numero 26 anno VII – 8 luglio 2015

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SALA E IL BALLETTO TRAGICOMICO DEI NUMERI DI EXPO
Luca Beltrami Gadola
Già dopo le prime due settimane di
apertura si era capito: il numero vero dei visitatori di Expo2015 sarebbe stato un mistero. Chi ovviamente
ne dispone, Giuseppe Sala, pensa
che siano un fatto personale, quasi
che Expo fosse la sua bottega e
non un evento nazionale e milanese
realizzato con denaro pubblico e
dunque dove la trasparenza dei dati
non è un optional ma al contrario un
atto dovuto.
Probabilmente Sala ritiene che il
numero dei visitatori sia il termometro del successo di Expo e quindi
sia la sua pagella, sua e del gruppo
dirigente che ha realizzato la manifestazione, tanto è vero che, preoccupato, ha inventato all’ultimo minuto l’ingresso serale a 5 euro: scelta
nemmeno concordata con il Comune di Milano e che ha provocato polemiche e una certa irritazione da
parte degli esercenti rappresentati
da Confcommercio.
Premesso che il numero dei visitatori non è l’unico indice di successo, si
ha l’ennesima conferma dello squilibrio dei rapporti tra Expo e Comune
dove la parte assegnata al Comune
e alla cittadinanza sia in sostanza
subalterna, una sorta padron di casa che affitta l’avita dimora per un
“evento”, insomma una bella “location” come si dice ormai da qualche
tempo, dimenticando l’italiano. Ma
Milano non è solo una “location”,
Milano ci ha messo del suo, ci ha
messo il suo “brand” indispensabile
che, come giustamente continua a
predicare Stefano Rolando incaricato del Comune di promuovere appunto il “Brand Milano”, è un patrimonio collettivo della cittadinanza.
Dunque Milano in Expo2015 è,
quantomeno, un partner alla pari e
di conseguenza sarebbe del tutto
legittimo che i dati, tutti i dati, che
concernono Expo siano resi noti
senza tante storie: quanti i visitatori
totali alla scadenza del mese, quanti
visitatori per ogni mese, rispettivamente nella fascia dalle 10 alle 19 e
dalle 19 alle 23 e fino alle 24 il sabato e i festivi. Contemporaneamente i dati degli incassi: quanti i biglietti
venduti direttamente, quanti tramite
agenzia e i relativi ricavi.
Tacere è colpevole, dimostra scarso
rispetto verso la città, grave anzi
gravissimo per chi avrebbe come
altri nello zaino il bastone di Maresciallo, la carica di Sindaco, ma che
vorrebbe competere avvalendosi
della posizione in Expo e della relativa visibilità. Ho avuto modo di accertare che questi dati vengono
persino taciuti al Comune: spero di
aver capito male e di essere smentito. La miglior smentita saranno la
comunicazione dei dati stessi.
Qualcuno dovrà anche giustificare
tanta “resistenza”.
Ma veniamo alle notizie di altra fonte su Expo e dintorni. Esercenti e
taxisti sono i più critici: i primi accusano Expo di averli danneggiati con
l’apertura dalle 19 alle 23 e fino alle
24 il sabato e i festivi, i secondi addirittura una riduzione del numero
delle corse. Gli albergatori sono appena appena soddisfatti e forse si
pentono di aver alzato troppo i
prezzi, troppo alti per il turismo famigliare tipico delle esposizioni universali: per questo turismo, che è lo
zoccolo duro di Expo, la parte del
leone la fa Airbnb e l’ospitalità privata. In controtendenza i pagamenti
con carta Visa sono aumentati, il
che lascerebbe supporre l'arrivo di
stranieri. Anche questo dato, il numero di visitatori stranieri, dovrebbe
essere in qualche modo ufficializzato.
Generalmente si nota una ricaduta
fiacca sulla città da parte dei turisti
di fuori Milano mentre i milanesi sono soddisfatti di Expo in Città, il
progetto gestito da Comune e Camera di Commercio, che ha offerto,
soprattutto a loro, migliaia di occasioni di cultura e di reciproca conoscenza tra attori culturali ed economici della città. Quel che si dice un
effetto collaterale positivo che fa
pendere ancora di più la bilancia
verso il partner comunale di Expo.
Un solo rammarico. Fin dal 2009
prese avvio un progetto dal titolo
Expo diffusa e sostenibile e la prima
presentazione del progetto di ricerca avvenne in occasione degli Stati
Generali di Expo convocati da Formigoni nel luglio di quell’anno. La
presentazione del progetto e della
piattaforma di e-collaboration cofinanziata dalla Fondazione Cariplo e
dal Politecnico è del dicembre 2010
cui seguì la pubblicazione/atlante di
Expo Diffusa e Sostenibile nel febbraio 2011.
Tutti ne parlarono e lo studio
dell’architetto Emilio Battisti divenne
la sede di un acceso dibattito.
L’interesse fu generale e l’attenzione viva in tutti i luoghi di espressione della “cittadinanza attiva”. Un
solo sordo in città: la dirigenza di
Expo 2015. L’arroganza di chi non
vuol dare ascolto a nessuno. Forse
molte delle indicazioni emerse dal
progetto Expo diffusa e sostenibile
avrebbero garantito una maggior
ricaduta su Milano e su di un territorio vasto.
A novembre, quando una decisione
sarà inevitabile, il destino delle aree
del dopo Expo sarà ancora un caso
di sordità istituzionale?
CITTÀ METROPOLITANA E PIANO STRATEGICO: IL MOMENTO DELLE SCELTE
Stefano Rolando
Matteo Bolocan Goldstein, presidente del Centro Studi del PIM incaricato di dare attuazione "relazionata" alla redazione del Piano strategico della Città Metropolitana di Milano, ha messo meritoriamente intorno al tavolo una squadra interessante di soggetti universitari, consulenziali, professionali, associativi e ben inteso - istituzionali per fissare
punti di metodo condivisi nel momento in cui il "piano" potrebbe diventare "proposta".
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Il dibattito ha prodotto un venticello
di mescolamento tra dinamiche istituzionali (partiti, istituzioni, associazionismo della rappresentanza) e
dinamiche esperienziali (conoscenza, volontariato, cultura di impresa,
associazionismo civile) nel tentativo
di stare nei vincoli della domanda
(la brutta legge Delrio, un bilancio
già in deficit prima di cominciare, il
rischio di essere travolti dai luoghi
comuni che l'imminente campagna
elettorale potrebbe produrre al ri-
guardo); ma anche di farsi contaminare da qualche istanza salvifica.
Il solo inventario delle domande sugli esiti dei processi in corso (a cominciare da quella più ricorrente,
cosa succederà dopo Expo?) è un
contributo alla coesione metodologica del "cantiere". Ma serpeggia
anche un obiettivo che corrisponde
a un conflitto vero e che ci auguriamo superabile: i contorni della città
metropolitana amministrativa non
corrispondono a quelli della città
metropolitana sociale-economica2
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infrastrutturale e identitaria che riguarda gli assi Milano - Brescia e
Milano - Bergamo, che investe integralmente l’area di Monza e Brianza
e il lodigiano, che tocca nevralgicamente i corridoi di avvicinamento di
grandi poli di urbanizzazione sovranazionali.
Da questo punto di vista il mio contributo - cioè espresso al tavolo in
rappresentanza del Comitato Brand
Milano - sul rapporto tra cittadinanza e partecipazione a questo processo, che passa attraverso analisi
e prefigurazione della condizione
identitaria e attraverso la praticabilità di un vero dibattito pubblico
(brand come narrazione del mutamento identitario) è accolto con interesse. Già questo mette in concreta
connessione due cantieri nati diversi
e fatti per collaborare.
Ma la discussione avviata - con il
contributo di chi ha sottomano i dati
di omologhi cantieri importanti nel
mondo, soprattutto con esperienze
studiate e valutate - offre una possibilità maggiore. Offre cioè alla politica, ai media, alle imprese e a tutti i
soggetti interessati, la possibilità di
rinnovare profondamente la gerarchia dei fattori che una volta avrebbero occupato un "piano strategico
territoriale" con i noti temi dell'urbanistica, dei trasporti, della casa e del
lavoro, segnalando il rilievo dei fattori che nel mondo stanno diventando strategici: resilienza, sostenibilità, mobilità, identità, competitività.
Si costituisce insomma una nuova
mappa integrata che funzionerà se
avrà centrato con realismo almeno il
confine temporale del piano. Gli esempi internazionali non fanno testo, vanno da 3 a 30 anni. La data
che la città metropolitana di Milano
sceglierà dovrà essere intelligente e
non improvvisata. Tanto nessun potere in una democrazia accettabile
può immaginare di controllare progetto e attuazione di un simile processo. E siccome non si guarda a
breve termine, neppure ci si deve
fare condizionare dall’attuale geografia politica. Tanto che il vicesindaco della città metropolitana Eugenio Comincini, chiudendo i lavori,
punta sui rapporti interistituzionali
soprattutto legati alle connessioni
progettuali dei cantieri metropolitani
di Torino, Milano, Bologna e Venezia.
UNA LISTA ELETTORALE PER LA CITTÀ METROPOLITANA
Fiorello Cortiana
Per Milano la Città Metropolitana è
un suo sinonimo. Una rete di comuni, di insediamenti funzionali della
ricerca e delle imprese, di università
piuttosto che di centri ospedalieri,
con una quotidiana relazione con i
nodi amministrativi e di rappresentanza della Borsa piuttosto che della
Camera del lavoro. Una rete di canali e rogge che i cistercensi tessevano con rispetto e logica mente
l'urbanizzazione speculativa costringe periodicamente a esondare.
Una cintura verde che ne fa la città
di comuni più agricola d'Italia. Una
intensa infrastruttura dei trasporti
per i city users o, più prosaicamente, per centinaia di migliaia di pendolari che quotidianamente scommettono sul mezzo pubblico.
Ebbene, al contrario, la Città Metropolitana come istituzione amministrativa non esiste o è un’entità lontana, comunque estranea agli abitanti dei comuni della metropoli.
Siamo partiti da qui, dalla necessità
di utilizzare la legge 56/2014 Delrio,
che finalmente istituiva le Città Metropolitane, per farci i conti e avviare
un percorso che la rendesse
un’amministrazione innovativa in
chiave democratica, cioè con una
partecipazione informata al processo deliberativo. Oggi un sindaco eletto da un milione di cittadini ne governa tre milioni!
Abbiamo messo a punto una "Proposta di legge d’iniziativa popolare
per l’elezione diretta del sindaco e
del consiglio della Città metropolitana" affinché questo processo costituente sia adeguato tanto alle sfide
della competizione nel villaggio glo-
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cale, quanto alla necessità di colmare il deficit di legittimità democratica
evidenziato dal numero di cittadini
che non partecipano al voto.
