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TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°5 - EURO 6,00
Redazionale:
C’É UN’ITALIA ROVESCIATA CHE..
Maestri storici:
LUCIANO FABRO
Testimonianze:
GIANNI CARAVAGGIO
PIETRO COLETTA
HIDETOSHI NAGASAWA
Sulla Scultura:
ACHILLE BONITO OLIVA
Patrimonio storico:
LA PINACOTECA ALBERTINA
DI TORINO
N.A.B.A. MILANO
L.A.B.A. BRESCIA
Docenti:
GIULIO DE MITRI
GABRIELE DI MATTEO
BARBARA TOSI
Sul Restauro:
DUILIO TANCHIS
Fondazione Maimeri:
TRATTATO SULLA PITTURA
Ex studenti dell’Accademia di Roma
Recensioni
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REDAZIONALE
Distruggere l’Accademia di Brera
Intervista a
MICHELANGELO PISTOLETTO
La sua esperienza all’Accademia di Vienna
Intervista a
DANILO ECCHER
Direttore della GAM di Torino
Redazionale:
C’É UN’ITALIA ROVESCIATA CHE..
Maestri storici:
LUCIANO FABRO
Testimonianze:
GIANNI CARAVAGGIO
PIETRO COLETTA
HIDETOSHI NAGASAWA
Sulla Scultura:
ACHILLE BONITO OLIVA
Patrimonio storico:
LA PINACOTECA ALBERTINA
DI TORINO
N.A.B.A. MILANO
L.A.B.A. BRESCIA
Docenti:
GIULIO DE MITRI
GABRIELE DI MATTEO
BARBARA TOSI
Sul Restauro:
DUILIO TANCHIS
Fondazione Maimeri:
TRATTATO SULLA PITTURA
Ex studenti dell’Accademia di Roma
Recensioni
TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°4 - EURO 6,00
TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°5 - EURO 6,00
Intervista a
ENZO INDACO
Presidente dell’Accademia di Catania
PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI
Accademia di Catania
Intervista a
MARTINA CORGNATI
Docente all’Accademia Albertina di Torino
Intervista a
NICOLA MARIA MARTINO
Artista e Direttore dell’Accademia di Sassari
Intervista a
ALESSANDRO GUERRIERO
Designer e Presidente della NABA, Milano
UNICREDIT & ART
L’esperienza con l’Accademia Albertina
Una mostra
GIUSEPPE MARANIELLO
Ex studenti
MICHELE GIANGRANDE
Sommario ragionato
di Elisabetta Longari
Poiché l’Accademia di Brera è sempre
più attiva, in questo numero, nonostante il
grande rilievo dato a tale Istituzione, non si
segnalano che alcune delle sue numerose
iniziative, che pure sarebbero tutte degne
di nota (tra le omissioni il rilevante fatto di
avere partecipato alla settimana della cultura
con l’allestimento di una quadreria di pregiati
dipinti di Hayez). Brera ha dedicato di recente
due giornate di studi a Luciano Fabro, artista
e maestro di grande spessore al cui ricordo
viene dato notevole spazio in questo numero
di Academy, a incominciare dalla copertina, di
un’eloquenza straordinaria nel “dire” qualcosa
di ancora attuale, anzi, sempre più attuale, sul
Bel Paese. Proprio perché “fare memoria” al
presente è tra le vocazioni principali dell’arte,
l’attenzione di questo numero si sofferma
sulle motivazioni e sulle relative cerimonie di
consegna del diploma di secondo livello in
Comunicazione e Didattica dell’Arte, conferito,
in ordine cronologico, a Roberto Saviano,
al Monsignor Ravasi e a Fabio Mauri, nella
persona del fratello Achille Mauri. Achille Bonito
Oliva racconta cosa pensa della scultura oggi,
parla del ruolo di Fabro nel panorama dell’arte
e riflette sulle accademie, dimostrando, su
quest’ultimo argomento, che probabilmente gli
manca da molto tempo un’esperienza diretta
sul campo. Mentre procede la ricognizione
sulle Accademie private con due speciali, uno
su NABA di Milano e l’altro su LABA di Brescia,
viene dato risalto al prezioso Patrimonio
Storico dell’Accademia Albertina di Torino e il
critico Barbara Tosi, che segnala tre ex allievi
dell’Accademia di Roma, rilascia un’intervista
a Notargiacomo, facendo una sorta di “gioco
del rovescio” con il numero precedente (cfr.
n.4 di Academy), in cui era lei a intervistare
l’artista sulla sua attività. Auguriamo, in
senso lato, lunga vita al gioco del rovescio,
che, praticando un’inversione dello sguardo,
garantisce la pluralità necessaria a qualsiasi
attività libera, di cui l’arte e il pensiero sull’arte
sono l’emblema.
Iniziativa editoriale adottata come progetto dall’Accademia di Belle Arti di Brera
A A
DEMY
OF FINE ARTS
NUMERO 5 / Primavera 2010
SEDE
Viale Stelvio, 66
20159 Milano
tel. 02 87388250
fax 02 6072609
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DIRETTORE RESPONSABILE
Claudio Cugusi
DIRETTORE
Gaetano Grillo
DIRETTORE MARKETING
Marcella Renna
REDAZIONE
Gaetano Grillo
Elisabetta Longari
Alessandro Gioiello
GRAFICA E PUBBLICITÀ
Marcella Renna
3397880296
EDITRICE
L’IMMAGINE SRL
Zona Industriale Lotto B/12
70056 Molfetta (Ba) Italy
FOTOLITO E STAMPA
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SOMMARIO
*Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito
ACADEMY OF FINE ARTS
Iscritto al Tribunale di Trani
n.3/09
Fondato da Gaetano Grillo
HANNO COLLABORATO*
Francesca Alfano Miglietti
Sandro Baroni
Matteo Bergamini
Achille Bonito Oliva
Gustavo Bonora
Gianni Caravaggio
Pietro Coletta
Federica Facchini
Pietro Fortuna
Serena Francone
Laura Lombardi
Hidetoshi Nagasawa
Gianfranco Notargiacomo
Francesca Petrucci
Lorenza Pignatti
Raffaella Pulejo
Barbara Tosi
Dario Trento
Andrea Villani
02
Editoriale di Gaetano Grillo
04
Maestri storici: Luciano Fabro
12
Testimonianze: Achille Bonito Oliva
14
Sulla Scultura: Gianni Caravaggio e Pietro Coletta
16
Brera incontra: Fabio Mauri, Mons. Ravasi, Roberto Saviano
20
Patrimoni storici: Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino
24
N.a.b.a.: Politiche della memoria
28
L.a.b.a.: Una realtà innovativa
32
Docenti: Giulio De Mitri, Gabriele Di Matteo, Barbara Tosi
40
Sul Restauro: Duilio Tanchis, Bill Viola a Firenze
45
Accademia di Maerata e Achille Bonito Oliva
46
Ex studenti: Dionigi M. Gagliardi, Neda S. Moghaddam, Il Gruppo Terra
50
Fondazione Maimeri: Trattato sulla Pittura
54
Recensioni
1
In copertina:
Luciano Fabro
Foto di Giorgio Colombo
L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE.
C’è
un’ITALIA
rovesciata che...
c’è un “sistema
dell’arte” che.....
c’è una
generazione di
artisti-docenti
che.....................
di Gaetano Grillo
redazionale
2
C’è un’Italia che vuole smantellare una grande accademia come
l’Accademia di Brera, c’è un’Italia che vorrebbe distruggere tutte le
accademie italiane, c’è un’Italia che non ama gli artisti, c’è un’Italia
che non vuole la ricerca, c’è un’Italia che non vuole riconoscere
ai docenti delle accademie il loro ruolo giuridico universitario, c’è
un’Italia che non costruisce il futuro per i giovani, c’è un’Italia che
vorrebbe una magistratura subordinata, c’è un’Italia che non crede
nella cultura, c’è un’Italia senza colonna vertebrale che si piega ad
ogni compromesso, c’è un’Italia che non sopporta gli intellettuali, c’è
un’Italia che…
C’è un’Italia che ama solo il profitto, c’è un’Italia a cui piace corrompere
ed essere corrotta, c’è un’Italia che vuole sentire le mani libere, c’è
un’Italia che osanna la furbizia e che la confonde con l’intelligenza, c’è
un’Italia che ammira i forti, c’è un’Italia che vuole essere sbrigativa,
c’è un’Italia che non sopporta le regole, c’è un’Italia che adora le
pacche sulle spalle, c’è un’Italia che si esprime nei corridoi, c’è
un’Italia che dimentica gli uomini di valore, c’è un’Italia che scende
sempre a patti con la delinquenza, c’è un’Italia che svende il suo
patrimonio, c’è un’Italia che ama fare la puttana…
C’è un’Italia tutta d’oro ma capovolta e impiccata a testa in giù,
nell’immaginario di Luciano Fabro in quel lontano 1968, in quegli
anni sui quali si è scatenato il recente revisionismo storico, in quegli
anni che ormai a molti sembrano essere l’origine di tutti i mali del
presente, il vaso di Pandora.
A guardare gli anni ’60 e ’70 oggi, dal crinale piatto, conformista e
compassato di questi nostri anni, si avverte invece tutta l’energia di
quei tempi, la straripante fiducia nella capacità di migliorare il mondo.
Gli artisti si muovevano come leoni, pronti ad aggredire con potenti
zampate tutto ciò che volevano cambiare.
Al triste calcolo mediatico dei nostri giorni corrispondevano la passione
vigorosa per i princìpi dell’arte e comportamenti eroici, sani, robusti e
ottimisti. Ai minimi, aridi e forse inutili spostamenti linguistici di quel
sistema artificiale che chiamiamo “contemporaneo”, corrispondevano
sperimentazioni, innovazioni e mutamenti sorprendenti che ci
facevano ripensare alla realtà con salutare entusiasmo radicale.
Nelle nostre accademie non venivano parenti, amici, fotografi e fan
a festeggiare le “lauree” con cappellini, trombette, mazzi di fiori e
tacchi a spillo, ma ragazzi accompagnati soltanto dal loro cieco
trasporto per l’arte, animati da una curiosità incontenibile, ragazzi
che rovesciavano le cattedre, mettevano a nudo i baroni, ragazzi
assetati di conoscenza che pretendevano sapere.
Oggi, al contrario, siamo noi a cercare di stimolare loro a visitare
le mostre, a leggere, a confrontarsi, a viaggiare; siamo noi ad
organizzare le loro esposizioni, a promuoverli, persino ad insegnargli
come muoversi tatticamente nel sistema dell’arte per avvicinarsi al
“successo”, a questa parola che trent’anni orsono ci faceva addirittura
rabbrividire, ci offendeva. Se l’artista aveva successo era asservito al
sistema, dunque, inoffensivo, inutile.
La copertina dell’ultimo numero di Academy l’abbiamo dedicata
ad un grande maestro che ha insegnato all’Accademia di Venezia:
Emilio Vedova. Un leone che ha folgorato tanti giovani con il suo
insegnamento ma anche con la sua travolgente passione per la vita e
per gli ideali. Un artista che ha vissuto facendo scelte coerenti e non
di rado opponendosi con coraggio a tutto ciò che poteva corrompere
il suo percorso di pensiero.
Con questo numero invece rendiamo omaggio ad un altro
protagonista dell’arte italiana che ha invece insegnato a Brera:
Luciano Fabro. L’occasione ci è data da un convegno che proprio
Brera ha dedicato recentemente alla sua opera di artista ma anche al
suo interessantissimo impegno didattico svolto in accademia. Fabro
ha insegnato con trasporto straordinario fertilizzando le intelligenze
di molti giovani che oggi sono artisti affermati. Fra l’Accademia di
Brera e la Casa degli Artisti, Luciano ha seminato idee, ha modellato
comportamenti, ha pulito preconcetti, ha terso cortine appannate, ha
insegnato a riflettere con acume.
Questa copertina sembra essere peraltro, anche un’efficace metafora
del momento che stiamo attraversando, un periodo non proprio
“aureo” e non proprio brillante sotto il profilo etico e culturale.
La paradossale situazione in cui si trovano le nostre accademie e
l’ancor più assurda circostanza in cui si trova Brera, sono la coerente
espressione di quella depressione sociale oltre che economica, in
cui versa oggi l’Italia, un’Italia che è fanalino di coda in Europa in
quanto ad investimenti su cultura e istruzione, un’Italia che non ha
un progetto culturale e che non esporta i suoi talenti.
Non ci sarà soluzione ai tanti problemi che stanno stritolando il nostro
sistema se non ci sarà un cambiamento sostanziale della mentalità di
questo Paese e della nostra stessa.
L.Fabro, Italia all’asta (Photo G.Ricci - A.Guidetti).
Quanti di noi sono disposti a spendersi per difendere e far valere
quelli che ritengono essere nostri diritti? Quanti di noi lottano per
affermare con coerenza quello in cui credono?
Questo era invece il clima culturale degli anni ’60 e ’70; sia da destra,
sia da sinistra, ognuno lottava per affermare i propri princìpi e i propri
valori. Le ragioni individuali venivano correttamente arretrate di un
passo rispetto alle ragioni sociali.
Oggi sono invece le ragioni individuali a prevalere e anche con
arroganza, presunzione, talvolta con volgare scompostezza e
finanche con violenza.
Noi uomini di cultura e di arte, noi persone sensibili e forse anche
civili, siamo quasi quotidianamente offesi dalla realtà, mortificati nel
nostro profondo, sbeffeggiati e derisi da una società che premia chi
incarna il modello opposto a quello statuto di valori nel quale pur ci
riconosciamo.
Quanti di noi sentono ancora l’orgoglio dell’appartenenza
all’accademia in cui insegnano, quanti di noi si oppongono al dilagare
del degrado? Quanti di noi si oppongono ai continui compromessi?
Quanti di noi hanno il coraggio di smentire chi mente? Quanti di noi
difendono ad ogni costo il rigore, la qualità, il merito? Quanti di noi
hanno il coraggio delle proprie scelte? Quanti di noi sono disposti a
battersi per le ragioni che rivendicano?
Se questa è la realtà di cui ci lamentiamo ogni giorno, vuol dire che
altro non è se non la conseguenza del nostro disimpegno!
L’impegno di Emilio Vedova e poi di Luciano Fabro, sono due
insegnamenti a cui dobbiamo guardare con rinnovato interesse. Loro
sono stati coerenti, ci hanno consegnato due esperienze di vita che
sono lezioni preziose e questo “tesoro” è la ricchezza più grande di
cui dobbiamo riappropriarci.
L’Italia d’oro, appesa a testa in giù è un monito ma Luciano ci ha
anche proposto una doppia Italia, ritagliata nella lamiera più povera
e funzionale possibile, quella lamiera che viene usata in edilizia per
le superfici percorribili. Una doppia Italia saldata su un asse poggiato
volutamente a terra, non una figura sospesa nello spazio ma attratta
dalla normale forza di gravità. Un’Italia verde, una doppia Italia
capace di rovesciare il senso.
3
una generazione di artisti-docenti che...
redazionale
Oggi nelle nostre accademie, nonostante tutto, ci sono ancora molti
artisti di valore ma trascurati dal mercato e dalla scena dell’arte, ci
sono uomini che portano avanti con coerenza le loro ricerche ma
frustrati dall’inutile rincorsa ad un “sistema dell’arte contemporanea”
che risponde ad altre modalità e ad altri interessi.
Emilio Vedova a Venezia, Alik Cavaliere e Luciano Fabro a Milano, ma
in passato anche Casorati a Torino, Morandi a Bologna, Monachesi o
Scialoia a Roma, Perez a Napoli e tanti altri artisti ancora sino ai nostri
giorni, hanno dato senso alle accademie apportando nuovi progetti
didattici in assoluta continuità con le proprie esperienze artistiche.
Forse dovremmo riflettere su questi temi e trovare la forza e la
determinazione per affermare le nostre posizioni con spirito di gruppo
uscendo dall’inutile isolamento individuale nel quale un po tutti ci
troviamo a lavorare delusi e quasi disillusi.
Le accademie sono luoghi di aggregazione, confronto e laboratorio
di idee, come tali potrebbero elaborare nuove risposte ad un
sistema dell’arte divenuto troppo noioso, conformista e prevedibile,
forse perchè troppo allineato al funzionamento della moda e del
consenso.
L’arte contemporanea, infatti, non è più tale perchè si esprime nel
presente ma perchè si identifica in un sistema internazionale che
risponde ad un codice preciso.
Un “sistema” e come tale, con le sue regole, i suoi templi, i suoi
sacerdoti, con le sue divise estetiche.
Un “sistema”, appunto, e come tale, una scatola chiusa e proprio per
questo motivo divenuto paradossalmente “accademico”, virtuoso,
decorativo.
Le Accademie invece non rispondono più a modelli culturali ed
estetici come lo sono stati in passato qello neoclassico e romantico,
paradossalmente sono rimaste talmente fuori dalle strategie da essere
oggi più avanti, più libere, più capaci di elaborare nuove idee!
C’è una generazione di artisti-docenti che, pur nella diversità
dei singoli percorsi artistici, può oggi rivendicare una comune
identità di provenienza e nuove prospettive.
LUCIANO FABRO
maestri storici
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L.Fabro, tre modi di mettere le lenzuola (Photo Giovanni Ricci).
“Con comme un peintre”
Sciatteria e rigore nella storia dell’arte di Fabro *
di Raffaella Pulejo
maniera monca, perpetrando la separazione netta tra la dimensione
del “fare” arte e quella del “teorizzare” sull’arte. Chi lavora in queste
istituzioni conosce l’ineguagliabile valore di pensare la teoria nei
luoghi e a contatto con chi l’arte la pratica e nel contatto con coloro
che vogliono impararla.
La storia dell’arte nasce nelle accademie a opera degli artisti. In
un tempo lontano, alle origini della modernità, a Firenze. A Giorgio
Vasari si deve la fondazione della prima accademia e le due prime
monumentali Vite degli artisti. Vasari non è il primo artista a scrivere
di arte, ma è il primo a scrivere in maniera sistematica e a sancire la
necessità che all’arte si accompagni il pensiero sull’arte.
La storia dell’arte naturalmente si evolve nel tempo, diventa
disciplina insegnata nelle università, produce figure professionali
che progressivamente si separano dalle figure degli artisti, i quali a
loro volta vengono ‘scippati’ dalla parola, laddove essa non sia pura
dichiarazione di poetica o dichiarazione programmatica. […]
La conseguenza estrema di questo furto, è che all’artista resta lo spazio
di espressione determinato dal comportamento, il comportamento
bizzarro che il senso comune riconosce ancora pigramente come
patologia del genio e carattere distintivo di ogni forma di artisticità
secondo un’attitudine che oscilla tra le due “figure”, entrambe sintomo
di alienazione sociale, della sciatteria e del dandismo.
“La sciatteria” è il titolo dell’ultimissimo paragrafo dell’ultimo capitolo
del libro di Fabro Arte torna Arte. […]
“Che cosa c’è di più artistico della sciatteria? Essa ha come opposto
la ricercatezza e l’affettazione. Per tradizione romantica -- scrive
Fabro -- l’artista è trascurato nel vestire, insensibile alle convenzioni
sociali; trascurante della propria persona e dell’effetto che fa sugli altri
al punto di voler essere indisponente. Oppure, all’opposto, teso ad
esibire la sua ricercatezza al punto di renderla indisponente quanto
la sciatteria. Anzi fa portare la sciatteria al punto di farla combaciare
con la ricercatezza: dandismo.”
Scambiata per una caratteristica propria dell’artista, la sciatteria
diventa una specie di rogna, spacciata per attributo distintivo del
genio, si trasforma in una malattia della pelle che respinge allo
sguardo, un segno distintivo di emarginazione sociale.
La sciatteria è probabilmente il primo impatto che molti ricevono
oggi dalla Accademia. Una forma di sciatteria che si accompagna a
un senso di abbandono, di dissoluzione per inedia, la cui reazione,
per contrasto, è una specie di snobbismo, un’attitudine a “marciarci”
traendo vantaggio dal lassismo generale, per poi disprezzarlo come
se non ci riguardasse.
La sciatteria, in questo senso, è qualcosa di più grave del disordine. Il
disordine si genera perché abbiamo qualcosa di meglio da fare, porta
una traccia di volontà. La sciatteria porta l’impronta del vizio capitale
dell’accidia, generato dall’impotenza della coscienza, dal lasciarsi
andare e dall’abbandono della responsabilità. È ancora una volta al
tema della responsabilità che Luciano Fabro ci richiama. […]
Egli procede nei suoi scritti per coppie di opposti, secondo un sistema
binario. Ecco, opposta alla sciatteria, l’altro polo necessario alla
dimostrazione.
C’è poi un altro modo, considerato dagli stranieri tipicamente italiano,
che riguarda la tecnica artistica, … Il termine usato è sprezzatura
e sta ad indicare un signorile distacco dall’esibizione tecnica, dalla
pignoleria nelle finiture, dalla stessa bravura; tutto ciò a favore di
una naturalezza coltivata ed esibita come mancanza di riguardo
verso la cortigianeria, l’accademismo, la puntigloisità artigianale e
l‘applicazione servile volta a distrarre la fatica e l’abilità meccanica.
La sprezzatura è la naturalezza declinata nell’arte, è per così dire
il manifestarsi della sua più intima natura. I passaggi dimostrativi
fanno parte del discorso logico e del discorso filosofico. Ma l’arte
come la natura mantengono i loro passaggi impliciti. Nella natura le
cose complesse si danno in un tutto immediato, la natura non spiega
5
maestri storici
“Con comme un peintre”. Così esordisce Luciano Fabro in una
lezione tenuta nel 1997 ai suoi studenti dell’Accademia di Brera,
ripetendo un modo di dire francese. “Scemo come un pittore”: è il
punto di partenza del senso comune riguardo il mestiere dell’arte,
un mestiere, appunto, che non assume dignità di pensiero (bene
lo sa chi conosce le difficoltà in cui versano le accademie nel loro
osteggiato riconoscimento di formazione di livello universitaria!). Il
tentativo è quello di costruire una cortina difensiva, dice Fabro ai suoi
studenti, contro il sentimento diffuso che non riconosce a coloro che
vogliono fare l’arte la responsabilità etica che questo ruolo comporta.
Nel tempo gli artisti si sono preoccupati di riscattare una propria
dignità personale o collettiva; alcuni invece ci “hanno marciato”
perché questo li deresponsabilizzava dalla ricerca, dal ruolo culturale
ed etico del loro lavoro.
“Oggi questo è un problema molto grave e molto sentito.Voi qui –
dice Fabro agli studenti -- vi trovate a dover fare questa operazione
di riscatto e il modo è quello di guardare a esempi di persone che
hanno vissuto a stretto contatto con gli artisti, che hanno condiviso
delle responsabilità, si sono presi in carico la responsabilità dell’arte
e degli strumenti dell’arte; persone che vivevano in un contesto in
cui arte e artisti si prendevano delle responsabilità che erano fuori dal
puro mestierismo dell’arte. ”
Il termine “responsabilità” batte come un martello nella lezione, negli
scritti e nell’opera di Fabro.
La lezione, documentata in un film di Giampaolo Penco (e proiettata
al termine delle giornate di studio che si sono svolte in Accademia
lo scorso febbraio), è dedicata a Spinoza. Il pensiero del filosofo è
utilizzato come metodo di analisi delle opere degli artisti olandesi
suoi contemporanei: Vermeer, Rembrandt, Ruysdael, Seghers,
Saenredam. La modalità è quella di una conversazione ‘socratica’
tra maestro e allievi, costruita tra affermazioni, domande, obiezioni,
nell’aggiustamento progressivo di tiro e nella mesa a fuoco di una
idea. L’idea spinoziana di un Dio, distante da quello trascendente della
tradizione biblico-cristiana, inteso come struttura razionale di tutta la
realtà, causa immanente e coincidente come logos con la Natura
stessa, apre alla lettura dello spazio descritto dagli artisti olandesi del
seicento come luogo della sensazione. Artista e spettatore, non più
esterni allo spazio dell’opera, vi sono ora immersi. Lo spazio non è
un “vuoto” riempito di oggetti , ma un tutto, sostanza fatta di materia
rarefatta o addensata che emette luce piuttosto che rifletterla. Le
differenza tra la visione degli artisti nordici rispetto a quelli dell’area
del Mediterraneo influenzati dalla visione trascendente della realtà
appare dal confronto di opere contemporanee dell’età barocca:
l’addensarsi di oggetti del barocco mediterraneo si oppone al rarefarsi
dello spazio descritto dagli artisti nordici che appare svuotarsi,
ripulirsi, superare il descrittivismo e l’horror vacui della precedente
tradizione nordica. Eccezioni in area mediterranea, Velasquez e
Bernini. Precursori, l’ultimo Tiziano e El Greco. […]
Non a caso la lezione ripresa da Penco si svolge sul loggiato
della Pinacoteca: Fabro e i suoi studenti sono seduti all’esterno, in
corrispondenza della sala dove sono esposti la Pala di Piero della
Francesca e il Matrimonio della Vergine di Raffaello.
Il rapporto con la storia dell’arte nel pensiero di Fabro è fortissimo e,
mi sembra, inedito tra gli artisti contemporanei nella compiutezza di
sistema. Un sistema che credo andrebbe ricostruito con attenzione,
proprio perché nella storia di Fabro, una parte importante è impegnata
nel ruolo di docente e di maestro. Per di più un maestro che possiamo
conoscere non solo dalla sua opera di artista e dalla qualità o dal
successo di molti fra i suoi allievi, ma anche dai suoi scritti. Ritengo
essere questa una testimonianza straordinaria di quanta arte e storia
dell’arte si faccia dentro istituzioni bistrattate nel sistema della cultura
in questo Paese, con il risultato di un impoverimento intellettuale
dell’arte ridotta a “sistema dell’arte” da una parte, e dissipazione di
un patrimonio di idee che nella migliore delle ipotesi sopravvive in
maestri storici
6
niente. In essa la verità si dà in modo semplice, mentre la struttura
resta nascosta, segreta. […]
Il testo che fonda e diffonde il concetto di sprezzatura è il Cortigiano
di Benedetto Castiglione (1° ed. Venezia 1528). Un gruppo di nobili si
riunisce nel palazzo di Guidobaldo da Montefeltro in Urbino e decide di
formare con parole un perfetto cortigiano, evitando le prescrizioni di
comportamento pratico a corte ma procedendo attraverso sequenze
dialogiche per definire il suo modello generale, la sua forma. Il
discorso che forma questo Cortigiano “perfetto” si costituisce tutto
a partire dall’enunciazione di una “regula universalissima”: “Fuggir
quanto più si po’, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la
affettazione; e , per dir forse una nova parola , usar in ogni cosa una
certa sprezzatura che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice,
venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi” (cap1 par26).
Questa regola della sprezzatura si fonda sul principio della grazia. A
sua volta la grazia nasce dal fuggire l’affettazione, in quanto pratica
dell’eccesso, del visibile, dell’ostentato, manifestazione dello sforzo,
della fatica; dall’usare in ogni cosa la sprezzatura (disinvoltura), in
quanto pratica che dissimula lo sforzo e la fatica, nasconde l’eccesso.
Tra nascondere ed apparire, si costituisce lo spazio della grazia :
insieme simulazione e rappresentazione. La scena della Corte, dei
rapporti sociali detti e agiti, è essenzialmente sotto il segno di una
teatralità globale. In età manierista il termine “sprezzatura” viene
usato dagli artisti e sopravive con una caratterizazione in senso
stilistico nell’età barocca. […]
Qui il paragone con il Cortigiano viene forzato da Fabro in una
direzione antitetica a quella implicita nel testo di Castiglione, rivolta
alla convenzione sociale assunta a modello di vita forzato per gli
artisti che dalla condizione rustica delle botteghe, si trovava a
vivere alle dipendenze di un signore, nei tempi e nei modi della vita
cortigiana. La sprezzatura nel testo di Fabro si riferisce alla natura
dell’opera, nella quale la rappresentazione dell’artista, come attore
sociale, sparisce.
