RM0907_06-PrimoPiano05-K1:Il Secolo
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SECOLO D’ITALIA 6 Basta nichilismo e individualismo, lo storico invoca una “primavera culturale” e una svolta valoriale a beneficio delle nuove generazioni VENERDÌ 9 LUGLIO 2010 AI GIOVANI DIAMO FIDUCIA, DEVONO FARE MEGLIO DI NOI PIACCIA O NO, LA FASE DELLA TRANSIZIONE STA FINENDO, ADESSO SI PUÒ RICOMINCIARE A DISCUTERE ➔ SEGUE DALLA PRIMA portanti e che si deve pur cominciar a parlare delle cose positive. Quali sarebbero? Principalmente una, che però è tutta da inventare: e Cacciari e io – senza esserci messi d’accordo prima – abbiamo risposto allo stesso modo. Bisogna «aprire una fase costituente». Con un gioco di parole, si potrebbe dire che il paese ha bisogno di un ri-costituente. Ma in che modo, in quali fasi, partendo da quali occasioni? Cominciamo con il ricapitolare brevemente lo sfacelo nel quale ci troviamo. Proprio come nella lapide di Piazzale Michelangelo: guardiamoci intorno: questo è il monumento che ci siamo meritati, questa è l’Italia progressivamente costruita, o meglio distrutta, dalle generazioni grosso modo comprese fra i trentenni e i settantenni d’oggi, fra quella uscita dalla guerra e quella nata negli anni Ottanta. Quelli nati prima, lasciamoli alla loro pensione con l’augurio di godersela (si fa per dire). A quelli di dopo, rivolgiamoci chiedendo perdono e incitandoli a far meglio di noi (lo dice un settantenne). Quel che c’è, è il nostro monumento, pienamente meritato: ce lo siamo costruiti pezzo per pezzo. Dal ’45 a oggi abbiamo lavorato – attraverso la ricostruzione postbellica, la guerra fredda, gli anni di piombo, il riflusso, Tangentopoli e la “seconda repubblica imperfetta” – anche a distruggere, per quanto non in modo univoco e concorde, tutto quel che avevamo: cioè, appunto, l’identità e i valori, proprio le cose che ci mancano oggi e della mancanza delle quali andiamo di continuo alla ricerca dei responsabili. Ma il punto è che gli italiani sono stati perfetti interpreti di un certo verbo occidentale fondato sulla distruzione nichilistica di tutto quel che non fosse primato dell’economico e dell’utilitaristico: per lunghi anni, perfino lo studio e la cultura (“studia, ché ti fai una posizione…”) sono stati funzionalizzati anzi asserviti agli obiettivi dell’affermarsi individualmente, dell’esercitare diritti sempre più ampi (mettendo da parte il corrispettivo discorso dei doveri), nel guardare esclusivamente o comunque principalmente all’utile e al guadagno. La cultura? “E per che farne”? “A che serve”? La solidarietà? “A queste cose, ci pensi lo Stato” (ma al tempo stesso si evadevano le tasse). C’è da meravigliarsi se, con questi princìpi, abbiamo finito con il sentirci deboli e minacciati – noi, figli dell’opulenza e della società del benessere… – dagli extracomunitari che arrivano senza nulla, ma hanno la loro identità comunitaria, la loro religione, il loro senso della famiglia e della solidarietà: e abbiamo pensato che insidiassero la nostra identità, mentre altro non facevano, con la loro stessa presenza, che metterci davanti al nostro vuoto autoprovocato? La storia della società civile italiana somiglia all’apologo kantiano della colomba che, volando libera ma sentendo che l’aria le op- Piazzale Michelangelo, a Firenze, cui Cardini fa riferimento per parlare di una visione spesso miope degli italiani pone resistenza, desidera un cielo senz’aria per librarsi senza fatica: e non sa che, in quel cielo vuoto, essa non solo no si sosterrebbe in volo, ma addirittura morrebbe. Abbiamo sostituito religione, patria, solidarietà, senso dello stato e dei doveri, con le “Isole dei Famosi”, i centri commerciali, i telefonini, lo “sballo” del sabato sera, il culto dell’avere, del possedere e dell’apparire anziché dell’essere, la schiavitù nei confronti dei capricci del proprio Ego alla libertà comunitaria ch’è fatta anzitutto di rispetto dei propri doveri e dei diritti altrui. Ed ecco allora la validità della ricetta-Cacciari: «Cominciamo con il parlare delle cose positive». Forse è vero che al peggio non c’è mai fondo: ma facciamo L’EDITORIALISTA SUL “CORRIERE” GALLI DELLA LOGGIA HA APERTO IL DIBATTITO SUL VUOTO “POLITICO” (E NON SOLO) DELL’ITALIA un atto di volontà forte, fingiamo di averlo davvero toccato. Quando si sbatte il sedere contro il fondo, c’è una sola cosa da fare: rimettersi in piedi. Acciaccati e doloranti, ma con la sensazione che ora si ricomincia e che questa sarà la volta buona. Ci aspetta uno scorcio di legislatura, da ora al 2013. E ci aspetta un cambio della guardia, perché Berlusconi, nel bene e nel male, marcia verso gli ottant’anni. Il disagio che si registra di questi tempi del Pdl, e che si riflette nell’incapacità propositiva e programmatica del Pd, si chiama anzitutto fine del berlusconismo: se ne può pensare tutto il bene e/o tutto il male che vogliamo, ma il sistema del padre-padrone che pensa a tutto lui, che fa tutto lui, che dispone tutto lui, che