La legge 56/14 ha previsto la possibilità di ripristinare l’elezione diretta
del sindaco e del consiglio metropolitana al verificarsi di alcune condizioni dipendenti dal comune capoluogo e dallo statuto metropolitano,
con un sistema elettorale determinato con legge statale. Lo statuto
approvato dal Consiglio Metropolitano ha approvato l'elezione diretta
di sindaco e consiglieri, il comune
capoluogo sta decidendo sul decentramento amministrativo, ma fino ad
ora non c'è alcuna proposta di legge
elettorale depositata alle Camere: la
terza
condizione
posta
dalla
56/2014.
Con la loro firma in calce alla proposta di legge i cittadini da settembre avranno la possibilità di impegnare il Parlamento e il Governo,
ovviando alla loro distrazione politica. Se il Parlamento approvasse la
legge elettorale per le città metropolitane in tempo utile per il prossimo
turno elettorale della primavera
2016, potrebbe esserci la possibilità
di eleggere contestualmente il sindaco e consiglio metropolitani con il
sindaco e i consigli comunali di Milano, Napoli e Torino.
Il sistema elettorale che proponiamo
è un maggioritario semplice, a collegio unico per il sindaco, con collegi uninominali per i consiglieri. Il secondo turno per il sindaco e per i
consiglieri nei singoli collegi è previsto sempre se la partecipazione elettorale al primo turno è sotto la
soglia del 50% degli aventi diritto.
Ciò al fine di rafforzare il legame
con il territorio e la prossimità tra
elettori e politica pubblica.
Nei collegi si procede al secondo
turno anche quando nessun candidato consigliere ottiene al primo turno la maggioranza assoluta dei votanti. Al secondo turno per l’elezione
del sindaco e dei consiglieri partecipano i primi tre candidati. L’elettore
ha quindi a disposizione due schede
elettorali differenti: una per il sindaco, uguale per tutta la città metropolitana e l’altra per il consiglio. Una
proposta che rafforza il ruolo
dell’Ente metropolitano, con un sindaco dotato di investitura popolare e
consiglieri espressione dei territori,
con un'ampia autonomia non essendo la loro elezione vincolata a
quella del sindaco metropolitano.
Non sono ammesse le candidature
plurime dei candidati consiglieri. La
parità di genere è richiesta ai candidati che condividono lo stesso simbolo di lista. Le elezioni sono indette
dal sindaco uscente, con un congruo anticipo, almeno 90 giorni, per
rafforzare il legame con il territorio.
Il tempo necessario a consentire
alla società civile e alle forze politiche di proporre le candidature e
procedere alla raccolta delle adesioni. Così si avrebbe anche un
tempo congruo per la risoluzione di
eventuali contenziosi per consentire
un regolare svolgimento della campagna elettorale.
Altre caratteristiche della proposta
sono: un quinto dei seggi riservato a
garanzia di una rappresentanza plurale, e delle minoranze; le candida-
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ture sottoscritte dagli elettori anche
con l’utilizzo di modalità telematiche
(PEC); l'elettorato passivo e attivo
che comprende anche i cittadini di
altri paesi dell’Unione Europea residenti in un comune della città metropolitana; il principio della trasparenza nelle candidature, con obbligo
di documentare la posizione giudiziaria di ogni candidato e i programmi amministrativi; le dichiarazioni e la documentazione inerenti
le candidature pubblicate e conservate sul sito internet della città metropolitana unitamente alla continua
rendicontazione dell’attività amministrativa dell’eletto.
La proposta di legge di iniziativa
popolare abroga, infine, ogni riferimento all’elezione del sindaco e del
consiglio metropolitani nella legge
56/14. Abbiamo definito un Comitato Promotore aperto e trasversale
cui hanno già aderito esponenti istituzionali e civici di Milano, Torino,
Roma, Napoli e Palermo. Con il
completamento delle adesioni, da
tutte le città metropolitane, entro fine luglio, depositeremo il testo della
proposta di legge in Cassazione co-
sì da partire con la raccolta delle
firme a partire da settembre. I dipendenti e gli eletti delle amministrazioni locali potranno chiedere di
svolgere la funzione di certificatori.
Tutti i cittadini che pretendono una
politica e degli eletti capaci di visione e che non si arrendono alla dissoluzione delle istituzioni democratiche, né a divenire periferie del comune capoluogo, possono contattarci per organizzare comitati aperti
e tavoli per le firme.
Membro del Comitato promotore
LEGGE REGIONALE E CITTÀ METROPOLITANA: “FORSE CI SIAMO”
Umberto Ambrosoli
“Forse ci siamo”, è la frase che potremo probabilmente dire a settembre, quando - con oltre nove mesi di
ritardo rispetto alle scadenze di legge - la Regione definirà l’assetto
delle competenze che creeranno il
nuovo equilibrio nei rapporti tra Regione, città metropolitana e Comuni
coinvolti. “Forse ci siamo” solo per i
tempi, non per la sostanza: questi
mesi di ritardo, infatti, ben rappresentano la paura che il nuovo ente
incute alla Regione, che si pone con
tale stato d’animo a rallentare le potenzialità della nuova istituzione.
Film già visto, proprio in questi giorni, al Pirellone, in occasione della
discussione e approvazione della
riforma delle autonomie: provvedimento timido sulle questioni di prospettiva, dalle zone omogenee alle
comunità montane, oltre che immotivato e per nulla meditato sulla redistribuzione dei bacini ottimali in
tema di trasporto.
Come in tante occasioni ho avuto
modo di sottolineare è proprio sulla
gestione e il coordinamento delle
reti di trasporto, sul tema sensibile
della mobilità che sono nate e cre-
sciute le grandi città metropolitane
europee, da Londra a Barcellona.
Ed anche per la Città metropolitana,
la bozza illustrata dal Sottosegretario Gallera la scorsa settimana alla
stampa è debole, carente, priva di
coraggio. Non si vuole, ancora, lasciare alla Città metropolitana piena
autorità riguardo questo tema: si ha
paura di scelte potenzialmente impopolari nei singoli Comuni e - così
facendo - si limita la possibilità dello
sviluppo di una rete capace di servire il nuovo assetto della metropoli.
Anche in tema di programmazione
territoriale il progetto della Giunta
rappresenta la paura che la Regione ha della Città metropolitana, la
volontà di tenerla al guinzaglio: si è,
infatti, prevista una pianificazione a
cascata (regionale, cui si deve uniformare la metropoli con proprio atto, cui si devono uniformare i Comuni della metropoli), quando invece a voler valorizzare la nuova istituzione poteva bastare un parere di
compatibilità richiesto dalla Città alla
Regione. È invece condivisibile in
linea di massima il progetto della
Giunta per quanto riguarda il trasfe-
rimento alla Regione delle funzioni
in ordine ad Agricoltura, Foreste,
Caccia e Pesca le Politiche culturali
e altre connesse ad Ambiente ed
Energia.
Analizzeremo comunque le proposte della Giunta con grande attenzione, anche per comprendere la
soluzione di quello che è il nodo
cruciale: se la Regione intenderà da
un lato farsi carico di tutte le risorse
umane deputate nell’ex Provincia
allo svolgimento di quelle funzioni
che la Regione intenderà avocare e,
dall’altro, destinare adeguate risorse
economiche alla Città metropolitana
per quelle che a essa trasferirà: infatti, l’allarme del Sindaco Pisapia
deve trovare anche in Regione risposte tese a evitare il dissesto del
nuovo ente.
Alternativamente il nuovo ente, la
cui origine normativa risale al 1994,
sarà soffocato nelle sue potenzialità
dall’incapacità della Regione di vederne la capacità dare nuova linfa
all’economia e allo sviluppo di tutta
la Lombardia.
LA FUSIONE DEGLI AEREOPORTI LOMBARDI: A CHI GIOVA?
Marco Ponti
È stato lanciato un progetto di fusione societaria tre i due aeroporti
di SEA, Linate e Malpensa, e Orio
al Serio, già parzialmente di proprietà SEA. Di fatto, la fusione di
tutti gli aeroporti del ricco bacino di
utenza lombardo, con un traffico
potenziale di 40 milioni di passeggeri/anno.
Ora, la teoria economica, nella sua
accezione più rozza, dice che la
fusione tra imprese, o la loro cartellizzazione, generalmente giova alle
imprese e danneggia gli utenti. In
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più, in questo caso si tratta di “monopoli naturali”, cioè non è che sorga una unità produttiva più grande,
si tratta solo di una alleanza.
Ci possono però essere due rilevanti eccezioni a questa rozza teoria, ma per invalidarla debbono valere entrambe. La prima è che la
fusione deve conseguire economie
di scala, o di scopo, o vantaggi organizzativi sicuri e rilevanti e questo
giova alle imprese che si fondono,
oltre all’ovvio vantaggio della ridotta
concorrenza che dovranno affronta-
re. Il secondo è che queste economie devono essere poi trasferiti
all’utenza, non trattenuti dalle imprese. Questo può essere vero in
settori ad elevata pressione concorrenziale: ci pensa proprio la concorrenza ad abbassare i prezzi.
Ma questo è molto più dubbio in
caso di monopoli naturali, per i quali
la concorrenza opera pochissimo,
tanto da richiedere autorità di regolazione apposite per tutelare gli utenti. E la riprova dell’esistenza di
queste due condizioni non la si può
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certo chiedere alle imprese interessate: a queste basta e avanza la
ridotta concorrenza, quelle altre
condizioni riguardano il benessere
dei viaggiatori. La verifica, che deve
essere fatta ex-ante, è un dovere
dei decisori pubblici, e in particolare
dovrebbe essere responsabilità
dell’Autorità dei Trasporti.
Infatti nel progetto di accurata analisi economica dell'ipotesi di fusione
affidata dalle due società all’Università di Bergamo (molto competente nel settore), non sembra giustamente esserci traccia di qualcosa di diverso dagli interessi delle
due società stesse.
E qui emerge un vistoso conflitto di
interessi, di cui sembra esserci
scarsa coscienza in Italia: i proprietari delle due società sono prevalentemente pubblici. Questi proprie-
tari hanno un ovvio interesse a
massimizzare la redditività delle
loro imprese, anche per nobili motivi, data la perdurante scarsità di
risorse pubbliche. Ma la redditività
in questo caso può coincidere con
rendite monopolistiche, che ovviamente danneggiano gli utenti (di
fatto, li derubano), oltre che la collettività in generale. Ci vuole una
virtù eroica per immaginare comportamenti diversi da parte della
proprietà.
Il caso più clamoroso di logica di
questo tipo può essere riscontrato
per i quattro aeroporti di Londra.