La sprezzatura è l’affermazione autorevole di andare dritti al
risultato… Nella sprezzatura non è ammesso l’errore, né il superfluo
né la compiacenza; ma neanche la supponenza, l’approssimazione.
La sprezzatura, vale a dire l’indifferenza a essere apprezzati, si
colloca al vertice opposto della sciatteria… La sprezzatura è il
camminare su un filo solo perché è il tratto più breve del percorso, o
carponi per guardare meglio il suolo. E’ l’aspetto semplice, scarno,
francescano, aristocratico che ha l’Arte povera quando si muove con
arte, ed è la qualità, l’aspetto che viene a perdere quando si muove
con brutalismo manierato (rigida pignoleria dell’arte programmata/
Optical e la successiva minimal.)
La sprezzatura è il frutto di un’ascesi, di un distacco dalle apparenze,
dagli effetti superficiali, dal ridondante, dal superfluo. Con un termine
molto contemporaneo potremmo dire che si tratta di un atteggiamento
anticonsumistico delle idee, dei materiali, delle tecniche, degli
atteggiamenti stessi. La sola persona che riesce a tenere le redini di
questi due opposti è l’artista.”
Il percorso che porta fino al raggiungimento della sprezzatura è
rigoroso, richiede all’artista un controllo in ogni passaggio. All’inizio
c’è il lavoro e l’opera nasce debole, vulnerabile, deve conquistarsi
un posto nel mondo. Eleva la natura di grado assumendone il
procedimento intrinseco, oppure si ubriaca di tecnologia e, come nelle
colture intensive, “impoverisce il terreno” alla ricerca del massimo
sfruttamento e del massimo consenso. “Ma tutte queste arti, pur
diverse nel senso e nella qualità hanno un elemento in comune:
la difesa del lavoro. L’artista del consenso perché deve diventare
esemplare; l’artista artista perché non c’è nessun altro che lui che
può farlo” […]
*(estratto del contributo per il convegno. Le parentesi quadre indicano
i tagli del testo originale)
*Raffaella Pulejo è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia
di Brera e membro del CNAM.
Luciano Fabro con i suoi allievi, Accademia di Brera
la casa degli artisti
7
L.Fabro in diversi momenti nella casa degli artisti, Photo G. Ricci
maestri storici
“Giornate di studio” Luciano Fabro
8
L.Fabro, Italia d’oro (Photo G. Ricci)
Il 3 e 4 febbraio 2010 le Scuole di Comunicazione e Didattica dell’Arte
e la Scuola di Pittura dell’Accademia di Brera hanno promosso due
giornate di studio a cura di Laura Cherubini e Raffaella Pulejo, sulla
figura di Luciano Fabro, mirate soprattutto a una messa a fuoco del
suo ruolo di maestro all’interno dell’Accademia.
Gli interventi dei relatori invitati hanno affrontato aspetti della opera
artistica di Fabro in stretta relazione con la sua didattica, il ruolo
di fondatore, con Jole De Sanna e Hidetoshi Nagasawa, della
Casa degli Artisti e la sua relazione con gli artisti delle più giovani
generazioni che con lui si sono formati presso l’Accademia. Di qui
la scelta di alternare interventi di studiosi che a diverso titolo hanno
avuto relazione con Fabro, con i contributi di alcuni dei suoi allievi
(Airò, Caravaggio, Moro, Rudiger).
L’iniziativa ha voluto di aprire una riflessione sulla figura di Fabro
come teorico e docente all’interno dell’accademia in cui ha insegnato
dal 1983 al 2002, e che molto gli deve, senza la pretesa di essere
esaustiva, con il proposito di proseguire nel tempo gli studi sul suo
importante contributo. La pubblicazione degli Atti che le curatrici si
propongono di portare alla luce entro l’anno, sarà un passo ulteriore
su questa strada.
La fine in realtà era l’inizio
Gianni Caravaggio su Luciano Fabro
La mostra al Madre di Napoli era pensata e ideata da Luciano Fabro
stesso per marcare il significato dell’inizio, l’ ABC enunciativo di un
giovane artista in cui in nuce è già inclusa l’idea dei lavori futuri.
Siccome Fabro era tutt’altro che un formalista quell’ ABC è da
considerarsi l’enunciato di una sensibilità psicofisica che è ricorrente
fino all’ultimo lavoro realizzato. L’ evolversi della sensibilità scarta
innanzitutto la maniera o il regresso poetico: non esiste una maniera
o una ricetta Fabro ma una sua sensibilità.
Gli ultimi quindici anni di lavoro di Luciano sono quelli in cui a mio
avviso ha egli ha raggiunto l’apice dell’suo lavoro sia come opera
che come riflessione teorica indicando alle generazioni future la via
essenziale dell’arte. Su Luciano vorrei dire che non ha mai dimenticato
il cuore del principiante. Era sempre vicino al cuore dei principianti.
Con il senno di poi penso che la motivazione fosse che il principio per
lui rappresentava la questione essenziale dell’arte.
1Intervista con Carla Lonzi, in “Marcatre”, 19-22 aprile 1966,
ripubblicata in Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato, Bari, 1969)
si avvizziscono, si protraggono oltre misura, ciò dipende dal fatto che
non si verificano gli atti artistici necessari […]”.
Una volta definita la natura dello stimolo originario e il suo vitale
destino, si definisce l’essenza dell’esperienza e quindi della forma
come funzione e testimone dello stimolo vitale.
L’opera Sisifo che Fabro fece nel 1994 è il frutto lampante di tale
pensiero. Il mito di Sisifo diventa il ritratto dell’artista che, immerso
in una situazione di vuoto di senso, incarna l’atto artistico per
generare l’opera e sé stesso. Così si crea senso. Sulla parte curva
del cilindro di marmo, infatti, è incisa la figura dell’artista in posa
d’Atlante e raffigurato come satiro. Invece sulle due basi si trovano la
costellazione astrale dell’emisfero sud da una parte e dall’altra quella
dell’emisfero nord. In questo modo l’atto artistico, incarnato dalla
figura dell’artista, si trova in uno spazio immaginativo riproducendosi
però in una sua traccia fisicamente reale: l’impronta sulla farina.
Nell’opera Il giorno mi pesa sulla notte 1 già il titolo, inserito come parte
integrante dell’opera, suggerisce come l’artista incarni quell’immagine
cosmica che crea il susseguirsi di giorno e notte, il passare del
tempo come sensazione fisica o come stato d’animo. Una scheggia
di marmo rosa del Portogallo giace sulla parte scheggiata di una
colonna di marmo scuro dalla forma particolare. Il tutto è appoggiato
su delle biglie di vetro. Da una parte della scheggia di marmo rosa
s’irradia un rilievo di cerchi concentrici. La colonna su cui giace è
inizialmente di sezione ottagonale ma prolungandosi diventa ovale
come se volesse cercare di stampare nello spazio la costellazione
astrale che ha impresso sulla sua superficie.
In Il giorno mi pesa sulla notte 2 una forma di marmo rosa del
Portogallo scolpita in modo roccioso è posata sull’interstizio di due
colonne di marmo marquiña posizionate in modo parallelo. Mentre
sul fusto delle colonne si trovano delle costellazioni astrali in forma
di punti d’oro la sezione delle colonne è lavorata in modo tale da
suggerire un arrotolarsi e uno srotolarsi della volta celeste. Tale
movimento sembra rendere possibile il sorgere e il calare del sole.
L’opera Sole si presenta in modo rudimentale come una colonna
di marmo bianco di Carrara posata a terra e segmentata in sette
fette. In particolare ogni fetta presenta una variazione che consiste
in un buco di forma poligonale partendo dal triangolo. Da tali figure,
con una lavorazione essenziale, si formano gli angoli di varie stelle.
L’interno crea un’immagine radiante e vorticosa. Luciano mi disse a
proposito di tale lavoro che la successione delle fette poteva subire
delle variazioni.
Prima di tenere la lezione in aula 4 Fabro aveva letto ”Atto artistico”
alla conferenza tenuta in occasione della sua mostra personale al
museo di San Francisco nel 1992. In platea c’era Tom Friedman che
dopo la conferenza era andato da lui a conoscerlo. Un anno dopo, nel
‘93, conoscemmo insieme Gabriel Orozco alla Biennale di Venezia:
Fabro esponeva le sue opere nel padiglione Italia e noi, il gruppetto
di allora della casa degli artisti, eravamo lì a presentare Sacco,
una raccolta di scritti. Sono sicuro che la mostra di Luciano a San
Francisco abbia influenzato sia Friedmann che Orozco, indicando ai
giovani artisti emergenti una via di uscita dallo strutturalismo rigido
dell’arte contestuale socio-politica a favore di un’attenzione rivolta al
processo artistico e a una poesia creatrice. In “atto artistico” come abbiamo detto Fabro distingue l’opera d’arte
dall’atto artistico, ovvero quell’istante di coscienza meravigliata del
mondo di cui l’opera d’arte è la testimonianza. Orozco allo stesso
modo mi disse che lui si meraviglia della realtà facendone così
esperienza attraverso una scultura se possibile, altrimenti con la foto.
Anche lo sguardo della prima fase di lavoro di Friedman è quello della
meraviglia, un elemento raro nel contesto dell’arte contemporaneo. Credo che il pensiero dell’immagine naturale sia una presa di
coscienza rispetto alle opere prodotto dopo l’atto artistico. In immagine
naturale Fabro sembra voler soffermarsi e indicare l’immagine a noi
naturale, ovvero un’immagine che fa parte di noi, che ci costituisce.
Luciano dice: “l’immagine naturale è quella che viene fuori sia dalla
cosa direttamente verso di noi, sia da noi verso la cosa”.
Penso che questa questione essenziale sia una questione aperta e
sia la fondamentale eredità di Fabro.
Sono convinto che l’opera Inverno segni il vertice di questa eredità. La
prima sensazione davanti all’opera è di una grandiosità immaginativa e
al contempo anche di estrema naturalezza espressiva. È un’immagine
che è cresciuta dentro di me e che ancora sta crescendo.
In questi ultimi anni è risorta in molti giovani artisti la processualità
e con essa il concetto di temporalità degli anni Settanta. Però
9
maestri storici / testimonianze
La fine qui si mostra come l’essenza dell’inizio. La mostra al Madre
oltre al titolo ufficiale “Didattica magna, minima moralia” aveva un
sottotitolo intimista: “ricomincerò...”
Nelle mostre come questa ultima progettata da Luciano, il lato
intimista apre sempre una riflessione generale sull’arte (interviene
sul suo stato di salute e in questo è molto duchampiano): con questo
ricominciare dall’ ABC Fabro mette in mostra anche un vuoto poetico
generale nel pensiero del sistema dell’arte contemporanea. Penso
che da tempo Luciano avvertisse che la dedizione e l’intelligenza da
parte degli artisti delle ultime generazioni per creare un proprio ABC
visivo/sensibile/pensiero venisse sempre più a mancare a favore di
una velocità di carriera che favorisce più “un copia e incolla” di ricette
di successo. Penso che questa mostra dovesse essere un segnale
in questo senso.
Un lavoro dell’ABC di Fabro, Ruota del 1963 getta un ponte psicofisico
su Sisifo del 1994, su Il giorno mi pesa sulla notte, 1995-2000, La
lune s’allume, del 1997, Sole sempre del 1997 e infine su Inverno
del 2007.
La fine abbraccia l’inizio rivelandosi come il continuo iniziare…
Ruota: la dinamicità tra le cose del mondo, la sentiamo perché anche
noi siamo inclusi nei rapporti dinamici con le cose, ed è proprio per
questo che l’azione instabile della ruota sulla barretta si svolge in noi
stessi. La dinamicità del lavoro Ruota è la dinamicità in noi stessi. Tale
esperienza si sensibilizza fisicamente nell’osservatore che così sente
se stesso. Fabro parla di mettersi in atteggiamento di attenzione,
dice: “Ho capito che attraverso la riproposta dell’oggetto in sé non
ne riproponiamo l’esperienza: il problema sta ancora al di là. Non è il
processo figurativo anche a livello tautologico che ci propone la cosa,
ma c´è un diverso elemento che deve concorrere. Una barra tesa, la
sento tesa, è ben diversa da una linea con la stessa forma. Io intendo
ricuperare quel momento lì.1”
Dall’atto artistico all’immagine naturale
I lavori prodotti negli ultimi 15 anni come Sisifo, Il giorno mi pesa sulla
notte, La lune s’allume, Sole e Inverno sono legati a due riflessioni
di estrema importanza. Mi riferisco ai testi: “Atto artistico” del 1993 e
“Immagine Naturale” del 1997.
La presenza dello stimolo avvia la possibilità dell’esperienza e dunque
il formarsi del linguaggio e della figurazione. Tale consequenzialità
presuppone una continuità evolutiva dello stimolo compiuto dall’artista
che crea l’opera.
Tale continuità tra stimolo e memoria, ovvero tra stimolo e figurazione
che ne consegue, fin dall’inizio del Novecento appare in pericolo. La
critica di Walter Benjamin alla modernità è che sia caratterizzata da
un senso del tempo fatto di attimi, di shock scollegati tra loro, una
visione del tempo fondatrice dell’estetica dell’ evento, della trovata e
della notizia, che mette ampiamente in crisi il senso di evoluzione.
Per rifondare il concetto di esperienza era necessario ridefinire il
concetto di stimolo.
Nella conferenza “Atto Artistico” tenuta nell’aula 4 il 6 aprile 1993
all’Accademia di Brera davanti ai suoi studenti, Luciano Fabro
definisce l’atto artistico come uno stimolo che viene colto dall’artista e
l’artista come colui che per testimoniare tale atto crea l’opera d’arte.
Fabro continua dicendo: “[…] L’atto artistico sarebbe la scintilla
che precede il momento dell’attuarsi dei fenomeni, dei mutamenti,
delle scoperte, delle invenzioni, della nascita dei sistemi. […] Noi
generalmente facciamo più attenzione ai momenti successivi all’atto
artistico, perché ci sembrano più concreti. Ma, ripeto, tutto era già
avvenuto. Dopo non possiamo che valutarne le conseguenze, in un
campo o nell’altro […]. E così sono arrivato al punto, credo abbastanza
chiaro per dire che l’atto artistico si distingue anche dall’opera d’arte
come tale. Così fare opere d’arte non vuol dire di per sé vivere atti
artistici, ma vuol dire prendersi la responsabilità di trasmettere l’atto
artistico stesso. L’artista è colui che attua l’atto artistico in immagine ,
in ciò che i maestri d’arte, i Greci, chiamarono “idea”.
L’atto artistico “si verifica solo quando è necessario. Se però
quando fosse necessario non si verificasse, noi avremmo la fine di
quell’essere. Io credo che quando succedono fatti artistici c’è da stare
allegri. Ma una volta capito che la manifestazione di un fenomeno è
una questione d’arte, sorge un senso di responsabilità che invece
non rende molto allegri. In pratica quando le cose stanno morendo,
credo che la riconsiderazione della materialità, dell’effimero, della
performatività rimane ancorata nel passato se non si affronta la
questione dell’immagine che è stata bistrattata come oggetto di
consumo dalla postmodernità. A mio avviso l’immagine si rinnova
evocando l’immaginazione dell’inizio (inizio non nel senso cronologico)
l’inizio nel senso di un gesto iniziale dell’arte tout court - l’immagine
costituisce e si costituisce in questo gesto inaugurale. Solo allora tale
immagine incarna il processo-tempo e significato.Fondamentalmente
quindi non si tratta semplicemente di non rimanere ancorato nel
passato ma si tratta di una questione di essenza, si tratta dell’uomo
che, ritrovando la sua immagine, ritrova sé stesso nell’opera d’arte.
Tale questione oggi mi pare la più urgente, è la questione aperta
ed è quella più fresca. In questo le opere Luciano Fabro, e penso
in particolar modo a Sisifo, Il giorno mi pesa sulla notte o a Inverno
danno importanti indicazioni.
10
Pietro Coletta, a proposito di Fabro
Nel 1969, ancora studente all’Accademia di Brera, presi un affitto uno
spazio in corso Garibaldi 44, come atelier di scultura che in seguito
divenne anche la mia abitazione.
Un giorno vidi a pochi metri dal luogo in cui lavoravo una porta verde
con l’iscrizione “Fabro”.
Pensai: <<Bene, sono fortunato ad avere come vicino un fabbro
per il mio lavoro. Sarà comunque bravo, anche se ha dimenticato di
aggiungere una “b” alla scritta>>.
Un giorno vidi vicino alla porta verde un giovane snello, accovacciato
mentre impastava il gesso in un bacile. Mi avvicinai, lo salutai e gli
dissi: << Ma il fabbro di solito lavora il ferro!>>. Mi guardò sorpreso e
immediatamente si aprì in un dolce sorriso.
Quello stesso sorriso che mi apparve in sogno la stessa notte delòla
sua dipartita mentre usciva da quella porta verde spingendo una
grande scultura su due ruote di luce. Sorpreso gli dissi: << Luciano,
dove stai andando?>> . MI guardò e rispose solo con lo stesso sorriso
del nostro primo incontro:
quel sorriso dolce, plasmato
da mani invisibili
annegate nel magnetico pallido gesso
vomitante pensieri arcani
di memorie ancestrali
echi di materia antica
alchimie poetiche
disegni sognati
dalle mani dell’anima
affondate nel pallido gesso
ricordo di quel dolce sorriso.
“Tutte le volte che lo incontravo lui sorrideva”
Gastone Mariani (in apertura del Convegno)
G.Caravaggio, Principio con testimone, 2008, dimensioni ambiente.
maestri storici / testimonianze
Quel dolce sorriso
P. Coletta, barchetta al vento IV, 2004, rame e ferro cm. 58 x 100 x 116 h.
Un ricordo di Luciano…
Hidetoshi Nagasawa su Fabro
H.Nagasawa, Tate no me, 2007, legno e ferro, 320 x 700 x 700 cm
11
maestri storici / testimonianze
La prima volta che ci siamo incontrati era il 1968, pochi mesi dopo
che sono arrivato in Italia. La prima cosa che ho fatto è stata cercare
uno studio a Sesto San Giovanni; a fianco c’era Castellani e in un
altro palazzo vicino c’era lo studio di Luciano. Ho conosciuto prima
Castellani di Fabro, e Castellani ogni tanto mi sollecitava dicendomi:
‘vai a vedere e a fare visita a Luciano che sta facendo qualcosa
d’interessante’. E così un giorno con un mio amico francese che lo
desiderava sono andato a casa di Luciano. Il mio amico francese
mi ha presentato a Luciano con queste parole: ‘ ti presento questo
stupido giapponese Nagasawa’. E allora Luciano ha risposto: ‘Molto
piacere, sono stupido Fabro’. Così, tra stupidi, siamo rimasti amici
quarant’anni. E noi facevamo spesso feste allo studio di Sesto San
Giovanni, bevevamo vino cattivo e poi il giorno dopo la mattina era
impossibile alzarsi; poi però la stessa sera facevamo un’altra festa.
Un giorno Luciano aveva la febbre e diceva che non poteva bere,
allora io mi sono ricordato che avevo un’ultima supposta di quelle
che avevo portato dal Giappone sigillata dentro una capsula, lui l’ha
utilizzata e poi quando mi ha riportato il contenitore ho visto che al
suo interno l’aveva scritto il suo nome, Luciano Fabro. Questa cosa
mi è piaciuta moltissimo.
Ricordo anche che un giorno, che era venuto da me e aveva ascoltato
una certa musica che aveva molto apprezzato, allora io gli ho prestato
questa cassetta con il nastro e quando una settimana dopo me l’ha
restituita e io l’ho inserita nel registratore non suonava più. Allora l’ho
tirata fuori è ho trovato che con questo nastro, che era sicuramente
vecchio e si era spezzato in due, Luciano aveva fatto un nodo: idea
semplice e geniale. Ho sempre conservato la cassetta. Io credevo
che lui mi avesse fatto uno scherzo, e invece no, lui l’aveva fatto
seriamente, infatti quando raccontavo l’episodio lui stava malissimo;
infatti è solo adesso che posso raccontarlo.
Più di vent’anni fa, circa venticinque, abbiamo avuto la grande fortuna
di vedere i disegni originali di Leonardo da Vinci alla Pinacoteca
Ambrosiana. Eravamo solo in quattro: Luciano, Iole De Sanna, la
sorella di Iole ed io. Abbiamo incominciato ad aprire con forte emozione
questi disegni originali tenuti in cassaforte e molto difficilmente
accessibili. E Luciano girando questi disegni tremava così tanto che
ha spezzato qualche centimetro della superficie della carta. Allora io
ho detto: ‘Ma Luciano!...’ e quando io ho detto ‘Luciano’ La mia saliva
è caduta su un disegno! In questo modo abbiamo fatto un danno
terribile… però questo è un segreto, per favore non divulgatelo!
Dal 1972 al 1975, per tre anni, abbiamo affittato una casa sulla
collina di Camaiore, si chiama Casa Rossa. L’abbiamo affittata tutti
insieme, Luciano, Trotta, Tonello ed io, e poi venivano tanti amici a
trovarci. Andavamo spesso, poi un’estate Luciano ci ha detto che
doveva realizzare Spirato ma da solo non era possibile farlo perché
lui doveva stare sotto, allora abbiamo lavorato insieme; Luciano
era nudo sotto il lenzuolo mentre Trotta, Tonello ed io abbiamo
gettato il gesso. Ci abbiamo messo diversi giorni ed è stato molto
divertente. Luciano sotto il lenzuolo sapete cosa faceva? Teneva il
dito in posizione eretta. Poi mi ricordo che una volta alla Pinacoteca
di Brera davanti al Cristo morto del Mantegna lui mi diceva: ’Vedi,
questo Cristo è vivo’, ed io ho capito subito che faceva questo gesto.
Poi era un modello, e quindi il modello di Mantegna doveva essere
vivo. L’avevo capito subito e penso che anche sotto il lenzuolo dello
Spirato … ma nessuno l’ha mai detto, sono io che immagino questa
cosa bellissima.
Anche per esempio a proposito della maschera di Tamerlano [196869] io credo che sicuramente dietro c’è Luciano, perché se no che
bisogno c’è di carne? Lui è stato sempre così. Anche la prima volta
che sono andato a vedere il suo studio e lui aveva appena finito quel
suo famoso lavoro Davanti, Dietro, Destra, Sinistra, Cielo. Tautologia
[1967-68], bellissimo lavoro, anche davanti a questo lavoro lui “girava
sfuocato”, ma è molto significativo perché lui non era lì ma da un’altra
parte dell’opera. E anche per esempio Zampa, che ho visto appena
l’aveva realizzato, mi sono ricordato subito del matematico Newton
perché Newton spesso partecipava a concorsi di matematica in
modo anonimo; allora gli altri matematici dicevano:’ È inutile che si
nasconda. Se si vede la zampa si capisce subito che è di leone’.
Ricordo anche nel 1987 quando con le nostre famiglie abbiamo fatto
un viaggio in Turchia durato circa un mese, spostandoci con diversi
mezzi, dall’automobile al cammino a piedi, il momento in cui siamo
arrivati a Efeso: era pieno di Luciano. Perché ormai Efeso l’ha fatta
lui e la Turchia ai miei occhi era un luogo dove c’erano tanti Luciano.
E lui stesso diceva ‘Ecco, vedi!’.
Io penso che finché si è sentito giovane non soffrisse tanto, ma poi,
da più anziano credo che soffrisse della grande quantità d’idee che
aveva e che non avrebbe più potuto realizzare, non certamente tutte.
Perché quando lui realizzava un’opera, certamente ciò è vero per
tutti gli artisti ma per lui specialmente, aveva un’idea ma anche le
necessarie idee per nascondere questa idea: quando un’opera è
finita l’idea non si deve vedere.
Allora tutti questi lavori… Io penso che nell’universo c’è una corrente,
una grande corrente d’idee, e questa finisce nel mare; ecco Luciano
è venuto da lì, mentre noi, ‘artisti normali’, viaggiamo verso quella
corrente delle idee, a volte qualcuno ci arriva, ma nessuno ti dice di
esserci arrivato; ecco, lui invece è arrivato da lì, al contrario. E poi è
tornato al suo posto.
testimonianze
12
Photo dell’Archivio di Fabrizio Garghetti, Milano
­ACHILLE BONITO ­­­­OLIVA
Conversazione tra Achille Bonito Oliva ed Elisabetta Longari
sulla scultura, su Fabro ed altro ancora.
La scultura oggi: ti sembra lingua morta o viva? Ha senso
parlare ancora di scultura e se sì in che modo, quali sono le
sue prerogative? L’occupazione dello spazio, l’installazione è
scultura?
Su questa domanda che già si pose Arturo Martini feci una mostra
che si chiamava “La lingua morta della scultura” proprio per affermare
che la scultura non è morta perché è uscita dalla sua canonica e
statica tridimensionalità per spostarsi nella quarta dimensione che
è l’installazione. Io dico che la scultura in sé è un genere che vuole
essere perdonato, in quanto è di un’invadenza spesso retorica e
monumentale. Nell’arte contemporanea nel momento in cui esisteva
ancora una netta distinzione tra arte e vita la scultura sembrava
costituire una soglia invalicabile, in realtà poi nel suo passaggio a
una fluida quarta dimensione che è quella dell’installazione possiamo
dire che la scultura è diventata invece un luogo di slittamento,
d’intersecazione, d’intreccio, di cortocircuito tra il quotidiano e la forma
che l’artista elabora, quindi il tentativo di contaminare esemplarità
e normalità. Dunque credo che vista in questa direzione, in questa
maniera la scultura acquista anzi la capacità di filtrare, di bucare
l’immaginario collettivo, di agganciare l’attenzione del corpo sociale
proprio ponendosi in una condizione antieroica, quasi di voluta
riduzione di tono.
L’eccentricità, che era un carattere anche della scultura
contemporanea, viene superata oggi da artisti che tendono a
coniugare un rapporto di scambio appunto tra arte e vita, assumendo
spesso poi attraverso il discorso delle installazioni alcune tematiche
che riguardano il sociale.
Dunque la scultura travestita da installazione diventa un luogo che
agita e massaggia il muscolo atrofizzato di una comunità ormai
narcotizzata dalla telematica, dallo sviluppo della tecnica. La scultura
dunque può avere la funzione di irrobustire la sensibilità pellicolare
di un corpo sociale sempre più globalizzato che tende tutto sommato
a chiedere a tutto ciò che è visibile semplicemente la conferma, uno
status quo del proprio essere ed apparire.
La scultura può avere una grande funzione, può, come dicevo,
diventare sempre più arte pubblica, entrare in scala con il paesaggio
urbano e in quello naturale e dunque essere una presenza capace
di fare domande e di spostare lo spettatore in una condizione
anche, se si può dire, di spaesamento. Mentre prima la scultura era
monumentale, adornava piazze pubbliche e nella propria staticità
diventava quasi semplicemente uno sfondo, un punto d’appoggio
anche per pensionati e anche per animali che magari soddisfacevano
lì i propri bisogni; oggi se noi pensiamo ad artisti come Vito Acconci
oppure Garutti o Pietroiusti ecc…, vediamo anche che in questa
direzione la scultura si vaporizza nello spazio, si smaterializza ma si
concretizza nella coscienza del pubblico, e così veramente la profezia
di Beuys si avvera: diventa una scultura sociale. Diventa scultura
sociale non tanto la forma esterna bensì quella interna: è la coscienza
dello spettatore che, attraverso la fruizione, viene modellata.
Tu insegni all’Università. Qual’é il tuo metodo d’insegnamento?
Da che presupposti parte e in che cosa consiste esattamente?
Il mio è un metodo socratico, un metodo di scambio e di confronto,
un metodo anche di allargamento dell’insegnamento, portando gli
studenti anche a un impatto, a un contatto diretto con l’opera, visitando
mostre, accompagnato dai miei assistenti che, in questa direzione,
fanno, partendo da questo metodo socratico, un lavoro più capillare
attraverso anche uno scambio più quotidiano con gli studenti.
