impegnata e con le leggi nazionali di ciascun paese.
147
In linea con gli obblighi internazionali nei quali ognuna delle parti contraenti si è impegnata e in linea con le leggi e i regolamenti di entrambi i paesi, ciascuna parte contraente prenderà le giuste misure per garantire i diritti
legali e gli interessi delle persone legali e delle persone naturali di entrambe le
parti contraenti che risiedano all’interno del territorio, e provvederà alla necessaria assistenza legale su questioni di tipo civile e penale.
I relativi ministeri delle parti contraenti, in accordo con le relative leggi,
condurranno ricerche e cercheranno una soluzione ai problemi e alle dispute
nati dal processo di cooperazione e di attività di affari tra persone legali e persone fisiche all’interno del territorio dell’altro contraente.
ARTICOLO 19
Le parti contraenti porteranno avanti la cooperazione nell’ambito della
protezione e del miglioramento dell’ambiente, della prevenzione dell’inquinamento di confine, dell’uso razionale delle risorse idriche lungo le aree di confine e dell’uso di risorse biologiche nel Pacifico settentrionale e nelle aree dei
fiumi di confine; faranno sforzi in comune per proteggere la flora in estinzione, la fauna e l’ecosistema naturale, e attueranno una cooperazione per prevenire il causarsi di incidenti nati da disastri naturali o ragioni tecniche e per eliminare gli eventuali loro effetti.
ARTICOLO 20
Le parti contraenti, in accordo con le leggi di ogni paese e con gli obblighi internazionali che ognuno si è assunto, coopereranno attivamente nel
debellare terroristi, estremisti, separatisti, e nel prendere misure rigide contro le attività criminali di crimini organizzati, di traffico illegale di droga,
sostanze stupefacenti e armi. Le parti contraenti svilupperanno la cooperazione per trattare severamente l’immigrazione illegale, incluso il trattamento più severo sul trasporto illegale di persone attraverso il proprio territorio.
ARTICOLO 21
Le parti contraenti riservano grande importanza agli scambi e alla cooperazione tra gli organi centrali legislativi e le autorità deputate a far osservare la
legge nei due paesi.
148
Le parti contraenti promuoveranno con grandi sforzi gli scambi e la cooperazione tra gli organi giudiziari dei due paesi.
ARTICOLO 22
Questo Trattato non pregiudica i diritti e gli obblighi delle parti contraenti in altri trattati internazionali dei quali sono firmatari, né è diretto verso un
paese terzo.
ARTICOLO 23
Per mettere in atto il presente Trattato, le parti contraenti promuoveranno attivamente la firma di accordi in specifici settori che sono di comune interesse.
ARTICOLO 24
Il Trattato ha bisogno di essere ratificato ed entrerà in vigore dalla data di
scambio degli strumenti di ratifica. Lo scambio degli strumenti di ratifica avrà
luogo a Pechino.
ARTICOLO 25
Il termine di validità del presente Trattato è di venti anni. Se nessuna delle parti contraenti notifica all’altra in forma scritta il desiderio di porre termine al Trattato un anno prima della scadenza dello stesso, esso sarà automaticamente rinnovato per altri cinque anni e continuerà in accordo con questa
statuizione.
Stipulato a Mosca il 16 luglio 2001 in due copie, ognuna nelle lingue cinese e russa, entrambi i testi sono ugualmente autentici.
Il Rappresentante della Repubblica popolare cinese
Jiang Zemin
Il Rappresentante della Federazione russa
Vladimir Putin
149
B) DATI NUMERICI
CONFRONTO DELLE CAPACITÀ MILITARI
STATI
UNITI
Organico totale attivo
CINA
POPOLARE
TAIWAN
GIAPPONE
1.427.500
2.360.000
305.000
238.200
Missili balistici intercontinentali a testata nucleare ICBM
550
110
0
0
Missili balistici intermedi a testata nucleare IRBM
0
598
0
0
Missili balistici a corto raggio
a testata nucleare SRBM
0
142
0
0
Missili balistici a testata nucleare lanciabili da sottomarini
432
12
0
0
485.500
1.700.000
200.000
148.200
Forze strategiche
Esercito
Organico
Carri armati pesanti
7.620
7.180
926
1.020
Autocarri pesanti
14.300
4.500
950
830
Pezzi di artiglieria
1.547
15.200
1.465
650
51
0
0
0
Elicotteri d’attacco
1.133
327
0
90
Elicotteri non armati
3.464
–
220
363
400.000
250.000
45.000
44.400
Sottomarini lanciamissili balistici SSBN
18
1
0
0
Sottomarini lanciamissili da
crociera SSGN
35
1
0
0
Sottomarini nucleari d’attacco
21
0
0
0
0
61
4
16
12 (di cui 9
a propulsione
nucleare)
0
0
0
27
0
0
0
Unità anfibie
Marina
Organico
Sottomarini convenzionali
Unità Portaerei
Incrociatori
150
STATI
UNITI
CINA
POPOLARE
TAIWAN
GIAPPONE
Caccia
49
21
11
45
Fregate
30
42
21
9
Cacciamine
26
39
12
31
Unità anfibie
40
56
18
8
Unità logistiche e di rifornimento
35
36
5
4
Aerei da combattimento dell’aviazione navale
1.705
248
32
80
Elicotteri dell’aviazione navale
1.887
51
20
133
Corpo dei Marines
Organico
174.400
10.000
15.000
0
Carri armati
403
0
0
0
Pezzi di artiglieria
926
–
–
0
Aerei da combattimento del
US Marine Corp
667
0
0
0
Elicotteri del US Marine Corp
730
0
0
0
367.600
400.000
45.000
45.600
203
20
0
0
Aerei da combattimento
3.513
1.826
479
270
Aerei da trasporto
1.069
513
19
40
208
90-100
35
–
Aeronautica
Organico
Bombardieri strategici
Elicotteri
Fonte: International Institute for Strategic Studies, The Military Balance 2003/04.