Furono privatizzati molti anni fa in
blocco, proprio per capitalizzare sul
valore monopolistico che questi avevano. Ma dopo altri anni, il governo verificò che la insufficiente
concorrenza che si facevano tra
loro danneggiava gli utenti, e costrinsero la proprietà a venderne
due. Probabilmente un brutto tiro
per gli investitori, ma fu giudicato
allora dominante l’interesse degli
utenti.
Certo, l’Inghilterra è un paese culturalmente lontano dall’Italia. Ma davvero non sarebbe auspicabile che
quei tre aeroporti lombardi si facessero tutti una guerra spietata, a colpi di buoni servizi, basse tariffe, e
capacità di attrarre le compagnie
aeree più dinamiche e competitive?
I lombardi non starebbero meglio?
E anche da un punto di vista strettamente economico, il pungolo
competitivo potrebbe nel tempo a
una maggior valorizzazione degli
stessi capitali investiti.
PROPRIETÀ, TERRA E AGRICOLTURA: I DIRITTI DELLE DONNE DA PECHINO A NEW YORK
Rossana Scaricabarozzi*
L’Expo si svolge in un anno importante per i diritti delle donne: ricorre
infatti il 20° anniversario della 4°
Conferenza Mondiale sulle donne,
svoltasi a Pechino nel 1995 e considerata una milestone del lungo
percorso ancora inconcluso per il
raggiungimento dell’uguaglianza di
genere a livello globale; inoltre la
comunità internazionale si appresta
ad adottare impegni che definiranno
la prossima agenda globale per lo
sviluppo, post-scadenza degli Obiettivi di sviluppo del Millennio fissata
per quest’anno.
L’anniversario della Conferenza di
Pechino è stata occasione per la 4°
revisione degli avanzamenti e delle
sfide che permangono rispetto alle
12 aree critiche incluse in quella che
è comunemente nota come Piattaforma d’azione di Pechino, ancora
oggi punto di riferimento per le azioni da intraprendere verso la realizzazione dei diritti delle donne e
dunque un faro per la definizione
dei futuri impegni contro la povertà
e le ingiustizie sociali.
Il tema del cibo e dell’agricoltura, al
centro dell’Expo, è rilevante per varie delle 12 aree critiche della Piattaforma di Pechino: ad esempio la
povertà femminile, l’economia e
l’ambiente. Per questo il 10 luglio
prossimo ActionAid e Women for
Expo ospiteranno un evento dal titolo “2015: empowering women. La
corsa per i diritti delle donne da Pechino a New York” al fine di creare
un’occasione di dibattito sul tema
del cibo collegandolo ai grandi processi internazionali del 2015.
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D’altra parte la review di Pechino ha
rilevato che sebbene vi siano stati
alcuni avanzamenti negli ultimi decenni, in particolare da un punto di
vista normativo, complessivamente
si è trattato di progressi “inaccettabilmente lenti”, accompagnati per
giunta da rallentamenti e persino
regressioni in alcuni contesti. Si rileva inoltre che le donne che vivono
nelle aree rurali del mondo sono tra
quelle che meno hanno beneficiato
dei progressi nell’implementazione
della Piattaforma d’azione di Pechino.
ActionAid in anni di esperienza al
fianco delle donne rurali in Africa,
Asia e America Latina, ha identificato nel diritto alla terra un fattore
chiave per l’empowerment delle
donne rurali, la loro sicurezza alimentare e la loro possibilità di uscire da condizioni di povertà. Fattore
che ha inoltre risvolti positivi anche
per il godimento da parte delle donne di altri diritti fondamentali: la
Special Rapporteur dell’ONU sulla
violenza contro le donne, Rashida
Manjoo, ha evidenziato come la
possibilità per le donne rurali di proteggersi dalla violenza richieda la
realizzazione dei loro diritti socioeconomici, in particolare quelli inerenti alla proprietà ed eredità della
terra. Alcuni studi evidenziano poi
come le donne che hanno accesso,
proprietà e controllo sulla terra e
altri asset abbiano più possibilità di
evitare relazioni che le espongono
al rischio di contrarre l’HIV.
Nonostante questo, la FAO rileva
che ovunque al mondo la possibilità
per le donne di accedere, controlla-
re, possedere ed ereditare la terra
su una base egualitaria rispetto agli
uomini resta ancora oggi una delle
principali sfide da affrontare: nonostante la mancanza di dati in molti
Paesi, si stima infatti che in Africa
sub-Sahariana in media solo il 15%
degli agricoltori che hanno custodia
sulla terra siano donne, in Nord Africa e in Asia occidentale meno del
5%, in alcuni Paesi del Sud-America
come Cile, Ecuador e Panama il
25%. Inoltre gli appezzamenti di terra a cui le donne hanno accesso
sono in genere più piccoli e di peggiore qualità rispetto a quelli degli
uomini.
Per far fronte a questo problema gli
sforzi negli ultimi decenni sono andati verso riforme legislative per
promuovere l’uguaglianza di genere
nell’eredità e nella proprietà della
terra. Tuttavia anche laddove esistono leggi a tutela dei diritti delle
donne pratiche socio-culturali discriminatorie fanno sì che per le
donne sia raro possedere un titolo
di proprietà individuale o condiviso,
e anche se ne sono in possesso,
spesso non hanno possibilità di controllo e gestione della proprietà e dei
relativi guadagni, o non hanno potere decisionale in merito all’uso della
terra, nelle negoziazioni relative
all’affitto e alla vendita della proprietà.
A queste sfide se ne accompagnano altre, tra cui il recente fenomeno
del land grabbing, o “furto della terra”, che consiste nell’acquisizione di
terre su larga scala da parte di
grandi investitori nei Paesi in via di
sviluppo spesso senza previe con-
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sultazioni con le comunità colpite e
informazioni trasparenti sui progetti
e loro conseguenze. I casi di land
grabbing avvengono spesso in Paesi in cui la tutela dei diritti sulla terra
è scarsa ed è facile immaginare
come l’impatto sia peggiore per le
donne.
Se le sfide legate all’agricoltura e
alle risorse naturali dovranno ne-
cessariamente essere tra le priorità
della prossima agenda per lo sviluppo, la definizione degli impegni
della comunità internazionale non
potrà prescindere dal tenere conto
della dimensione di genere dei problemi da superare. L’Expo a sua
volta in questo contesto, avendo
scelto il nutrimento globale come
tema centrale, non può prescindere
dal proporsi anche come spazio di
dibattito sulle problematiche ad esso connesse, che riguardano le
donne in particolar modo: povertà,
fame e disuguaglianze.
*Responsabile del programma per i diritti
delle donne di ActionAid Italia
MILANO SOCIAL STREET: IL BOOM
Francesco Floris
«I miei vicini di casa li ho conosciuti
prima su Facebook che sul pianerottolo». In due parole ecco il Social
Street, gruppi Facebook legati a vie
cittadine o quartieri dove ricostruire
quello che un tempo si chiamava
“buon vicinato”. Lo racconta Cristina
Pasqualini, ricercatrice di Sociologia
generale dell’Università Cattolica di
Milano, che da ottobre 2014 dirige
la prima ricerca italiana totalmente
autofinanziata e dedicata al mondo
delle Social Street, dal titolo Vicini e
connessi. Alla scoperta del vivere
social.
Il gruppo di studio è formato da altri
due ricercatori - Fabio Introini e Nicoletta Pavesi - oltre a un nutrito
manipolo di specializzandi e dottorandi che si è dato il nome di GRISS
(Gruppo Ricercatori Social Street).
Realizzano analisi quantitative,
questionari e interviste con amministratori e iscritti ai gruppi. Ma anche
passeggiate etnografiche, per toccare con mano i problemi materiali
nei quartieri di Milano dove si sono
organizzate queste forme di “buon
vicinato virtuale”.
«Ma dal virtuale si passa al reale» puntualizza la Pasqualini, perché «se Facebook nasce o viene
utilizzato in particolare per ristabilire
i rapporti con persone lontane nello
spazio ma comunque conosciute, le
Social Street utilizzano la rete per
incontrare sconosciuti che però sono fisicamente vicini, che abitano o
lavorano nello stesso quartiere, nella stessa strada«. E che hanno inte-
ressi in comune come il prestito di
oggetti, la “Banca del Tempo”, cioè
la possibilità di scambiarsi competenze e professionalità, far conoscere i rispettivi figli. E ancora, recensire i migliori ristoranti di zona o quelli
più economici, coltivare orti urbani, aperitivi sociali - recentemente la
Social Street di via Maiocchi ne ha
organizzato uno assieme a SOS
Emergenza
Rifugiati
Milano,
l’associazione che opera coi profughi della Stazione Centrale.
Il primo gruppo è nato a Bologna nel
2013, “Residenti in via Fondazza”,
da un’idea di Luigi Nardacchione e
Federico Bastiani - quest'ultimo a
gennaio insignito del Premio Campione 2015 alla presenza del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
Le “strade sociali” sono un fenomeno emergente. Ancora non esistono
pubblicazioni scientifiche ma cresce
l’attenzione da parte di alcuni fra i
grandi maestri della sociologia: Anthony Giddens, Marc Augè, Richard
Sennett e Rob Hopkins, il fondatore
delle Transition Town. Un’idea italiana che si sta propagando in giro
per l’Europa. «Esistevano strade
sociali anche prima del 2013 - per
esempio a Londra - ma questa forma specifica, con tanto di “marchio”
e criteri per poter accedere alla dicitura “Social Street”, è una peculiarità italiana». Dato che risulta anche
dai confronti della dottoressa Pasqualini con colleghi internazionali.
Da qualche mese, tuttavia, le strade
sociali hanno preso piede anche
oltre le Alpi. «Ce ne sono 19 a livello mondiale di cui 9 nel Vecchio
Continente. In molte città europee
stiamo assistendo a fenomeni di
imitazione: a Ginevra in Svizzera, in
Croazia, Francia, Nottingham in Inghilterra, a Barcellona, tre in Portogallo e proprio a metà giugno è nata
la prima irlandese nella città di Galway».
A Milano il fenomeno è letteralmente esploso: «In otto mesi abbiamo
censito 62 Social Street, oltre alle
due collocate a San Donato Milanese. Le più numerose come San Gottardo, Lambrate e Maiocchi contano
anche 1500 iscritti l’una». Non tutte
hanno successo. «53 sono attive, 9
non più. Conca del Naviglio è poco
attiva perché il fondatore per ragioni
lavorative si è trasferito in altre regioni e non c'è stato passaggio di
testimone, quella di Largo la Foppa
è completamente chiusa, in quella
di via Vincenzo Monti l’adesione è
stata minima”. I flop si verificano
nelle aree di uffici o in quelle abitate
da professionisti, «per un mix di diffidenza e mancanza di tempo». Attecchiscono, invece, a ridosso delle zone centrali di Milano:
«Nel centro storico non ce n’è
nemmeno una, le circoscrizioni più
coperte sono zona 3 (Città Studi,
Lambrate), zona 4 (Vittoria, Forlanini) e zona 6 (Barona, Lorenteggio)».