compra-vende-comanda, non è eterno. Abbiamo alcuni mesi di riflessione, da qui al 2013, per riorganizzarci le idee e per preparare nuovi quadri e nuovi strumenti. Se nel Pdl sono sempre di più quelli che constatano che il partito-azienda non ha un domani e che il partito-plastica non serve a nulla, il succo di tutto è questo: che bisogna ricominciare a ridiscutere, re-imparare a stare insieme, riscoprire e rimodellare i valori desueti e costruirne di nuovi. Abbiamo bisogno di una riforma elettorale, perché il sistema del parlamento designato dalle segreterie ha abbassato la qualità dei nostri politici e ne ha accresciuto la corruttibilità; di un federalismo solidale, perché è inaccettabile un federalismo che distrugga l’Italia e mandi a remengo il Meridione; di una riforma fiscale che anziché fondarsi sui “tagli” riesca a battere l’evasione e restituisca non solo i redditi, ma anche i patrimoni alla loro necessaria funzione civica; di un nuovo patriottismo “italianista” ed “europeista”; di prospettive che ci aiutino a battere l’egoismo e a “risentirci popolo”; di una nuova primavera culturale che batta la tv-spazzatura, lo spettacolo-spazzatura, l’editoria-spazzatura; di un nuovo modo di fare informazione mediatica, che per esempio ci restituisca la coscienza dei problemi sociali e di quelli di politica internazionale, scomparsi dalla nostra opinione pubblica. Egoismo-individualismo, ignoranza-disinformazione, nichilismo-immoralismo: queste sono le nostre catene. Se ce ne liberiamo subito, è già tardi. Se indugiamo, siamo finiti. Franco Cardini È MORTO ANTONIO FIORE, A VALLE GIULIA NEL ’68, STUNTMAN, GIRAMONDO, ANTIBORGHESE FINO IN FONDO CIAO TONINO, SESSANTOTTINO PER SEMPRE ◆ Michele De Feudis U na esistenza sempre sulle barricate, ma con il sorriso sulle labbra. Tonino Fiore era un «essere allegro», secondo la definizione di Brasillach. Esponente dell’ala destra del ’68, tra i protagonisti della “battaglia di Valle Giulia”, ha terminato la sua esistenza terrena dopo aver combattuto senza tentennamenti l’ultima lotta contro un tumore. Settant’anni sempre vissuti pericolosamente, mai seduto sugli allori del conformismo. A Roma dal 1966, poi in giro per il mondo, è ritratto nella famosa foto _ e nei celebri poster – sulla scalinata dell’ateneo romano che fronteggia le camionette della celere il 1° marzo 1968. Lo avevamo intervistato sulle colonne del Secolo due anni fa. In una lunga conversazione Fiore aveva ripercorso la sua esperienza, arricchita da una fugace carriera nel cinema, ricercatissimo negli anni ’70. «Il coraggio non ci è mai mancato – raccontò – e con Bruno Di Luia fummo ingaggiati come comparse e stuntman nei film che si giravano a Cinecittà. Ho avuto anche una piccola parte ne Il giorno della civetta, con Claudia Cardinale. Altre volte facevamo gli acrobati, o nei polizieschi la parte dei cattivi. Lavorammo anche con Francesco Laudadio. Ci eravamo conosciuti a Valle Giulia. Un regista che veniva dal Pci e conosceva bene le mie idee. Ma mi volle ugualmente nei suoi film. Le differenze rimanevano, ma l’essere stati protago- nisti in un periodo emotivamente travolgente come il ’68, insieme, appianava ogni divisione. Per Squitieri io avevo il viso “di un perfetto tedesco”, e così sono finito anche a recitare, sempre come comparsa, in un film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma…». La passione per la politica lo aveva travolto da ragazzino. Tutto iniziò con i cortei per Trieste italiana. «Centinaia di studenti – spiegò Fiore – riempirono di tricolori le strade di Bari, città nella quale c’era una numerosa comunità di esuli istriano-dalmati, alloggiati nel Villaggio Trieste. Volevamo assaltare il consolato inglese. E lì trovammo schierati i carabinieri di Scelba». Poi dal capoluogo pugliese andò a Roma, dove nacque un sodalizio indissolubile con Mario, Stefano, Bruno, Maurizio e Loris, «i miei camarades». Una volta, su una pubblicazione di sinistra chiosarono una sua foto mentre era attorniato dalle forze dell’ordine a Giurisprudenza. Lo definirono sprezzantemente «un sottoproletario», per il suo abbigliamento. Mario Michele Merlino, scrittore, poeta e autore di E venne Valle Giulia (Settimo Sigillo), ne tratteggia un profilo partendo da quella immagine: «La giacca che indossava, e che suscitò il sarcasmo dei rossi, gliela aveva regalata mia madre. Era irriverente per vocazione, figlio di una cultura vitalistica e gioiosa. Non era un intellettuale, ma costituiva una colonna della nostra comunità. Come un monaco zen educò tanti giovani a uno stile di vita sobrio e improntato al coraggio. Si autodefiniva Anthony Flower, il “Comandante”, carismatico come il giovane Peppe Dimitri, che ne seguì le orme. Eravamo una coppia inseparabile, il guerriero e il filosofo…». Nel nostro ultimo incontro, entusiasta dei ragazzi del Blocco Studentesco ci lasciò con queste parole: «Che bello lo slogan “Giovinezza al potere”. Lo sottoscriverei anch’io a 70 anni…». E a noi piace ricordarlo così.