151
152
9.295
TAIWAN
479
167
21
1.592
1985
356
309
33
1.049
2001
2002
336
290
37
1.138
US $ procapite
7.0
1.0
4.9
6.1
1985
2.8
1.0
3.7
3.1
2001
% di PIL
Fonte: International Institute for Strategic Studies, The Military Balance 2003/04.
7.479
20.139 39.365 37.070
GIAPPONE
7.872
21.616 42.335 48.380
RPC
2002
380.899 299.917 329.616
2001
USA
1985
US $ milioni
Spese per la difesa
CONFRONTO DELLO SVILUPPO DELLA CAPACITÀ MILITARE E DELLA DIFESA
1985
2.7
1.0
4.1
444
243
3.900
3.3 2.151.6
2002
(000)
2002
(000)
370
239.9
2.270
1.657
47
550
26.7
12.2
1.500
53
2002
Riservis
Parati estimilitari
mati
1.414 1.259.3
2002
Numeri nelle
FF.AA
153
– LRCM con raggio di 2.000 km
CSS-2
CSS-N-3
CSS-N-4
CSS-6/M-9
CSS-7-X-7 Mod 2
CSS-5 Mod 1
CSS-5 Mod 2
–
–
–
Missili Cruise di nuova generazione
DF-3
J-1
J-2/JL-2
DF-15/M-C
DF-11/M-11
DF-21
–
DF-31
DF-41
DF-61
–
ICBM: Missili balistici intercontinentali
MIRV: Testate multiple a rientro indipendente
IRBM: Missili balistici a raggio intermedio
IRCM: Missili Cruise a raggio intermedio
SLBM: Sottomarini lanciamissili balistici
MRBM: Missili balistici a medio raggio
LRCM: Missili Cruise a lungo raggio
Fonte: Jane’s Sentinel Security Assessment, China and Northeast Asia Issue 2004.
0
CSS-3
IRCM (sviluppato con la Corea del
Nord)
0 IRCM (in corso di sviluppo)
0 ICBM (in corso di sviluppo)
– MRBM con raggio 2.400-3.000 km
8 MRBM con raggio di 2.150 km
– SRBM con raggio di 300 km
4 SRBM con raggio di 600 km
12 SRBM (in corso di sviluppo)
12 SLBM (1 sottomarino in servizio)
38 IRBM con raggio di 2.000-3.000 km
12 ICBM con testata esplosiva singola
7 ICBM con MIRV in alcuni
CSS-4
DF-4
TIPO
DF-5
NUMERO IN SERVIZIO
DESIGNAZIONE USA
DESIGNAZIONE CINESE
ARSENALE MISSILISTICO DELLA CINA POPOLARE
DATI RELATIVI ALLA POPOLAZIONE DELLA CINA POPOLARE
1990
Popolazione
1.133.700.000
1.265.800.000
21.1
14.4
Tasso di nascita (% per 1.000 abitanti)
Tasso di crescita naturale (% per 1.000 abitanti)
Popolazione cinese Han
2000
14.4
7.6
1.042.500.000
1.159.400.000
Popolazione minoranze etniche
91.200.000
106.400.000
299.700.000
458.400.000
Popolazione urbana (%)
26.4
36.2
Popolazione 0-14 anni (%)
27.7
22.9
Popolazione 15-64 anni (%)
66.7
70.2
5.6
7.0
Popolazione urbana
Popolazione oltre i 65 anni (%)
Fonte: The Economist Intelligence Unit, Country Profile 2004 – China.
DATI RELATIVI AL PRODOTTO INTERNO LORDO DELLA CINA POPOLARE
2001
PIL (US $)
2002
2003
1.2 tr
1.3 tr
Reddito pro-capite (US $)
920
970
Tasso di crescita del PIL (%)
7.3
8.0
0.7
1.0
Inflazione (%)
Debito pubblico (US $)
170 bln
Spese per la Difesa (US $)
43.5 bln
51 bln
17 bln
20 bln
Budget per la Difesa (US $)
Popolazione
22.4 bln
1.299.278.000
Popolazione maschile 13-17 anni
52.707.000
Popolazione femminile 13-17 anni
50.049.000
Popolazione maschile18-22 anni
46.251.000
Popolazione femminile 18-22 anni
43.196.000
Popolazione maschile 23-32 anni
119.898.000
Popolazione femminile 23-32 anni
112.665.000
Fonte: International Institute for Strategic Studie, The Military Balance 2003/04.
154
155
1999
2000
0.4
8.0
1,080.7
2001
0.7
7.5
1,175.7
2002
- 0.8
8.0
1,266.1
2003
1.2
9.1
1,446.9
249.1
214.7
–
–
145.7
–
194.7
158.7
–
–
152.1
–
–
170.1
–
–
232.1
266.1
9.7
177.2
2.9
16.8
281.5
325.7
10.1
195.1
2.8
30.4
393.6
438.3
1.250.500.000 1.261.800.000 1.273.100.000 1.284.300.000 1.295.200.000
- 1.5
7.1
991.4
Fonte: The Economist Intelligence Unit, Country Report June 2004 – China.
Export di beni
(US $ bln)
Import di beni
(US $ bln)
Crescita di produzione industriale (%)
Crescita di produzione agricola (%)
Debito totale estero
(US $ bln)
Tasso di disoccupazione (%)
Popolazione
Inflazione (%)
Crescita del PIL (%)
PIL (US $ bln)
INDICATORI ECONOMICI ANNUALI DELLA CINA POPOLARE
9.8
215.5
2.7
17.1
503.2
533.4
–
3.3
9.4
–
2004
9.2
235.5
2.6
16.2
593.5
627.9
–
2.0
8.1
–
2005
156
36.206
23.780
31.289
- 7.509
10.571
28.544
TRADE BALANCE
Services Credit
Services Debit
SERVICES BALANCE
Income Credit
Income Debit
20.519
6.311
550
6.861
- 14.665
27.216
12.551
- 5.601
36.031
30.430
34.474
214.657
249.131
2000
Fonte: The Economist Intelligence Unit, Country Report June 2004 – China.