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LA MIGRAZIONE DI FUNZIONI PREGIATE, I NAVIGLI E LA MILANO FUTURA
Giuseppe Bonomi
Confesso: sono uno dei firmatari
proponenti i 4 referendum di Milanosimuove. Sono fermamente convinto della bontà del primo quesito
(sui Nuovi Alloggi Sociali), più tiepido sugli altri, e sono perplesso su
quello relativo alla riapertura dei
Navigli, ma essendo convinto della
validità del principio referendario,
voltairianamente mi batto perché si
n. 26 VII - 8 luglio 2015
possa esprimere anche chi la pensa
diversamente da me. Rimane da
affrontare il tema di garantire una
corretta e adeguata informazione
affinché la scelta sia consapevole,
ma non è su questo che vorrei proporre una riflessione, quanto piuttosto sulla riapertura dei Navigli.
Le considerazioni che Giorgio Goggi
ha espresso il 24 giugno scorso so-
no interessanti e in buona misura
condivisibili, ma credo che Goggi
non affronti un aspetto più generale:
come interagirebbe tale diverso assetto della struttura delle vie di comunicazione con la trasformazione
in atto della città?
La riapertura dei Navigli andrebbe
materialmente a ritagliare una quasi-isola del centro storico circon-
6
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dandola dall’acqua: se la rete dei
Navigli aveva diversi significati e
funzioni all’epoca della sua realizzazione, oggi dovrebbe rispondere
a mutate esigenze estetiche, ambientali, artistiche (e probabilmente
me ne sfuggono altre): sono tutte
singolarmente condivisibili, ma sono
sufficienti a giustificare tale investimento/cambiamento? Gli studi svolti
hanno certamente affrontato questo
aspetto, ma temo che le variabili
sottostanti siano troppo volatili, in
quanto è la città stessa come quadro di riferimento che sarà oggetto
di forte trasformazione.
Nei prossimi anni, o meglio decenni,
la quasi-isola del Centro Storico cosa diventerà? È evidente il fenomeno dello spostamento di molte funzioni terziarie (bancarie in primo
luogo, Unicredit credo sia un apripista, non un caso isolato) verso nuove ubicazioni in nuove centralità esterne, dovuta a nuove condizioni
ed esigenze che la congestione (e il
valore) del centro non offrono più.
La domanda che mi pongo è: cosa
sarà, chi e come utilizzerà il centro
storico di Milano liberato da grandi
superfici di uffici di alto standing?
La risposta determinerà una ritrasformazione epocale del centro
storico, tanto quanto lo fu la precedente, tra il dopoguerra e gli anni
duemila, che ha forzatamente e dispendiosamente trasformato palazzi
residenziali d’epoca in lussuosi uffici, sedi di prestigio. Provo a immaginare cosa potrebbe diventare il
centro di Milano perimetrato dai
“nuovi”Navigli: una cittadella residenziale di lusso, o un enorme
shopping mall del lusso, o una centro del leisure regionale, o forse una
sovrapposizione inquietante e difficilmente amalgamabile delle tre
funzioni.
La migliore accessibilità che il trasporto pubblico dovrebbe poter assicurare è condizione necessaria a
qualsiasi soluzione, ma non è sufficiente a garantirne nessuna. I valori
immobiliari del centro oggi non appaiono più un’opportunità quanto
piuttosto un vincolo: nati da una
stratificazione di funzioni qualificate,
servizi, investimenti, oggi costituiscono un capitale che non solo i privati, ma tutta la collettività non può
permettersi di dissipare. Rimane
quindi aperta la domanda: cosa sarà il centro di Milano nei prossimi
decenni? Che funzione urbana assumerà in un nuovo assetto territoriale che oggi va addirittura affrontato in chiave metropolitana?
Se nessuno ha una risposta pronta
(e sensata), forse è il caso di affrontare il tema partendo dal metodo
attraverso il quale trovare la soluzione, che sia l’indire gli “Stati Generali della città metropolitana”? (a
proposito, che esiti hanno avuto gli
Stati Generali di Morattiana memoria?), o una revisione del PGT che
sia veramente attento alle dinamiche di trasformazione del territorio e
che provi almeno a prevederle.
Quello che mi sembra da evitare è
che la scelta sulla apertura dei Navigli sia fatta sulla base di una rappresentazione iconografica dettata
dal desiderio (velleitario) di ricostruire un immagine storica (e non vorrei
che un giorno la Sovrindendenza si
svegliasse e imponesse un vincolo
di ripristino e di restauro conservativo generale …) motivandola con
possibili, future funzionalità potenziali.
Detto tutto questo, sono d’accordo
nel dire che (forse) Milano sarebbe
più affascinante.
VITTORIO GREGOTTI E L'IDENTITÀ DI MILANO
Cristoforo Bono
Il notevole articolo di Vittorio Gregotti, apparso sul Corriere della Sera di mercoledì 17 giugno scorso,
rischia di restare una pagina perduta, una voce incastonata della griglia editoriale che va sotto la specie
di Cultura e spettacoli, che non lascia tracce il giorno dopo. Il titolo
poi, ovviamente editoriale e non
scelto dall’autore, addirittura scoraggia il lettore frettoloso: ecco, anche il vecchio Gregotti ha fiducia
nella “città che sale”, e quindi via,
sorvoliamo. E invece l’articolo va
letto e riletto; esso si presenta nella
forma di un saggio breve, e come
tale potrebbe (e forse dovrebbe) suscitare un dibattito, principiare un
forum. E forse, dato il delicato momento nella storia delle città d’Italia,
e data l’occasione di Expo, doveva
essere posto in prima pagina, sotto
un altro titolo, tipo “l’incerta identità
e l’incognito futuro di Milano”.
Gregotti indica in esordio le tre ragioni per le quali “Milano è una città
sulla cui identità è molto difficile discutere”, e dopo averne esaminato
le dinamiche e “la mescolanza di
tensioni politiche, amministrative,
economiche”, passa al cuore del
tema: una sorta di critica strutturalistica al nuovo macro volume della
n. 26 VII - 8 luglio 2015
fondazione Treccani: "Milano Expo
2015. La città al centro del mondo".
La critica è radicale anche se indiretta, spesso affidata agli incisi e
alle parentesi; il tono è garbato e
contenuto, ma la problematica c’è
tutta: e non è di poco conto nella
evidenza delle questioni aperte e
non risolte. Tra due parentesi, ad
esempio, è chiaramente detto: “nei
tre testi introduttivi l’Expo 2015 è
imprudentemente annunciata come
simbolo del futuro di Milano”. La
conclusione dell’articolo è altrettanto
chiara: “Il mio commento vuole comunque mettere in luce che, in ogni
modo, questo volume rappresenterà
una testimonianza importante del
modo, assai particolare ma prevalentemente dominato dalla visibilità
mercantile, con il quale si guarda in
questi anni alla città di Milano, anziché criticamente al suo stato, al suo
disegno urbano, al suo sviluppo e al
futuro della sua società e dei suoi
valori”.
E anche il suggello finale non è certo un DO di petto, mentre richiama
“la nostra fiducia in una Milano migliore, anche se non è ben chiaro
quale sia questo futuro”. Perfetta
ars retorica dell’articolo, il cui messaggio è: potevo farne una stronca-
tura, mi accontento di mettere il dito
sulla piaga.
Ovviamente, come in ogni buon
saggio, il Gregotti mette in luce anche i pregi dell’opera, loda la buona
impostazione storiografica, cita i validi contributi di Carlo Bertelli, di
Sandrina Bandera, una calzante definizione di Marco Romano; e il
buon lavoro di un settore fotografico: anche se, nell’insieme dell’opera, egli nota, le restanti immagini
fotografiche sono fredde, senza
l’affetto e la vita dei luoghi “e, ambiguamente, negano la mescolanza e
le sovrapposizioni”: le quali darebbero un diverso e più veritiero senso
alla città costruita.
La critica di fondo (e quindi lo stimolo per un dibattito) che si evince dalla lettura dell’articolo riguarda, a mio
modo di vedere, le coordinate
all’intersezione delle quali oggi si
tende a porre la dinamica della
“modernità” e della sua tradizione;
entro le quali anche quest’opera si
pone. Sono coordinate sfasate rispetto a quelle di un autentico sviluppo o progresso.
Sono le linee della globalizzazione
transnazionale, non mondiale e vissuta in presa diretta, attivando nei
contesti reti strette. Le linee e i punti
di un consumismo bizzarro, in luogo
7
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della autentica ricerca dei luoghi.
Uno sfasamento dello spaziotempo, dove e quando la sperimentazione virtuosa è sostituita dal tentativo fine a se stesso.
Non si sa bene ancora quale sarà il
destino dell’area Expo, per dire di
un punto; non si sa ancora bene,
per dirla nell’insieme, se sarà la
“grande Milano” a vincerla: cioè la
continuità che tracima nell’hinterand, o “Milano la grande”: cioè il vero policentrismo.
Milano la grande era anche lo stereotipo rinascimentale della città
(Venezia la ricca, Bologna la dotta,
et cetera): locuzione ben più stimolante della legge per le città metropolitane. Oppure, per scendere, invece, alle più profonde radici della
nostra modernità, potremmo ricordare la “Città considerata come
principio ideale delle istorie italiane”.
PERCHÈ STARE IN UN PARTITO SE POSSO ANDARE ALLA CENA IN BIANCO
Giulia Mattace Raso
Se è una banca - francese - “la
banca per un mondo che cambia”
che “idea e produce” (anche) a Milano mostre incontri, manifesti sulle
nuove forme dell’innovazione, che
raccoglie esperienze, le teorizza
con un team attivo tra Parigi San
Francisco e Shangai, unità di sperimentazione che semina e raccoglie idee di futuro, per metterle a
frutto nel vero senso della parola, ti
domandi perché. Poi intuisci che
oggettivamente è il suo business
gestire la ricchezza, ma abbisogna
che qualcuno la produca. E quindi
via mettiamoci a studiare come si
può fare in un modo nuovo, che
quello attuale ci ha portato a sbattere. Diamo spazio alla “Jugaad Innovation: Pensa frugale, sii flessibile,
genera una crescita dirompente”, ai
nuovi modi di organizzarsi, alle cinque correnti della ingegnosità collettiva - co-creazione, movimento dei
maker, economia della condivisione,
economia circolare, economia inclusiva - per fare di più con meno.