Ti dico anche che all’università ho sempre cercato un approccio
interdisciplinare alla Storia dell’Arte, ho sempre cercato e difficilmente
trovato la collaborazione di altri professori di altre materie ai quali io
proponevo spesso di fare lezioni a quattro mani o a sei mani per
creare una sorta di teatro della conoscenza attraverso la lezione. Io.
Come sai, insegno a La Sapienza, Storia dell’Arte Contemporanea alla
Facoltà di Architettura, e mi sono spesso scontrato con il tecnicismo
dei professori che privilegiavano anche spesso la manualità e il
cosiddetto proprio specifico che non dovrebbe esistere visto che
l’Architettura potrebbe rappresentare quell’arte in cui convergono tutti
i linguaggi, come Vitruvio una volta ci aveva fatto capire.
Quale è il fatto che indicheresti come più significativo del
decennio appena concluso?
Non ho dubbi a indicare come evento l’11 settembre che ha dimostrato
come si è sviluppata un’estetizzazione perfino del terrorismo. D’altra
parte Warhol ci aveva insegnato nel 1962 con Empire State Building
che è un film di otto ore a camera fissa, che riprendeva la forma
immobile di questo grattacielo, dimostrando che senza informazione,
che senza comunicazione, nulla esiste. Questo grattacielo che di per
sé era emblematico proprio in quanto era ripreso da un video. Che
cosa ha fatto Bin Laden? Ha sviluppato un doppio intervento sulle due
torri: un primo intervento con il primo aereo che ha bucato il grattacielo
richiamando l’attenzione della CNN, e il secondo dopo un quarto
d’ora per cui live in televisione l’abbiamo visto tutti, quattro miliardi
di persone in diretta. Si è trattato di un attentato che si è moltiplicato,
si è liquefatto, e proprio come una macchia d’olio si è allargato
negli spazi domestici di tutto il mondo. Qui sembra che il terrorismo
islamico, abbia preso, e questo è paradossale, dall’Occidente questo
tipo di atteggiamento, di puntare sull’informazione e sui media che
amplificano qualsiasi realtà. Warhol diceva che ciascuno di noi ha
diritto al suo quarto d’ora di celebrità, così in questo modo sembra
che il terrorismo abbia fatto proprio questo assunto, assistito dai
media ha potuto moltiplicarsi, bucare non soltanto due architetture
emblematiche di quello che è il potere di New York, dell’America e
dell’intero Occidente, ma persistere come shock nell’immaginario
collettivo.
13
testimonianze
Luciano Fabro. Se tu dovessi brevemente presentarlo che
caratteristiche del suo lavoro sottolineresti?
Fabro è stato un artista fuori da ogni schema, un artista che ha saputo
sviluppare la grande lezione di Lucio Fontana; da una parte, sul piano
della propria poetica, ha intercettato il concetto di continuum e quindi
ha stabilito un rapporto senza cesure tra arte e vita. Ha lavorato per
“delegazione”, cioè, voglio dire, affermando i generi, ma travestendoli
e attraversandoli anche con una sorta di ironia.
Goethe diceva che l’ironia è la passione che si libera nel distacco,
ecco, Fabro è stato un artista altamente ironico che ha saputo
oggettivare, formalizzare il linguaggi adoperato per difendere
l’autonomia dell’arte, e difendendola in questo senso ha sviluppato
anche un forte senso politico. Ha chiesto all’arte di essere se stessa,
ovvero un’attività che serve a fare domande sul mondo e sulla realtà,
quindi ha sviluppato un grande punto interrogativo, chiedendo invece
naturalmente alla didattica, alla scuola, alla politica di essere delle
attività necessarie per dare quelle risposte sul piano operativo che
l’arte non deve dare.
L’arte di Fabro scavalca il presente e cavalca il futuro. Rappresenta
l’applicazione di uno dei concetti fondamentali delle avanguardie che
è quello di utopia, cioè del non luogo, e con le sue forme ci ha aiutato
in questa deriva che non è stata mai improvvisata o casuale ma
sempre ben direzionata da una forte coscienza estetica e civile.
Quali sono secondo te gli attuali luoghi deputati della cultura
artistica? Le Accademie hanno ancora una loro funzione
formativa, caratterizzata e differente certamente da quella
universitaria…?
Io debbo dire che le Accademie sono antiquariali. Trovo che nulla
si è mosso rispetto ad una concezione di bottega medioevale dove
il fare prevale sul pensare. Ritengo che le accademie andrebbero
ristrutturate. Ricordo di un progetto che avevamo elaborato
all’Accademia di Belle Arti de L’Aquila durante il 1969-70. Allora era
l’accademia pilota d’Italia, ci insegnavo io che ero anche vicedirettore,
c’erano anche Castellani, Furio Colombo, Carmelo Bene, Fabio Mauri,
ecc… Elaborammo un progetto dove s’ipotizzava un ribaltamento: un
biennio prima di tipo teorico d’impostazione e un secondo operativo,
dove il fare si agganciava appunto all’elaborare, ed elaborare
significa partire dal riconoscimento, come diceva Leonardo Da Vinci,
che “l’arte è cosa mentale”. Ora invece noi ci troviamo di fronte a un
immobilismo, all’accademia dell’accademia e per questo direi che la
figura di Fabro è stata una figura storica ed esemplare perché lui
ha attraversato questa “palude” creando anche un gruppo operativo
che, legato naturalmente alla sua mentalità, è diventato una sorta di
soggetto collettivo che dall’interno ha lavorato per smantellare questo
vecchio principio dell’accademia.
Note sintetiche sulla scultura
di Pietro Coletta
Dice Goethe: “Non è sempre necessario che il vero prenda corpo;
è già sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito e provochi una
sorta d’accordo come quando il suono delle campane si distende
amico nell’atmosfera di pace”.
Quando l’artista intuisce, contatta il Divino e comprende. Quando si
esprime, comunica all’umanità. Si tratta di aperture in entrambi i casi.
Una sul pano verticale, l’altra sul piano orizzontale. Questo è il senso
della croce. Al centro è il suo cuore. Cuore e mente si fondono e
formano il “sentire”.
Cos’è la scultura? La scultura a priori è di per sé spazio. Spazio nello
spazio; pieno nel vuoto; materia nel vuoto; vuoto nella materia; vuoto
nel vuoto; pieno sul pieno.
Tautologico è il processo della metamorfosi spazio-scultura.
L’intuizione è la grande forza propulsiva dell’artista, nasce nell’anima,
percorre la mente, costruisce virtualmente l’essenza del pensiero e
si concretizza in immagine, nel topos.
Lo spazio sacro è lo spirito che prende forma, si condensa fino a
divenire materia.
Lo spazio profano è la mente razionale che cristallizza il pensiero
in una forma, immagine materiale sovrapponendosi allo spirito,
soffocandolo.
Lo spazio si fa corpo in tutte le sue peculiarità come: la materia, il
cromatismo, il ritmo compositivo, le dimensioni, in virtù dell’esistenza
della luce vibrazionale.
Il cielo notturno di infinita tenebra non esisterebbe nella dimensione
siderale se non avesse infinite fonti di luce, danzanti negli spazi
incommensurabili, come parametri di
riferimento dimensionale, anche se
illusori.
In ultima analisi, tutta la nostra
percezione del mondo visibile esteriore
e del mondo interiore invisibile si fonda
sull’esistenza della coscienza dell’io
individuale: solus ipse.
L’artista è un’anima risvegliata,
cocreatore nel complesso processo
alchemico meta-linguistico, cattura
l’invisibile nella dimensione segreta
e poetica dell’esistenza e lo rende
visibile, riscattando in un impeto
d’orgoglio la materia in spirito.
coletta sulla scultura
14
°Pietro Coletta (Bari,1949),
Ha studiato Scultura all’Accademia di
Brera con Alik Cavaliere. Vive e lavora
a Milano e in India.
Al principio
di Gianni Caravaggio
Ho per lungo evitato di parlare del senso della scultura nello specifico
perché in quanto arte si rivela nella questione essenziale dell’arte. Col
tempo però la sua presenza ha richiesto alla riflessione una specifica
attenzione di ciò che giaceva nell’inespresso. Posso testimoniare che
fare una scultura è una necessità caratteriale essenziale che riproduce
le capacità sensibili di sé fuori da sé stessi; dare visione a una visione,
a un’idea, insomma a un’entità che prima della sua formazione fluttua
nel nostro occhio interiore. Nell’occhio interiore la scultura giace come
entità astratta o come immagine indefinita, come se questa visione per
venire al mondo prendesse principio dalla nostra sensibilità fisica, dalla
nostra azione materiale e solo in ultimo dalla nostra capacità visiva. Il
senso scultorio, se si può veramente chiamare così, sembra svilupparsi
nel buio fisico prima di avere il suo principio visivo. Vi è quasi un
principio notturno che precede quello diurno – gli antichi sostenevano
che fosse Apollo, dio del sole, a creare il regno delle forme e quindi
della scultura. In questa riflessione Apollo diventa l’effetto successivo
di una causa buia che sembra emergere improvvisamente nella nostra
mente ma in realtà brulicava già in tutto il nostro fisico fino a divenire
una causa ineluttabile. Sentire questo brulicare sta al principio della
scultura. Sentire e individuare questo brulicare evoca gradualmente
un’immagine netta che in quanto netta è essenziale. L’attenzione a
tale brulicare si riflette nella mente come pensiero, ma il pensiero ne
è solo una naturale conseguenza non il suo principio; è poi la scultura
stessa che mette in atto in chi la osserva la relazione tra il brulicare e
il pensiero.
G.Caravaggio, Scenario 2, 2009, installazione
Vorrei soffermarmi ancora su questo brulicare, su questo buio fisico
da cui nasce l’immagine della scultura. Mi piace persino pensare
che il brulicare sia già l’immagine (della scultura), un’ immagine
seme come l’ho già definita, che cresce in noi gradualmente per il
tempo di cui abbiamo bisogno per comprenderla. Tale tempo decide
il corpo della scultura. Se però al contrario abbiamo un corpo della
scultura ma non c’è stato il brulicare, allora questa scultura non
corrisponde all’arte.
Infatti esiste anche e soprattutto la convenzione della scultura. La
scultura di chi già sa come essa dovrebbe essere o di chi vorrebbe
essere rassicurato da una forma consueta. Questo è un problema
che deriva da un lato da una distorsione nel modo di comprendere
la tradizione, dall’altro dall’ansia di inseguire le mode. In ambedue
i casi la scultura è privata del suo corpo e presenta solo la sua
buccia, una buccia che inganna perché del corpo possiede le
stesse caratteristiche: la plasticità, l’estensione nello spazio, la
leggerezza, la pesantezza, la concretezza, la matericità, l’eleganza,
la semplicità… tutto, ma privo dell’immagine seme.
Al principio c’è l’immagine seme.
Bisogna essere pronti e sapere accoglierla.
Flessibili ad ascoltare i suoi diversi modi e capaci di pensarli.
Bisogna acquisire la sensibilità necessaria a dare ogni volta
un’immagine propria all’ immagine seme senza imporle i propri
pregiudizi.
È così che la nostra immagine seme germoglia come scultura.
*Gianni Caravaggio (1968). Ha studiato Pittura all’Accademia di
Brera con Luciano Fabro, Vive e lavora a Milano e Stuttgart.
15
caravaggio sulla scultura
L’ARTE NELLO SGUARDO
All’Accademia di Brera le lezioni magistrali dei neodiplomati Honoris
Causa Roberto Saviano e Gianfranco Ravasi con le incancellabili
verità messe in scena da Fabio Mauri.
di Matteo Bergamini
Commosso sulla mia infelicità,
felice credo nel conforto della
parola che svela, che degrada.
Temo solo la morte, il puro fatto
della morte. Tutto il resto si gioca.
Pier Paolo Pasolini
brera incontra...
16
Ha chiuso così, sul filo del rasoio, un Roberto Saviano insignito Honoris
Causa del Diploma di Secondo Livello in Comunicazione e Didattica
dell’Arte all’Accademia di Brera di Milano, lo scorso dieci Dicembre, dal
direttore dell’istituzione Gastone Mariani, da Francesca Alfano Miglietti
e dal premio Nobel Dario Fo, da anni il portabandiera della causa
per cui l’Accademia di Belle Arti deve rimanere a Brera e non essere
deportata nelle svariate sedi promesse e proposte. Un evento unico ed
emozionante dove un bagno di folla ha applaudito le parole pronunciate
dall’intellettuale italiano. Sulla figura di Roberto Saviano si sono spese,
in questi ultimi anni, le parole più svariate, spesso becere come quelle
usate dal ministro Roberto Castelli, Lega Nord, che all’indomani della
premiazione, sull’affermazione dell’intellettuale per cui Milano è la più
grande città del sud Italia, ha volgarmente invitato l’autore, per usare un
eufemismo, “a darsi all’ippica”.
Pochi hanno notato, invece, storditi dal chiasso, di avere di fronte prima
di tutto un ottimo scrittore. Infiniti sono i riconoscimenti conferitegli, le
cittadinanze onorarie, gli inviti a continuare a combattere e, d’altra parte,
sono interminabili le minacce di morte e gli insulti con l’accusa di aver
affossato la penisola scoperchiando un vaso di pandora che, tra le pagine
di Gomorra, si scopre di dimensioni colossali. Come ha ricordato lo stesso
Saviano durante il discorso tenuto a Brera “La camorra è la più grande
azienda italiana, con un fatturato stimato dallo Stato in migliaia di miliardi
di euro”. Un’azienda che allo stesso tempo è un’enorme fabbrica di
sangue: oltre quattromila le vittime in poche decine di anni e un territorio,
quello della pianura campana a nord di Napoli, che vive in uno stato di
guerriglia perenne. L’autore di Gomorra e La bellezza e l’inferno ha ammaliato la platea per
più di un’ora con una vera e propria lectio intorno ai codici linguistici della
musica neo-melodica napoletana, dove ogni accordo e ogni singola parola
è pronta, contemporaneamente, a spalleggiare e a condannare gli eroi
della malavita locale, sceneggiando un quotidiano che è parte integrante
del vivere di tutta la popolazione partenopea. Un esempio? Il mio amico
camorrista, base musicale in stile Merola e un testo farcito di patetico
sentimentalismo: l’amico è camorrista e la sua carriera è costellata di
guai eppure, nel rione, è un riferimento per tutti. L’amico è camorrista e
la giovanissima mamma spera che il figlioletto non intraprenda proprio
quella strada…però in fondo in fondo, pensa, sarebbe bello: un boss
della camorra è amato e rispettato e viene riconosciuto e salutato da
tutti, non importa se per stima o per paura. Saviano snocciola icone e
azioni difficili da comprendere se non vissute sulla propria pelle, come
la curiosità dei ragazzini nei territori di guerra nel recarsi ad osservare i
cadaveri subito dopo gli agguati: inconcepibile per chi non frequenta certi
luoghi ma una sorta di rito, di festa paesana per le zone insanguinate
dalle faide. E un modo per controllare da vicino il proprio territorio, per
imparare fin da piccoli la scala delle gerarchie, per capire dove andare,
come e con chi muoversi. Con l’aiuto di Youtube sono stati snocciolati i
pezzi di piccole grandi star locali che conquistano enormi fette di pubblico
attraverso slang dialettali in continua mutazione che fanno perno su una
quotidianità composta di latitanti, di promesse spose che non possono
farla franca accompagnandosi con un ragazzo “normale” (è il caso di
Anna si sposa dell’ormai, purtroppo, internazionale Gigi D’Alessio) per
chiudere poi con vorticosi rap che omaggiano in maniera arrabbiata
i giovani morti della camorra. Per i presenti il racconto di Saviano ha
segnato la possibilità di gettare un fascio di luce su una zona d’ombra
abissale, su quel buio che tutti quanti pensiamo di conoscere ma del
quale non si ha percezione reale: da dove arriva? Da quale fessura
entra nelle nostre case? Dietro un cantante popolare, alle spalle di
una maglietta, di un disco o di un cellulare piratato si nasconde questa
tenebra dalla quale escono poche, pochissime, voci: tutte le altre ne sono
al completo servizio, assuefatte e spesso incazzate con chi non lascia
tregua al grande mostro della camorra, laboratorio di morte e forma di
sostentamento, di un’occupazione ai limiti di ogni umanità.
Roberto Saviano è l’ottimo maestro da cui ascoltare la possibile voce
della ribellione, del desiderio di cambiare le cose: Dario Fo, nel cappello
introduttivo al discorso del neo-diplomato ha esplicitamente chiesto al
ricercatore –mai termine potrebbe sembrare più appropriato- una sorta
di resoconto del principio della passione per la scrittura, del bagliore
che spesso, quando si è ancora studenti, illumina il cammino che si va
percorrendo: Saviano ha risposto glissando su agiografie e simili ma
solamente dicendo che il voler scrivere, per lui, voleva essere un modo
come un altro per scuotere le coscienze, per far ribollire le acque intorno
a situazioni estreme. Nessuna volontà di carriera, nessun desiderio di
teatralità latente ma la magia dell’idea che l’arte, sia essa letteratura,
cinema, poesia o pittura, possa cambiare il mondo. Il parallelo con Pier
Paolo Pasolini è quasi dovuto: Francesca Alfano Miglietti introduce la
premiazione con un articolo dell’intellettuale friulano apparso sul “Corriere
della Sera” il 14 Novembre 1974 con il titolo Che cos’è questo golpe?
“Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe
(e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione
del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12
dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e
di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so. Ma non ho le prove. Non ho
nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che
cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne
scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o si tace; che coordina fatti
anche lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un
intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica laddove sembrano
regnare l’arbitrarietà, la follia o il mistero”. Il più bel modo di omaggiare il
coraggio e la grandiosità letteraria e sociologica di Roberto Saviano, di
onorare e alimentare il ricordo e le lezioni di Pier Paolo Pasolini e per non
dimenticare le vittime innocenti di quella strage ancora “nera”, la bomba
alla banca dell’agricoltura in piazza Fontana, che proprio in quei giorni
contava quarant’anni.
Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
incidendo ferite di parole
nei campi della consuetudine,
(...)
Se i profeti irrompessero,
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria.
Orecchio degli uomini
Ostruito d’ortica
Sapresti ascoltare?
Nelly Sachs
Monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la
cultura, riceve dal dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte,
presentato da Francesca Alfano Miglietti, il diploma di Secondo Livello
lo scorso sedici Marzo. Gli astanti anche in questo caso riempiono l’aula
magna dell’Accademia anche se, ovviamente, il numero di pubblico
nelle lotte, a risplendere. Due incontri che ravvivano il desiderio di
materializzare le possibilità di due atteggiamenti che paiono sempre più
vicini all’estinguersi: la passione della ricerca e la volontà di denuncia.
Un finale troppo a lieto fine? ma non è obiettivo primario di tutte le istituzioni
scolastiche, specialmente umanistiche, formare i giovani all’insegna della
libertà di pensiero e nel coinvolgimento di azioni sociali?
La terza laurea ad honorem è del 22 aprile scorso, conferita per la prima
volta a un artista: Fabio Mauri. Di Francesca Alfano Miglietti, curatrice
tra l’altro del volume dell’artista “Scritti in mostra” edito dal Saggiatore, la
lectio magistralis, coadiuvata nel corso della cerimonia dalle relazioni di
Laura Cherubini e Giacinto Di Pietrantonio.
L’onoreficienza è stata consegnta ad Achille Mauri, fratello di Fabio,
che, visibilmente commosso ha arricchito la cerimonia con episodi legati
all’artista scomparso.
Il pubblico, come sempre numeroso, ha visto la presenza dei molti amici e
compagni di “avventura” di Fabio Mauri, da Lea Vergine a Inge Feltrinelli,
da Tomas Maldonado a Enzo Mari.
Artista immenso Fabio Mauri, di cui sono state proiettate nel corso
dell’incontro le opere, frammenti di performances e interviste, l’artista
che ha voluto indagare la condizione storica dell’Europa nazista e
fascista, la produzione dei suoi simboli e la memoria come estetica. Un
corpus di opere multiplo e sfaccettato, alcune volte vicino alla pittura altre
assolutamente di tipo performativo o articolate in curatissime installazioni.
Testimone diretto del Ventennio e delle sue manifestazioni, della
propaganda, di una semantica disturbata intorno ai canoni dell’esistenza,
amico d’infanzia di Pier Paolo Pasolini, di Alberto Moravia e Francesco
Leonetti, con i quali collaborò a fondare la rivista di poesia “Il Setaccio”,
durante il periodo vissuto a Bologna a metà degli anni trenta, Fabio Mauri
inizia la sua attività artistica all’inizio degli anni cinquanta a Roma dove
realizza i primi Schermi utilizzando tele emulsionate: gli Schermi sono
esattamente il ritratto della possibilità di vedere una serie d’immagini in
trasparenza, fenomeno determinato dalla nascita della televisione: Mauri
però, al contrario dei protagonisti della cosiddetta “scuola di Piazza del
Popolo”, più che sul flusso di immagini prodotte dal cinematografo e
dalla televisione, lavorerà sulle “dissolvenze”, situandosi in un terreno di
produzione probabilmente troppo originale, e impegnato, per poter essere
etichettato con una definizione o un’aderenza a uno stile.Certamente i
linguaggi sono quelli dell’avanguardia, ma l’artista romano pare rifiutare,
consapevole del pericolo di omologarsi in un gruppo, o peggio, in una
“massa”, qualsiasi attinenza con movimenti e correnti che in qualche modo
richiamano l’egemonia di una comune ideologia. L’opera di Mauri è politica
senza politicizzarsi; tende a mettere in scena oggetti, simboli e costumi
come “rovesciamenti” per sceneggiare metaforicamente e liberamente
convenzioni razziste e fasciste, come a denunciare allo stesso tempo
l’ignoranza e la tragedia. Alla Biennale del 1993 viene presentato il Muro
Occidentale o del Pianto e riproposta Ebrea, emblematica azione che,
proposta in una serie di gallerie, tra cui La Salita di Roma, nel 1971,
ha contribuito alla fama mondiale di Fabio Mauri: il Muro Occidentale è
allo stesso tempo compendio di Muro d’Europa e di Ebrea. Ebrea è una
particolare messa in scena dove un totale di diciassette oggetti (non tutti
presenti però nelle varie presentazioni della performance-installazione)
riconducono allo sterminio nazista. Gli spazi che ospitano la scena
divengono a turno piccoli musei da campo di concentramento, dove
pelle, denti, capelli ed effetti personali vanno a formare uno scenario
inquietante, determinato anche dai titoli delle composizioni, di cui è
circondata la protagonista dell’azione: una ragazza nuda davanti a un
piccolo specchio che, marchiata sul petto dalla stella di Davide, con una
piccola forbice si taglia i capelli, incollando lentamente piccole ciocche
allo specchio e formando la stessa stella a sei punte, assunta dopo
l’olocausto a simbolo di un odio incolmabile. Il muro del Pianto misura
quattro metri di altezza ed è realizzato con vecchie valige accatastate, di
cuoio e cartone di dimensioni e colorazioni diverse l’una dall’altra. Il “muro”,
in occasione della Biennale, è omogeneo sul lato dove viene riproposta
Ebrea, ma dissestato sull’altro, dove una valigia aperta contiene la foto
di Paola Montenero, prima performer dell’opera fotografata da Elisabetta
Catalano. Non a caso il muro richiama esattamente il muro del Pianto
di Gerusalemme, emblema di una disperata fuga, di una divisione del
mondo, di una forzatura politica. Fabio Mauri è stato, e continuerà a
essere, la spina nel fianco della coscienza europea. Un riconoscimento
dovuto, a quasi un anno dalla scomparsa del grande artista, che rimarca
il fatto che l’arte non smette mai di esercitare, attraverso la manipolazione
della realtà e dell’immaginazione, una sorta di ruolo profondamente
pedagogico nei confronti dell’umanità.
* Matteo Bergamini studia all’Accademia di Belle Arti di Brera
17
brera incontra...
è ridotto rispetto ai presenti alla premiazione della bomba mediatica
Saviano. Probabilmente chi si aspettava un sermone in stile messa della
domenica è rimasto deluso. Nonostante la posizione ricoperta, Ravasi
non ha enunciato nessuna dottrina, se non quella della potenza dell’arte,
del suo profondo mistero e allo stesso tempo della conoscenza che
ne deriva dalla lettura, citando alternativamente Henry Miller e George
Braque, aprendo con l’assunto dell’artista cubista “La scienza rassicura,
l’arte inquieta”. Un profondo pensatore che, tra gli altri, è stato anche
l’ organizzatore dell’incontro tra Papa Ratzinger e gli artisti. L’arte è un
terreno d’incontri e Ravasi inizia il suo discorso partendo proprio dalla tesi
che per secoli e secoli l’arte e la fede sono state legate da un filo doppio
e intrecciato, l’una bisognosa dell’appoggio dell’altra e viceversa. E,
come giustamente ha fatto notare Francesca Alfano Miglietti, la chiesa ha
sempre scelto gli artisti all’avanguardia in tutte le epoche, Michelangelo
e lo “scandaloso” Caravaggio in primis che, nella Morte della Vergine del
1605, dipinto all’epoca rimosso dalla chiesa di Santa Maria della Scala
in Trastevere, raffigura come Madonna una cortigiana, o una prostituta,
annegata nel Tevere. Artisti scomodi sì, ma con uno sguardo lontano
dalla paura. Una lezione profonda e poetica, molto partecipata a partire
dal suo stesso autore.
Gli appunti di Monsignor Ravasi si sono rivelati incisivi per enumerare
una teoria dell’anima dell’arte e della sua funzione sociale più vicina
al simbolico: “L’arte e’ molto potente, perché parla della vita e della
morte, ma vuole testimoni, figure che possano essere interlocutori e
guide per tutto il corpo studentesco”, ha scritto nella sua introduzione
Francesca Alfano Miglietti.. Uno in fila all’altro sono stati illuminanti una
serie di profondi concetti, dalla genesi dell’immagine all’iconoclastia:
a tal proposito Ravasi riporta il desiderio di vedere il volto di Dio di
Mosè: desiderio impossibile e inammissibile; l’uomo potrà vedere il
divino solamente nella sua ombra sfuggente. Ed è a partire da questo
codice che da un lato si può tracciare l’abisso delineato dall’arte, quello
che ne permette l’immaginazione, la disponibilità a raffigurare il volto
di Dio rifacendosi all’umano e, sull’altro versante, verso la questione
iconoclastica: il lato cristiano-cattolico si può dire, con le parole di Pavel
Florenskij, che abbia scelto il lato carnale e opaco della pittura a olio e del
suono dell’organo, mentre il ramo ortodosso ed islamico si sono orientati
verso quella “pittura della luce” che traccia il confine tra regno visibile e
invisibile e permette, secondo le parole del filosofo russo, l’avvicinarsi al
divino. “L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita” (Miller) e i
simboli, le narrazioni e le conseguenti raffigurazioni attingono, secondo il
pensiero di Ravasi, al più grande codice mai scritto, la Bibbia. Un volume
che non finisce mai di essere fonte di ispirazione seppur traslato nel
tempo, probabilmente proprio per la fondamentale caratteristica di essere
la fonte più contemporanea nell’accezione descritta da Giorgio Agamben:
“È veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente
con esso né si adegua alle sue pretese, ed è perciò, in questo senso,
inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e
questo anacronismo, egli è capace più degli altri di afferrare e percepire
il suo tempo”; accade ormai da quel famoso anno 1979, spartiacque
tra le neoavanguardie e la nostra più sfrontata epoca di riflusso, di
sentirsi sempre più lontani dalle grandi narrazioni identificate da Jean
François Lyotard ne La condizione postmoderna; se, come potrebbero
affermare i più pessimisti, il nostro è un contemporaneo post-mortem e
l’arte stagna in una fase in cui ha bisogno di auto-assistersi è doveroso
ascoltare le parole di Gianfranco Ravasi e le sue vie interpretative come
un monito per una presa di coscienza, se non per trovare nuovi stilemi,
quantomeno per dare nuovo smalto ad una fascinazione incessante, per
sentirsi, ancora, empaticamente coinvolti da un pensiero, da un “sentire”
profondo: Monsignor Ravasi associa l’arte alla mistica del credere Un
rapporto di intrinseca fratellanza che in entrambe le parti non riesce a
manifestare il mistero che accompagna ugualmente i due “credo”; davanti
a un profondo pensiero di Platone come a un profilo bellissimo, anche
se sghembo, l’uomo affascinato non riesce a trovare soluzione al perché
della nascita, nella propria anima, di questo insolubile senso di misticismo
trascendentale.