4.943
15.667
CURRENT-ACCOUNT BALANCE
424
Current Transfers Debit
CURRENT TRANSFERS BALANCE
5.367
Current Transfers Credit
- 17.973
158.510
Merchandise Imports
INCOME BALANCE
194.716
1999
Merchandise Exports
US $ Mil
RESOCONTO CORRENTE DELLA CINA POPOLARE
17.405
8.492
632
9.125
- 19.173
28.563
9.390
- 5.931
39.266
33.335
34.017
232.058
266.075
2001
35.423
12.984
811
13.795
- 14.945
23.289
8.344
- 6.783
46.528
39.745
44.167
281.484
325.651
2002
45.876
17.634
848
18.482
- 7.838
23.933
16.095
- 8.572
55.306
46.734
44.652
393.618
438.270
2003
157
Export
33.722
27.105
22.059
7.618
6.612
5.118
4.501
3.958
3.673
3.532
3.234
2.955
2.620
2.399
2.234
2.232
2.196
1.662
162.741
% di scambio
34.1
29.3
22.8
34.2
35.5
39.3
38.6
41.9
39.7
25.0
34.5
61.4
26.1
41.2
35.1
52.2
37.3
24.4
33.4
% totale
20.7
16.7
13.6
4.7
4.1
3.1
2.8
2.4
2.3
2.2
2.0
1.8
1.6
1.5
1.4
1.4
1.3
1.0
100.0
Fonte: The Economist Intelligence Unit, Country Report June 2004 – China.
US $ bln
USA
Hong Kong
Giappone
Corea del Sud
Germania
Olanda
America Latina
Regno Unito
Taiwan
Africa
Singapore
Francia
Italia
Australia
Malesia
Russia
Canada
Indonesia
Totale
PAESI DESTINATARI DEL COMMERCIO DELLA CINA POPOLARE
Gennaio – aprile 2004
Import
15.696
3.495
29.723
19.088
9.625
785
5.875
1.418
19.984
4.497
4.325
2.095
1.924
3.444
5.614
3.937
2.235
2.213
173.493
% di scambio
41.5
0.0
33.5
52.2
38.3
20.3
80.1
31.4
39.8
49.7
42.3
23.0
16.7
57.6
43.1
29.4
60.1
41.5
42.4
% totale
9.0
2.0
17.1
11.0
5.5
0.5
3.4
0.8
11.5
2.6
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1.2
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3.2
2.3
1.3
1.3
100.0
Finito di stampare nel mese di marzo 2006
da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali
per conto di Rubbettino Editore Srl
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Collana Ce.Mi.S.S. – Serie Blu
11
Il reclutamento in Italia (1989) (Autori Vari)(*)
12
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1506 al 1870, Vol. I (1989) V. Ilari (*)
13
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1871 al 1918, Vol. II (1990) V. Ilari (*)
14
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1919 al 1943, Vol. III (1990) V. Ilari (*)
15
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1943 al 1945, Vol. IV (1991) V. Ilari (*)
15/bis Storia del Servizio Militare in Italia – La difesa della Patria (1945-1991) Vol. V
– “Pianificazione operativa e sistema di reclutamento” (1992) V. Ilari (*)
15/ter Storia del Servizio Militare in Italia – La difesa della Patria (1945-1991) Vol. V
- “Servizio militare e servizio civile – Legislazione statistiche” (1992) V. Ilari (*)
16
Soppressione della leva e costituzione di Forze Armate volontarie (1990) P.
Bellucci, A. Gori (*)
16/a Servizio di leva e volontariato: riflessioni sociologiche (1990) M. Marotta, L.
Labonia (*)
17
L’importanza Militare dello spazio (1990) C. Buongiorno, S. Abbà, G. Maoli,
A. Mei, M. Nones, S. Orlandi, F. Pacione, F. Stefani (*)
18
Le idee di “difesa alternativa” ed il ruolo dell’Italia (1990) F. Calogero, M. De
Andreis, G. Devoto, P. Farinella (*)
19
La “policy science” nel controllo degli armamenti (1990) P. Isernia, P. Bellucci, L. Bozzo, M. Carnovale, M. Coccia, P. Crescenzi, C. Pelanda (*)
10
Il futuro della dissuasione nucleare in Europa (1990) S. Silvestri (*)
11
I movimenti pacifisti ed anti-nucleari in Italia 1980-88 (1990) F. Battistelli, P.
Isernia, P. Crescenzi, A. Graziani, A. Montebovi, G. Ombuen, S. Scaparra, C.
Presciuttini (*)
12
L’organizzazione della ricerca e sviluppo nell’ambito Difesa, Vol. I (1990) P. Bisogno, C. Pelanda, M. Nones, S. Rossi, V. Oderda (*)
12/bis L’organizzazione della ricerca e sviluppo nell’ambito Difesa, Vol. II (1990) P.
Bisogno, C. Pelanda, M. Nones, S. Rossi, V. Oderda (*)
13
Sistema di programmazione generale finanziaria ed ottimizzazione delle risorse in ambito Difesa (1990) G. Mayer, C. Bellinzona, N. Gallippi, P. Mearini, P.
Menna (*)
14
L’industria italiana degli armamenti (1990) F. Gobbo, P. Bianchi, N. Bellini, G.
Utili (*)
15
La strategia sovietica nella regione meridionale (1990) L. Caligaris, K.S.
Brower, G. Cornacchia, C.N. Donnelly, J. Sherr, A. Tani, P. Pozzi (*)
16
Profili di carriera e remunerazioni del personale militare e civile dell’Amministrazione dello Stato delle qualifiche direttive e dirigenziali (1990) D. Tria, T.
Longhi, A. Cerilli, A. Gagnoni, P. Menna (*)
17
La riconversione dell’industria per la Difesa (1990) S. Rossi, S. Rolfo, N. Bellini (*)
18
Il trasferimento di tecnologie strategicamente critiche (1990) S. Rossi, F. Bruni Roccia, A. Politi, S. Gallucci (*)
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Nuove concezioni del modello difensivo italiano (1990) S. Silvestri, V. Ilari, D.