E ti accorgi che di quello a Milano
già vive: “Abbiamo bensì osservato
come esperienze già radicate nei
territori che spesso consideriamo "di
confine" stiano generando un impatto tangibile, concreto, misurabile
nella costruzione di modelli differenti
di collaborazione e organizzazione.
Le esperienze di Wave, quelle esposte nella mostra e quelle raccontate durante gli incontri, ci dicono
che gruppi non-convenzionali, visionari, animati da un numero di persone spesso molto ridotto, si stanno
dando da fare per creare oggi un
modo più inclusivo, più condiviso,
più intraprendente.”
Il più con meno: poche regole condivise (tutti di bianco vestiti, tutti portano cibo e vettovaglie, tutti ordinatamente disposti) ed ecco che in
città si da una festa principesca.
Una comunità che abita spazi pubblici, si raccoglie velocemente grazie ai social, che condivide, si emoziona insieme e torna a vivere il suo
quotidiano (e in fondo non è stato
così anche per la marcia del cif o
per l’invasione delle lanterne?). Una
città laboriosa, pronta a emozionar-
n. 26 VII - 8 luglio 2015
si: un quotidiano serrato che non
rinuncia alla poesia o alla indignazione, condivise, pubblicamente.
“Quando parliamo di economia inclusiva pensiamo alla capacità di
coinvolgere
basata
sull’ascolto
dell’altro e sulla volontà di tenere in
considerazione il contributo di tutti,
senza giudicare ciò che a prima vista ci sembra fuori luogo. In una linea, l’ingegnosità collettiva ci impone inclusione, ovvero ci impone di
fare attività di progetto con qualcuno, non per qualcuno.
Che cosa significa? Significa che
quando si progetta per qualcuno si
impone un punto di vista. Quando si
progetta con qualcuno si costruisce
una relazione in cui i punti di vista si
moltiplicano, le difficoltà crescono,
ma il valore è condiviso. Potremmo
candidare questo processo come
una delle prime caratteristiche dello
stile promosso da Wave Milano.”
Se la risposta alla crisi economica
ha generato nuove categorie di sviluppo per nuovi modelli di organizzazione, quale strategia stanno adottando i partiti in risposta alla crisi
di rappresentanza? Quale tipo di
innovazione sono pronti ad indossare? Stanno elaborando nuove forme
di collaborazione e organizzazione?
Il nesso economia e organizzazione
non è peregrino per i partiti, perché
diventa la cartina tornasole della
forma partito. I tesorieri che si trovano a fronteggiare la nuova legge
sul finanziamento pubblico ai partiti,
ne diventano più o meno consapevolmente ideologi. Di fronte agli
scandali recenti nessuno ha osato
lanciare una campagna a favore
della raccolta del 2 per mille, a
maggior ragione con il Movimento 5
Stelle che prospera a dispetto di finanziamenti pubblici e in assenza di
sedi, ma sempre con il timore di non
doversi trovare di nuovo a fronteggiare un miliardario disposto a tappezzare la città di costosissimi manifesti 6x3.
La risorsa ultima è quella del tesseramento: l’impostazione dominante
che vede il partito come un comitato
elettorale lo ipotizza con i vantaggi
del club. Ma allora se mi chiedono
la quota di iscrizione per pagare
l’affitto del circolo mi stanno offrendo una lounge? Se mi fanno lo
sconto per il biglietto Expo, faccio
parte di un gruppo di acquisto? Mi
tessero per avere i vantaggi degli
affiliati? Mortifichiamo l’idea di partito su un modello di business? Si
organizzano tavoli circolari per favorire lo scambio e l’orizzontalità delle
relazioni, ma tra i tavoli di leopoldiana memoria e i tavoli di una cena di
fundraising all’americana il confine è
sibillinamente labile.
Alla domanda che cosa è un partito,
quale la sua funzione, come può
stare in piedi è stata data una risposta controcorrente dai Luoghi Ideali,
la traversata capitanata da Fabrizio
Barca che ha sperimentato nuovi
modi per organizzare un partito
scommettendo che “è possibile costruire un patto fra persone – un
partito, appunto – in cui l’interesse
particolare è ammaestrato a servire
un interesse collettivo”
La risposta dell’innovazione alla crisi afferma “non possiamo più accontentarci di produrre cose, occorre
anche progettare relazioni”, e sicuramente questo un partito deve saper fare: progettare relazioni, di
questo si tratta. “Mentre le associazioni - è la loro forza - curano interessi specifici (integrazione sociale,
educazione, salvaguardia di diritti,
tutela di ambiente e cultura, inserimento lavorativo, e molti altri ancora), il partito-palestra assicura il confronto fra quegli interessi: all'interno
di un sistema di valori condivisi (di
parte), riconosce e valorizza il conflitto fra interessi e soluzioni divergenti e si specializza nel raggiungere un accordo ragionevole fra essi.
Solo in questo modo si riescono ad
acquisire consenso, forza e capacità di orientamento – l’egemonia –
per riequilibrare il potere economico
che è altrimenti condizionante nella
nostra società. E possono crescere
gruppi dirigenti capaci di costruire il
difficile ponte fra società e Stato,
capaci cioè di “fare politica”, e poi
magari di governare con competenza.”.
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Scrive Anna Cini a proposito del Giardino dei Giusti
Sono un membro della commissione didattica di Gariwo e scrivo a titolo personale ma basandomi su idee
condivise dalla commissione a cui
appartengo. La prima osservazione
che mi viene da fare riguarda l'espediente retorico particolarmente
efficace quanto decisamente fuorviante del paragone fra monte Stella
è il giardino di Boboli fatto da Giancarlo Consonni e Graziella Tonon.
Qualcuno direbbe: che ci azzecca?
Non mi risulta per esempio che il
Giardino di Boboli sia adibito a luogo di allenamento per podisti e atleti
come invece accade al giardino di
Monte Stella. Ma non è il caso di
soffermarsi sugli espedienti retorici.
Parliamo dei contenuti.
Si sostiene che Gariwo per suoi imperscrutabili motivi vorrebbe modificare la sua linea di condotta nei
confronti della gestione del giardino.
Addirittura che vuole manomettere
un patrimonio di inestimabile valore.
Quanto alla prima tesi si può anche
concedere che Gariwo nel processo
delle sue attività rivolte alla popolazione in generale e ai giovani in particolare si sia trovata nella necessità
di adattare al crescente successo
delle sue iniziative anche i mezzi da
usare affinché queste iniziative sia-
no il più efficaci possibile. Di fronte
a questo successo qualunque democratico e sostenitore dei diritti
umani dovrebbe essere contento,
perché si tratta di un successo della
società civile, di una crescita della
coscienza collettiva e non certo di
un vacuo pavoneggiarsi da parte
della nostra associazione.
Non è qui il caso di dilungarsi sulle
numerose iniziative anche a livello
internazionale di cui Gariwo è stata
capofila. Basti solo dire che la giornata europea dei giusti è dovuta esclusivamente all'inventiva, alla tenacia e alla determinazione di Gabriele Nissim presidente di Gariwo.
Di fronte a questa realtà in evoluzione diventa importantissimo porsi
il problema di come adeguarsi alle
sfide che essa pone. Non c'è alcuna
smania di protagonismo dietro la
richiesta di Gariwo di adeguare la
struttura della balza del Monte Stella che ospita il giardino dei giusti al
crescente uso che del giardino per
fortuna si fa. Si tratta di assecondare un incremento costante di visite
delle scolaresche della Lombardia
mediante un più agevole percorso e
rendendo più decoroso il sito. Che
c'è di male se di questo luogo si fa
anche un ambiente per confrontarsi,
informarsi e meditare?
Si dice: si può continuare lasciando
tutto allo stato attuale, altrimenti ne
va della bellezza e armonia del parco. Faccio presente che il progetto
attuale scaturisce dalle modifiche
apportate al progetto iniziale a seguito delle critiche da parte dei cittadini residenti nella zona. Capisco
che se si sente parlare di muri muretti totem e quant'altro si drizzano
le orecchie, ma se si guarda al rapporto reale fra il verde che noi stessi
curiamo e incrementiamo e le proposte di evidenziazione dei percorsi
mediante interventi del tutto compatibili con l'ambiente, ci si rende conto che l'allarme lanciato da un gruppo di cittadini risulta pretestuoso e
soprattutto fuori misura.
Per finire tengo a sottolineare un
fatto. Gariwo è fortemente impegnata in un'opera di diffusione della cultura dei diritti umani e ha da anni
trovato il suo referente principale nel
mondo della scuola dove si educa la
coscienza civile dei giovani. Quanto
più si amplia la platea di ascolto di
Gariwo tanto più c'è la speranza che
si possa andare nella direzione di
una umanità più giusta.
Scrive Arnaldo Trinchero a proposito del sindaco di Milano
Un esempio di esponente della
“borghesia milanese” che senza
mettersi troppo in mostra ha fatto
realizzare dai suoi tutta una serie di
interventi che altri avrebbero messo
su una felpa o ci avrebbero fatto lavorare tutta la comunicazione disponibile. Ebbene lui non lo ha fatto,
non ha cercato la popolarità basata
su interventi necessari e anche se
piccoli, numerosissimi.
Credo che Pisapia verrà ricordato
come Sindaco alla pari di quelli che
tutti ricordano, se lo merita. Ai miei
amici ho già detto che se ci sarà
campagna politica nazionale o loca-
le stile Salvini sindaco di Milano,
chiederò immediatamente di cambiare residenza. È un piccolissimo
paese nel triangolo lariano, pieno di
leghisti ma senza felpe da imbecille.
Buona fortuna.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Gershwin e Bernstein
In un clima musicalmente grigio
come quello che stiamo vivendo da
quasi un secolo, in cui la musica
colta del novecento e quella contemporanea sono spesso incomprensibili e raramente luminose, in
cui sembra esser venuta meno la
gioia di vivere che nei secoli passati
n. 26 VII - 8 luglio 2015
la musica sia classica che romantica sapeva trasmettere così bene
(tanto che finiamo per essere spesso spinti verso il peggiore conservatorismo), il concerto della Verdi della
scorsa settimana, dedicato esclusivamente a musiche di Gershwin e di
Bernstein, ha prodotto uno straordi-
nario scoppio di allegria e di positività.
In programma c’erano tre capolavori
arcinoti - il Concerto in Fa (1925) e
Un americano a Parigi (1928) di
George Gershwin e le Danze Sinfoniche dalla West Side Story (1957)
di Leonard Bernstein - e uno meno
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noto ma non meno entusiasmante
come la Ouverture Cubana (1932),
sempre dell’autore della famosissima Rapsodia in blu. Dunque una
vera e propria full immersion nel
clima musicale dell’epoca in cui gli
Stati Uniti - fra grande depressione
e guerra mondiale - non hanno certamente vissuto tempi molto brillanti
e ciononostante la forza vitale,
l’ottimismo e la gioiosità della loro
musica dimostravano come il paese
avesse le energie necessarie per far
fronte a tutte le avversità.