L’ultima, formidabile, citazione che fa di Ravasi non solo un profondo
conoscitore dei “codici” ma anche un attento osservatore del proprio
tempo è presa in prestito dal premio Nobel Ottavio Paz che ricorda come
il decadimento di una società inizia quando si sfalda, quando si corrompe,
la sua grammatica. Segno dei tempi, segno di un regno dello spettacolo
che sempre di più porta all’indebolimento delle grandi passioni, del
bisogno di narrare, della volontà di attenzione.
La grammatica cade e la corsa è verso un effimero statico, senza
possibilità di movimento se non nell’automatismo di gesti che non
significano nemmeno più uno stato di sonnolenza analgesica, ma un
delirio schizoide, è proprio il caso di dirlo senza arte nè parte. Gli incontri
con Saviano e Ravasi sono stati due momenti incantati di un’illuminazione
bruciante, dove sono le parole, che vengono confermate nei fatti e
Mons. GIANFRANCO RAVASI
ROBERTO SAVIANO
Accademia di Brera - 16 marzo 2010 - il dir. G. Mariani e mons. G.Ravasi
Accademia di Brera - 10 dicembre 2009 - R. Saviano
“La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà
dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile” scrive Baudelaire,
l’arte sembra rendere alle cose la loro natura di essere al mondo, la
loro presenza piena, trasgredendo quindi, il concettuale che invece
li confina nella generalità dei concetti e quindi nelle astrazioni.
Essere nel mondo contemporaneo, pronti a confrontarsi con esso
ed a raccogliere le sue sfide, senza essere di questo mondo,
appartenendo ad un’altra razza, ad un altro stile, legati ad altri miti
e ad altri valori. Solo così si possono evitare due comportamenti
ugualmente pericolosi: l’ansia di schierarsi, di partecipare, di essere
recuperati al Sistema ed ammessi alla discussione e l’opposto, il
ripiegare su dibattiti tutti interni ad un micro-ambiente, in fondo fuori
dal mondo.
E’ del 21 novembre l’incontro del Papa con gli artisti nella cappella
Sistina. E l’altra notizia è che il Vaticano si affaccerà sulla scena della
prossima Biennale 2011 con un suo Padiglione, come accade a tutti
gli stati. Lo ha annunciato mons.Gianfranco Ravasi, il quale scrive:
«…Forse allora è la chiesa ad aver perso contatto con la creatività.
(…) L’arte contemporanea deve essere presente nei nuovi spazi
delle chiese.
Ci vorranno anni per dar vita a un nuovo gusto, ma da qualche parte
bisognerà pur cominciare». Come esempio di questa incapacità di
comprendere quel che di nuovo si presenta sulla scena del mondo
Ravasi cita la piccola Crocifissione di Joseph Beuys, del 1963. «La
Chiesa avrebbe dovuta acquistarla negli anni 60, sarebbe stata un
grande segnale».
La Crocifissione si compone di due flaconi già
usati per la conservazione del plasma, vuoti, posati su blocchetti
di legno: rappresentano San Giovanni e Maria ai piedi della croce.
Nel mezzo un altro pezzo di legno, verticale con una croce rossa in
alto. Dissacrante? Sofferente, piuttosto. Della sofferenza di un artista
che cerca di rappresentare un’immagine sulla quale è incardinata
la storia (non solo quella dell’arte), e si trova tra le mani solo questi
poveri resti ancora pregnanti di un significato.
Grazie quindi a Ravasi per aver sollevato la grande questione.
“Amare non è guardarsi a vicenda, ma guardare nella stessa
direzione”
(Antoine de Saint-Exupéry)
Le ragioni dell’invisibile
brera incontra...
18
Francesca Alfano Miglietti (estratto dalla Lectura Magistralis)
Uno sguardo molteplice
Roberto Saviano è uno scrittore. Un bravissimo scrittore. Un autore
di testi fatti di scritture molteplici, e molteplici sguardi, testi che
rintracciano e identificano un lettore, e con lui intrattiene rapporti
di dialogo. Per Roberto Saviano il lettore è un interlocutore e un
complice, colui che raccoglie le confidenze e a cui si raccontano
episodi e persone, caratteri e luoghi, idee e intuizioni con un
atteggiamento sempre spiazzante, perché fatto di dati e di intimità, di
curiosità e di ammirazione, di particolari e di universali.
Saviano sembra voler lavorare non con teorie ma con vissuti. Si tratta
di passare dalla prima ontologia fenomenologica al mondo della vita,
si tratta di capire una singola esistenza, altrimenti, sembra suggerire
“a che serve la letteratura?”. Ma raccontare una vita non è chiudere
l’orizzonte della filosofia in un individuo, ma al contrario, per Saviano
la singola biografia dovrà articolarsi con la storia della sua epoca in
un movimento dialettico. Non c’è biografia senza Storia, ma non c’è
Storia senza biografia. La letteratura, come la filosofia di cui parla
Gilles Deleuze, non dev’essere sperimentata in laboratorio ma vuole
misurarsi con la storia concreta, con esseri viventi.
(…)
Roberto Saviano procede dall’interno di un discorso verso l’individuo
reale che lo ha prodotto, e gira, in un certo senso, al limite dei testi,
conformandoli, seguendone le asprezze, manifestandone il modo
di essere, la sua scrittura sembra situarsi nella rottura che dà vita
a un certo gruppo di discorsi, discorsi posti nel campo bipolare del
sacro e del profano, del lecito e dell’illecito, dell’intimo e del sociale,
e realizza così quella possibilità che appartiene all’atto di scrivere
quando questo assume l’andamento di un imperativo proprio della
letteratura. Saviano parla di letteratura, ma anche di “valori”, che
si intrecciano alla scrittura e all’esistenza, una scrittura come una
direzione, un itinerario, un progetto, una scrittura di “precisione”, con
una aderenza perfetta tra i contenuti e le parole. Quella di Saviano è
una scrittura che si legge come un manifesto.
Francesca Alfano Miglietti (estratto dalla Lectura Magistralis)
FABIO MAURI
Universo d’uso
19
Accademia di Brera - 22 aprile 2010 - Manifesto Mons. G. Ravasi
É uno degli elementi portanti dell’opera di Fabio Mauri la riflessione
sia sulle caratteristiche fondamentali del mondo contemporaneo
che sugli aspetti storici della realtà, realtà caratterizzata dal venire
meno della pretesa propria dell’epoca moderna di fondare un unico
senso del mondo partendo da principi metafisici, ideologici o religiosi.
L’epoca moderna che precede la contemporaneità era caratterizzata
dal progetto di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi
unitari, che possedevano la pretesa di racchiudere il senso dell’intera
realtà entro un principio unitario. Il contemporaneo è caratterizzato
invece dallo sfaldamento delle certezze stabili. La fine dell’illusione
di dare un senso unitario alla realtà comporta dunque il manifestarsi
della diversità dei sensi, una diversità che è irriducibile. Ogni ambito
della realtà è dotato di un certo senso, ogni tentativo di edificare un
senso unitario è solo apparenza. La realtà è differenza, molteplicità
irriducibile, mutamento non ingabbiabile entro un unico schema. Ed
è questo l’orizzonte dell’opera di Fabio Mauri, nell’intuizione che ogni
tentativo di fondare stabilmente un’etica, legandola ad una qualsiasi
legge fondante, è destinato a fallire, poiché la diversità irriducibile
impedisce di trovare realmente quel senso stabile e assoluto del
“tutto” che invece è stata la pretesa e il progetto primo delle filosofie
del passato.
(…)
Nella poetica di Fabio Mauri emerge una forte carica eversiva e i
suoi labirinti e i suoi paradossi scovano l’inganno della razionalità, il
centro intorno a cui ruotano le sue elaborazioni è il rapporto uomomondo come comportamento;
per Fabio Mauri, infatti, il termine “razionalità” ha due accezioni: da
un lato la razionalità è spirito critico, dall’altro è organizzazione logica
del sapere. Una razionalità, dunque, che presuppone l’utilizzazione
di principi o di argomenti complementari, a volte anche concorrenti o
antagonisti.
Mauri indaga la dialogica tra il logico, l’empirico e l’estetico. Da un
lato l’elaborazione di sistemi logici di idee, che si confrontano con
il mondo dell’esperienza, in cui è necessaria una adeguazione tra
il discorso e la sfera di esperienza alla quale si dovrà applicare.
Dall’altro un potente e poetico dispiegamento di elementi, frasi,
performance, installazioni, ricostruzioni… mondi e mondi resi visibili
a partire dall’opera.
(…)
Dunque fin dall’inizio Mauri ci pone di fronte all’evidenza che qualsiasi
opera è, al pari del pensiero, instabile, che ha bisogno di strategie, di
correzioni, di regolazione, di auto-regolazione, e che la riduzione a
un sistema coerente di idee della realtà che si pretende di descrivere
è impossibile e inutile.
Per Fabio Mauri la conoscenza non è il riflesso del mondo. Ogni
conoscenza è al tempo stesso costruzione e traduzione: traduzione
a partire da un linguaggio ignoto, a cui prestiamo dei nomi. Per Fabio
Mauri la conoscenza è l’opera.
Francesca Alfano Miglietti (estratto dalla Lectura Magistralis)
brera incontra...
Accademia di Brera - 22 aprile 2010 - Manifesto F. Mauri
20
20
La Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino:
patrimoni storici
un esempio da emulare.
Con il numero precedente della nostra rivista, abbiamo aperto un’altra rubrica dedicata al patrimonio storico delle accademie. La nota sul lascito
di Francesco Hayez all’Accademia di Brera è solo una gemma del grande patrimonio artistico che possiede questa nostra istituzione ma è
anche una piccolissima parte di tutto il patrimonio storico conservato nelle accademie italiane. Un patrimonio al quale guardano in tanti e che
noi dobbiamo conservare e valorizzare con rinnovato orgoglio programmando anche il restauro di quanto ancora giace nei nostri depositi. E’
inconcepibile, infatti, che le Sovrintendenze e non solo loro, ostacolino la legittima autonomia delle Scuole di Restauro, recentemente attivate
nelle nostre accademie, impedendo talvolta che siano loro, a pieno diritto, a provvedere al recupero del patrimonio.
L’Accademia Albertina di Torino ha conservato la direzione e la gestione della sua prestigiosa Pinacoteca, dandole nuovo impulso e
rilanciandola con intelligente strategia. Si tratta di un esempio al quale guardiamo con ammirazione.
Gaetano Grillo
LA PINACOTECA DELL’ACCADEMIA ALBERTINA FRA PASSATO E PRESENTE
di Francesca Petrucci
Nello scorso ottobre è stata riaperta la Pinacoteca dell’Accademia
Albertina di Torino con un nuovo allestimento espositivo che illustra
l’importante ruolo della Scuola nella dinamica artistica del territorio
piemontese. La costituzione della Pinacoteca, come delle simili
raccolte annesse alle Accademie di Belle Arti fondate fra Sette e
Ottocento, ebbe scopo meramente didattico, per offrire ai giovani alti
esempi pittorici con cui confrontarsi durante il percorso di studio; ma,
a differenza delle analoghe collezioni di Firenze, Venezia, Milano,
divenute Musei statali dipendenti dal Ministero dei Beni Culturali, la
Pinacoteca Albertina è tuttora gestita e diretta dalla stessa Accademia
e continua, pertanto, a svolgere il suo originario compito anche
se, contemporaneamente, è aperta al pubblico come ogni Museo.
Questa sua particolarità è fonte di un fascino speciale: i visitatori
incontrano, nelle sale, studenti che eseguono copie dei quadri al
cavalletto o ne disegnano alcuni particolari per approfondire gli studi
anatomici, e l’attività scolastica diventa una sorta di lezione pratica
21
patrimoni storici
accademia
patrimonidistorici
catania
22
di tecniche artistiche per lo spettatore - che spesso rimane incerto
se soffermarsi più a lungo di fronte all’opera antica o all’esecuzione
attuale - ed anche il modo più efficace per comunicare la costante
presenza vitalizzante dell’arte nel mondo odierno. La Pinacoteca
dell’Albertina si propone, dunque, come luogo di incontro tra passato
e presente e, a sottolineare questa sua particolare vocazione, il
nuovo assetto ha privilegiato i criteri di chiarezza espositiva e di
ampia ospitalità, per offrire a studenti e pubblico ambienti gradevoli
dove sostare e ritornare con piacere. Realizzata su finanziamento
della Regione Piemonte e affidata allo Studio Simonetti di Torino con
la collaborazione dell’architetto Roberto Pagliero, la sistemazione
attuale, organizzata su tredici sale, è stata curata dal Direttore e dai
docenti dell’Accademia in collaborazione con la Soprintendenza per i
Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte: si è creato un
accesso per i visitatori diversamente abili, le sale sono state dotate
di un impianto di climatizzazione, di una nuova illuminazione affidata
in buona parte alla luce naturale e di una tinteggiatura policroma
delle pareti scelta per valorizzare le opere e suddividere visivamente
le diverse sezioni espositive. Si è inoltre realizzato un ricco apparato
esplicativo affidato a pannelli e lunghe didascalie che, in maniera
sintetica ed esauriente, aiuta la comprensione storica ed estetica
delle opere esposte, destinato anche ai non vedenti grazie ad un
efficace metodo di lettura tattile. Un’agile guida cartacea, completa
della riproduzione fotografica di tutti i lavori presenti, si aggiunge
come prezioso sussidio alla lettura della raccolta.
Il nucleo principale della collezione è costituito dagli oltre duecento
dipinti donati nel 1828 dall’arcivescovo casalese monsignor
Vincenzo Maria Mossi di Morano (1752-1829) con la precisa
finalità di servire all’istruzione “dei giovani inclinati alla bell’arte del
disegno e della pittura”: il prelato individuò, nella sua ricchissima
collezione, le opere più adatte alla formazione degli studenti,
secondo il criterio dell’eccellenza qualitativa e della varietà delle
espressioni linguistiche, così da offrire un panorama variegato delle
scuole regionali italiane, ma anche una vasta rassegna della pittura
straniera, tedesca e fiamminga. Rispetto alle attribuzioni fornite
da Mossi, molte sono state le correzioni apportate dagli studiosi in
epoche successive, ma il necessario aggiornamento ha confermato
l’indubbia sagacità collezionistica del prelato e, dunque, l’importanza
museale della Pinacoteca Albertina. I dipinti esposti, fra quelli del
suo lascito, raggruppati in modo cronologico e secondo le scuole di
appartenenza, sono ora collocati nelle sale con le pareti tinteggiate
in rosso pompeiano, ad evocare le storiche quadrerie dei palazzi
aristocratici: si inizia con gli artisti del Quattro-Cinquecento di scuola
fiorentina e piemontese, fra cui importanti lavori di Filippo Lippi,
Francesco Salviati, Defendente Ferrari, Giovanni Martino Spanzotti;
nell’ambiente successivo sono opere del Cinque-Seicento di scuola
genovese, di Domenico e Antonio Maria Piola, di Bernardo Castello,
di Giovanni Battista Carlone; quindi lavori di caravaggeschi come
Gregorio e Mattia Preti, Bartolomeo Cavarozzi, Carlo Ceresa; dipinti
fiamminghi del Seicento, fra cui le belle e rare nature morte dell’ancora
misterioso “Maestro del flauto riparato”; pitture sei-settecentesche
di paesaggio e di vedute, con opere di Giovanni Paolo Panini,
Francesco Zuccarelli e l’intero nucleo di dodici Vedute veneziane
lasciate da Mossi come opere del Canaletto, in seguito attribuite a
Michele Marieschi ed infine assegnate all’anonimo “Maestro delle
vedute dell’Accademia Albertina”.
La sala al centro del percorso accoglie le copie di dipinti celeberrimi
- di Raffaello, Andrea del Sarto, Caravaggio, Guido Reni, Rubens
- considerate esemplari dalla didattica classicistico-accademica e
pertanto legate strettamente al momento storico richiamato dalle
sale successive, tinteggiate in azzurro, dove sono presenti i Maestri
dell’Accademia Albertina fra Sette e Ottocento: vi sono riuniti numerosi
gessi e terrecotte di Ignazio e Filippo Collino, fondatori della Scuola
di Scultura, il ritratto di Ignazio Collino dipinto da Lorenzo Pecheux,
primo Direttore e Maestro della Scuola di Pittura, e l’importante
gruppo di acquerelli eseguiti da Giuseppe Pietro Bagetti, insigne
docente dell’Accademia, donati nel 1842 dalla vedova dell’artista
insieme al busto-ritratto in marmo realizzato dal collega Giacomo
Spalla. L’egemonia culturale proposta dall’Accademia nel corso del
primo Ottocento è testimoniata dai numerosi altri lasciti presenti
in queste sale, fra cui spicca per rarità ed importanza la preziosa
raccolta di sessanta cartoni e disegni cinquecenteschi connessi
prevalentemente all’attività di Gaudenzio Ferrari e della sua scuola,
donati nel 1832 da Carlo Alberto: le fragili opere cartacee sono poste
in un ambiente ad illuminazione ribassata per assicurarne la corretta
conservazione e collocate su pannelli scorrevoli che ne permettono
la consultazione e facilitano i confronti stilistici.
Le due ultime sale, tinteggiate di verde a evocare uno dei colori amati
dallo stile Liberty, ospitano una scelta di lavori della seconda metà
dell’Ottocento e del primo Novecento: alcune opere di paesaggisti
della scuola piemontese sono accostate ai dipinti di storia di Carlo
Bonatto Minella e di Ludovico Raymond, al Nudo accademico di
Marco Calderini, lasciato dagli eredi, ed al notevole busto bronzeo di
Antonio Fontanesi eseguito da Leonardo Bistolfi nel 1883, all’esordio
della sua luminosa carriera artistica; ed ancora numerose opere di
Giacomo Grosso, titolare della cattedra di Pittura dal 1906 al 1933,
ed altri lavori giunti di recente all’Accademia, come il bel dipinto di
Italo Cremona offerto dall’Archivio Storico a lui intitolato, per ricordare
il suo ruolo di docente alla Scuola di Decorazione.
Per collegare ulteriormente il patrimonio museale con l’attualità
artistica è stato avviato un progetto riservato ad artisti viventi, invitati
a realizzare un’opera ispirata all’Albertina.
Luigi Mainolfi ha inaugurato la serie di eventi con un pannello in
terracotta dipinta, esposto nell’ambiente d’ingresso della Pinacoteca
a sottolineare lo specifico compito del Museo: custode del passato
e, nel contempo, stimolo operativo al presente. Che questo ruolo
di trait-d’union culturale sia stato finora assolto con successo dalla
Pinacoteca Albertina lo testimonia anche l’incremento di visite
guidate richieste da scuole e gruppi di adulti alla Sezione Didattica ed
il moltiplicarsi degli studi storico-artistici relativi alle opere esposte e a
quelle conservate nei depositi, ben ordinati ed accessibili su richiesta:
l’impegno dell’Accademia di Torino per il futuro è teso a valorizzare
ulteriormente l’importanza storica della sua Pinacoteca, letta e
compresa come ineludibile e irrinunciabile eredità per lo sviluppo
della creatività contemporanea, scopo principale dell’insegnamento
e della esistenza stessa dell’istituzione accademica.
*Francesca Petrucci è docente di Storia dell’Arte all’Accademia
Albertina di Torino.
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patrimoni storici
n.a.b.a. milano
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Daniela Brenna, Ritratto di famiglia, 2009, frame da video 5’ 4’’
POLITICHE DELLA MEMORIA
Una diffusa pratica documentaria o una generica attitudine archivistica
è al centro della scena artistica più attuale. Tanto che si tratti delle sue
manifestazioni più importanti - come l’ultima edizione di documenta
(2007) - quanto delle generazioni artistiche emergenti. E’ per questa
ragione che da qualche anno la scuola di arti visive della NABA
di Milano ha rivolto la propria attenzione a tematiche come quelle
dell’inventario o della storia, integrando i propri corsi curriculari con
iniziative pubbliche (conferenze, mostre, screening programmes)
rivolte a misurare la portata culturale di un tema come quello della
memoria sociale. Da due anni si tiene infatti presso NABA il ciclo
internazionale di incontri e proiezioni a carattere monografico Politiche
della Memoria, giunto quest’anno al suo secondo appuntamento. Ma
già nel 2007 un seminario di studi, promosso da NABA con la rivista
belga “A Prior”, aveva permesso agli studenti di incontrare l’artista
lituano Deimantas Narkevicius, internazionalmente noto per i suoi
video His-story (1998), Once in the XX Century (2004), Revisinting
Solaris (2007) e molti altri progetti artistici. Poi, negli ultimi anni, si
sono succedute figure come Lisl Ponger, Yervant Gianikian e Angela
Ricci Lucchi, Gintaras Makarevicius, Eyal Sivan, Hito Steyerl e altri
ospiti internazionali.
Il tema strutturale di Politiche della Memoria si riallaccia al problema
dell’immagine intesa come documento: ai regimi discorsivi che essa
informa, ai processi d’identificazione che legittima, alla dialettica
temporale che fonda. Politiche della Memoria si focalizza soltanto su
una delle procedure di documentazione possibile, ma di certo la più
importante, come la narrazione video.
Il ciclo di incontri vuole interrogare il documento come traccia oggettiva
lasciata dagli eventi, come prova materiale o come certificazione di
realtà. Ma interroga soprattutto quello che si definisce “il regime di
verità” come principio regolativo, i modi con cui la memoria viene
ricondotta a fini specifici e la storia che essa autorizza.
Ciò che mette sotto inchiesta dunque non sono soltanto i fatti e i
dati ma il sapere che essi definiscono, l’influenza che esercitano.
I modi, in sostanza in cui i dati vengono registrati, accumulati. Le
strategie con cui essi costruiscono una memoria o definiscono
una rimozione storica, una amnesia permanente o temporanea.
L’uso del materiale d’archivio o del found footage era al centro
del primo ciclo di conferenze 2009 che si concentrava sul tema
della memoria colonialista e sovietica. Ma anche sul tema della
memoria del mezzo cinematografico stesso con Yervant Gianikian
e Angela Ricci Lucchi che rifilmano vecchie pellicole documentarie
su pace e guerra, su imperialismo e sfruttamento dei subalterni.
Precorritori di un “cinema archeologico”, già dalla fine degli anni
Settanta i due filmmakers rifotografano, ricolorano materiali
d’archivio e intervengono sulla velocità originale del film in modo
tale da smascherare ideologie e conflitti in un dato momento della
nostra storia recente. Che coincide, non a caso, con quella stessa
del cinema e del documentario. Il secondo ciclo di incontri, quello
tuttora in corso, è più espressamente rivolto alla trasformazione delle
cartografie mondiali in questo momento della storia. Gli attuali confini,
l’evoluzione dello spazio geopolitico e della popolazione che vi vive
sono al centro dei lavori e degli autori presenti nella nuova edizione
di Politiche della Memoria. In questi documentari o progetti video
le esplorazioni territoriali diventano viaggi nel tempo, elaborazioni di
amnesie, rilevazioni di traumi storici collettivi.
Il confine tra Israele e Palestina, i confini della nuova Europa, gli
oleodotti transnazionali e altre barriere fisiche sono letti nel loro
potenziale trasformativo, nel loro divenire. Flussi di immagini in
movimento si incontrano con processi migratori di gruppi etnici e
minoranze sociali. Misurarsi con l’altro significa anche e soprattutto
confrontarsi con scarti di tempo.
La seconda edizione del ciclo si focalizza, attraverso un approccio
geopolitico, sui processi diasporici contemporanei e sulla mobilità.
Eyal Sivan, Hito Steyerl, Ursula Biemann e Angela Melitopoulos
sono tutti artisti e filmmakers internazionalmente riconosciuti per
aver posto le basi di una nuova pratica documentaria e per aver
messo in luce gli attuali problemi che incidono sulla nostra possibilità
di leggere la realtà.
Intervista a Marco Scotini
a cura di Lorenza Pignatti
Per iniziare una domanda d’obbligo… perché Politiche della
memoria?
Perché in questo momento uno degli interessi maggiori da
parte dell’arte contemporanea si concentra su quella che viene
chiamata “documentary practice” che non è esclusivamente rivolta
al documentario cinematografico o al video ma ha a che fare più
ampiamente con una strategia che investe i diversi linguaggi dell’arte
visiva (fotografia, installazioni etc). Questo è strano perché se una
delle condizioni del modernismo era l’affrancamento dall’idea del
documento per un’emancipazione dei manufatti soprattutto etnografici,
che venivano accolti dentro lo spazio dell’arte, in questo momento
è proprio il sistema dell’arte che riconduce il documento all’ambito
estetico. Questo perché si è scoperto che il documento oltre ad
avere un aspetto intrinsecamente estetico può essere indagato come
condizione di legittimazione della storia, di costruzione di gerarchie
sociali attraverso l’inclusione e l’esclusione.
Inoltre, dopo l’euforia del post 1989 diversi autori hanno iniziato a
riscrivere e a rileggere le vicende storiche. Fino ad ora abbiamo
analizzato gli archivi dell’Est europeo ora si inizia invece ad
investigare la memoria dell’Ovest, come è accaduto ad esempio
a Former West Congress, un progetto promosso dall’Olanda con
finanziamenti europei, tenutesi lo scorso novembre al museo BAK
(basis voor actuele kunst) a Utrecht. Ed è questo un altro aspetto
della “documentary practice”, quello di indagare come sono state
manipolate e alterate le fonti storiche. Politiche della memoria,
cosi come altre pratiche dell’arte contemporanea è rivolta anche
e soprattutto a immaginare e creare nuove modalità espressive.
Deleuze diceva infatti che i concetti non si trovano, si creano.
Politiche della memoria è giunta quest’anno alla seconda
edizione pensa di continuarla nei prossimi anni o pensa che sia
in qualche modo conclusa?
Si, credo sia una condizione con la quale ci dobbiamo confrontare.
Credo che l’ultima edizione di Documenta era a questo riguardo
esplicita e che questi temi siano fortemente legati all’ambito della
formazione. Credo non sia un caso che questo ciclo di incontri
nasca da un corso di formazione accademica come NABA, e che
anche il Bard College di New York abbia presentato The Greenroom:
Reconsidering the Documentary and Contemporary Art (progetto e
conferenza ideata da Hito Steyerl e Maria Lind, entrambe invitate a
NABA, la prima quest’anno per Politiche della memoria, la seconda
all’interno di The Utopian Display Platform nel 2006).
Quello che mi sembra interessante è che se la prima edizione
era dedicata alla questione del tempo storico (con Lisl Ponger,
Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi, e Gintaras Makarevicius),
quest’anno è più legata a una dimensione geopolitica della storia.
Ad esempio Eyal Sivan ha presentato il documentario Route 181
(2004), che racconta il viaggio da lui compiuto insieme al regista
palestinese Michel Khleifi attraverso quella linea virtuale che segue
il confine stabilito dalla risoluzione 181, votata dalle Nazioni Unite
nel novembre del 1947 allo scopo di dividere la Palestina in due
differenti stati.
L’idea di scegliere il documento come tale, come traccia
costitutiva lasciata dagli eventi, come prova materiale o come
certificazione di realtà, come viene accettata dagli studenti?
Molti artisti che escono dal dipartimento di Pittura e Arti Visive di
NABA si confrontano con interesse su questi temi… in questi
ultimi anni hanno infatti indagato, collezionato, e proposto nuovi
dispositivi narrativi. Questo accade nel Biennio Specialistico in modo
sistematico (presto uscirà un reader dal titolo “No Order” che si
occupa di questi argomenti) ma anche nel triennio… Politiche della
memoria è stato un momento di formazione importante e costituente
per il riconoscimento degli studenti che escono da NABA, penso al
lavoro di Ingar Noga, Tomaso de Luca, Ian Tweedy, Mirko Smerdel,
Danilo Correale, Tommaso Garner, Dario Pecoraro per ricordarne
solo alcuni, che già hanno avuto riconoscimenti internazionali.