Gallino, A. Politi, M. Cremasco (*)
Warfare simulation nel teatro mediterraneo (1990) M. Coccia (*)
La formazione degli Ufficiali dei Corpi Tecnici (1990) A. Paoletti, A. D’Amico, A. Tucciarone (*)
Islam: problemi e prospettive e le politiche dell’Occidente (1990) R. Aliboni,
F. Bacchetti, L. Guazzone, V. Fiorani Piacentini, B.M. Scarcia Amoretti, P.G.
Donini, F. Bacchetti (*)
Effetti economici della spesa della Difesa in Italia (1990) A. Pedone, M. Grassini (*)
Atto unico europeo e industria italiana per la Difesa (1990) F. Onida, M. Nones, G. Graziola, G.L. Grimaldi, W. Hager, A. Forti, G. Viesti (*)
Disarmo, sviluppo e debito (1990) C. Pelanda (*)
Yugoslavia: Realtà e prospettive (1990) C. Pelanda, G. Meyer, R. Lizzi, A. Truzzi, D. Ungaro, T. Moro (*)
Integrazione militare europea (1990) S. Silvestri (*)
La Rappresentanza Militare in Italia (1990) G. Caforio, M. Nuciari (*)
Studi strategici e militari nelle università italiane (1990) P. Ungari, M. Nones,
R. Luraghi, V. Ilari (*)
Il pensiero militare nel mondo musulmano – Credenti e non credenti: il pensiero militare e la dottrina di Jaid, Vol. I (1991) V. Fiorani Piacentini (*)
Costituzione della difesa e stati di crisi per la difesa nazionale (1991) G. de Vergottini (*)
Sviluppo, armamenti, conflittualità (1991) L. Bonante, F. Armao, M. Cesa, W.
Coralluzzo (*)
Il pensiero militare nel mondo musulmano – Teoria e prassi la dottrina classica della Jihad e una fra le sue molteplici esperienze geocrafico-culturali: l’Asia
Centrale, Vol. II (1991) G. Ligios, R. Radaelli (*)
La “condizione militare” in Italia – I militari di leva, Vol. I (1991) M. Marotta,
M.L. Maniscalco, G. Marotta, S. Labonia, V. Di Nicola, G. Grossi (*)
Valutazione comparata dei piani di riordinamento delle FF.AA. dei Paesi dell’Alleanza Atlantica (1991) D. Gallino (*)
La formazione del Dirigente Militare (1991) F. Fontana, F. Stefani, G. Caccamo (*)
L’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia (1991) P. Bellucci, C.M.
Redaelli (*)
La “Condizione Militare” in Italia - Fenomenologia e problemi di devianza
(1991), Vol. III G. M. Marotta (*)
La Dirigenza Militare (1992) S. Cassese, C. D’Orta (*)
Diritto Internazionale per Ufficiali della Marina Militare (1993) N. Ronzitti, M.
Gestri (*)
I volontari a ferma prolungata: un ritratto sociologico. Tomo I (I volontari a
ferma prolungata ed i Sottufficiali) (1993) F. Battistelli (*)
41/bis Sottufficiali delle Forze Armate. Idee propositive per migliorarne il reclutamento, lo statuto e la carriera. Tomo II (I volontari a ferma prolungata e i Sottufficiali) (1993) M. Marotta (*)
42
Strategia della ricerca internazionalistica (1993) L. Bonanate (*)
43
Rapporto di ricerca sui movimenti migratori e sicurezza nazionale (1993) G.
Sacco (*)
44
Rapporto di ricerca su nuove strutture di sicurezza in Europa (1993) S. Silvestri (*)
45
I sistemi di comando e controllo ed il loro influsso sulla sicurezza italiana
(1993) P. Policastro (*)
46
Le minacce da fuori area contro il fianco Sud della Nato (1993) R. Aliboni (*)
47
Approvvigionamento delle materie prime, crisi e conflitti nel Mediterraneo
(1993) G. Mureddu (*)
48
Lo sviluppo dell’aeromobilità (1993) A. Politi (*)
49
L’impatto economico delle spese militari in Emilia Romagna (1993) A. Bolognini, M. Spinedi, NOMISMA S.p.A. (*)
50
I paesi della sponda Sud del Mediterraneo e la politica europea (1994) R. Aliboni, B. Scarcia Amoretti, G. Pennisi, G. Lancioni (*)
51
I problemi della sicurezza nell’Est Europeo e nell’ex-Unione Sovietica (1994)
C. Pelanda, E. Letta, D. Gallino, A. Corti (*)
52
Il pensiero militare nel mondo musulmano - Ragion militare e ragion di Stato,
Vol. III (1994) V. Fiorani Piacentini (*)
53
Presupposti concettuali e dottrinali per la configurazione di una futura forza
d’intervento (1994) G. Caccamo (*)
54
Lo status delle navi da guerra italiane in tempo di pace ed in situazioni di crisi
(1994) A. de Guttry (*)
55
La “Condizione Militare” in Italia, “Ufficiali e Sottufficiali”, Vol. II (1994) M.