Protagonista assoluto del concerto
un direttore d’orchestra il cui nome
non è ancora scolpito nella testa dei
musicofili milanesi ma che va tenuto
in mente perché ha espresso qualità
inusuali e tali da non poter non credere al suo futuro. Si chiama Carlo
Tenan, non è più giovanissimo
(sembra un trentenne ma è del
1969), esce anche lui dalle fila delle
orchestre (è stato oboista sia al
Comunale di Bologna che alla Scala
di Milano), colleziona diplomi (in
pianoforte, oboe, direzione d’orchestra, composizione e musica elettronica) e svolge un’attività molto
variegata fra direzione, composizione e insegnamento (a Roma, Bologna, Milano).
Il suo curriculum lo dà formato alla
scuola di Lorin Maazel - il direttore
americano morto ottantaquattrenne
giusto un anno fa - ma non può
sfuggire come l’approccio direttoriale, i suoi gesti e le espressioni anche mimiche ricordino Claudio Abbado al quale dunque sembra debitore più che a Maazel. Devo riconoscere - contraddicendomi con quanto scrissi tempo fa in questa rubrica
- che la provenienza di molti direttori
di nuova generazione dalle fila
dell’orchestra non sembra per nulla
pregiudizievole, anzi. Già lo dissi di
Bignamini (ex clarinetto piccolo della Verdi e oggi uno dei suoi acclamati direttori), lo ripeto ora a proposito di Tenan, la dimestichezza con
il lavoro “in” orchestra aiuta molto il
direttore a tessere il dialogo con i
colleghi, gli consente una maggiore
conoscenza delle problematiche
tecniche, lo spinge a un atteggia-
mento più collaborativo che dittatoriale.
Nelle opere di Gershwin e di Bernstein Tenan si è trovato perfettamente a proprio agio, sintetizzando
– o meglio tenendo in perfetto equilibrio – le anime classiche e jazzistiche dei due compositori, restituendo
agli ascoltatori la freschezza e la
prorompente vitalità della loro musica (formidabile, ad esempio, l’abilità
con cui ha preparato l’entrata in
scena del celeberrimo tema di charleston affidato da Gershwin alla
tromba solista per descrivere
l’incontro fortuito del turista americano con un suo conterraneo).
Qualche perplessità invece è emersa nel meraviglioso Concerto in Fa
per pianoforte e orchestra, eseguito
alla tastiera da Emanuele Arciuli,
esperto gershwiniano, cinquant’anni
appena compiuti, leccese che insegna a Bari e che si è creato una solida reputazione di ottimo interprete
della musica americana. Perplessità
non tanto dovute alla professionalità
del pianista quanto alla non perfetta
intesa fra questi e il direttore. Erano
due Gershwin diversi fra loro, un
dialogo fra due intelligenze che
sembravano non condividere i fondamentali della partitura, due interpretazioni altrettanto legittime che,
sovrapponendosi e contrastandosi,
non permettevano di goderne
l’esito. I ritmi precisi e il fraseggio
rigoroso di Tenan non si sposavano
alla melodiosità romantica di Arciuli, i tempi del primo non legavano
con la libertà di espressione del secondo; la discrepanza è risultata
molto evidente nell’attacco rallentato e nei molti rubati del solista, forse
un po’ troppi, che non hanno trovato
riscontro
nell’accompagnamento
orchestrale. È mancata la sintesi fra
le due letture che pure avrebbero
dovuto e potuto trovare un punto di
incontro nel reciproco rispetto, anche contrapponendosi. Così non è
stato.
Il secondo tempo ci ha offerto
tutt’altro genere, quello del famosissimo musical di Bernstein. West
Side Story è un grande capolavoro,
spesso dato con superficialità e trat-
tato come musica leggera o come
balletto; è invece una moderna e
complessa opera lirica di grande
spessore, che qualcuno ricorderà
nella bella edizione della Scala nel
2000, agli Arcimboldi, ma ancor più
nell’edizione che chiamerei leggendaria del Festival di Bregenz del
2003, resa indimenticabile dalla gigantesca scena che riproduceva
Manhattan (prodigiosamente installata sul palcoscenico apparentemente galleggiante che caratterizza
quel festival), dal cast di cantanti e
ballerini americani specializzati in
quell’opera, sopratutto dall’atmosfera magica che ogni estate il tramonto riesce miracolosamente a
creare sulla riva del lago di Costanza!
A proposito di Leonard Bernstein
(1918-1990), mi preme sottolineare
come raramente lo si accosti ad altri
compositori come Kurt Weill (19001950), Dmitrij Šostakovič (19061975), Nino Rota (1911-1979) o
Benjamin Britten (1913-1976), di
poco più vecchi di lui, che con la
loro vita hanno riempito il secolo
scorso, e che - pur vissuti in mondi
e in situazioni incomparabilmente
diverse, quando non diametralmente opposte - hanno in comune la
capacità di creare straordinarie melodie e di essersi sottratti prima alle
lusinghe della dodecafonia e poi ai
diktat della scuola di Darmstadt.
Il concerto si è concluso con il travolgente Americano a Parigi che ha
suscitato un entusiasmo e una allegria tali che l’orchestra ha dovuto
concedere il bis del finale! E a proposito dell’orchestra non posso non
segnalare l’impeccabile prestazione
delle parti solistiche che abbondano
soprattutto in Gershwin: per citarne
alcune ricordo il melodioso violino di
Luca Santaniello, il timpano assolutamente perfetto di Viviana Mologni,
la voce suadente della tromba di
Alessandro Caruana. L’orchestra
tutta in realtà ha dimostrato grande
passione e versatilità in un programma non facile e non proprio
usuale.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Allucinazioni estive e spinosauri nel parco
Se in un caldo pomeriggio d’estate
state passeggiando nei Giardini
Pubblici, imputerete al caldo la visione dello Spinosauro a grandezza
n. 26 VII - 8 luglio 2015
naturale che divora un pesce. O forse penserete di essere finiti nel
remake di Jurassic Park. Ma non si
tratta né delle alte temperature, né
di un set cinematografico: si tratta
invece della nuova mostra “Spinosaurus. Il gigante perduto del Cretaceo”, frutto della collaborazione tra
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Museo di Storia Naturale di Milano,
National
Geographic
Society,
University of Chicago, e Geo-Model.
L’esposizione
rappresenta
l’occasione ideale per riaprire alla
cittadinanza e al pubblico il prestigioso Palazzo Dugnani, che fu
nell’Ottocento la prima sede del
Museo di Storia Naturale di Milano e
che diventa ora sede distaccata dello stesso, dedicata alle mostre temporanee.
L’allestimento milanese è una versione ampliata di quello statunitense
e focalizza l’importanza del contributo italiano nella lunga vicenda
degli studi su Spinosaurus: iniziata
nel 1912 con i primi ritrovamenti di
Ernst Stromer e bruscamente interrotta con la distruzione dei reperti
durante la seconda guerra mondiale. Questa affascinate avventura è
ricominciata nel 2005, con lo studio
di un enorme muso di questa specie, conservato al Museo di Storia
Naturale di Milano, ed è continuata
nel 2008, grazie a un nuovo esemplare scoperto nel deserto del Sahara, e studiato pubblicato sulla prestigiosa rivista Science.
Le “star” assolute della mostra sono
il modello in grandezza naturale del
dinosauro,
riprodotto
secondo
l’aspetto “in vivo”, e la riproduzione
completa dello scheletro lunga 15
metri, ottenuta attraverso la scansione dei fossili e la stampa 3D, e,
per la prima volta, sono anche esposti esemplari mai visti delle collezioni del Museo di Storia Naturale
di Milano, messi a disposizione dai
Conservatori delle varie sezioni. A
guidare il visitatore tra i siti remoti,
gli esemplari fossili e le avveniristiche tecniche di studio vi sono i filmati originali degli scavi e delle ricerche nel deserto di Kem-Kem
(Marocco), la storia delle scoperte
precedenti, con la ricostruzione
dell’ufficio del paleontologo Stromer,
modelli anatomici virtuali, animazioni e un’accurata pannellistica in ita-
liano e inglese, oltre a un servizio di
iniziative didattiche mirate, rivolto
alle classi di ogni ordine e grado e
un’offerta di visite guidate con operatori specializzati.
Tra le varie iniziative nell’ultima
stanza sono ospitate le tecnologie
contemporanee usate dagli studiosi
per ricreare modelli 3d di ossa e animali, per la gioia dei più piccoli (e
dei più grandi) qua può essere acquistata la riproduzione del volto
dello Spinosauro perché faccia
compagnia nella calda estate milanese.
Valeria Barilli - Benedetta Marchesi
Spinosaurus. Il gigante perduto
del Cretaceo Palazzo Dugnani, via
Manin Milano lunedì dalle 9:30 alle
13:30* martedì, mercoledì, venerdì,
sabato e domenica dalle 9:30 alle
19:30* giovedì dalle 9:30 alle 22:30*
(* l'ultimo ingresso un'ora prima della chiusura) Biglietti € 10,00/€
8,00/€ 5,00/Omaggio
Alla Gam non si spara sul pittore (e neanche sul pianista)
È una mostra che sorprende Don’t
Shoot the Painter. Dipinti dalla UBS
Art Collection, curata da Francesco
Bonami e ospitata alla GAM dal 17
giugno al 4 ottobre, non solo per
l’altissimo livello qualitativo delle
opere esposte ma anche, e forse
soprattutto,
per
l’innovazione
dell’allestimento. Le pareti delle sale
al piano terra sono coperte da gigantografie che riproducono le sale
della GAM come sono quando ospitano la collezione permanente del
museo e su di esse, come in una
quadreria ottocentesca, i dipinti della collezione UBS. Un dialogo generazionale dove le collezioni ottocentesche accolgono e danno risalto al
contemporaneo, attribuendo ad esso un valore ancora nuovo.
L’esposizione è un omaggio alla pittura contemporanea e riunisce per
la prima volta alla GAM di Milano
oltre cento tra i maggiori capolavori
della UBS Art Collection di novantu-
no artisti internazionali, dallo sguardo fotografico di Thomas Struth
all’arte neo espressionista di JeanMichel Basquiat. In mostra, visibili
per la prima volta al pubblico italiano, oltre 100 tra le maggiori opere
della UBS Art Collection dagli anni
‘60 ad oggi di 91 artisti internazionali fra cui John Armleder, John Baldessari, Jean-Michel Basquiat, Max
Bill, Michaël Borremans, Alice
Channer, Sandro Chia, Francesco
Clemente, Enzo Cucchi, Günther
Förg, Gilbert & George, Katharina
Grosse, Andreas Gursky, Damien
Hirst, Alex Katz, Bharti Kher, Gerhard Richter, Thomas Struth, Hiroshi Sugimoto, per citare alcuni nomi.