25
*Lorenza Pignatti scrive per “D di Repubblica”, “Arte e Critica” e altre testate.
Insegna Cultura Visuale presso la NABA Nuova Accademia di Belle Arti di
Milano.
Marco Scotini
è critico d’arte e curatore indipendente con base a Milano. E’ direttore del Triennio di Pittura e Arti Visive e del Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali
presso la NABA di Milano.
È direttore di “No Order Magazine – Art in a post fordist society”. Suoi testi ed interviste sono apparsi in “Flash Art”, “Springerin”, “Domus”, “Moscow Art Magazine”,
“Brumaria”, “Manifesta Journal” e in numerosi cataloghi. Fra le sue mostre recenti figurano A History of Irritated Material (Raven Row, Londra 2010), We Do
It (Kunstraum Lakeside, Klagenfurt 2009), Bert Theis. Building Philosophy (Museo Pecci, Prato 2009), Gianni Colombo (Castello di Rivoli, Torino 2009). È
inoltre curatore del progetto “Disobedience” (tra le sedi in cui è stato esposto: Kreuzberg/Bethanien, Berlino, 2005; SAPS, Mexico DF 2005; Vanabbe Museum,
Eindhoven, 2007; Nottingham Contemporary, Nottingham, 2008; Riga Art Space, Riga 2008; MNAC, Bucarest, 2009). Ha curato importanti personali di Meschac
Gaba, Santiago Sierra, Ion Grigorescu, Regina José Galindo, Oliver Ressler e molti altri. È inoltre direttore dell’Archivio Gianni Colombo di Milano per cui ha curato
mostre per Palazzo Reale di Milano, Neue Galerie di Graz, Haus Konstruktiv di Zurigo, Castello di Rivoli, Torino.
n.a.b.a. milano
Dario Leone, Toti Nicola, 2007, incisione su fotografia, dimensioni variabili
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Nicolò Bruno, Space, 2009, performance, installazione (carta, cartone, tela su muro) dimensioni ambientali
n.a.b.a. milano
Giulia Currà, Scavo di recupero, 2009, intervento su carta, 30x23 cm
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Sara Saini, Il kit dell’invisibile, 2008, foto d’ epoca e nastro isolante rosso, nstallazione (particolare) 22x17 cm
Giulia Serafini, Pittura di storia, 2009, acrilico su carta e acetato, 30x15 cm
n.a.b.a. milano
LABA, Libera Accademia di Belle Arti
di Brescia, una realtà innovativa
l.a.b.a. brescia
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…Il successo della Laba è dovuto in larga misura alla professionalità
e alla disponibilità dei docenti e alla forte sinergia che si è creata
tra le diverse componenti: la direzione, i collaboratori, i docenti, gli
allievi, tutti animati da un forte senso di appartenenza e di spirito
di squadra.
La Libera Accademia di Belle Arti Laba di Brescia, ideata da Roberto
Dolzanelli nello spirito beuysiano, ha ormai superato il decennale
dalla sua fondazione. Fin dalle origini ha inteso fondere la solidità
della tradizione alla forza innovativa delle ricerche artistiche più
avanzate, considerando di primaria importanza il fattore etico e
umano.
La Laba è cresciuta negli anni in modo esponenziale oltre ogni
aspettativa per numero di studenti - oggi 1000 iscritti - e per intensità
di attività e di relazioni, diventando punto di riferimento non solo
per la città di Brescia e per la sua provincia, ma per tutto il territorio
nazionale.
La Laba ha sempre programmato la struttura dei suoi dipartimenti
tenendo conto del rapporto quantità-qualità: ogni scuola è infatti
a numero programmato, favorendo in tal modo una stretta
collaborazione tra allievi e docenti.
Inoltre la Laba ha curato il contatto diretto con il mondo dell’arte: con
gallerie, con musei, attraverso l’incontro con le maggiori personalità
della cultura del nostro tempo in un’iniziativa denominata «Incontri
con l’artista», che negli anni ha visto ospiti illustri, quali, ad esempio,
Vasco Bendini, Mario Raciti, Medhat Shafik, Enzo Cucchi, Alessandro
Mendini, Stefano Giovannoni, Emilio Isgrò, Mimmo Rotella, Remo
Salvadori, Salvatore Natoli, Lucio Pozzi, Grazia Neri, Dondero, Jorrit
Tornquist, Giangiorgio Pasqualotto, Elena Pontiggia, Lucrezia De
Domizio, Frank Dituri, Franco Fontana, Carlo Dettori, Nanda Vigo,
Lesile Krims, Sandy Skoglund, J. F. Bory, Jacques Villeglé, Luc
Fierens.
In modo particolare ha curato collaborazioni con le realtà produttive
– imprese e aziende – che hanno generato un forte radicamento
sul territorio: Bialetti elettrodomestici, Bisazza mosaico, Bonomi
rubinetterie, Clerici & associati comunicazioni, Condor Trade in blu
calzature, CTB centro teatrale bresciano, Flos lampadari, Laser
Tech design, Mangano fashion, Metamorphosi produzione cinema
e tv, One Communication, Palcografico studio fotografico, Primadv
design, Stema restauro, Tecnoform oggettistica e molti altri.
I «Progetti speciali» riguardano la realizzazione di opere pubbliche, di
restauro di edifici e di monumenti e di arredo urbano, commissionate
attraverso convenzioni da enti e istituzioni (comuni, ospedali, teatri).
L’accademia è vicina agli studenti, così da accompagnarli verso
la professione, attraverso il servizio di Placement, che coordina le
attività di raccordo tra accademia e mondo del lavoro, mettendo
a disposizione le proposte di stage e le offerte di impiego che
provengono dalle aziende.
Ha promosso al contempo l’apertura verso l’esterno attraverso la
diffusione del Progetto Erasmus: scambi intensi avvengono tra la
Laba e università e accademie della Gran Bretagna, della Francia,
della Spagna, della Repubblica Ceca, della Polonia. Dal 2008
l’accademia dispone di una sede staccata nel cuore di Brescia, la
prestigiosa Casa dei Palazzi, riservata alle arti visive. Al suo interno
è ospitato lo Spazio Laba, dedicato alle esposizioni degli allievi e dei
docenti dell’accademia e di artisti ospiti. Si è costituito in accademia
un gruppo teatrale che sta ricevendo riconoscimenti e consensi di
pubblico e di critica.
Sotto il profilo delle strutture la Laba ha investito in impianti e tecnologie
d’avanguardia e in sistemi informatici di ultima generazione.
La Laba ha ottenuto nel 2003 la Certificazione di Qualità TUV Italia per
la riconosciuta alta qualità dei suoi processi e delle sue strutture.
Per sollecitare e favorire la ricerca all’interno dell’accademia la Laba
promuove, attraverso una convenzione con La Compagnia della
Stampa di Massetti Rodella editore, la pubblicazione dei «Quaderni
della Laba» che raccolgono i risultati degli studi dei docenti e che
diventano strumento didattico per gli allievi.
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l.a.b.a. brescia
l.a.b.a. brescia
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La soddisfazione maggiore della direzione deriva dalla constatazione
che la maggior parte degli studenti diplomati si sono in gran parte
inseriti nel mondo delle professioni, soprattutto nel settore delle
nuove comunicazioni e delle nuove forme espressive.
Il successo della Laba è dovuto in larga misura alla professionalità
e alla disponibilità dei docenti e alla forte sinergia che si è creata
tra le diverse componenti: la direzione, i collaboratori, i docenti, gli
allievi, tutti animati da un forte senso di appartenenza e di spirito di
squadra.
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Le “Porte del Violino”, opere scultoree di arredo urbano a
delimitazione della Zona Trenta pedonale dell’omonimo
quartiere cittadino della III Circoscrizione, in collaborazione
con il Comune di Brescia, Assessorato all’Urbanistica
(Dipartimento di Decorazione e di Scultura), 2007
Recupero conservativo dello Scalinata e dei dipinti murali
del Teatro Grande (Dipartimento di Restauro), estate 2007
e 2008
Restauro e ricollocazione in piazza della Vittoria della
statua del “Bigio” (Dipartimento di Restauro), in fase di
definizione
Convenzione con il Comune di Roncadelle per il restauro di
edifici pubblici: bocciodromo (2008) e palazzetto dello sport
(estate 2009) (Dipartimento di Decorazione)
Gli “Alberi”, con l’Assessorato all’Ecologia del Comune di
Brescia, 2007 (Dipartimento di Scultura)
“Riciclart”, progetto di riciclaggio, con l’ASM e il Comune di
Brescia, 2007 (Dipartimento di Design)
Teatro: con il Centro Teatrale Bresciano, rappresentazione
al Teatro Santa Chiara di Questa nostra giovinezza
(primavera 2007) e L’isola, regia di Giorgio Rosa (primavera
2008) (Dipartimento di Scenografia)
Arte per la salute: progetto di decorazione del reparto di
Oncologia infantile degli Spedali Civili di Brescia e di settori
di nuova costruzione dello stesso nosocomio, dal 2007
(Dipartimento di Decorazione)
GIULIO DE MITRI
La luce come corpo
docenti
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Giulio De Mitri, Mediterraneo, 2009, Installazione
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Giulio De Mitri, Peace-Love, 2008
Una personale nella storica Galleria Peccolo di Livorno
L’opera di De Mitri suscita, mostrando di sapere intrattenere
sull’entità luce e colore, il pensiero e la vista dell’osservatore attento.
E ciò favorisce la necessità e induce l’opportunità di potervi tornare
sopra, ancora in nuova occasione, oltre questa di Livorno, già
molto significativa”. E’ stato realizzato, in occasione della mostra,
un catalogo edito da Rubettino Arte Contemporanea per la collana
ICONICA (cataloghi, biografie, memorie), diretta da Giorgio Bonomi,
contenente testi critici di: Rosalba Branà, Bruno Corà, Lorenzo
Canova, Luigi Paolo Finizio, Barbara Tosi, apparato iconografico e
nota biografica sull’artista.
Un secondo sguardo nell’opera di
Giulio De Mitri
di Pietro Fortuna
Si è detto molto su Giulio, ho qui sul tavolo recensioni, articoli, brevi
saggi. Guardo i titoli in nero, i nomi degli autori. Qualcuno ha anche
scritto per me e cerco di ricordare quando e perché l’abbia fatto…
Sono di certo le carte giuste se si vuole cogliere il senso del suo
lavoro, ma anche uno stimolo a scavare ancora tra le altre ragioni,
forse le ultime, le più discrete, quelle sottratte alla seduttiva evidenza
che le sue opere, a un primo sguardo, ci riservano.
docenti
Si è aperta il 24 aprile scorso, nella storica Galleria Peccolo di Livorno,
la mostra personale dell’artista pugliese Giulio De Mitri, intitolata La
luce come corpo. La mostra è curata da Bruno Corà, critico, storico e
direttore del Museo d’Arte Contemporanea di Lugano.
L’artista espone la sua più recente produzione: installazioni e tecnolight-box. “…De Mitri ha reso evidente – come scrive Bruno Corà
nella presentazione in catalogo – come sia insito nel suo percorso
ideativi lo sconfinamento della valenza oggettiva dell’opera verso
la qualità “ambientale”, cioè verso dimensioni sempre variabili del
lavoro e delle installazioni in relazione al contesto; ciò perché quanto
deve essere “accolto” e reso significativo è il senso dello spazio che
scaturisce dall’introduzione fisica dell’opera nei luoghi. Tale carattere
appare evidente in ogni sua creazione proprio per quell’appartenenza
al grembo di cultura e fisicità che il mondo della Magna Grecia ha
sempre espresso, e per la consapevolezza che ne deriva a ciascun
erede spirituale di quei luoghi; tanto più se – come nel caso di De
Mitri, artista autenticamente motivato – la profondità sorgiva della
scaturigine poetica è abissale e insondabile ma tuttora attiva.
E, ancora, come afferma il curatore della mostra si identifica con
la nozione di Mediterraneità, con le latitudini di orizzonti circolari e
sconfinati, pervasi dalla materia liquida, dalla dissolvenza tra i diversi
valori del blu marino e di quello aereo e tra gli sfolgorii e i riverberi
di luce solare e dei suoi riflessi sugli specchi acquatici. Blu e luce
inestricabilmente considerati e compresi in ogni più recente creazione
di De Mitri.
Giulio De Mitri, Linea blu, 2006, Lambda in tecno-light-box, Installazione ambientale
docenti
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Dunque c’è ancora campo per i nostri occhi e spazio per parole
forse inattese dettate da nuovi pensieri. Nuovi perché più urgenti
o più attuali, più veri o più certi, ma perché nel dire nuovi sento
maggiormente viva la responsabilità del presente che non vorrei
mai dissipare. In ogni caso non credo sia un compito così temerario
cercare altre ipotesi. Anche perché penso che escludere la possibilità
di un’interpretazione diversa, rispetto a quella che abbiamo scelto
per abitudine o necessità, può risultare a conti fatti un errore o una
risorsa mancata. Una pena che si può evitare se solo si è capaci di
rinunciare a quella prudenza che ha la forza di trattenerci almeno
quando questa cela il timore di perderci in qualcosa di non vero
o meno vero. Se rimaniamo, però, ben piantati di fronte al nostro
oggetto, un oggetto cangiante come quello di un’opera, non è poi così
azzardato cercare altro, almeno se prendiamo per buono quanto ci
dice Wittgenstein a proposito delle figure ambigue: che una seconda
interpretazione del medesimo oggetto non ha nulla di meno vero
rispetto alla prima. E qui il filosofo viennese non esita a stigmatizzare
il pregiudizio o la convenzione.
Uno degli aspetti dell’opera di Giulio, quello che più mi stimola, non
è tanto l’uso espressivo della natura e i discorsi che conosciamo, ma
tenterei di dire, una discreta, quasi furtiva volontà di disattivare gli
effetti fascinosi o perturbativi della realtà per far posto al tempo, là
dove agganciamo gli umori del nostro spirito. Anche perché ritengo
che la luce, gli elementi, le cose della natura, affatto dettati da scelte
di ordine formale o retorico, sono in Giulio la diretta espressione di
un’identità che affonda nella sua stessa vita, dove la terra è anche
patria. Dunque, un luogo che appartiene prima di tutto a lui, così da
farmi ritrarre, quasi per pudore, dal superare quella soglia; guardo,
ma non voglio vedere e, tanto meno penso che con la scrittura si
possa aggirare l’ostacolo.
Penso, invece, all’idea della distanza e del tempo, di una volontà
di raccogliere l’energia cosmica e trasformarla in un atto intimo che
determina qualcosa di altrettanto immateriale. Un’attitudine più che
una scelta sviluppata da un sentire che si libera delle immagini,
almeno del loro carico letterario. Per riproporsi attraverso uno sguardo
alleggerito dalle convenzioni ideologiche e lontano dal clamore della
demagogia. Con altrettanto disincanto sì, non per la natura, ma verso
quell’immaginario che ha impegnato i sentimenti di intere generazioni
nella scommessa ideale di un impossibile raggiungimento di una
armoniosa conciliazione con il reale.
Nella sua opera la realtà non è filtrata, edulcorata o spenta; il mare
così il cielo non sono devitalizzati o miniaturizzati, e le sue teche
non sono acquari; ciò che è qui è sottratto al vero, all’irremissibile
forza degli elementi, gli è subito restituito attraverso la verità stessa
dell’opera. Un secondo sguardo, appunto, che solo l’arte sa offrire,
quando scioglie le cose dalla stretta del tempo ordinario e le affida
al tempo dilatato dello spirito. Un secondo sguardo che distanzia il
reale senza però smentirlo, senza smarrirsi; complice è una quiete un
ritardo divenuto occasione di un nuovo evento lasciato alla pazienza,
al gesto mite e dissuasore di ogni urgenza.
Ecco l’infinito toccato, percepito, nel punto dove il mare è andato con
il sole, come dice Rimbaud, e dove, qui, il mare si chiude insieme al
cielo. Le immagini rinunciano a raccontare e l’occhio segue lo spirito
sulla via della stessa perdizione, nel limite che è in noi e di cui le cose
della realtà, nella loro ignoranza, non sanno.
Il realismo di Giulio, dunque, non cerca un’esposizione più diretta. Non
impone una rappresentazione più vera, come tanta arte di oggi che
punta su una vitalità esasperata spingendo il reale verso lo scandalo
di una nuda esibizione destituita dal pensiero. Una vanità che lascia
le cose al vuoto spettacolo della loro transitorietà e le abbandona ad
un fine senza cordoglio.
Diversamente, Giulio, le trattiene per segnalare la loro permanenza
in ciò che passa, le mette al riparo, le salva aprendo un varco nel
tempo verso l’assoluto, dove il divenire e l’eternità si toccano.
Roma, aprile 2010
* Giulio De Mitri (Taranto 1952) è docente di Tecniche e Tecnologie
della Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. La sua attività
si è manifestata da anni attraverso numerosi e significativi eventi,
mostre, installazioni e performances, tenute in Italia e all’estero (XV
Quadriennale di Roma; Evento collaterale ufficiale alla 52° Biennale
di Venezia; Envrionmental Art Festival Lakonia: Arthumanature Topos
2007, Sparta, Grecia) ecc.
GABRIELE DI MATTEO
Gabriele Di Matteo, The blind man
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…come pittore più che interessarmi
a realizzare dei bei dipinti, ho sempre
cercato attraverso la pittura di interrogare
le immagini.
Intervista a cura di Andrea Villani
Andrea Viliani: Il fatto che tu non sia mai stato veramente
interessato ad essere un buonpittore, quanto piuttosto a
verificarne la possibilità, e le conseguenze, ha contribuito
finora al fraintendimento e alla sottovalutazione del tuo lavoro,
almeno in Italia. Come descriveresti il tuo approccio alla pittura
- concettuale, amatoriale, entrambi?
OK, Joyce: torni spesso all’inizio del XX secolo, quella, è,
si direbbe, la tua epoca… E dopo Duchamp, Valéry, Picabia, Pollock - a cui hai dedicato il progetto presentato alla tua galleria
docenti
Gabriele Di Matteo: É vero, come pittore più che interessarmi a
realizzare dei bei dipinti, ho sempre cercato attraverso la pittura di
interrogare le immagini. Questo ha comportato una verifica continua
delle possibilità che il mezzo stesso ti concede. In termini strettamente
analitici, i problemi della pittura sono stati ampiamente affrontati e
in parte risolti nelle varie correnti succedutesi dagli anni 60 in poi,
fino ad avere un arresto, direi quasi un “collasso” con l’avvento della
Transavanguradia e a livello internazionale dal Neo-Espressionismo
e dalla sue varie declinazioni. La mia storia inizia proprio da qui, con
il collasso provocato dalla Transavanguardia. Ora, per me definirmi
concettuale o amatoriale come tu dici, può avere quasi lo stesso
significato, nel senso che il concetto come elemento costitutivo e
fondativo dell’opera, cosi come un approccio di ironico distacco,
non sono più sufficienti. E’ necessario sconfinare dall’uno nell’altro,
fare con la pittura quello che Joyce ha fatto con la letteratura per
esempio.
Federico Luger di Milano a gennaio del 2009, … Schnyder,
Armleder, Parrino, Shaw, Prina, Sturtevant, - alcuni degli artisti
di cui, in questi anni, ho visto nel tuo studio libri e cataloghi
ma anche, per esempio, articoli di giornale, inviti, manifesti,
CD, VHS, file MP3, allegati a giornali di larga diffusione, ecc.
Pur facendo quasi sistematicamente riferimento ad altri artisti
e alle loro opere non direi che li citi mai direttamente - non
definirei la tua una pratica citazionista o appropriazionista
come quella di altri artisti che come te hanno iniziato negli anni
Ottanta, quelli che tu chiami gli anni del “collasso” - quanto
piuttosto un’operazione di matrice biografica che prescinde
almeno in parte dalla biografia dell’artista per rivolgersi alla “biografia delle opere”, alla “biografia dell’icona ”, cioè alla loro
registrazione e trasmissione nel tempo e nello spazio, affidata
a supporti sempre più seriali lungo l’arco del XX secolo, e a
una molteplicità di codifiche e decodifiche di senso (perdita di
senso?). In effetti quando guardi i tuoi dipinti è la loro esatta
consistenza, funzione e temporalità ad incuriosirti, più che
l’immagine: non sai decidere per esempio se sono troppo carichi
d’informazione o troppo vuoti ...
Sono molto interessato al lavoro di alcuni artisti che tu citi, in
particolare Sturtevant, per la sua capacità di interagire con il potere
e l’autonomia dell’originale, e Jim Shaw, per la sua disinvoltura a
presentare un’imagerieda mercato in contesti istituzionali. La mia
serie Le peintresalue la mer– che è stata presentata tra l’altro
nella stessa sala del MAMCO di Ginevra dove Jim Shaw aveva
presentato le sue ThriftStorePaintings–giocava sul fatto di essere
stata commissionata direttamente a veri e propri pittori “commerciali”,
una tradizione ancora viva nella città di Napoli, dove sono nato.
Uno scarto minimo, rispetto all’operazione di readymade di Shaw,
ma sicuramente analoga in quanto poneva un problema di regia e
di messa in scena di un metodo ripetitivo e della sua diffusione fra
intimità e collettività.
Per quanto riguarda il mio lavoro, a quello che io faccio quando mi
riferisco alle opere di altri artisti, come Duchamp, Picabia o Pollock,
sicuramente non c’è nessuna pratica o intenzione citazionistica.
L’opera si trasforma in qualcosa di analogo a quello che tu definisci
“biografia dell’opera”, un mettere in scena la pittura “nel corso del
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Gabriele Di Matteo, History stripped bare, 2005
docenti
tempo”, o, come dici tu, “del senso”. Il soggetto stesso molto spesso
diventa un pretesto. Nel caso specifico di Pollock, ho riprodotto in
modo “fedele” una parte del famoso catalogo della retrospettiva fatta
al Centre Pompidou nel 1982. Si tratta di tutti i documenti, i testi e le
fotografie private di Pollock. Tutte le immagini sono riprodotte però
in pittura, mentre i documenti sono stati ricopiati e, alcuni, riscritti a
mano. Ogni riferimento alla pittura di Pollock, all’actionpaintingper
esempio, è annullata. Ogni qualvolta infatti in una foto si presenta
un immagine di un dipinto di Pollock, questo diventa un’immagine
sbiadita, o addirittura un quadro bianco. Questo annullamento, sottrae
all’intera operazione (alla riproduzione cioè di oltre settanta nuove
pitture che sostituiscono le altrettante foto che illustrano la biografia
di Pollock ) l’effetto del tempo, la perdita della centralità e del senso
della pittura. La sottrazione, il togliere spessore alla pittura stessa fa
perdere tutti i punti di riferimento. Forse è un progetto, quest’ultimo,
un po’ romantico…
Come se ti accanissi a provocare l’unicità, univocità (banalità?)
dell’idea di partenza, i tuoi interventi tendono a strutturarsi,
più che in immagini indipendenti (il quadro), in stratificate
installazioni pittoriche, cicli spaziali compatti e modulari che,
accentuando l’inanità dello sforzo installativo e nello stesso
tempo minimizzando l’autonomia del singolo dipinto, sembrano
ispirati da un circospetto entusiasmo nella (im)possibilità di
raggiungere un risultato qualsiasi.
Ho sempre immaginato la pittura in termini di dispositivo spaziale. Un
dispositivo, questo, che mi permette di guardare al di là dei confini
e delle caratteristiche che il quadro impone alla rappresentazione.
Come in un racconto, direi.
E come in un racconto le varie fasi di un ciclo pittorico interagiscono
con lo spazio che ho a disposizione, passo dopo passo diverso,
e ne mettono in scena il copione che è alla base di ogni progetto.
Una sorta di sceneggiatura dove a volte il mio ruolo è come quello,
appunto, di uno sceneggiatore. Nel ciclo della Nuda UmanitàHistoryStripped Bare (200 dipinti che illustrano l’epopea dell’umanità,
in cui però tutti i personaggi storici sono nudi, come nella favola dei
vestiti nuovi dell’imperatore) ho delegato per esempio tutto il lavoro
pittorico a Salvatore Russo, un copista napoletano. Il suo compito
non era quello di dipingere le scene cosi come le avrei dipinte io - gli
chiesi espressamente di non imitare il mio stile - ma semplicemente
interpretare la parte del pittore. Lo si vede dal video che accompagna
il lavoro. Il copistaè per me il pittore per eccellenza, quello che
meglio di altri ne può appunto rivestire il ruolo. A una fashion
designer, invece, ho affidato il compito di spogliare tutti i personaggi
della storia. É evidente che la pittura in questo caso è una messa
in scena che assume un desueto carattere di coralità, come certi
spettacoli popolari e flokloristici del Sud Italia, la preparazione di
certe processioni, diverso quindi dalle collaborazioni a quattro o più
mani fra due artisti. Historystripped Bare, anche per il suo carattere
epocale e iconografico è, con un pizzico di megalomania, la “storia”
della pittura.
AV: Spesso la tua ricerca “storica” ti ha portato ad affrontare
il tema della dispersione delle immagini, alla loro circolazione,
al loro controllo e, quindi,il problema del copyright in relazione
al concetto, sempre più compromesso, di autore e alla figura,
sempre più ambigua, dell’artista singolo o autonomo. Aspetti,
questi, centrali nella ricerca di molti artisti dell’ultima generazione
con cui io stesso sto collaborando. Ho l’impressione che più che
un approccio analitico, e alla volontà di “ricaricare” l’immagine
di partenza attraverso la sua riappropriazione, rielaborazione e
riproposizione, tu abbia sviluppato, in relazione a questi temi, una
sorta di elegante riserbo, la malinconia venata da toni umoristici
di uno storyteller. Come se stessi leggendo le avventure di un
personaggio di finzione, come in un bel racconto d’avventura,
che è poi un bel modo di vedere la “storia” dell’arte, no?
Il problema del copy-right legato all’appropriazione di immagini - e
concetti – di cui non sei direttamente l’autore è da un lato molto serio,
e dopo l’avvento di internet, molto attuale, dall’altro molto buffo, anche
per gli sforzi di esorcizzarlo. Una legislazione corporativa, questa del
copy-right, nata inizialmente per salvaguardare gli interessi degli
editori, e non degli autori, che ha sicuramente provocato danni allo
sviluppo della conoscenza. In seguito anche il diritto degli autori
è stato riconosciuto, ma certamente questo non giustifica il fatto
Gabriele Di Matteo Prenet, garde à la peinture, 2007 oil on canvas 300 x 400 cm
riguarda sento la necessità di legare a questa riflessione di ordine
analitico una storia che faccia in qualche modo da collante. Un
doppio livello, rispetto a quello che pertiene all’analisi e al metodo
utilizzato, di tipo evocativo. É su questo piano che effetti molteplici e
non sempre prevedibili possono accadere
E allora vorrei proprio chiederti, dato che all’inizio non
t’interessava essere un buon pittore... lo sei per caso
diventato?
Bella domanda. Prendo in prestito quello che mi rispose un pittore
commerciale a cui ho fatto un intervista nel film che abbiamo
realizzato insieme nel 2005, Dal ragazzo che tirò una pietra. Alla fine
dell’intervista, eravamo nel suo studio, gli ho chiesto se riteneva di
fare dell’arte, di sentirsi un artista. Lui mi ha risposto: “ come vedi io
le pitture le ripeto,cioè, ogni giorno faccio sempre lo stesso quadro,
qui dentro io non sono un artista, io sono un pittore”.
Gabriele Di Matteo
Nato a Torre del Greco nel 1957, vive e lavora a Milano dove è anche docente all’Accademia di Brera.
Mostre selezionate
2010 - “Seconde Main“ Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. “ Sull’invisibile ”, Galleria Ciocca, a cura di Francesca Alfano Miglietti.