Marotta (*)
56
Crisi del bipolarismo: vuoti di potere e possibili conseguenze (1994) S. Romano, J.L. Harper, E. Mezzetti, C.M. Santoro, V. Dan Segre (*)
57
Il problema della quantificazione di dati attendibili sull’interscambio militareindustriale fra i vari Paesi (1994) S. Sandri, A. Politi (*)
58
Ottimizzazione della selezione del personale - Metodi e modelli di selezione e
organizzazione nelle Forze Armate italiane (1994) A. De Carlo (*)
59
Gestione della crisi: metodologie e strumenti (1994) P. Isernia (*)
60
Politica militare e sistema politico: i partiti ed il nuovo Modello di Difesa
(1994) P. Bellocci (*)
61
Sicurezza ed insicurezza nell’Europa post-comunista (1994) A. Rossi, P. Visani (*)
62
Indagine sulla propensione delle donne italiane a svolgere il servizio militare
(1994) R. Savarese (*)
63
L’impatto della presenza militare in Emilia Romagna: case study su Bologna
(1994) NOMISMA S.p.A. (*)
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L’impatto della presenza militare in Emilia Romagna “il caso Budrio”, il caso del “triangolo aeronautico”: Forlì, Cervia, Rimini, (1994) NOMISMA
S.p.A. (*)
Sistema di sicurezza dei Paesi del Golfo. Riflessi per l’Occidente (1995) S. Silvestri, R. Aliboni, L. Guazzone (*)
Sistema di controllo dell’esportazione degli armamenti e della tecnologia avanzata. Ammaestramenti delle crisi del Golfo (1995) A. Politi, A. de Guttry, S.
Gallucci, M. Bilbesi, M. Lastella (*)
Emergenza marittima e Forze Armate – Piani di emergenza e coinvolgimento
della Marina Militare in caso di gravi incidenti navali con versamenti di petrolio (1995) U. Bilardo, G. Mureddu (*)
Il ruolo del pilastro europeo della NATO nella definizione di un sistema di sicurezza integrato: rapporti istituzionali e industriali (1995) L. Caligaris, W.
Wessels, G. Treverton, J. Chipman, Laporta, G. Dottori, D. Ruiz-Palmer (*)
L’organizzazione e l’architettura C3I per il vertice decisionale nazionale (1995)
M. Nones, R. Romano, S. Silvestri, A. de Guttry (*)
La disintegrazione dell’impero sovietico. Problemi di sicurezza nazionale e collettiva in Asia Centrale (1995) V. Fiorani Piacentini, B. Nicolini, G. Pasini, G.
Pastori, R. Redaelli (*)
Evoluzione del rischio da Sud in connessione con il prevedibile progresso tecnologico e misure di difesa (1995) C.M. Santoro (*)
Presente e futuro della professione militare in Europa. L’Ufficiale italiano
(1995) G. Caforio, M. Nuciari (*)
Possibili effetti della legge sull’obiezione di coscienza sull’assolvimento dei
compiti istituzionali delle FF.AA. (1996) U. Pescatori, G. Muzzarelli
Lo Status delle Forze Armate italiane impegnate in operazione “fuori area”
condotte sotto l’egida di organizzazioni internazionali (1996) N. Ronzitti
Il potere aereo post-CFE (1996) A. Politi
La gestione disciplinare e normativa del personale volontario (1996) G. Gasperini, M. Negri (*)
Il soldato della complessità: tra specializzazione e flessibilità (1996) M. Negri,
G.B. Colucci
Il futuro della CFE. Il passaggio alla seconda fase di riduzione dopo la conclusione della prima (1996) M. Cremasco
La componente sicurezza/rischio negli scacchieri geopolitici Sud ed Est. Le
opzioni del Modello di Difesa italiano (1996) A. Colombo
La geopolitica del Mediterraneo: problemi e prospettive dell’Italia negli scenari futuri (1996) C. Giglio, P. Soave
La conoscenza come risorsa produttiva: le Forze Armate di fronte alla società
postmoderna (1996) F. Battistelli, T. Ammendola, M. Negri
Geoeconomia dei principali stati occidentali. Riflessi sull’Italia (1996) R. De
Santis, G. Vulpes
Le operazioni militari all’estero gestite al di fuori del sistema delle organizza-
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zioni internazionali o nel suo ambito: problemi giuridici o organizzativi per le
Forze Armate italiane (1996) A. de Guttry
La difficile scommessa. L’allargamento della NATO ad Est (1997) M. Cremasco
L’embargo e le altre misure economiche come mezzo di gestione e soluzione
delle crisi (1998) G. Pastori
La questione sindacale nell’evoluzione delle politiche strategiche della sicurezza in Italia - Osservazioni storico metodologiche (1998) A. Ciampani
Cooperazione dell’Italia con l’Austria, La Repubblica Ceka, la Slovenia, la
Croazia e l’Ungheria (1998) S. Mazzaroli
Elementi di diritto umanitario dei conflitti armati (Diritto italiano di bandiera)
(1998) A. Marcheggiano (*)
Italia e nucleare francese: attualità e prospettiva (1998) C. Paoletti (*)
Analisi delle spese per l’investimento dell’Esercito. Esame delle note aggiuntive: previsioni e scostamenti. Valutazioni sulle principali cause degli scostamenti (1998) M.T. Fiocca
Applicazioni spaziali civili di possibile interesse della Difesa (1998) M. Nones,
A. Traballesi
Lo Stratega mediatico (1998) P. Visani
Le prospettive di integrazione tra Unione Europea e Unione Europea Occidentale (1999) E. Letta
Prospettive di applicazione del D.D.L. di iniziativa governativa riguardante l’istituzione del servizio civile nazionale e della nuova legge sull’obiezione di coscienza (1999) C. Politi
Aspetti politici ed economici della European Security and Defence Identity nel
quadro di una integrazione degli eserciti europei (1999) A. Ferranti
Le zone di pesca nel Mediterraneo e la tutela degli interessi italiani, (1999) N.
Ronzitti
Il processo di approvvigionamento degli idrocarburi in situazione di crisi internazionale (1999) N. Pedde e V. Porfiri
Albania – (Manuali-Paese) (1999) a cura del Centro per l’Europa CentroOrientale e Balcanica (*)
Bosnia-Erzegovina – (Manuali-Paese) (1999) a cura del Centro per l’Europa
Centro-Orientale e Balcanica (*)
Proliferazione missilistica: stato ed evoluzione della minaccia e prospettive per
un sistema di difesa antimissile (1999) A. Nativi
Il controllo degli armamenti nella ex-Jugoslavia con particolare riferimento alla Bosnia-Erzegovina (1999) M. Cremasco
Peace Dividend. Aspetti teorici ed applicazioni al caso italiano (1999) G. Streppi
Evoluzione dei rapporti transatlantici nel settore della produzione industriale
della difesa, a fronte della costituzione dell’Europa degli armamenti (2000) A.