Il titolo, Don’t Shoot the Painter, è
un riferimento ironico alla frase
“don’t shoot the pianist” che spesso
compare nei saloon dei film western: ogni volta che le idee e i linguaggi dell’arte si confondono e
rendendo difficile decifrare il signifi-
cato degli elementi in gioco, la pittura torna sulla scena per riportare
l’attenzione su ciò che è facilmente
riconoscibile e interpretabile da tutti,
esattamente come la musica del
pianista nei film western riporta
l’ordine nel caos del saloon.
La mostra durerà fino alla fine
dell’estate, in questi mesi di caldo
cogliete l’occasione, andate a fare
una passeggiata al parco di Palestro ed entrate a sbirciare la mostra
(acquistando il biglietto per il museo
l’ingresso è gratuito): non ne rimarrete delusi!
Don’t Shoot the Painter. Dipinti
dalla UBS Art Collection GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano
via Palestro 1 martedì – domenica
9:00 - 19.30 giovedì apertura straordinaria mostra fino alle 22.30 biglietto intero € 5,00 biglietto ridotto
€ 3,00 Ingresso gratuito ogni giorno
dalle ore 16.30 e tutti i martedì dalle
ore 14.00
Il principe dei sogni
Defilata rispetto alla grande retrospettiva dedicata a Leonardo e meno “milanese” rispetto alla mostra
dedicata all’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, nella Sala delle
Cariatidi al Palazzo Reale di Milano
è racchiusa una mostra gioiello:
quella da titolo “Il Principe dei sogni.
Giuseppe negli arazzi medicei di
Pontormo e Bronzino”. Nella grande
sala monumentale sono radunati,
dopo centocinquanta anni, i 20 a-
n. 26 VII - 8 luglio 2015
razzi cinquecenteschi commissionati da Cosimo de' Medici per raccontare la storia del personaggio biblico
di Giuseppe, le cui vicende sono
narrate nella Genesi.
L’esposizione è curata da Louis
Godart e riunisce l'intero ciclo di arazzi che i Savoia avevano diviso
nel 1882 tra Firenze e il Palazzo del
Quirinale; grazie all’impegno della
Presidenza della Repubblica Italiana e del Comune di Firenze, i grandi
panneggi tornano a essere esposti
insieme in una mostra unica. Dopo
la tappa di Roma, nel Salone dei
Corazzieri del Palazzo del Quirinale,
sono a Milano e successivamente a
Firenze nella Sala dei Duecento di
Palazzo Vecchio dal 15 settembre
2015 fino al 15 febbraio 2016.
Nella grande sala decorata gli imponenti arazzi riempiono le pareti e
nella semioscurità i colori dei tessuti
risplendono. Questa serie di panni
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monumentali, oggetto di un complesso e pluridecennale restauro
presso l’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze e il Laboratorio Arazzi del
Quirinale, rappresenta una delle più
alte testimonianze dell’artigianato e
dell’arte rinascimentale. Gli arazzi
con le Storie di Giuseppe vennero
commissionati da Cosimo I de’ Medici tra il 1545 e il 1553 per la Sala
dei Duecento di Palazzo Vecchio a
Firenze. I disegni preparatori furono
affidati ai maggiori artisti del tempo,
primo fra tutti il Pontormo. Ma le
prove predisposte da quest’ultimo
non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo del Pontormo e già pitto-
re di corte, e a cui si deve parte
dell’impianto narrativo della serie.
Tessuti alla metà del XVI secolo
nella manifattura granducale, tra le
prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi
Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati.
Un'occasione per immergersi nella
bellezza, intensa e rara, di opere
che oltre che di arte parlano anche
di maestria artigiana e soprattutto
della storia d'Italia, attraverso la vicenda esemplare di Giuseppe, degli
artisti che lo hanno immaginato e
dei committenti che hanno finanziato il lavoro.
Audioguide e didascalie guidano il
visitatore in un percorso alla scoperta della bellezza e della maestria
artigiana del cinquecento fiorentino,
senza perdersi in dettagli specialistici o ad appannaggio esclusivo
degli addetti ai lavori.
Il principe dei sogni Giuseppe
negli arazzi medicei di Pontormo
e Bronzino fino al 23.08.15 Palazzo
Reale Lunedì 14.30 -19.30 Martedì
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 Giovedì e sabato 9.30 –
22.30
La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano
Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione
Prada. La celebre stilista Miuccia
Prada e il marito Patrizio Bertelli
hanno regalato al capoluogo lombardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia
di arte, ma anche di architettura e,
soprattutto, di rigenerazione urbana.
Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per
offrire ai visitatori una superficie di
19.000 mq dove trovano posto non
soltanto spazi espositivi per le varie
mostre temporanee, ma anche un
cinema, un’area didattica dedicata
ai bambini, una biblioteca e il Bar
Luce concepito dal regista Wes Anderson che si ispira ai celebri caffè
meneghini e già diventato “cult” nel
giro di pochi giorni.
La molteplicità e la versatilità degli
spazi della Fondazione consentono
un’offerta culturale estremamente
variegata. Sono attualmente aperte
al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia
Prada e Germano Celant, “In Part” a
cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober
e di Louise Bourgeois presso la
“Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato
di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un
segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è
“Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione
per il contemporaneo per rivolgersi
al passato, all’arte antica dove sono
scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una
mostra che presenta l’ambiguo rapporto fra l’originale e la copia
nell’arte greca e romana.
Un allestimento geniale presenta
più di sessanta opere che dialogano
fra di loro e con lo spazio esterno
circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente
sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni,
emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia
romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da
Rem Koolhaas e dal suo studio
OMA consentono a una vecchia
fabbrica di trovare nuova vita in un
tempio che ospita personaggi della
mitologia, guerrieri e divinità quali
Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del
mondo, dai Vaticani al Louvre. La
Fondazione Prada diventa oggi il
modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani
e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio
creativo di Milano la nuova Capitale
Europea.
Giordano Conticelli
Fondazione Prada - Largo Isarco 2
Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i
giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€
gratuito minori 18 anni e maggiori di
65
L’Africa si mostra a Milano
L’Africa approda a Milano con una
mostra allestita nel nuovo Mudec, il
Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12
anni di agognati lavori. Il capoluogo
lombardo, a breve al centro del
mondo come sede dell’Esposizione
Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle
tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare
nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli
spiriti” è un interessante progetto
espositivo che raccoglie circa 270
manufatti e che da il via alla vivace
n. 26 VII - 8 luglio 2015
stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO
2015.
La mostra si articola in vari ambienti
presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana
dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e
le cerimonie religiose. Sorprendenti
risultano essere alcuni manufatti
come cucchiai e olifanti realizzati
interamente in avorio ed eseguiti
con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è anche il progetto d’allestimento che
tenta di creare un’atmosfera intima
e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è
la soluzione adottata nella prima
sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche
sorrette da una struttura che vuole
forse richiamare le affascinanti e
impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di
alcuni effetti sonori come il frinire
dei grilli o il penetrante ritmo delle
percussioni, espedienti che aiutano
il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è
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la possibilità che ha quest’ultimo di
far rivivere le divinità di un altare
vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita
gratuitamente, il visitatore è invitato
a lasciare un oggetto personale in
segno di devozione per manufatti
che riescono ancora oggi a serbare
in sé un elevato valore sacrale.
La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e
suggestiva illuminazione, i singoli
reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di
polvere e di impronte lasciate sulla
superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni
pannelli, ora velati da un sottile tessuto reticolato, ora posti in una zona
d’ombra, lontano del cono di luce.
Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio,
elemento che porta il visitatore a
doversi sforzare per leggerle. Tutti
questi aspetti di disturbo non vanno,
comunque, a intaccare una mostra
che nel complesso risulta essere un
ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si
affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea.
Giordano Conticelli
Africa - la terra degli spiriti fino al
30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
Raphael Jerusalmy
I cacciatori di libri
edizioni e/o, 2014, pp. 272, euro 16,50
Si narra che chi per primo acquisirà
i testi antichi greci e romani provenienti dal Medio Oriente avrà la supremazia del mondo conosciuto.
Siamo nel 1462, il re di Francia Luigi XI , alleato alla potente famiglia
dei Medici di Firenze, contende
questo primato al Papa di Roma.
Tutti si ingegnano per avere emissari eruditi e spavaldi per andare in
Terrasanta, alla fonte del sapere
dopo la caduta di Costantinopoli.
Là esiste una Confraternita segreta,
detta della "Gerusalemme sottostante" che riunisce sapienti ebrei,
monaci europei, arabi, tutti eruditi
che si applicano sui testi fino allora
conosciuti, da Platone in poi, in un
sodalizio impensabile tra oriente e
occidente. Gli ebrei in particolare
hanno una grande parte nella vicenda, per la spregiudicatezza delle
alleanze nello scegliere i conoscitori, che con competenza e passione
siano in grado di trattare un testo
valido dal punto di vista filosofico o
scientifico.
Qui entra in scena il noto poeta licenzioso maledetto, autore della
Ballata des Pendus, François Villon,
un avventuriero capace di ammaliare con la potenza dei suoi versi
principi e cortigiani. Egli era una ribaldo che si trasformava di fronte
alla bellezza di un libro antico, che
per sue frequentazioni passate, conosceva molto bene. Il vescovo di
Parigi in persona, inviato dal re Luigi
XI, lo andò a prelevare in prigione,
mentre trentunenne era in attesa
dell'impiccagione, per inviarlo in Oriente a compiere le sua missione di
cacciatore di libri. Fu così che entrò
in contatto con il noto tipografo tedesco Fust, con stamperie ovunque,
ma non in Francia: che accettò di
collaborare con lui e gli altri , fornendo molti testi preziosi per vetustà e argomento.
Molti altri personaggi entrano in
scena a comporre un mosaico articolato in una geografia che spazia
dall'Europa alla Terrasanta: rabbini
dall'aspetto atletico, una schiava
berbera seduttrice dagli occhi a
mandorla ammaliatrice di Villon, noto per la sua debolezza nei confronti
del gentil sesso, una sequela di eruditi inchiodati su manoscritti millenari e polverosi, per tramandare a
noi posteri un sapere antico e imprescindibile.