2009 - Pepe Cobo & Cia, Madrid, Avi Kietelman. Brussels, Art Unlimited,
Basel. Fedrico Luger, Milano. “Là ou je n’existe pas” Musée d’Art Moderne de Toulose
2008 - “Le coulour de Miroird” Frac Limousin, Limoges
2007 - P2P, casino Luxembourg, Luxembourg. Annarumma 404 Milano
2005 - MAMCO Musée d’arte Moderne et Contemporain, Ginevra. OK/
OK Swiss Institute, N.Y.; Gallery 101, Ottowa. Gray Art Gallery, N.Y. Frac
Languedoc Roussillon, Montpellier; Quadriennale di Roma, Roma
docenti
che un’idea per esempio, possa essere una proprietà esclusiva..
“ Tousdroitsdesoeuvresenregistréesréservés. Ce programme est
destinéuniquement à un usageprivéausense de l’article L 122-5
du Code le la PropriétéIntellettuelle. Quelqueautreulitilisationque
ce soit est formellement interdite. Sontégalmentinterditslesprêt, la
duplicationet la copie partielleou totale duprogramme ” : l’ho copiato
da un DVD che conteneva alcuni film di Méliès, insieme a interviste
a vari esperti, e l’ho dipinta. Poco prima di morire Georges Méliès,
in un evidente momento di depressione dovuto alla sua sconfitta
come autore rispetto all’affermarsi dell’allora nascente “industria ”
cinematografica, bruciò tutta la sua produzione. Del resto, se i suoi
film non fossero stati copiati e proiettati, non sarebbe rimasto niente
di suoora. Méliès fu chiaramente vittima della mancanza, all’epoca,
di un qualsiasi diritto d’autore. Del resto dopo la sua morte, la
famiglia, avvalendosi proprio della legge sul copy-right, ha controllato
sistematicamente la divulgazione della sua produzione artistica,
come testimonia la frase che citavo prima. Sono più di quattro anni
che sto lavorando a un progetto su Méliès, insieme a Steve Piccolo
( musicista e fondatore del famoso gruppo The LoungeLizards ) dal
titolo Prenetgarde à la peinture. Si tratta di un’installazione che mette
in relazione alcuni dipinti e alcune video proiezioni che, mischiando
filmati d’epoca e registrazioni recenti, presentano specificamente
questo aspetto della vita e dell’opera di Méliès.
Anche quando si duplica un’immagine già esistente, c’è sempre un
piccolo spostamento che fa diventare questa un’immagine diversa.
In alcune mie serie, quando ridipingo più volte la stessa immagine
risulta evidente innanzitutto a me stesso l’impossibilità della sua
ripetizione “fedele”, semmai quello che emerge per chi guarda è
la metodologia della ripetizione, che cambio di volta in volta nella
speranza di avere più “successo”. Nella serie dei cinque grandi dipinti
sul ritratto di Arafat ogni gesto compiuto in relazione a una singola
pennellata veniva ripetuto di volta in volta sulle altre tele. Nella serie
invece The Blind Man, il ritratto replicato di Jorge Luis Borges ormai
quasi cieco, ogni tela veniva finita per poi cercare di ricordare tutti
i passaggi nell’esecuzione della tela successiva. La ripetizione di
per se può essere noiosa, a volte ossessiva, ma offre molti spunti di
riflessione e un margine non così ridotto di creazione. Per quanto mi
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BARBARA TOSI
Elaborazione foto: Paolo Canepa
…mi ritengo fortunata di insegnare in Accademia dove l’arte si fa, o meglio
si cerca di far emergere dal talento dei giovani che si affacciano in questo
mondo.
docenti
Intervista a cura di Gianfranco Notargiacomo
Gianfranco Notargiacomo: I tuoi studi hanno anticipato una
tendenza oggi molto in voga. Mi sembra che tu abbia studiato
a Roma…
Barbara Tosi: Si, con una tesi sul mercato dell’arte, che mi creò
qualche problema, perchè nessuno dei professori la voleva accettare,
anzi mi suggerivano di cambiare facoltà, Economia e Commercio, o
i più fantasiosi suggerivano Sociologia, perchè sembrava fuori luogo
presso l’Istituto di Storia dell’Arte, che ancora era molto paludato
e vecchio stile, nel 1974, ma alla fine l’ho spuntata e l’ho discussa
presso la mia facoltà, ovvero Lettere.
In seguito, per redigere la tesi avevo fatto molte interviste a Milano:
un giovane e intraprendente Fernando De Filippi, ma anche Davide
Boriani, Filippo Panseca, Maria Luisa Dalai Emiliani, Fabrizio Caleffi
etc... a Roma Antonio Del Guercio, che poi, nel novembre del ‘75, mi
chiamò a lavorare come sua assistente all’Accademia di Belle Arti di
Roma.
In Accademia c’erano alcuni studenti di Toti Scialoja e di Alberto
Boatto che si chiamavano Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Nunzio
che già cominciarono ad esporre al quartiere Monti e poco tempo
dopo si installarono al Pastificio Cerere in via degli Ausoni.
Come mai volevi affrontare questo argomento così inusuale per
l’epoca?
Per una serie di motivi dal 1971 fino ai primi mesi del ‘74 ero stata
per lunghi periodi a Canterbury e Londra, dove avevo frequentato il
Warburg Institute, mentre a Cambridge avevo seguito le lezioni di
Nikolaus Pevsner. Mio padre, appassionato di arte contemporanea,
mi commissionò di frequentare aste e gallerie per comprare opere di
grafica dei Cobra: Appel, Corneille, Jorn e Alechinsky. Questa mia
attività di ricerca e acquisto mi aveva stimolata ed incuriosita, dal
momento che in Inghilterra il mercato d’arte era molto diverso da
quello italiano.
Cosa ti ha spinto a passare dal mondo universitario a quello
della critica militante?
A Londra avevo stretto amicizia con Caroline Tisdall, critica d’arte
del The Guardian, lei era molto legata a Joseph Beuys, che ho
incontrato a Kassel nel ‘74. Quando poi ci siamo rivisti a Pescara
in una memorabile azione-mostra-evento, a casa di Lucrezia De
Domizio, Beuys mi presentò il gotha degli artisti italiani da Mario Merz
ad Emilio Prini e da allora ho cominciato a parlare sempre con gli
artisti, e non ho mai smesso. Sono, infatti, interlocutori formidabili
non solo per il loro lavoro, ma per la storia dell’arte, per i colleghi del
presente e quelli del passato. Marco Del Re abitava a Roma e con lui
andavamo a vedere tutto il teatro di cantine che in quegli anni erano
vivacissime, da Memé Perlini a Giancarlo Nanni a la Gaia Scienza,
dal Beat 72, a Mario Ricci a Leo e Perla etc....
La critica d’arte è arrivata in maniera naturale. Molto tempo dopo
per otto anni ho vissuto in un luogo particolare a Roma, in via delle
Mantellate, i miei vicini di casa erano Mario Schifano e la galleria di
Stefania Miscetti, una condizione speciale, che mi rendeva domestica
la dimensione e la vita dell’arte, irripetibile e unica.
alcuni, alla galleria di Miscetti, ma l’esperienza più particolare è stata
in India a New Delhi dove mi trovavo per parlare ad un convegno in
occasione della Biennale di Delhi. In mostra per l’Italia c’erano opere
di Luigi Ontani, per l’Inghilterrra c’era Stephen Cox, che a Bangalore
era di casa, e molti altri artisti e storici europei. In quell’occasione
ho conosciuto un gruppo di artisti indiani veramente straordinari, ma
che non hanno mai varcato i confini del loro paese, come chiusi in
uno scrigno.
Parli sempre con gli artisti?
E con chi altrimenti? No scherzo, devo dire che ho esteso questo
ininterrotto dialogo anche alla didattica in Accademia. Sia prima,
nei miei venti anni a Firenze, sia a Roma invito un certo numero,
da 8 a 12 circa artisti all’anno, - tu lo sai benissimo visto che l’anno
scorso sei stato invitato - per parlare con gli studenti nell’ambito del
corso di Contemporanea, ma anche nel corso di Economia e Mercato
invito i galleristi, i battitori d’asta etc.. Con i colleghi si parla poco di
arte e anche molti anni fa avevo solo un grande interlocutore, con il
quale in verità stavo più in ascolto perchè avevo solo da imparare, in
quanto era uno studioso formidabile, un grande intellettuale: Filiberto
Menna.
Attualmente segui il lavoro di giovani artisti?
Si, ma non necessariamente giovani. Mi spiego sono sempre curiosa
di vedere il lavoro di artisti che non conosco e mi piace visitare gli
studi. Di giovani, dal punto di vista anagrafico ci sono gli studenti
e spesso cercano confronti e verifiche, a volte ci sono anche belle
sorprese. A Roma ci sono anche molte nuove gallerie che fanno
proposte inedite.
Mi sono sempre chiesto come un critico scelga gli artisti.
Bella domanda, speravo proprio che mi chiedessi qualcosa del
genere. Bene per cominciare ti svelo che io mi ritengo un lettore di
opere, ovvero di poetiche ed in quanto tale credo che la conoscenza
profonda della poetica di ciascun artista mi fornisce il criterio di scelta
rispetto alla costruzione di una mostra. Ogni mostra ha un’idea che la
conduce e all’interno della quale si inscrivono opere ed autori con lo
scopo di rendere l’arte avvicinabile dal maggior numero di pubblico,
persone, per le quali l’opera aziona un meccanismo del pensiero
tanto per citare De Chirico.
Contrariamente alla tendenza in voga, o ai modelli in corso, credo che
il lavoro del critico sia un lavoro per il quale necessita molta umiltà,
capacità di ascolto, esercizio di sintesi e chiarezza di pensiero.
Hai avuto esperienze con artisti internazionali. Me ne vuoi
parlare?
Si ho avuto la fortuna di incontrare Mereth Oppenheim a Roma nella
galleria di Mario e Dora Pieroni e da una bellissima metafora sulla
nascita dell’opera che lei mi ha raccontato ho mutuato il titolo per
una mostra alla Galleria Comunale di Bologna “Perle”. In seguito ho
incontrato Orlan, Hermann Nitsch, Marina Abramovic, solo per citare
Elaborazione foto: Paolo Canepa
*Barbara Tosi
Storico e critico d’arte è Docente di Arte Contemporanea presso l’Accademia di
Belle Arti di Roma. Ha collaborato per il settore della critica d’arte a quotidiani
quali: L’AVANTI, PAESE SERA, LA REPUBBLICA – TROVAROMA -, LA
NUOVA SARDEGNA, LA NUOVA VENEZIA, LA STAMPA a riviste specializzate,
settimanali o mensili quali: FLASH ART, SEGNO, CONTEMPORANEA,
VOGUE PER LEI, L’ESPRESSO. Ha curato quasi esclusivamente mostre in
spazi pubblici e in gran numero. Tra queste si ricorda per il grande successo
di pubblico (più di 80.000 visitatori) *Mario Schifano Tutto* presso la Galleria
Comunale di Roma Ex Birreria Peroni nel 2002. E’ stata *commissario
per la Quadriennale d’Arte di Roma*. Relatrice per l’Italia al Convegno
Internazionale alla “VII Triennale India” -New Delhi- Ha ricevuto dal Ministero
degli Esteri l’incarico speciale per la diffusione dell’Arte Italiana all’estero, in
qualità di *addetto culturale* presso l’Ambasciata d’Italia nei Paesi Bassi L’Aja. Numerose le pubblicazioni e i saggi di arte contemporanea, senza tener
conto di articoli e recensioni.
39
docenti
Questa riflessione sull’umiltà suona molto innovativa, anzi
direi inusuale, come coniughi, quindi la didattica con la critica
d’arte?
Perfettamente! Esercitare la critica d’arte va di pari passo con la storia
dell’arte, non si può essere critico senza conoscere la storia dell’arte
e nei due differenti ruoli non lascio mai indietro uno per l’altro, anzi
marciano di pari passo. Per questo mi ritengo fortunata di insegnare
in Accademia dove l’arte si fa, o meglio si cerca di far emergere dal
talento dei giovani che si affacciano in questo mondo. Allo stesso
modo portare gli artisti esterni in Accademia, di varie generazioni, di
differenti, poetiche e tendenze credo che sia necessario e salutare,
per allargare gli orizzonti, per far si che nuovi sguardi si rivolgano
all’esterno dei loro tavoli di lavoro e non solo attraverso le mie parole,
le mie immagini, ma veri, in persona, su quella cattedra. Come sai ho
invitato anche professori interni, che però sulla mia cattedra non erano
più i professori del corso, ma artisti, come gli esterni. Un’alternanza
di ruolo è solo benefica, come nello psicodramma, il cambio di ruolo,
produce comprensione approfondita, superamento e conoscenza.
I tuoi corsi sono in merito all’arte italiana?
Si, in quanto credo necessaria la conoscenza dell’arte italiana
contemporanea per gli studenti dell’Accademia. Ovviamente ci
sono riferimenti obbligati e necessari, ma certamente l’arte italiana
merita molta attenzione e studio. Sai che dal ‘92 al ‘94 sono stata
in Olanda all’Aja presso l’Ambasciata Italiana in qualità di addetto
culturale con il preciso compito di diffondere l’Arte Italiana, nei paesi
del Nord Europa. Una bellissima esperienza, ma purtroppo l’Italia,
diversamente dalla Francia e dall’Olanda stessa, non prevedeva
alcun investimento economico per questo progetto, ma nonostante
tutto sono riuscita a mettere a segno diverse iniziative. Noi italiani
dobbiamo essere sempre molto creativi e ingegnosi!!
Come vedi, quindi, il panorama attuale dell’arte?
Lo vedo molto vivace ed interessante. Adesso che è un pò passata la
“sbornia” per i video e per la fotografia a tutti i costi mi sembra che ci
sia molta più consapevolezza. I lavori dei giovani sono più complessi,
del resto il mondo è sempre meno semplice e la tecnologia è più
assimilata al giusto ruolo di strumento e non di “soggetto”. Tutto
induce a osservare e stare all’erta come si conviene ad un critico che
voglia essere attento.
40
DUILIO TANKIS
sul restauro
e la Scuola di Restauro dell’Accademia di Brera.
…noi abbiamo avuto dieci, dodici articoli ogni giorno, sulla cronaca di Milano,
articoli che attaccavano l’Accademia mostrando lo scempio dei gessi ma la
stessa stampa ha addirittura rifiutato di pubblicare le nostre repliche, le
ha rifiutate anche il Corriere della Sera. Le nostre ragioni purtroppo non
hanno avuto lo stesso risalto della diffamazione che era ed è in atto ma
sia chiaro che la responsabilità diretta sullo stato di degrado delle opere è
da imputarsi solo ed esclusivamente alla Soprintendenza, che ha sempre
escluso la possibilità di un nostro intervento…
Intervista a cura di Serena Francone
Professore, vorrei che ci parlasse di come sono nate le scuole di
restauro nelle Accademie di Belle Arti: quando sono comparse
le prime scuole e in quali accademie?
La mia esperienza nasce nell’a.a. 1998/’99 quando iniziai
nell’Accademia di Belle Arti di Lecce l’insegnamento (allora come
corso complementare) di restauro dei dipinti. Stimolato dalla
sensibilità del direttore Giacinto Leone progettai ed ottenemmo dal
Ministero un corso di restauro che prevedeva tre indirizzi (restauro
ligneo, lapideo e pittorico), allora legati alle scuole di Pittura, Scultura
e Decorazione. Analoghe iniziative, di cui avevo notizia, riguardavano
le Accademie di Milano, Napoli, Venezia e forse altre. Negli anni
accademici 1999/2000 e 2000/’01 mi trasferii a Bologna, dove insieme
al Direttore e ad alcuni docenti, si strutturò un corso quinquennale
nelle more della legge 508 e nei dettati della conferenza di Bologna
del giugno 1999.
Quindi un corso 3+2?
Sì, un 3+2. Successivamente mi trasferii a Napoli dove raccolsi
l’eredità del collega Tatafiore, purtroppo deceduto, validissimo
docente di restauro, che lì mi volle e di cui purtroppo dovetti prendere
il posto. Con l’aiuto dei colleghi Giovanna Cassese, Giuseppe Gaeta
e Augusto Giuffredi, trasformai il quadriennio in un percorso 3+2.
La Scuola di restauro di Napoli in virtù dei suoi ottimi rapporti con
le Soprintendenze iniziò il ciclo dei corsi nel restauro di opere
d’arte moderne e contemporanee attingendo al proprio patrimonio
(Pinacoteca) e a quello del territorio. Cosa che non avviene purtroppo
a Brera…
Già… infatti so che gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di
Napoli negli anni precedenti hanno avuto modo di restaurare i
gessi della loro accademia.
Esatto, hanno rimesso in piedi la Gipsoteca grazie ad Augusto
Giuffredi, ora nostro docente trasferitosi a Brera da due anni. Noi del
restauro dei dipinti invece lavoravamo su opere della Pinacoteca, su
cui l’Accademia aveva e ha tuttora gestione diretta; la direttrice della
Pinacoteca, Aurora Spinosa, era ed è una docente dell’Accademia di
Belle Arti di Napoli. In questo fermento e con la vulcanica partecipazione
della collega Giovanna Cassese, ora Direttrice, dell’allora Direttore
Scotti e dell’onnipresente Gaeta s’iniziò una campagna di interventi
su opere della Pinacoteca, sulla Gipsoteca e su opere del territorio
come il “Cafe Gambrinus”. Fu un anno molto proficuo, ma per motivi
di graduatorie fui costretto ad andare a insegnare a Sassari.
Ha girato tante Accademie!
Sì: Lecce, Bologna, Napoli, Sassari e Milano, e in tutte, esclusa
Sassari, ho avuto modo di progettare o strutturare Scuole di restauro.
A Sassari e quindi in Sardegna, ho lavorato (e lavoro) da circa 30
anni nel recupero del patrimonio isolano. Ma in quell’accademia mi è
stata negata la possibilità di aprire una Scuola di restauro, in virtù di
un’illuminata direzione che ha sempre osteggiato una simile proposta,
cancellando addirittura il corso complementare di restauro, che era in
assoluto il più frequentato con punte di 96 studenti su 240 iscritti.
In quella Sardegna avevo due laboratori, uno di 1600 mq e un altro di
400 mq a Cagliari e Oristano, sono riuscito ad avere anche ventotto
addetti, ho restaurato due pinacoteche nazionali, ho fatto due mostre
internazionali, trasportando dalla Sardegna fino a New York le opere
d’arte tipiche della Sardegna, opere complesse, i grandi retabli di
tradizione catalana.
A Brera sono arrivato nell’a.a. 2006/’07, e sono arrivato qui in una
situazione che tu conoscevi benissimo, cioè laboratori deserti,
organico ridotto, un solo docente di ruolo… perché alla fine dei conti
le graduatorie erano esaurite, ricordiamoci che la legge 508/99 dà
avvio anche all’esaurimento delle stesse graduatorie.
E poi il problema della Scuola di restauro è che comunque,
come molti dei corsi nuovi, sperimentali, si regge più che altro
sul lavoro di docenti a contratto.
Esatto. E Milano ne era l’esempio. Molte attività erano delegate
all’esterno e con non poche difficoltà si è riportato all’interno della
struttura l’operatività altrimenti delegata, riorganizzando i laboratori
con una diversa struttura didattica, l’organizzazione logistica degli
spazi e l’adeguamento strumentale per sopperire alle diverse
esigenze dei laboratori in essere.
Tra l’altro tra gli insegnanti della scuola di restauro
dell’Accademia di Brera ci sono anche professionisti che si
sono diplomati presso l’Opificio delle Pietre Dure a Firenze o
all’Istituto Centrale del Restauro a Roma…
Ma figuriamoci! Abbiamo un panorama di docenti di tutto rilievo e
nonostante questo i nostri studenti dovranno passare adesso sotto le
forche caudine di un nuovo esame, e questo secondo me è discutibile
e poco dignitoso.
Si riferisce all’esame d’accreditamento delle scuole o la prova
d’idoneità per ottenere il titolo di restauratore?
Quindi pensa che il trasferimento della scuola di restauro
di Brera ad Arcore, di cui hanno parlato anche i giornali, sia
indispensabile?
Non indispensabile, è vitale! Dobbiamo riuscire ad andare ad Arcore.
Avere a disposizione delle strutture che sono confacenti ai laboratori
senza dover fare miracoli, con le strutture che abbiamo a disposizione
qua mi sembra che sia logico ed essenziale andare lì. Noi lì avremo a
disposizione circa 3000 mq di superficie perfetta per i nostri laboratori,
potremo avere veramente un’organizzazione in quel caso consona
alla formazione dei restauratori e al dettato del D.M. 87.
Però lasciare la struttura storica dell’Accademia, dove è
conservato il patrimonio, non è limitante? O è una scelta
indifferente da questo punto di vista, dal momento che da sempre
non ci è stato permesso di intervenire sul nostro patrimonio
storico, cosa tra l’altro assurda?
Noi non andiamo via da Brera, manteniamo qui la nostra struttura
in cura del nostro patrimonio, con dei laboratori dedicati alla carta e
ai gessi al fine di evitare trasporti e ulteriori rischi. Arcore non è un
trasferimento, ma una promanazione della scuola in vista per altro
dell’apertura del cantiere di restauro della villa D’Adda Borromeo,
che fornirà cantieri di restauro per otto/dieci anni (interventi su opera
tutelata come indicato dal D.M. 87).
Perché per l’appunto per ottenere l’accreditamento il D.M.
prevede che gli studenti operino su beni tutelati in almeno l’80%
delle attività tecnico-didattiche. Ma dev’esserci comunque il
benestare della Soprintendenza per operare su questa tipologia
di opere…
Sì, e questo è un punto veramente discutibile del D.M., ed è grave
perché limiterà la libera docenza; se ogni intervento dovrà essere
autorizzato e dovrà subire un esame di congruità tra l’intervento
stesso e le finalità didattiche, vi lascio immaginare che libertà possa
avere la libera docenza (vedi art. 2 comma 8 del D.M. 87). A questo
si aggiungano le commissioni tutte sbilanciate verso il MiBAC. Noi
quando va bene abbiamo un rappresentante del CNAM e uno del
MIUR.
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Nella commissione dell’esame finale previsto per il ciclo unico,
o in quella istituita per l’accreditamento?
Nella commissione dell’esame finale, ci sono due rappresentanti
del MiBAC, due del MIUR contro il docente relatore-corelatore e il
presidente di commissione. Secondo me è sbilanciata, così come
quella di accreditamento, dove siamo rappresentati da un solo membro
del comparto AFAM che magari fa l’antropologo o l’incisore…
La mancanza di comunicazione tra MiBAC e MIUR mi sembra
esemplificata al massimo proprio qua all’Accademia di Brera,
in cui finora la Soprintendenza era collocata nello stesso
nostro palazzo, ma nonostante ciò i gessi non si sono potuti
restaurare e i dipinti se ne abbiamo avuto uno all’anno su cui
poter intervenire è già stato tanto. Quindi la maggior parte degli
studenti che si sono formati negli anni precedenti ha avuto
modo di metter mano su un’opera solo facendo stage da esterni,
società di restauro private e non nell’ambito pubblico.
Non ricordo se era il 2008 o il 2009, ma comunque abbiamo raccolto
tutti gli articoli di giornale…Noi abbiamo avuto dieci, dodici articoli ogni
giorno, sulla cronaca di Milano, articoli che attaccavano l’Accademia
mostrando lo scempio dei gessi ma la stessa stampa ha addirittura
rifiutato di pubblicare le nostre repliche, le ha rifiutate anche il Corriere
della Sera. Le nostre ragioni purtroppo non hanno avuto lo stesso
risalto della diffamazione che era ed è in atto ma sia chiaro che la
responsabilità diretta sullo stato di degrado delle opere è da imputarsi
solo ed esclusivamente alla Soprintendenza, che ha sempre escluso
la possibilità di un nostro intervento e ricordiamoci che abbiamo in
forza uno dei più esperti restauratori di gessi, Augusto Giuffredi...
Ora comunque pare si sia aperto uno spiraglio con la concessione di
alcune opere minori.
Tra l’altro a Brera da ormai cinque anni c’è un servizio di
sul restauro
Quindi la scuola di restauro di Brera soprattutto quest’anno ha
subito dei cambiamenti per adeguarsi al D.M. 87 del 26 maggio
2009. Che cosa è cambiato rispetto a prima?
Premesso che a Brera il corso riguardava un triennio di tipo generico
con sette laboratori e un biennio di indirizzo dedicato all’arte
contemporanea polimaterica, si è reso necessario trasformare
questo percorso nel nuovo ordinamento previsto dal D.M. 87 con
la strutturazione delle aree (per Brera pittorico, lapideo e cartaceo)
con il conseguente cambio dei piani di studio adeguati alle nuove
esigenze. Non ci si neghi però che le accademie soffrano, in questo
passaggio, di difficoltà notevoli.
Questo adeguamento, però, non deve disconoscere assolutamente
il percorso formativo che fino a qui si è svolto, perché il corso di
restauro del contemporaneo polimaterico è perfettamente strutturato
ed esaustivo raggiungendo punti di eccellenza.
Mi viene da chiedere perché questo titolo venga messo in
discussione e non debba essere riconosciuto. Ricordo che un
simile percorso è previsto nella seconda area dei percorsi formativi
professionalizzanti.
L’accreditamento mi trova assolutamente favorevole. Non si possono
fare nozze con i fichi secchi. O abbiamo strutture, programmi e
organici o non si fanno corsi di restauro.
al raggiungimento dei crediti che i laboratori di indirizzo dovrebbero
garantire in un anno, innalzando la qualità della didattica. Abbiamo
bisogno di attrezzature, spazi e autonomia operativa che purtroppo il
D.M. 87 può negarci, fatte salve le prerogative di tutela del MiBAC.
Quindi è tutto un problema legato principalmente sempre ai
finanziamenti.
Si, ribadisco: “con i fichi secchi non si possono far nozze”, noi facciamo
funzionare le cose con dei meccanismi che rientrano nel dettato della
legge, ma che ci costringe a veri salti mortali a cui onestamente vorrei
poter rinunciare, in vista di quella competitività che l’Accademia di
Brera deve, può e vuole avere. Questo è quanto a Ferrara avrebbe
dovuto emergere, così come la situazione del pregresso.
sul restauro
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vigilanza messo in seguito al danno subito da un gesso del
Canova dall’elevato valore (tenuto tra l’altro imprudentemente in
un’aula di laboratorio), e all’epoca si dette ovviamente la colpa
agli studenti dell’accademia. In realtà non si conosce il vero
colpevole, personalmente ho sempre dubitato fosse stato uno
studente, ma comunque sia stavo proprio riflettendo sul fatto
che questo servizio di vigilanza lo paga l’Accademia stessa…
nonostante i gessi siano sotto la tutela della Soprintendenza dei
Beni Culturali.
I gessi e le altre opere appartengono al Demanio e sono ascritti
al patrimonio dell’Accademia che li usa per fini didattici (o almeno
dovrebbe) e altro e ha l’onere della cura sotto la tutela esercitata
dalla Soprintendenza, che dovrebbe però concedere di poterli curare.
La nostra Scuola ha in organico restauratori di fama, riconosciuti dal
MiBAC e che lavorano su opere tutelate, e al contrario di quanto
accade in altre Istituzioni, a Brera è negata la possibilità di intervento
su opere del proprio patrimonio. Forse però, le ragioni sono da
ricercarsi in altre vicende.
E la scuola di restauro di Venaria Reale? Anch’essa sarà soggetta
all’accreditamento?
Ma Venaria è una situazione un po’ particolare, non fa parte del MiBAC,
non è università, è un ente privato con partecipazione pubblica e alla
fine anch’essa sarà soggetta all’accreditamento. Ma quel che volevo
sottolineare è che noi AFAM-MIUR siamo stati la testa di ponte
perché l’ICR e l’OPD diventassero enti di alta formazione a tutti gli
effetti. Di conseguenza anche loro (strutture periferiche di un ente di
tutela e non di formazione) potranno rilasciare dei titoli riconosciuti
a livello europeo, equiparati a delle lauree. Ora mi chiedo: perché
il Ministero dell’Agricoltura non forma i suoi laureati in Agraria?