Traballesi
La geoeconomia delle imprese italiane: riflessi sulla gravitazione degli interessi geostrategici nazionali (2000) A. Cattaneo
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Strategic sealift: sviluppo e caratteristiche nazionali di un importante strumento di proiezione e di forza nel mediterraneo allargato (2000) G. Mureddu
Repubblica di Jugoslavia (Manuali-Paese) (2001) a cura del Centro per l’Europa Centro-Orientale e Balcanica
Fyrom: La Repubblica di Macedonia (Manuali-Paese) (2001) a cura del Centro per l’Europa Centro-Orientale e Balcanica
La corte penale internazionale, i crimini di guerra e le truppe italiane all’estero in missione di pace (2001) N. Ronzitti
Gli effetti delle sanzioni economiche: il caso della Serbia (2001) M. Zucconi
Il coordinamento interministeriale per la politica industriale della difesa: valutazione comparata tra la soluzione italiana e quella dei principali paesi europei
(2002) M. Nones
La difesa europea in ambito alleanza: una sfida per l’industria degli armamenti (2002) A. Traballesi
I diritti delle donne: le presenti strutture normative nel diritto internazionale
ed i loro effetti nei casi di conflitti etnici (2002) P. Brusadin
Il legame nazione-esercito: l’abolizione della leva basterà a rendere le forze armate meno impopolari tra i giovani? (2002) T. M. Blasi
La logistica degli anni 2000: ricorso a risorse esterne (outsourcing), contratti di
servizi, logistica integrata, contratti chiavi in mano. Evoluzione o rivoluzione?
(2003) F. Franceschini, M. Galletto, M. Borgarello
Cambiamenti organizzativi dell’industria statale della difesa: confronto con le
altre realtà europee, con particolare riferimento agli stabilimenti di manutenzione navale (2003) R. Stanglini
La bonifica umanitaria nel quadro della cooperazione civile e militare (2003)
F. Termentini
La questione di Cipro (2003) G. Sardellone
The international role of the European Union (2003) R. Balfour, E. Greco (edizione in lingua inglese)
Storia del Servizio Militare in Italia – il terzo dopoguerra (1921-2001), Vol. VI
(2003) V. Ilari, P.P. Battistelli
Cooperazione tra Forze Armate e Organizzazioni Non Governative nelle operazioni militari di risposta alle crisi (2003) M. Panizzi
Gli interventi in aree di crisi a favore della tutela del patrimonio culturale, in
applicazione ai dettati della convenzione dell’Aja: esperienze e prospettive
(2003) F. Parrulli
Ethnic conflict in the former Soviet Unioni (2004) V.V. Naumkin, L.S. Perepyolkin
Diritto Internazionale Umanitario Violazioni e crimini nelle nuove tipologie di
conflitto (2004) C.M. Polidori
I ritorni industriali negli approvvigionamenti internazionali: la negoziazione, il
concordamento ed il controllo dell’esecuzione (2004) R. Rufo
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Il ruolo della Telemedicina nel nuovo modello di Difesa (2004) M. Anaclerio
La certificazione dei prodotti aeronautici alla luce del D.P.R. 25 ottobre 1999
N. 556 (2004) B. Morelli, V. De Blasi
Sviluppo tecnologico ed evoluzione della dottrina d’impiego del potere aerospaziale (2004) A. Traballesi, N. Cardinali
La funzione dell’Intelligence nel contesto del processo decisionale (2004) A.
Politi
Le minacce “globali” alla sicurezza e all’ordine internazionale (2005) P. Soave
Norme sull’esercizio della giurisdizione delle Forze Armate inviate all’estero.
Tutela giuridica del personale (2005) D. Libertini
Le problematiche giuridiche relative alle Forze Armate impiegate all’estero
(2005) G. Bartolini
Bioterrorismo: il ruolo dei media nella gestione dell’emergenza (2005) E. Borghi
Collana Ce.Mi.S.S. – Serie Blu – Atti di convegni
•
•
•
•
•
South-Eastern Europe, bridge or border between civilizations (Atti del convegno tenutosi a Sofia nei giorni 17 e 18 ottobre 1997)
The Future of NATO’s Mediterranean Iniziative (1997) (Atti della conferenza
CeMiSS – RAND Corporation – Roma, 10 e 11 novembre 1997) (edizione disponibile anche in lingua araba)
NATO enlargement: situation and perspectives (Atti del convegno tenutosi a
Budapest dal 11 al 15 luglio 1998)
I reparti multinazionali come strumento della sicurezza regionale (Atti del 1°
seminario italo/polacco – Roma, 24 marzo 1999)
Centralità dell’Italia nello sviluppo delle relazioni Nord-Sud nel bacino del
Mediterraneo. Quale ruolo per la Sicilia? - Atti del Seminario di studio fra studenti dell’Ateneo palermitano ed Istituti di Formazione della Difesa (Palermo,
23-25 novembre 1999)
Altre pubblicazioni
•
•
•
•
Diritto Internazionale per Ufficiali della Marina Militare (1996) N. Ronzitti
(Ristampa della ricerca n. 40 sul supplemento della “Rivista Marittima” del luglio 1996)(*)
Un’intelligence per il XXI secolo (1999) G. Dottori
Il Neo-Terrorismo: suoi connotati e conseguenti strategie di prevenzione e contenimento (2001) V. Pisano
La dimensione marittima delle operazioni interforze in ambito europeo (2005)
G. Giorgerini
165
•
After the Iraq war: strategic and political changes in the Middle East (2005)
Ce.Mi.S.S.-Gloria
Collana Ce.Mi.S.S. – edizioni Franco Angeli
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365.59
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1136.42
1136.43
1136.44
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Giovani e Forze Armate (1996) F. Battistelli
L’industria della Difesa. L’Italia nel quadro internazionale (1996) F. Onida, G. Viesti
Scenari di sicurezza per l’Europa e l’Italia (1996) M. Cremasco
Società civile e processo di pace in Medio Oriente (1996) D.V. Segre
Interesse nazionale e interesse globale (1996) P. Portinaro (*)
La crisi del bipolarismo (1996) S. Romano (*)
Il pensiero militare nel mondo musulmano (1996) V.F. Piacentini
Rischio da Sud (1996) C.M. Santoro (*)
Evoluzione della Guerra (1996) C. Pelanda
L’invasione scalza (1996) G. Sacco
Pax Pacifica (1996) M. Dassù (*)
Il Sistema Italia (1996) CeMiSS; (Atti del convegno “Gli interessi nazionali italiani nel nuovo scenario internazionale” Roma, 25-26 giugno 1996)
Integrazione e sicurezza nel Mediterraneo – le opzioni dell’Occidente
(1997) P.C. Padoan
Russia e sistema di sicurezza Occidentale (1997) M. Cremasco
Difesa della Patria e interesse nazionale nella scuola (1997) R. Cartocci, A.