Tra varie altre peripezie veniamo
trasportati nella caverna dove sono
custoditi i libri degli Esseni, che ci
parlano del sacerdote Anna e delle
ultime parole di Cristo, prima di cadere nelle mani di Pilato. Testo fondamentale, se solo fosse veritiero.
E mentre la compagnia inviata dal
re Francese ritorna in Europa, con il
prezioso carico di testi rinvenuti, Villon viene trattenuto ancora in Terrasanta, e per fargli accettare il cambio di programma, gli fanno ritrovare
la schiava berbera Aisha, che mentre lui scrive nella grotta che farà
loro da casa, lo accudisce amorosamente, alimentando la sua immaginazione ... .
Un testo sorprendente ai nostri occhi, ignari perlopiù come siamo della aspra vita dei libri nell'antichità,
vita salvaguardata dal coraggio e la
spavalderia di pochi eletti, a volte
ribaldi ma saldi nella loro fiducia nei
confronti della parola scritta.
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
58 spettacoli in 18 giorni!
La Milano del teatro salta l’abituale
letargo estivo e quest’anno resta
viva anche a luglio, grazie a Expo.
n. 26 VII - 8 luglio 2015
L’iniziativa del comune, il cosiddetto
“Padiglione Teatri”, presenterà in un
unico cartellone, dal 13 al 30 luglio,
58 spettacoli prodotti da 58 diverse
compagnie e teatri milanesi, tutti in
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scena per un solo giorno al Franco
Parenti o all’Elfo Puccini.
Quando ho sentito per la prima volta
di questa iniziativa ho pensato “Bella idea!”, però subito dopo mi sono
detto: “Un attimo, ma ci sono davvero 58 compagnie pronte a rappresentare la Milano teatrale e a mostrare un loro lavoro al pubblico internazionale? Non ci sarà il solito
rischio italiano per cui - per includere tutti - si livella la qualità verso il
basso?”
E in effetti, oltre ai teatri che presentano una loro produzione, alcune
compagnie di conclamata fama nazionale e altri giovani gruppi emergenti, ci sono una manciata di
ensemble di cui io non ho mai neanche sentito parlare. Certo, il fatto
che non ne abbia sentito parlare io direte voi - non ha un gran valore
statistico (e nemmeno - grazie a Dio
- qualitativo), però il dubbio che siano un po’ tanti spettacoli in un po’
pochi giorni resta: c’è il forte rischio
di affastellamento.
La faccia positiva della medaglia,
però, è che viene offerta una foto-
grafia abbastanza ampia e variegata dell’ecosistema teatrale milanese,
una rete complessa, intrecciata e
piena di vitalità.
Difficile dare dei consigli, anche
perché essendo le repliche in data
secca, è probabile che ognuno andrà a vedere “quello che riesce”.
Però ci provo lo stesso segnalando
alcuni spettacoli da non perdere
partendo, ovviamente, dalla festa
del 13 luglio al Franco Parenti organizzata da IT - Independent
Theatre.
Martedì 14 all’Elfo Puccini il TeatroI
con “Deve trattarsi di autentico amore per la vita”, monologo interpretato
da Federica Fracassi.
Mercoledì 15 all’Elfo Puccini la
compagnia Animanera con “Fine
famiglia” di Magdalena Barile.
Giovedì 16 al Franco Parenti il CRT
con “L’insonne” da Agotha Kristof,
regia di Claudio Autelli.
Venerdì 17 all’Elfo Puccini “Eros e
Thanatos”, testo e regia di Serena
Sinigaglia.
Lunedì 20 al Franco Parenti la danza della Fattoria Vittadini con “To
this purpose only”.
Martedì 21 all’Elfo Puccini il Teatro
della Cooperativa con “Chicago
boys”, regia di Renato Sarti.
Mercoledì 22 all’Elfo Puccini
“NERDS” del Teatro Filodrammatici,
testo e regia di Bruno Fornasari.
Venerdì 24 all’Elfo Puccini “Peperoni difficili”, testo e regia di Rosario
Lisma, con in scena fra gli altri Anna
Della Rosa.
Venerdì 24 al Franco Parenti “Shakespeare a merenda” di Elena Russo Arman.
Martedì 28 all’Elfo Puccini “Il sugo
della storia” prodotto da Proxima
Res.
Consapevole di aver sicuramente (e
involontariamente)
dimenticato
qualcosa di imperdibile, vi auguro
una buona estate.
Emanuele Aldrovandi
per il programma completo clicca
qui
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
[email protected]
Cinema sotto le stelle
È ripresa la programmazione
del cinema all'aperto di Milano
con Arianteo: segnaliamo due titoli
in programmazione lunedì 13 e martedì 14 a Porta Genova c/o il Mercato Metropolitano (via Valenza 2) h
21.30
LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI
T.S. SPIVET
di Jean-Pierre Jeunet [Canada
Francia, 2013, 105']
con Helena Bonham Carter, Judy
Davis, Callum Keith Rennie, Kyle
Catlett, Niamh Wilson
Dopo “Il favoloso mondo di Amelie”
e “La città perduta” Jeunet ci regala
ancora una festa per gli occhi, come
lo ha definito il Guardian, un mondo
prodigo di meraviglie e sorprese inconsuete, che è valso al film diversi
premi e nomination per i Cesar
francesi per fotografia, scenografia
e costumi.
Film di ispirazione letteraria, tratto
dal romanzo Le mappe dei miei sogni (The Selected Works of T.S.
Spivet) opera prima di Reif Larsen,
ci conduce per mano a scoprire
n. 26 VII - 8 luglio 2015
un’America sconosciuta con gli occhi spalancati e curiosi di un bambino. Persone e personaggi, non solo
luoghi, che in realtà sono in gran
parte di terra canadese, proprio per
mantenere una certa verginità e
ampiezza del paesaggio rurale.
T.S. Spivet (Kyle Catlett) è un piccolo inventore appassionato di cartografia e fisica, che vive e cresce in
campagna, nel Montana, da decenne prodigio, in una famiglia bizzarra
e fuori dal comune, con una madre
naturalista che studia gli insetti e
distrugge tostapane, un padre cowboy un po’ fuori dal tempo, una
sorella che vuole diventare una star,
un fratello gemello compagno di
giochi per poco. È amato dalla sua
famiglia e va a scuola come tutti i
bambini della sua età, e non gli importa più di tanto non essere compreso dal suo insegnante che lo ritiene affetto da un complesso di superiorità e non sopporta il suo genio.
La sua migliore invenzione, uno
strumento geniale che riproduce il
moto perpetuo, fa vincere al talentuoso ragazzino un premio rinomato
riservato a scienziati e accademici
consumati, e lui parte per Washin-
gton, attraversando gli USA su un
treno merci, o grazie a passaggi su
tir cromati, per andare a ritirare
l’ambito premio e tenere il discorso
di rito davanti a una giuria inizialmente inconsapevole che lui sia soltanto un bambino.
È un film completamente segnato e
riempito dal bambino speciale T.S.,
anche voce narrante, ma soprattutto
sguardo che si rispecchia nella fotografia di Delbonnel (storico compagno di avventure cinematografiche di Jeunet) carica di colori intensi
e di oggetti, e di movimenti di macchina che riproducono la mobilità e
la curiosità degli occhi del ragazzino.
Il piccolo protagonista, sensibile e
empatico e caratterizzato da una
fortissima fotogenia, è circondato da
comprimari d’eccezione che reggono a meraviglia il ruolo di ‘spalla’: su
tutti Helena Bonham Carter, dolcissima madre con le sue magnifiche
ossessioni per i coleotteri, a cui viene affidata anche la parte più commovente del film.
Adele H.
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È ARRIVATA MIA FIGLIA
di Anna Muylaert [Brasile, 2015,
114']
con Regina Case, Michel Joelsas,
Karine Teles, Lourenço Mutarelli
Val lavora come governante presso
una famiglia ricca di San Paolo
composta da un padre pseudoartista che vive di rendita, una madre
giornalista di moda in carriera e un
ragazzo un po' perditempo. La donna si prende cura della casa, una
lussuosa villa con piscina, e di Fabinho, il figlio dei padroni che ha
cresciuto come suo. Il ragazzo ha la
stessa età di Jessica, la figlia che
ha affidato a parenti nel nord est del
Brasile e che mantiene con il suo
lavoro.
Entrambi i giovani devono sostenere l'esame per accedere all'università. Jessica vuole diventare architetto e studiare nell'ateneo di San Paolo. In attesa di trovare una sistemazione starà con la madre che non
vede da più di dieci anni. Giunta a
San Paolo, la giovane è meraviglia-
ta dal lusso della casa, una vera villa razionalista, e anche dalla sistemazione della madre, uno stanzino
stipato in cui lei dovrebbe dormire
su un materasso per terra. Sfacciatamente chiede ai proprietari aperti
e democratici se può occupare la
suite degli ospiti. Il padrone di casa,
colpito dalla ragazza, glielo concede.
Con naturalità la giovane accede a
spazi e servizi che sono socialmente negati alla madre e che la mettono in imbarazzo: Val si ritrova a servire a tavola la figlia e il suo padrone come se Jessica se membro della famiglia padronale. La donna non
si raccapezza, sa che nei rapporti di
classe ci sono linee che non si possono oltrepassare, lei sa stare al
suo posto ma quella ragazza che
addirittura fa il bagno in piscina con
Fabinho e un suo amico la mette in
cattiva luce presso Donna Barbara.
Su pressioni della padrona urge trovare una sistemazione esterna a
Jessica.
Val si trova tra due fuochi: Donna
Barbara che le ricorda le regole di
comportamento e la figlia che di
queste regole se ne infischia e sollecita la madre a ritrovare una dignità calpestata. L'arrivo di Jessica è
stato uno sconquasso, lei ha superato il test universitario, Fabinho no,
in più ha seminato dubbi con il suo
comportamento "sovversivo". In Val
comincia una rivoluzione silenziosa
che non può essere fermata.
La regista Anna Muylaert ha saputo,
attraverso una commedia ironica,
occhieggiare a dinamiche complesse e sottrarsi a facili umorismi, stereotipi e cliché. Bravissime le attrici
protagoniste specie Regina Casé
nei panni di Val e Camila Márdila
nel ruolo di Jessica per cui ha ottenuto un premio al Festival di Sundance. Il film ha ricevuto anche l'audience award a Berlino.
Dorothy Parker
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
VIA TORINO: UNA FERITA CHIUSA BENE
http://blog.urbanfile.org/2015/07/05/zona-centro-storico-il-nuovo-palazzo-di-via-torino/
STORIE DIGITALI
UN TRAM CHE SI CHIAMA 22
https://youtu.be/xdvzr1V0jYE?list=PLOunRc2i0A_gOt3qw-rn38pR2khpY45Nh
n. 26 VII - 8 luglio 2015
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