Perché il Ministero di Grazia e Giustizia non si fa i suoi avvocati? In
conclusione risulterà che ICR, OPD, ecc. saranno sdoganati come
enti di formazione universitaria a tutti gli effetti, mentre accademia e
università saranno sub judice MiBAC. Mi chiedo chi dei nostri abbia
partecipato alla elaborazione di questo capolavoro…
Vorrei dire ai miei allievi: “ragazzi ricordatevi che il cane di due padroni
non mangia” e lo si è visto al Salone di Ferrara il 26 marzo scorso,
era assordante l’assenza del MiBAC e del CUN.
Infatti volevo proprio chiederle quali sono state le sue
impressioni generali di quell’assemblea al Salone del Restauro,
in cui si parlava per l’appunto della formazione dei restauratori
presso le accademie. E’ servita a qualcosa quest’assemblea o è
stata una semplice vetrina istituzionale?
Ho questa impressione, una vetrina istituzionale. Siamo consapevoli
che i finanziamenti saranno pesantemente ridotti per il prossimo
a.a. 2010/’11 e ciò nonostante ci esponiamo. Che impressione ne
ho avuto? Non molto positiva, forse siamo troppo ottimisti e non ci
rendiamo conto che in questa realtà e in quella che si va a configurare
dovremmo fare salti mortali per portare avanti i nostri corsi. Se non
c’è questa consapevolezza e non si cercano rimedi corriamo il rischio
di perdere in credibilità, e potere di competizione.
Per competere si dovrebbe poter accedere ai contratti quinquennali
previsti dalla 508 nel comma 6 dell’articolo 2, perché attualmente
possiamo attivare corsi di 120 ore con una frammentazione eccessiva
A me è sembrato che praticamente sia stato presentato il lavoro
svolto negli anni precedenti, senza dare l’attenzione giusta
a chi questo percorso l’ha già fatto e ha finito di frequentare
l’accademia. Infatti mi pare che il punto in cui Lei è stato zittito
sia stato proprio quando ha accennato alla situazione di disagio
di noi studenti che abbiamo frequentato già il 3+2 di restauro.
Non è solo disagio, è uno scandalo. Si sarebbe dovuto confortare
quegli studenti, fornire loro certezze, anche a quelli iscrittisi dopo il
31 gennaio 2006 che non potranno partecipare alla prova d’idoneità.
L’Istituzione, come uno struzzo pone la testa sotto la sabbia, rimanda
ad altra data, ad altra sede etc. etc. Viviamo una situazione veramente
kafkiana, a Brera per esempio abbiamo un percorso formativo sul
restauro dell’arte contemporanea che è riconosciuto “DIPLOMA DI
SECONDO LIVELLO” come da D.M. n. 39 del 12/3/’07 firmato Mussi,
e che ora è messo in discussione da un esame a sanatoria (con buona
pace per il collega Carlomagno, a cui consiglio la lettura dei D.M. 53,
86, 87 e circolari seguenti prima di dare del falso al sottoscritto) a cui
però non sono sottoposti ICR e OPD, nonostante in passato fossero
pure scuole triennali. E l’art. 3 della Costituzione? Perché allora non
sottoporre tutti all’esame a sanatoria?
Anzi, appunto dicevamo che alcuni studenti non potranno
neanche accedere a questa prova d’idoneità, ovvero tutti coloro
iscrittisi dopo il 31 gennaio 2006. E non se ne comprende il
motivo…
Esatto. A Ferrara non hanno voluto affrontare questo problema,
invitandomi a lasciare il palco, e se il prof. Carlomagno non ignora i
decreti citati, allora è in malafede accusandomi di falsità.
Poi c’è anche il caso di quei corsi quadriennali di restauro,
come la scuola di restauro all’Accademia “Aldo Galli” di Como,
che paradossalmente vengono equiparati invece a un corso
triennale. Del resto è il problema che tocca tra l’altro tutti i corsi
quadriennali del vecchio ordinamento… al contrario di quanto è
avvenuto nelle università, dove già da anni i vecchi ordinamenti
sono stati equiparati a un corso 3+2 e non al semplice triennio.
Paradossi e contraddizioni a cui si va incontro. Negli altri paesi,
Spagna, Francia… i titoli sono riconosciuti e hanno validità europea.
Non ho ancora capito come vorremmo affrontare questo problema. I
loro titoli saranno validi o no qui in Italia?
E poi tra l’altro adesso ci ritroviamo a fare la sperimentazione
della sperimentazione. Perché già il 3+2 era un percorso
sperimentale, quindi il ciclo unico non avrà motivo di esistere
se non sarà accreditato… perché, se non si ottiene questo
accreditamento dal MiBAC, dal momento che bastano tre anni
per ottenere il titolo di “collaboratore di restauro” a quel punto
che si facesse solo il triennio…
Non so se si potrà scegliere una simile opzione, in fondo non sarei
d’accordo. Abbiamo la possibilità di affrontare il ciclo completo e
ottenere l’accreditamento. Ci stiamo preparando.
Tornando alla prova d’idoneità, il D.M. 53 secondo lei come
potrebbe essere modificato? Il fatto che questa prova d’idoneità
abbia luogo un’unica volta a me sembra una cosa assurda.
Dovrebbe essere assolutamente democratica e permettere a
chiunque ne abbia titolo di poter affrontare l’esame, e magari dare
la possibilità di avere più sessioni e non una tantum. Così com’è,
parrebbe più funzionale alle prerogative di una consorteria piuttosto
che a porre ordine in modo democratico.
Certo. Quindi la prova d’idoneità dovrebbe essere accessibile
anche per gli studenti iscritti dopo il 31 gennaio 2006.
Se hanno completato un ciclo di studi contemplato nella 53
(leggasi triennio), perché non dovrebbero? Così come per altri tipi
di formazione… Dal 31 Gennaio 2006 ad oggi noi abbiamo già
completato un triennio e ci accingiamo a completarne un altro.
Perché escludere questi studenti? Perché allora nel gennaio 2006
non furono bloccate, ma anzi autorizzate, le selezioni d’ingresso ai
corsi?
E poi anche i bienni di restauro, che come dicevamo prima sono
stati riconosciuti dal decreto di Mussi del 2007, però non vedono
il riconoscimento del MiBAC. Il Codice dei Beni Culturali dice
che per avere il titolo di “collaboratore” basta aver frequentato
“almeno” un corso triennale di restauro presso le accademie.
Quindi aver fatto due anni in più, non cambia niente.
Sì, ed è avvilente. L’Istituzione di Alta Formazione Accademia
di Brera relegata allo stesso livello di ente formativo provinciale,
regionale o altro. Anzi meno, perché a loro basta un biennio di 1200
ore formative.
Il Decreto Mussi attribuisce dignità di diploma di secondo livello in un
percorso formativo per altro pienamente adottato nel D.M. 87.
Riconoscimento massimo dal MIUR, però poi agli atti pratici ci
si scontra col MiBAC.
Già, il MIBAC mette in discussione tutto. Un Ministero non riconosce
un altro Ministero. Non è un paradosso? E noi saremmo il cane di
due padroni, che com’è noto, non mangia.
*Duilio Tanchis è docente di restauro ligneo e tecniche del restauro presso
l’Accademia di Belle Arti di Brera.
*Serena Francone è laureanda presso il biennio di restauro dell’arte
contemporanea della stessa Accademia di Brera, ed è stata ex rappresentante
degli studenti nel triennio 2006-2009.
exfabbricadellebambole
associazione culturale
43
via dionigi bussola, 6 - milano
377.190.2076
http://exfabbricadellebambole.jimdo.com/
Presidente:
Gustavo Bonora
Organizzazione e programmi mostre/eventi:
Rosy Menta
Ufficio Stampa&Relazioni Esterne:
Daniela Basadelli Delegà
BILL VIOLA alla Galleria dell’Accademia di Firenze
sul restauro
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Bill Viola, Emergence, 2002, video installazione, rear projection, 200x200 cm, Firenze, Galleria dell’Accademia.
di Laura Lombardi
La Tribuna della Galleria dell’Accademia di Firenze, edificata nel
1882 per accogliere il “David” di Michelangelo, è un luogo invaso
ogni giorno da folle di turisti che restano in coda ore ed ore - côte a
côte con il ‘mondo’ dell’Accademia di Belle Arti e i venditori ambulanti
di cartoline e souvenirs - in attesa di trovarsi di fronte ad un’icona
assoluta dell’arte del Rinascimento, per contemplarla con quegli
sguardi misti di stupore e di interrogazione (e in parte generati da
quella fatica fisica, che contribuisce alla ‘sindrome’ di Stendhal),
immortalati da Thomas Struth in un lavoro del 2004 - commissionato
dalla Soprintendenza fiorentina in occasione della mostra “Forme per
il David” 1-, dove, diversamente da altre fotografie dello stesso artista,
non si vede l’opera ma solo i visitatori che la osservano.
Era dunque strano entrare di sera - il 19 aprile scorso - nell’oscurità
della galleria, tra i marmi grezzi “Prigioni” come pilastri della navata
di un’immaginaria basilica, e trovarla del tutto privata del colosso
michelangiolesco al centro della Tribuna, scomparso o meglio
offuscato, celato, dallo schermo su cui era proiettato un video di
Bill Viola, Emergence (2002), che Franca Falletti, direttrice del
museo, ha voluto far dialogare, per poche ore (il video è stato poi
spostato in altra sala del museo, fino al 9 maggio) con la Pietà da
Palestrina, opera appena restaurata, di controversa attribuzione a
Michelangelo. Il gruppo scultoreo non è infatti menzionato dalle fonti
cinquecentesche ed è ricordato solo dal 1670 nel Palazzo Barberini a
Palestrina: neppure le sofisticate indagini scientifiche in occasione del
restauro (compiuto da Cristina Samarelli sotto la direzione di Franca
Falletti e di Magnolia Scudieri), hanno infatti portato a conclusioni
certe sulla paternità (forse uno scultore tardomanierista o addirittura
Bernini), anche se certo saranno all’origine di numerosi nuovi studi.
La video-installazione di Bill Viola - presentata a Milano nel 2004,
ugualmente di sera, all’interno del Duomo, sulla controfacciata -, è
un lavoro ben noto: tuttavia la sua messa in scena nel contesto del
museo fiorentino era in grado di riattivare emozioni inattese, tanto più
che il dialogo tra le due opere non si fondava affatto su un confronto
formale stretto, ma meramente evocativo. In Emergence due donne,
l’una giovane, l’altra più anziana, sono sedute ai lati di una sorta di
cisterna in marmo, in silenzio; improvvisamente, quasi assalite da una
premonizione si volgono alla cisterna e da lì vedono affiorare dapprima
la testa di un uomo, poi, mentre l’acqua trabocca sul pavimento del
cortile, l’intero suo corpo pallidissimo, come senza vita. Una volta
emerso, l’uomo barcolla e viene adagiato dalle donne a terra e
coperto da un velo. Sappiamo che per quella video-installazione Viola
si era ispirato alla Pietà di Empoli di Masolino da Panicale del 1424.
Tuttavia Emergence condivide con la Pietà da Palestrina l’inesausta
riflessione sui temi della vita, della morte, della resurrezione e della
rinascita, che Viola da sempre persegue dialogando con opere d’arte
antica, a partire da The Greeting del 1995, ispirato alla Visitazione di
Pontormo, straordinaria pala d’altare conservata nella Pieve di San
Michele a Carmignano, dove anche il video di Viola fu installato nel
2002.
Non potendo raggiungere l’Italia a causa della nube del vulcano
islandese, Bill Viola si è collegato con la Galleria dell’Accademia,
insieme alla moglie Kira Perov, via skype, e ha ribadito il proprio
legame con Firenze, città in cui, dal 1974 al 1976, (è nato nel 1951)
ha lavorato, come supervisore tecnico presso uno dei più importanti
studi di video art dell’Europa di quegli anni, art/tapes/22, di Maria
Gloria Bicocchi, situato - volle il destino! - a pochi passi dalla Galleria
dell’Accademia. Viola ha inoltre sottolineato quanto le sue ricerche, che
utilizzano sofisticate tecnologie multimediali per indagare attraverso
fenomeni percettivi la spiritualità umana, abbiano un rapporto molto
profondo col Rinascimento la cui “essenza si trova nella fusione tra
arte e scienza, precorrendo dunque la rivoluzione digitale che stiamo
vivendo oggi”. Entrambi le epoche, ha aggiunto, “hanno sviluppato un
nuovo modo di vedere e di vivere il mondo, ed in ognuna di queste la
visione degli artisti ha giocato e continua a giocare un ruolo vitale”.
1 La mostra “Forme per il David” a cura di Bruno Corà, Chiara D’Afflitto e
Franca Falletti, in occasione del cinquecentenario della creazione del capolavoro michelangiolesco, aveva messo a confronto cinque artisti contemporanei
col “David”: oltre a Struth, erano stati invitati Jannis Kounellis, Luciano Fabro
e Robert Morris.
*Laura Lombardi è docente di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea
all’Accademia di Brera.
L’Accademia di Macerata conferisce il titolo di
Accademico Honoris Causa ad Achille Bonito Oliva
che nella sua lectio magistralis dice:
«la bellezza è la sola cosa che può salvarci in un’epoca di peronismo mediatico
frutto di un monopolio dei media che ha sviluppato la formazione di un gusto
collettivo, di comportamenti, di uno stile di vita segnato da un atteggiamento
autoreferenziale e performativo e dominato dal culto delle immagini»
di Federica Facchini
collaborazioni di ricerca, sperimentazione e produzione e verso
sinergiche progettualità nei settori propri dell’arte, dello spettacolo,
dei beni culturali, e della comunicazione visiva; sicuramente a tutto
vantaggio del pubblico e del privato, insomma della collettività e
soprattutto della comunità scientifica.
A seguire, la relazione di Stefano Chiodi, docente di storia dell’arte
contemporanea che ha presentato la nuova edizione, da lui curata,
del libro di Bonito Oliva “Il Territorio magico: l’arte dello spazio
contemporaneo”, la cui prima edizione uscì nel 1969.
Nella sua laudatio la docente di storia dell’arte Maria d’Alesio,
ha ricordato un’efficace definizione coniata dallo stesso critico
«con Bonito Oliva il critico d’arte da servo di scena è diventato un
protagonista con una nuova identità e funzione di maggior visibilità»,
per concludere, dopo una lunga carrellata biografica e professionale,
con l’asserire che «ha cambiato per sempre il nostro modo di vedere
e capire l’arte».
Ed è invece sfruttando una battuta di Andy Warhol «se avessi avuto
più forza sarei rimasto in casa a fare le pulizie», che Achille Bonito
Oliva ha dato inizio alla sua lectio magistralis. Nel commentare poi il
riconoscimento accademico ha ammesso di «trovarlo significativo e
importante perché viene da una città che ama molto e da una regione
che considera tra le più belle e intelligenti». Una dissertazione
incentrata sul tema dell’ideale della bellezza, «la sola che può
salvarci in un’epoca di peronismo mediatico frutto di un monopolio
dei media che ha sviluppato la formazione di un gusto collettivo,
di comportamenti, uno stile di vita segnato da un atteggiamento
autoreferenziale e performativo e dominato dal culto delle immagini».
Dal Rinascimento, al Manierismo, dal Barocco all’Impressionismo,
dalle Avanguardie alla Pop Art, fino ovviamente, alla Trasavanguardia,
ha saputo coinvolgere il pubblico con una sintetica quanto esaustiva
evoluzione sul concetto
e sulla visione della
bellezza.«
L’arte
è
importante perché serve a
porre domande alla società,
è problematica perché la
mette a nudo, producendo
e consegnando nuovi
modi
e
processi
di
conoscenza. L’arte in
questo senso, è indecisa
a
tutto,
stoicamente
sceglie
l’indecisione
rispetto alla decisione
dei modelli autoritari che
nascono o dalla politica
o dalla telematica o dallo
sviluppo tecnologico. E’
un’oscillazione quella che
l’arte sceglie per sé come
movimento, scavalcando
il presente e cavalcando il
futuro».
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accademia di macerata
Si è inaugurato all’insegna dell’indagine sull’Arte, sulle funzioni e sui
ruoli di tutto il sistema che vi ruota attorno, il 38° anno accademico
per l’Accademia di Belle Arti di Macerata, celebrazione che ha visto la
partecipazione del padre della Trasavanguardia italiana, alias Achille
Bonito Oliva. Durante l’occasione è stato infatti conferito il “Premio
Svoboda” al talento artistico e creativo, titolo di Accademico Honoris
Causa, del critico d’arte campano (Caggiano, 1939).
Con tale riconoscimento un altro personaggio illustre viene
annoverato nella rosa di nomi, la cui eccellenza si è distinta nei vari
ambiti del settore artistico e che l’Accademia di Macerata da diversi
anni si pregia di onorare.
L’idea guida del nuovo anno accademico dunque si polarizza sul
tema della funzione dell’arte. In apertura della cerimonia, l’intervento
del presidente dell’Accademia Franco Moschini, nonché Presidente
del Gruppo Poltrona Frau, ha sottolineato come il fecondo incrocio
di saperi e una rinnovata cultura del progetto creino creatività e
professionalità che non devono andare disperse ma investite nella
forza del territorio, non tralasciando infine di ricordare come Macerata
quest’anno sia registrata al quarto posto nella classifica delle città
italiane sulla qualità della vita.
«L’Arte è comunicazione – ha poi iniziato il direttore arch. Anna
Verducci – e in un momento di crisi come quello odierno, l’arte è
l’ambito di ricerca e laboratorio di nuove visioni per eccellenza.
Quest’anno vogliamo incentivare la riflessione sul contemporaneo
dell’arte, promuovendo il dialogo tra Istituzioni, addetti ai lavori
e pubblici». Non si è però limitata ai soli convenevoli il direttore
Verducci: polemizzando sul fatto che ancora il coinvolgimento
delle accademie sia limitato ad una “manovalanza” di stagisti, ha
denunciato l’indifferenza generalizzata a valorizzare le energie
inespresse del settore dell’alta formazione artistica, verso attive
Dionigi Gagliardi - Percezione culturale di sei volti, 2009
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DIONIGI MATTIA GAGLIARDI, GRUPPO
TERRA, NEDA SHAFIEE MOGHADDAM.
L’Accademia, quindi, per noi storici e critici d’arte rappresenta un grande privilegio:
avere l’opportunità di osservare da vicino, quel “vivaio” che sono le stesse Accademie.
Scegliere tra talenti e promesse…
ex studenti
A cura di Barbara Tosi
Chissà quanti nei primi anni del novecento tra colleghi e professori
avevano notato quei tre amici iscritti alla Scuola Libera del Nudo
dell’Accademia di Belle Arti di Roma, che si chiamavano Mafai,
Bonichi (Scipione) ed Antonietta Raphael. Ci si può domandare la
stessa cosa molto più tardi, alla fine degli anni cinquanta a proposito
di un giovane Pascali, di Kounellis, ed ancora dopo, nella seconda
metà degli anni settanta a proposito di Ceccobelli, di Dessì, di Nunzio,
di Tirelli.....L’elenco potrebbe essere molto più lungo per ancora molti
altri, provenienti da altre Accademie italiane che sono artisti conosciuti
in Italia ed oltre. L’Accademia, quindi, per noi storici e critici d’arte
rappresenta un grande privilegio: avere l’opportunità di osservare da
vicino, quel “vivaio” che sono le stesse Accademie. Scegliere tra
talenti e promesse, anche se non facile è sempre entusiasmante.
DIONIGI MATTIA GAGLIARDI elabora una poetica molto personale,
rivolta soprattutto al mondo che ci circonda e quanto velocemente
cambia. Proprio nelle pieghe di questo cambiamento si situa
l’interesse del giovane artista, che affida all’arte il compito di osservare
ed indicare percorsi più ricchi di valori, di quelli che attualmente
sembrano pallidi in questa società. Egli restituisce al fruitore d’arte un
ruolo di grande rilievo nell’opera stessa, come accadeva nella poetica
dei Gruppi degli anni sessanta. Così come scrive lo stesso Gagliardi
“Il fruitore, in questa ottica, interagisce con l’opera e proietta in essa
i suoi contenuti più personali, quelli che costituiscono la parte più
profonda della sua identità psicologica:mettendo in crisi o rinforzando
il proprio modello di realtà.” Gagliardi affida all’artista il compito di
elaborare nuovi valori per futuri universi possibili, così come è
avvenuto in passato. In “Percezione culturale di sei volti” le foto di
sei individui, tre donne e tre uomini di cultura africana, orientale ed
occidentale rappresentano la base di partenza per l’elaborazione da
parte del pubblico di una storia, breve, costruita in cinque minuti
di tempo, che abbia come protagonisti i sei personaggi. Partendo
da quello stimolo proiettivo potente si possono comprendere quanta
influenza abbiano le differenze fisiche nell’attività interpretativa,
quindi, scavare nell’inconscio dello spettatore e scrutare, studiandoli,
i pregiudizi relazionali nei confronti di soggetti somaticamente e
culturalmente diversi da noi.
Poetiche molto differenti, ma che in comune hanno la freschezza di
un sano e solido idealismo che rende lo sguardo vigile sul mondo
circostante, giudicandolo per quello che è, ma anche con occhi colmi
di aspettative.
NEDA SHAFIEE MOGHADDAM è laureata presso l’Accademia di
Roma, ma già aveva conseguito una laurea in Arte a Teheran.
Il grande amore per l’arte l’ha condotta in Europa ed in Italia, (quale
sede migliore per l’arte?), a confrontarsi con l’arte occidentale, con
la storia del passato e con tutte le contraddizioni del presente, che
sempre di più assiste alla convivenza di culture così diverse tra loro.
47
Per Neda la convinzione che ogni individuo nasconda un mistero e
che l’aspetto sia irrilevante rispetto a ciò che copre e contiene viene
realizzato sia nelle sculture, sia nei quadri.
Nelle prime i solidi geometrici contengono o impediscono la libertà
del corpo stesso e come scrive l’autrice “... non fanno che accrescere
la percezione che in quelle persone avvengano fenomeni misteriosi,
imperscrutabili. tanto più misteriosi, quanto più la razionalità vorrebbe
ridurli a formula.”.
Nella serie ’humans’, 11 opere rappresentano il lato oscuro, il mistero,
che ogni persona porta dentro di sé e che deriva dal suo rapporto
unico nei confronti della vita. In queste sculture il corpo umano è
compenetrato da una forma geometrica che è simbolo di razionalità.
Tuttavia quei solidi non fanno che accrescere la percezione che in
quelle persone avvengano fenomeni misteriosi, imperscrutabili; i
quali diventano tanto più misteriosi quanto più la razionalità vorrebbe
ridurli.
Il GRUPPO TERRA
nasce a Roma dall’unione di tre artisti: Valentino Martin Davio (Roma,
1980), Marcello Serj Plebani (Bergamo, 1985), Michele Welke (Ascoli
Piceno, 1984).
Si presentano come un collettivo che diviene un unico artista. La
parola Terra sta ad indicare la mèta, così come usavano urlare i
navigatori quando intravedevano dall’albero maestro la luce del luogo
in cui sarebbero dovuti sbarcare: il fine e l’idea; l’arte infatti, come
astrazione, per l’artista rappresenta una mèta, da concretizzare o
riportare nel suo linguaggio, in qualsiasi forma o colore, per mezzo
di quest’idea.
D.N.1
D.N.1 è un opera site specific, realizzata per l’evento della Notte
Bianca di Roma (12 Settembre 2009); è un’installazione che
comprende un video, una proiezione speculare e un dipinto
monocromo. L’elaborazione della proposta “tematica” associata
ex studenti
Neda Shafiee Moghaddam, Humans
48
all’evento della Notte Bianca, ovvero i “Diritti Umani”, ha fatto si che
lo sviluppo di questa stessa proposta si sia presentata come una
descrizione approfondita che percorre i diversi aspetti del rapporto
tra gli “individui”, analizzando le fusioni del linguaggio fonetico e
percettivo, descrivendone le variazioni, di ciò che è “singolo” e ciò
che “sarà singolo”.
- L’artista è il navigatore
- La nave rappresenta tutti i mezzi a sua disposizione per intraprendere
e proseguire il viaggio
- L’oceano o il mare in cui naviga sta a rappresentare la conoscenza
e l’esperienza
- La meta (Terra) sta ad indicare l’arte
Gruppo Terra, D.N.1, 2009, installazione
Il GRUPPO TERRA non propone soluzioni ma ypòthesis e projèctus. Le
ipotesi sono le soluzioni del GRUPPO TERRA.
TURN (your) BACK (on)
doppia personale di
studenti
Dario Costa
Alessandro Gioiello
dal 20 maggio al 26 giugno 2010
Via San Massimo 45 (interno cortile) – Torino
www.galleriaglance.com [email protected]
tel 348 9249217
“SALIVA”
49
Sabina Sala e Valerio Ambiveri “Saliva”
Dario Trento
una mostra
Allo Studio Tufano 25 Sabina Sala e Valerio Ambiveri hanno allestito
una presentazione intrecciata del loro lavoro, presentata da Elisabetta
Longari.
Longari riflette sul tema del volo nelle opere esposte e nella tradizione
contemporanea. A mostra allestita mi è parso che ciò che si
imponeva con forza era la declinazione del tema nei mezzi linguistici
differenziati. Di per sé, i mezzi offerti dalla tecnica obbligano quasi
gli artisti alla forma della progressione. In una stanza due video di
Ambiveri dialogavano con mini-light box e pellicole di Sala. Nell’altra
le stesse immagini di Ambiveri e di Sala erano fissate nell’evidenza
di grandi foto stampate. Il fatto che a nessuno venga da chiedere
qual’era, nelle diverse versioni, l’originale, è conseguente all’assunto
che la ‘traccia’ di un artista nel nostro tempo sia fatta della somma
di differenti accumulazioni linguistiche. Ma proprio nella dilatazione
plurale sta il modo con cui noi oggi fruiamo della materia dell’arte.
A mostra finita come conserviamo la memoria di questi lavori?
Fino a poco fa avremmo pensato al catalogo, a riproduzioni a
stampa e agli originali tornati negli studi degli artisti o nelle case dei
collezionisti. Oggi sappiamo che un’altra presenza – la più rapida e
immediata – è nel web. Ma lì sta il punto: quella del web non è una
nuova riproduzione ma un’ulteriore estensione dei temi, in grado di
proseguire la loro esistenza. Nel suo modo di esistere attuale l’opera
è più che mai aperta e sottoposta a un processo di modellazione che
in parte supera anche il controllo di chi la produce. Può trattarsi di
un processo infinito o di una fase contingente, legata al più generale
processo in atto di ridefinizione dei canoni. Se è vera la seconda
ipotesi, questa situazione di instabilità si cristallizzerà in un nuovo
ordine. Ambiveri e Sala modulano materiali mitici originari per definire
la loro identità d’artista nel nostro tempo. Ma questo stesso tempo li
costringe a dilatare le loro apparizioni su piani diversi e successivi.
Dove finirà il processo? Che importanza ha chiederselo, quando è
così stimolante e produttivo stare dentro la sfida?
Sul Trattato
della Pittura
di Gianni
Maimeri
50
fondazione maimeri
…c’è stato un tempo, e non lontano, in cui i pittori si occupavano
di tecniche della pittura e, si badi bene, di “tecniche”: non della
“propria tecnica”.
Per comprendere appieno il Trattato della pittura è importante capire
quale fosse il rapporto tra il pittore Maimeri e le tecniche artistiche:
quale ruolo svolgessero, cioè, le tecniche pittoriche nelle concezioni
dell’autore, riguardo soprattutto la sua produzione vera e propria di
dipinti.
Alla sua eclettica personalità e allo spirito pratico, pragmatico,
corrispondeva, nella manifestazione artistica un versatile
apprezzamento si può dire di quasi tutte le tecniche pittoriche.