M. L. Parisi
La logica del disordine (1997) E. Zanoni
Alla ricerca dell’interesse nazionale (1997) A. L. Pirocchi, M. Brunelli
La politica di sicurezza tedesca verso il duemila (1997) G. Dottori, S. Marino
Medio Oriente e Forze di Pace (1997) G. Tappero Merlo
Armi e Disarmo (1997) F. Calogero, P. Miggiano, G. Tenaglia
Le missioni delle Forze Armate italiane fuori area (1997) A. de Guttry
La guerra civile in Rwanda (1997) Umwantisi
La “questione illirica” (1997) L. Bozzo, C. Simon Belli
Difesa, Politica e Società (1997) P. Bellucci
Partenariato nel Mediterraneo (1997) R. Aliboni
Combattere con le informazioni (1997) F. Pierantoni
Il conflitto Etnico (1997) R. Arbitrio
Geopolitica della salute (1997) B. Arrabito
Interessi nazionali e identità italiana (1997) F. Corsico
Missione in Bosnia (1999) T. Ammendola
Le armi inabilitanti non letali (1999) J. Alhadeff
L’Italia e l’Islam non Arabo (1999) G. Pastori, R. Redaelli (*)
Geopolitica della Turchia (1999) R. Aliboni
1136.45
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Antropologia e Peacekeeping (1999) A. Antoniotto (*)
Regionalismi economici e sicurezza (1999) L. Troiani (*)
Asia Centrale: verso un sistema cooperativo di sicurezza (1999) V.F. Piacentini
Macedonia: la nazione che non c’è (1999) L. Bozzo, C. Simon Belli (*)
Scenari strategici per il futuro (1999) M. Coccia
The Kosovo Quagmire. Conflict scenarios and method for resolution
(1999) L. Bozzo, C. Simon Belli (*)
Transizioni democratiche (2000) L. Bonanate
La Difesa Civile e il progetto Caschi Bianchi (2000) F. Tullio
La difficile sfida (2001) M. Cremasco (*)
L’Egitto tra Maghreb e Machrek (2001) C. Simon Belli
Le organizzazioni criminali internazionali (2001) M. Giaconi
La questione Kurda (2001) S. Mazzocchi, R. Ragionieri, C. Simon Belli
L’Europa centro-orientale e la NATO dopo il 1999 (2001) F. Argentieri
Europa – Stati Uniti: un Atlantico più largo? (2001) M. de Leonardis
The Effects of Economic Sanctions: the Case of Serbia (2001) M. Zucconi
Collana Ce.Mi.S.S. – edizioni A & P
1.09
1.10
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2.22
Security Threat perception in South – Eastern Europe (2001) CeSPI and EWI
La guerra incruenta (2001) F. Pierantoni
La politica di sicurezza e difesa dell’Unione Europea (2001) F. Attinà, F. Longo, C. Monteleone, S. Panebianco, P. Rosa
The flexible officer (2001) G. Caforio
Il documento di Washington: problemi politici e giuridici (2001) N. Ronzitti
UMA: Les difficultés d’une reconstruction régionale (1989-1999) (2001) K.
Chater
Peacekeeping: Polizia internazionale e nuovi ruoli militari tra conflitti etnici,
terrorismo, criminalità organizzata (2001) R. Bettini
Il XXI Secolo: Ipotesi e tendenze dei modelli di difesa negli scenari mondiali
(2001) C. M. Santoro
Sociological aspects concerning the relations within contingents of multinational units: The case of the Italian-Slovenian Hungarian Brigade (2001) G. Gasperini, B. Arnejčič e A.Ujj
Il ruolo della forza europea di reazione rapida: un quadro strategico degli anni duemila (2001) M. Cremasco
Il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali nei processi di peace building
(2002) M. Fiocca
La sicurezza in Europa dopo il Kosovo (2001) R. Menotti e R. Balfour
Il processo di integrazione del procurement militare in Europa (2001) L. Bertini
Towards a European security and defence policy (2002) Ce.Mi.S.S. – C.D.S.
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2.23
2.24
2.25
2.26
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2.28
Il ruolo internazionale dell’Unione Europea (2002) R. Balfour – E. Greco
Rapporto dal futuro. 2004: lo Stato dell’Europa e l’Europa come Stato (2002)
L. Bonanate
Changing U.S. defense policy and the war on terrorism: implications for Italy
and for U.S.-Italian relation (2002) Ce.Mi.S.S. – RAND
Il diritto dei trattati nelle attività di interesse delle FF.AA. (2003) N. Ronzitti
Le dinamiche palestinesi nella politica giordana, prospettive per la stabilità di
un pivotal state (2003) R. Storaci
Le cooperazioni rafforzate per la ristrutturazione dell’industria europea degli
armamenti (2003) G. Bonvicini – G. Gasperini
Collana Ce.Mi.S.S. - edizioni Rubbettino
04/1 The Errf and the Nrf – The European Rapid Reaction Force and the NATOReaction Force: Compatibilities and Choises (2004) – Ce.Mi.S.S. – C.D.S.
04/2 Transforming Italy’s Military for a New Era: Options and Challenges – (2004)
– Ce.Mi.S.S. – RAND
04/3 Globalization, Armed Conflicts and Security (2004) – A. Gobbicchi
04/4 Verso un concetto di Politica Estera Europea. Le sfide esterne e di sicurezza
per la UE (2004) – R. Balfour e R. Menotti
04/5 Comunicazione e politica internazionale. Mutamenti strutturali e nuove strategie (2004) – E. Diodato
04/6 La Nato dopo l’11 settembre. Stati Uniti ed Europa nell’epoca del terrorismo
globale (2004) – G. Dottori e M. Amorosi
04/7 La dimensione finanziaria del terrorismo e del contro-terrorismo transnazionale (2004) – M. Fiocca e S. Cosci
04/8 Islamist and Middle Eastern Terrorism: a Threat to Europe (2004) – M. do Céu
Pinto
04/9 Tra due culture. Le problematiche della famiglia del militare (2004) – M. A.
Toscano
04/10 Russia’s Western Orientation after 11th September (2004) – D. Sagramoso
04/11 Opinione pubblica, sicurezza e difesa europea (2004) – M.L. Maniscalco
04/12 Guidare il cambiamento: la leadership nelle Forze Armate Italiane (2004) – T.
Ammendola
05/1 Le forze di pace dell’Unione Europea (2005) – N. Ronzitti
05/2 Gli atteggiamenti dei giovani italiani verso il mondo militare (2005) – R. Strassoldo
05/3 Flussi migratori illegali e ruolo dei paesi di origine e di transito – A. Corneli
05/4 Mediterranean security after EU and Nato enlargement (2005) – CeMiSS – ZTBw
05/5 Nuove prospettive per l’Aeronave (2005) – N. Bonora
05/6 Modelli organizzativi “a rete” per gestire la ricerca militare in Italia (2005) – P.
Mari e A. Giovanetti
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05/7 L’Europa allargata: come cambia la politica estera europea? (2005) – R. Balfour
06/1 La componente spaziale nella difesa (2006) – F. Borrini
06/2 La Questione della Sicurezza nell’Evoluzione della Politica Estera della Repubblica Popolare Cinese (2006) – V. Ferretti
Paper Ce.Mi.S.S.
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L’evoluzione della politica di controllo delle esportazioni di materiali d’armamento e di alta tecnologia dual use alla luce della nuova intesa “The Wassenar
Arrangement” (1998) A. Politi, S. Ruggeri
L’Ucraina nuovo architrave della sicurezza europea (1999) F. Argentieri
L’impatto dell’evoluzione sul futuro campo di battaglia (1999) ISTRID
Disordine, Sicurezza, Stabilità. Il sistema internazionale ed il ruolo per l’Italia
(1999) P. Soave
Research-Papers on Balcans and Caucasus. A Russian Point of View (1999) N.
Arbatova – V. Naumkin
Resources and economic cooperation in the Caspian and Black sea region and
security in south-eastern Europe (1999) N. Behar
Western European Union: operational capabilities and future perspectives
from the national point of view (1999) S. Giusti (*)
Conflict management in Europe on the return of the century (1999) I. Gyarmati
Risks for Russia’s security in the next decade: repercussion on the country’s domestic, foreign and defence policies (2000) I.B. Lada
Central-Eastern Europe and the process of approaching western institutions
(2000) B. Klich, B. Bednarczyk, A. Nowosad, M. Chorosnicki - .Institute for
Strategic Studies “Studies and Analyses” – Krakòw (*)
Institutions and civil society: crucial aspects of a peace process (2000) A. Corazza Bildt
Projects of exploitation of the Caspian Sea Central Asia energy resources: impact on relations between the states involved and the stability in the region
(2000) V. Naumkin
The CIS Security cooperation: problems and prospects (2000) – A.G. Arbatov,
A.A. Pikayev; S. K. Oznobischev; V.E. Yarynich - ISS Mosca;
Is the establishment of a national security policy for a Bosnia – Herzegovina
possible? (2000) S. Turkovic (*)
The regional co-operation initiatives in the black sea area and their influence
on security in the Romania-Moldova-Ukraine region (2000) A. Pop
The regional and circum-regional co-operation initiatives in South-East Europe and their influence on security (2000) Center for National Security Studies
– Sofia
Possible developments in the Balkans in the medium term (2000) E. Kojokine
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Catalogo ragionato delle pubblicazioni CeMiSS (1987-1999) (2000) V. Ghiotto
Il controllo della qualità degli approvigionamenti della Amministrazione della
Difesa, con particolare riferimento ai servizi. (2000) Politecnico di Torino
Il futuro delle forze armate nell’era dell’information technology (2000) A. Ferranti
L’evoluzione della minaccia e l’alea di rischio delle nazioni moderne (2000) V.
Porfiri – N. Pedde
The post – Yeltsin Russia: the main trends in domestic and foreign policy evolution (2001) N. Arbatova
European transport corridors and security in south eastern Europe (2001) Institute for Social and Political Studies – Sofia
Società e Forze Armate in Albania (2001) R. Devole
La politica estera e di sicurezza italiana nell’Europa Sud – Orientale e l’iniziativa quadrilaterale (2001) R. Umana
Tendenze dello sviluppo della dottrina militare della Russia (2001) M. Gareev
Maghreb Alaqsa. L’estremo Occidente (2001) M. Giaconi
Le politiche della ricerca militare e duale nei principali paesi industrializzati
(2001) M. Nones, G. Perani, S. Rolfo
La cultura del peacekeeping (2002) T. Bergantini
Ottimizzazione della contrattualistica di Forza Armata (2003) R. Pardolesi
Possibili forme di coinvolgimento degli Stati facenti parte del dialogo mediterraneo della NATO in PSOs (2004) L.P. Zema, M.E. Gattamorta
(*) pubblicazione esaurita
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