Fatta la scelta di campo per la pittura, seguendo una personale e
precoce inclinazione o vocazione (Maimeri stesso si definirà quasi
sempre “pittore” e quasi mai “artista”), le tecniche sono quei “mezzi
tecnici” che consentono l’espressione del “personale talento”, mezzi
che devono garantire, per quanto possibile, che l’opera “si mantenga
inalterata” così come volle “la fantasia dell’artista” destinati “alla
creazione di un’espressione nuova”. Mezzi che però “presentano
proprie prerogative”, e in ciò anche “limiti”. Importante non voler
ricercare in determinate tecniche “risultati che logicamente non si
possono raggiungere”, come il caso di chi volesse “una pittura ad olio
opaca o un pastello lucido” .
Le tecniche pittoriche sono quindi per Gianni Maimeri linguaggi,
“mezzi”, che consentono l’espressione alla “fantasia” dell’artista, mezzi
però dotati individualmente di caratteristiche “logicamente” proprie,
che l’artista sceglie consapevolmente, in funzione dei propri obiettivi.
Secondo Maimeri ogni artista ha una massima preoccupazione: “il
desiderio che l’opera si mantenga inalterata come la volle”.
Ecco che allora una mediazione di questa situazione poteva affacciarsi
nella mente dell’artista e imprenditore per, allo stesso tempo, proporre
le proprie idee-guida, la propria esperienza e, perché no, anche i
propri prodotti. Scrive il Maimeri nel Congedo: “Domando poi venia
se spesso ho dovuto riferirmi ad una Casa produttrice nell’illustrare
i prodotti, con sospetto di finalità reclamistiche. Certo molte case
anche fra le italiane producono materiali ottimi […] ma di quella che
ho citato mi posso far garante, perché ne dirigo dall’origine la parte
tecnica e molti dei suoi prodotti sono precisamente il frutto delle
meditazioni che ho sopra sviluppato ai colleghi, nella speranza di
giovar loro”.
Questa piccola opera testimonia che c’è stato un tempo, e non
lontano, in cui i pittori si occupavano di tecniche della pittura e, si
badi bene, di “tecniche”: non della “propria tecnica”. Era profondo,
cioè, il rapporto tra tutto ciò che partecipava alla realizzazione
fisica dell’opera nel suo essere oggetto della percezione, sia come
procedimento conoscitivo e manuale, sia come prodotto, sia come
elaborazione e modo d’uso di materiali e strumenti utili e funzionali
alla genesi dell’opera. In questo crescevano, oltre che nella pratica
della pittura.
Maimeri dimostra qui una profonda conoscenza dei materiali e quindi
delle loro potenzialità finalizzate all’espressione. Ancora, il desiderio
di costruzioni non effimere, dove la ricerca di competenza e qualità
contribuisce all’espressione, quanto alla durevolezza.
Tutto ciò rappresenta il cuore della Maimeri, ciò che ci spinge a
proseguire seguendo le orme tracciate, con la stessa passione di
allora.
Il Trattato della Pittura di Giannni Maimeri è il simbolo della filosofia
Maimeri, strumento unico e irripetibile quindi che ci permette di
diffonderla.
Sul Trattato della Pittura
di Gianni Maimeri
di Sandro Baroni
Si prova sempre un certo imbarazzo nel curare l’edizione di scritti o
carte che un autore mancò di dare alle stampe.
Questo non tanto credo, oggi, a causa di un motivo di rispetto
per ciò che era quello che potremmo definire uno spazio “privato”
dell’autore. L’assalto mediatico e l’infinità di occhi del Grande Fratello
che incombe ci hanno abituati ad una più elastica visione della
separazione tra pubblico e privato. Piuttosto i miei dubbi sono dovuti
ad una sorta di responsabilità nel far diventare “documento storico”
ciò che l’autore certo non avrebbe mai voluto che così “storico”
diventasse. O meglio, storico “così”: cioè in questo modo. Imperfezioni
sintattiche e grammaticali, svarioni, lapsus calami, abbozzi e pensieri
sospesi e non sviluppati vengono consegnati alla lettura pubblica da
un’edizione postuma che si vorrebbe scientifica, ed io già mi vedo
in sogno, o forse in un altro tempo, in una di quelle sterminate e, si
spera, serene praterie che chiamiamo Aldilà, interrogato da Gianni
Maimeri, con quella sua bella tavolozza che ho appena finito di
restaurare, sul perché non abbia tolto questa o quella ripetizione,
sciolto quella legnosità in una frase, e poi perché abbia lasciato quel
piccolo erroruccio grammaticale che – sai – è una svista, ma non fa
bella figura nel mio scritto.
Caro Gianni, sono stato restauratore: in tanto lavoro non ho mai
cercato di alterare un originale con inutili ritocchi. Ora che mi occupo
di testi storici sulla tecnica delle arti per me poco o nulla è cambiato.
“Il bello è lo splendore del vero”. Lo pensava già Tommaso d’Aquino
e io, certo, lo credo ancora. Lo pensavi anche tu, che il vero hai
sempre ritratto, cercandovi il filtro della poesia: il bello. Lo penso,
o più spesso faccio fatica a pensarlo, perché il bello e il vero sono
talvolta perturbanti, dolorosi, più spesso imperfetti, con quella loro
ALESSANDRO RUSSO
Galleria Antonio Battaglia
via Ciovasso, 5 - 20121 Milano
T/F 0236514048
[email protected]
www.galleriaantoniobattaglia.com
caratteristica di rimandare ad “Altro”. Già lo sapevano i greci, che
fecero Afrodite strabica.
Ma proprio questa imperfezione, questa fragilità di abbozzi, accenni,
pensieri sospesi, trascuratezze sono ciò che ci affascina. E ci affascina
anche nella riproposizione e lettura di questo, apparentemente
ingenuo, volumetto sulla tecnica della pittura.
Qui, ad esempio, nella doppia introduzione, presente in prima
stesura e poi in versione “riveduta e corretta”, ci appare quella giusta
intolleranza alle pedanterie, che ancora oggi colpisce e fa sorridere
chi – sapendone – di trattatistica tecnica si deve occupare: “rifrittura
di baggianate” prima, “luoghi comuni e molte inesattezze” poi.
La bellezza del vero. Prima nuda e poi “benignamente d’umiltà
vestuta”.
Per questo motivi, oltre che scientifici e di inclinazione personale,
ho cercato e optato per una modalità di edizione del testo che
potesse dar ragione della propria originalità e provvisorietà, stanti le
cosiddette “varianti d’autore”. Tutto questo, però, in una forma che
potesse anche consentire una lettura “piana” dell’opera, “corsiva”,
così come la potrà fare chi, seguendo la lettura del testo, tralasci e
con ciò si sbarazzi delle note a piè di pagina.
Una scelta che vedo forse – e spero di sbagliarmi – oggi un tantino
coraggiosa, rispetto alla sempre più dilagante moda del divulgativo,
operata “dal basso”, cioè da chi nulla ha da divulgare, ma vorrebbe
che tutto ciò che non sa, e che avrebbe bisogno di apprendere,
si riducesse ai modesti parametri del proprio status culturale e
mentale.
*Estratto dell’introduzione all’edizione.
51
Veduta interna della ex fabbrica delle bambole, associazione culturale
52
Ex fabbrica delle bambole era la fabbrica dei giocattoli Mattel,
ovvero dove si fabbricavano le Barbie ed Ercolinosempreinpiedi,
ora è sede di una nuova e attivissima Associazione Culturale
dove è anche possibile essere ospitati con bed & breakfast.
iniziative culturali
Fondata da Gustavo Bonora (pittore e psicanalista), Rosy Menta
(naturopata) e Daniela Basaldelli Delegà (uff. stampa e p.r.), l’Associazione
è un luogo gradevolissimo e gestito con energia.
Chi sono Gustavo Bonora e Rosy Menta?
Gustavo Bonora pittore e psicanalista e Rosy Menta naturopata,
hanno gestito negli anni ’80 una galleria-centro culturale Arsgallery-S.
Tecla (dal ’78 all’84).
Rosy e Gustavo, dopo una lunga parentesi ligure tornate a
Milano con un nuovo progetto, di che si tratta?
Uno spazio polivalente che accoglie e programma eventi culturali
che vanno dall’arte e a tutto ciò che risponde
conoscenza e d’informazione interdisciplinare, e accogliere e
promuovere giovani artisti, esordienti ma con un’occhio all’impegno
etico nel mondo del volontariato e alla collaborazione con persone
ed enti che operano nel volontariato, alla difesa dei diritti umani,
delle cure non invasive, dell’ambiente.
Cos’era il centro culturale S.Tecla? Che iniziative avevate
realizzato?
Il S.Tecla, nasceva nel centro di Milano con gli stessi intenti di
exfabbricadellebambole ma era anche un centro di convegno e
ricerca di psicanalisi lacaniana allora in auge.
Si organizzavano mostre/eventi in collaborazione con il Comune
di Milano, il Goethe Institut, Consolato Danese, Centro Culturale
Francese, Consolato Jugoslavo e altri. Hanno esposto, all’epoca:
Asinari, Jokanovic-Toumin, Jean Louse Vila, Jean Degottex, Jean
Clareboudt (allora erano giovani o poco noti in Italia, ora esposti
più prestigiose collezioni/gallerie internazionali); Olivieri, Crippa,
Gallerani, Bonora, Carmi, Brusamolino, Pardi, Leddi, Cavaliere,
Moncada, Grillo, Vedova, Signorini… tanto per citare alcuni nomi e
fra i giovani d’allora, Pizzi, Ho-Kan, Barna, Basile…
Com’era la Milano degli anni ’70 e ’80? Com’è la Milano di
oggi?
Nella Milano di quegli anni, a differenza di oggi, le gallerie erano dei
luoghi d’incontro che promuovevano dibattito e progettualità.
Mi avete detto che intendete occuparvi di giovani artisti che
frequentano l’Accademia e di artisti trascurati dalla critica o
addirittura sconosciuti, perché?
Perché la logica del mercato e l’andamento della critica persistono
sulle certezze dominanti e sui nomi accertati, mentre riteniamo che ci
siano molti artisti che per motivi soggettivi ma anche per la difficoltà
a inserirsi nel circuito chiuso del sistema. Crediamo che sia giusto
dare delle opportunità.
Gustavo, tu, con la tua lunga esperienza di pittore critichi
fortemente l’arte contemporanea, perché?
No, non critico l’arte contemporanea sono scettico nei confronti di un
sistema che non è più capace di discriminare fra il vero e il falso.
Dove risiede l’equivoco? Quando inizia?
Ormai, sotto l’egida del sistema critico-mercantile le categorie logicolinguistiche non sussistono più ed è possibile qualsiasi cazzata. La
cosa inizia da quando, dopo l’Avanguardia, si è instaurato il vezzo
retorico del “neo-neo-neo…qualsiasi cosa”, purchè voluta e promossa
dall’arbitrio indiscriminato dei critici. Vuoi qualche nome? Da Gillo
Dorfles a Bonito Oliva, fra i due metti tu i nomi che vuoi, se non hai
nulla da temere. Ti invio un sintetico scritto, dal titolo “Concettuale”
sperando che tu voglia pubblicarlo perché potrebbe stimolare un
dibattito intellettuale. * (pubblicato in calce)
La curiosità e l’entusiasmo per la vita sono il segreto della
longevità, cosa ti interessa di quanto accade oggi?
Comunemente si sorvola sul fatto che un’artista debba o possa
essere anche un’intellettuale, è possibile che ciò sia un tabù? Io mi
diverto ancora a studiare e a confrontarmi con tutto ciò che serve a
spiegare il limite discriminante fra il vero e il falso.
Che progetti avete per il futuro?
Vogliamo far crescere questo spazio un po’ anticonformista, che fra
l’altro ospita anche un servizio “Letto&Colazione” per artisti e turisti
culturali e non, farlo diventare un punto d’incontro di cultura, culture
e progettualità.
“Concettuale”
Gustavo Bonora
[1] - Teoria e pratiche della critica d’arte, in Atti del Convegno di Montecatini, maggio
1978; Feltrinelli 1979.
[2] - M. Merleau-Ponty: La prosa del mondo, Editori riuniti, pp 69-70.
[3] - Ermeneutica : disciplina interpretativa che attiene a quattro livelli esegetici: letterale,
morale, allegorico e anagogico.
[4] - Noetica: noematica ( noesis – da noein = pensiero ) .
[5] - Nous - trascrizione kantiana del concetto platonico (Timeo, 51,D) di realtà intelligibile,
oggetto della ragione contrapposta alla realtà sensibile, da cui la nozione noematica di
produzione concettuale.
(6) - Eidos = forma ideativa, dal greco Eidetikòs = formativo. Virtuosità dell’intelligibile
che, secondo Platone è la peculiarità della facoltà di astrazione. In Aristotele è la nozione
metafisica generalizzata dell’unicità della virtuosità etica. Il concetto di eidetica è mutuato
dai fenomenologi della percezione; Husserl che a suo tempo si riferiva agli Stoici, ne fa
la riduzione trascendentale della coscienza in essenza etica, ripresa poi da E. Cassirer in
Eidos ed eidololon (R. Cortina 2009), riferito a Merleau-Ponty, Sartre, ecc., per designare
la facoltà di dar forma alle idee.
[7]- significa infatti rinunciare a comprendere il mondo effettivo e passare a un tipo di
certezza che non restituirà mai il ‘c’è del mondo: Merleau-Ponty: Il visibile e l’invisibile ,
Bompiani 1999, p. 34.
53
iniziative culturali
Siamo nell’era del “Concettuale”e, al di là del manifesto
dei suoi adepti storici, è uno statuto linguistico carico di
valori simbolici e teoretici esteso a tutto il mondo dell’arte
contemporanea; ma persiste un punto controverso, ci si
chiede a chi è conferito il primato teoretico, all’artista o alla
critica? Nella disputa che si accese nel 1978 a Montecatini,
[1]la voce di F. Menna si elevava con un monito: Una critica
senza oggetto non può esistere, anche se resta da accertare
lo statuto epistemologico della relazione tra i due termini.
Tanto più che non è soltanto la critica che si configura come
discorso su un altro discorso: l’arte stessa si presenta con
uno statuto analogo, almeno da un’angolazione linguistica,
dato che, in ogni caso, essa interviene su un codice acquisito
e lo modifica in maniera più o meno profonda.
Il monito era rivolto a F. Lyotard che asseriva che, dopo
l’Avanguardia, il confine fra la teoria e la pratica è così
sottile che l’affinità necessitata dalla strettoia concettuale
condiziona la dialettica in tutti i giochi possibili. Come
scriveva M. Merleau-Ponty;Il problema moderno di sapere
come l’intenzione del pittore rinascerà in coloro i quali
guardano i suoi quadri, non è nemmeno posto dalla pittura
classica. [2]
Quanto alla tempestività di un’interpretazione, vuoi che la
critica sia in anticipo sul ritardo della pertinenza a leggere,
si pone la questione dell’intelligibilità, il divario persiste fra
guardare e vedere, eppure, se il salto metafisico moderno
induce il fruitore ad una lettura impegnata, la visione moderna
apre anche ad una nuova competenza ermeneutica dei
costrutti storici. [3] Lo schema che intercorre fra i due poli del
problema moderno suscita la domanda: qual è la condizione
perché le due entità si sintonizzino sull’opportunità noetica
[4] di intendersi? Occorre la competenza a leggere, altrimenti
il fruitore guarda la cosa ma non vede l’imago, la competenza
del fruitore implica l’impegno etico dell’adesione concettuale
al Nous [5] dell’autore e, condiviso lo statuto estetico, procede
dal guardare al saper vedere. Resta sempre da stabilire il
ruolo della critica; conferitagli la competenza descrittiva,
avrebbe o no la funzione discriminante della valutazione?
L’impulso a leggere è quello di un sapere che giunge
a confermare un talento non innato, ma acquisito per
iniziazione etica. Per esempio, leggere Joyce, significa stare
con Joyce lungo il suo noema, contro l’attardante resistenza
alla differenza significante; ma c’è di più, al di là della
discrezionalità noetica del testo, vi è lo stile, il tratto distintivo
che segna il limine soggettivo della facoltà póietica, la cui
versatilità, induce la competenza noematica nella stessa
misura in cui vela il Nous. Lo stile è il tratto differenziale
opposto alle rappresentazioni conformi allo standard del
gusto, dove però chi ne gode il limine, gode dell’imago. Il
processo di alfabetizzante non è un talento connaturato alla
conformità culturale, esso esige selettivamente la facoltà
eidetica [6 secondo la singolarità elettiva dell’impegno
etico.
Vi è in questa causa il dispositivo inclusivo/esclusivo di chi
si situa nel punto dell’ultimità eidetica, l’hic et nunc dell’atto
creativo. Posta la distinzione generale fra il modo figurativo e
l’astratto, occorre una puntualizzazione: è nella potenzialità
della traslazione dalla cosa all’icona che il figurativo,
con l’associare per similitudine, perviene alla noematica
dell’imago, mentre l’astratto, esposto com’è alla verifica
semiologica, chiama in causa la prova noematica. [7]
Ora si pone necessariamente un quesito: quando l’opera non
è figurativa, dal punto di vista semiotico cosa rappresenta?
La linea linguistica novecentesca è concorde nel definire i
sistemi di rappresentazione secondo tre registri semiotici: il
reale, il simbolico e l’immaginario; il reale è la fissità letterale
della cosa identica a sé, il simbolico è il tratto sostitutivo
che trascende la letteralità della cosa nella virtuosità
dell’imago, e l’immaginario è la potenzialità noetica delle
rappresentazioni arbitrarie. È all’insegna del Nòmos che
il Nous (pregnanza ideativa) assurge alla potenzialità
simbolica delle rappresentazioni iconiche, ma l’atto d’arbitrio
creativo è l’esercizio della fondazione del nuovo logos che,
per la diversità che introduce, suscita il rigetto; il rigetto è
connaturato non solo all’inerzia conformistica, è anche la
resistenza al nuovo che sovverte le certezze dei fondamenti
acquisiti, e si sa come la tradizione ermeneutica si attenga
alla lettera, così come i sistemi conservatori impugnano
il dogma imperscrutabile che decreta il Nòmos (legalità
significante), sul versante opposto, nella misura in cui a far
vigere la nominazione è la voce esclusiva delle intellighenzie
in auge, sotto il vessillo di qualche manifesto neo-neo-neoideologico, si può legittimare qualsiasi arbitrio. A conclusione della rassegna (necessariamente non
esaustiva), se fin qui ho cercato di rintracciare le categorie
costitutive della Modernità e di definirle facendo ricorso a
ciò che poteva concorrere a nominarle, devo ammettere che,
mentre la teoria della nominazione ha raggiunto livelli tanto
proficui, paradossalmente, non c’è paradigma strutturale che
ricopra il curricolo estetico postmoderno, così è consentita
qualsiasi cazzata, chi eleverà il monito decisivo per farla
finita?
54
recensioni
Le “vedute” di PIETRO CAPOGROSSO alla galleria Andrea Arte
Contemporanea di Vicenza e al MIART di Milano con la galleria
Paolo Erbetta di Foggia.
Per la sua prima mostra personale alla Andrea Arte ContemporaneA
(Vicenza), Pietro Capogrosso presenta una inedita serie di “vedute”
estrapolate dalla realtà moscovita. Il titolo della mostra, Kutuzoskij
prospekt 13 , corrisponde infatti all’indirizzo civico in cui l’artista vive
e lavora da alcuni anni a questa parte. Dopo i meriggi paesaggistici
della Puglia (che dichiaravano una chiara appartenenza al proprio
retroterra, anagrafico come pure culturale) ecco affacciarsi sulla tela i
panorami innevati della Mosca post-comunista, il cui aspetto rigoroso
e asciutto si confà al ricordo del marziale “Generale Inverno”. Partendo
da un’attenta ricognizione della natura e dell’assetto urbano, l’artista
inquadra i soggetti con tagli fotografici che ne accentuano la visione
frammentaria per poi decontestualizzarli e traslarli in una dimensione
astratta e asciutta. La componente stilistica, così come la gamma
della tavolozza, è quasi ridotta al grado zero della figurazione. La luce
tersa modula il colore su tonalità pastello e sfalda i dettagli lasciando
che la sostanza delle cose diventi una massa soggetta a vibrazioni
e dissoluzioni; i volumi, di conseguenza, si azzerano proiettando le
silhouette di cupole, alberi, case, tralicci, su fondi opalini e rarefatti.
L’atmosfera coloristica, unitamente al senso di vuoto e di sospensione
che aleggia nelle vedute di Capogrosso, acuisce l’impossibilità di
afferrare queste sue “architetture impalpabili”. Inevitabilmente lo
sguardo tende a posarsi su elementi secondari, inaspettati, privi di
retorica o eroicità, che subiscono «quel senso di abbandono – aveva
scritto Marco Pierini – che caratterizza gli oggetti prescelti dal pittore
(in solitudine, dimenticati, accantonati ai margini)» capaci di restituire
«il momento del silenzio, dell’aria che resta sospesa, del movimento
che si arresta». Quello di Capogrosso è un costante lavoro di
osservazione, un’ostinata ricerca su soggetti simili ma mai identici,
un’indagine paziente intorno a uno spazio “raccolto” (e giammai
raccontato) che inclina all’intimismo. Un intimismo personale, ma
anche tecnico: di riflessione sui valori stessi della pittura. Non per nulla,
i dipinti dell’artista sono “riservati”, “discreti”, ci parlano sottovoce di
un mondo autobiografico, sensibilità che qualcuno aveva giustamente
fatto risalire a Giorgio Morandi. In punta di pennello Capogrosso pare
ereditare la lezione del vivere del maestro emiliano, la volontà cioè di
affacciarsi sul mondo da una finestra aperta – la tela – per convertire
la realtà oggettiva in una verità pittorica. Or dunque, «qual è il segreto
di una pittura in apparenza tanto semplice?» si chiedeva Marchiori a
proposito di Morandi, interrogativo che si rinnova di fronte alle opere
di Pietro Capogrosso; segreto di cui lo spettatore non deve chiedere
spiegazioni, perché le presenze emblematiche di questi quadri si
rivolgono solo ed esclusivamente ai nostri occhi. L’incanto (dello
sguardo) è tutto, e innanzitutto.
*Pietro Capogrosso è docente di Anatomia all’Accademia di Brera
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ALTROVE
Tutta l’immediata freschezza e la vitalità di un maestro della pittura italiana
in una ventina di fogli disegnati
14 - 30 maggio 2010
Una mostra a cura di Maurizio Coccia, allo Studio Sisinnio Usai
di Sassari. Catalogo edito da Soter Editrice con testi di Sonia
Borsato e Maurizio Coccia.
Nicola Maria Martino, uno dei protagonisti della pittura italiana degli
ultimi trent’anni, in questa mostra torna al disegno. In verità, si tratta
di una tecnica mai trascurata, ma che in questa occasione diventa
veicolo per una nuova fase produttiva, di ritrovata felicità compositiva,
irrobustita da una disinvolta suggestione narrativa. Sono esposti una
ventina di piccoli formati su carta ruvida. La figurazione è essenziale.
Ma il segno, fluido e incisivo, ha momenti di grande intensità. La
matita sostiene strutturalmente il colore, distribuito in tracce diluite. Il
disegno assorbe la qualità tattile del supporto, e il vuoto che circonda
le figure assume infine valore atmosferico.
I soggetti, cari all’autore, rimandano alla calda mitologia mediterranea
della sua pittura. Oltre a motivi paesistici di ispirazione meridionale,
c’è soprattutto l’epica del viaggio come esperienza formativa. I colori
sono chiari. I cieli sereni. Dai disegni emana una generale sensazione
di freschezza primaverile. E una buona dose di garbata ironia.
recensioni
NICOLA MARIA MARTINO
Questi lavori, estratti dalla recente e copiosa produzione di Martino,
sono il distillato di una ricerca inesausta di eleganza e armonia. E
il passaggio dalla pittura al disegno, non mette affatto la sordina
alla sontuosità cromatica cui Martino ci aveva abituati. Anzi. La sua
prontezza stilistica fa emergere tutto il magistero formale del maestro
italiano, cui l’accurato catalogo progettato da Salvatore Ligios, rende
il giusto onore.
Grazie Nicola!
di Gaetano Grillo
recensioni
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Ho conosciuto Nicola Maria Martino molti anni fa perché attraverso
Flash Art, che aveva pubblicato delle nostre opere, avevamo scoperto
di avere delle cose in comune.
Successivamente abbiamo fatto una doppia personale alla Galleria
Bianca Pilat di Milano e diverse collettive in giro per l’Italia finchè il
destino ha voluto che la mia prima cattedra di Pittura in Accademia
fosse proprio a Sassari dove ho vissuto un anno, ospite in casa sua.
Ricordo con molta nostalgia quei tempi e in particolare il piacere che
avevamo nel parlare finalmente di “Pittura” (cosa sempre più rara e
difficile).
Quella piccola accademia, grazie a lui, guardava oltre i ristretti confini
regionali e sprigionava energia, curiosità e freschezza straordinarie. Il
mare, le vele, i colori, la luce e i sapori del mediterraneo sembravano
essere il contesto ideale per Nicola, appollaiato sulla passeggiata
delle mura di Alghero con il suo immancabile whisky elegante.
Molti colleghi non apprezzavano la sua personalità, spesso burbera,
ancor più spesso talmente ironica, autoironica e ancor più, sarcastica
da infastidire chi non vive profondamente il mondo dell’arte.
Il suo rigore nel pretendere dai professori di osservare
scrupolosamente i propri doveri, veniva percepito soltanto come una
esagerata attenzione alla burocrazia ma senza quell’argine, senza
l’occhio vigile di Nicola quell’accademia sarebbe implosa subito o
almeno sarebbe diventata una realtà locale con tutti i vizi e i limiti
del caso.
Siamo passati in tantissimi dall’Accademia di Sassari e i giovani
studenti sardi hanno potuto confrontarsi con docenti di qualità, quasi
sempre di passaggio, ma proprio quella rotazione è stata l’opportunità
che loro hanno avuto per non essere isolati e per connettersi in diretta
alle questioni internazionali della ricerca artistica.
Nicola, che ha mantenuto la sua cattedra di titolarità all’Accademia di
Roma, dove per altro si è formato alla Scuola di Sante Monachesi,
avrebbe potuto scegliere di fare la sua carriera accademica anche
a Torino o Milano, dove pure ha insegnato ma ha creduto in quella
“finestra aperta sul mare” si è sacrificato, ha trascurato l’attività
artistica e il suo sacrificio non è stato ancora ripagato e forse neanche
riconosciuto.
Alla fine di questa sua ventennale avventura sarda, Nicola Maria
Martino lascia Sassari senza enfasi ma con una piccola mostra di
disegni, un gesto elegante per uscire in punta di piedi dalla scena
senza tradire il suo stile che nasconde sotto un’apparente maschera
grottesca una sensibilità poetica straordinaria risolta invece con
freschezza e leggerezza.
Nicola Maria Martino è un artista che ha avuto il coraggio delle
sue scelte che ha sempre difeso senza esitazione e senza mai
nascondersi, a torto o a ragione ma con orgoglio e intelligenza. E’
l’unico che ha espresso feroci critiche all’attuale riforma, critiche
interpretate soltanto come una forma reazionaria e nostalgica per
rimanere ancorato alla tradizione.
In verità Nicola Maria Martino è il direttore più accreditato come
artista e come tale ha visto minacciata la specificità della formazione
artistica da problematiche diverse e fuorvianti delle quali oggi, anche
i più convinti sostenitori della legge 508/99 iniziano a percepirne
il limite. In questo senso Nicola potrà forse un giorno apparire
profetico.
Il Ministero dell’Università, l’AFAM e il sistema accademico italiano
perdono un protagonista coraggioso e coerente ma sono certo che ne
guadagnerà il mondo dell’arte perché Nicola, finalmente, alleggerito
dalle scartoffie, potrà ritrovare l’energia salutare della PITTURA.
Grazie Nicola per quello che hai fatto e per l’orgoglio che hai
trasmesso a tutti coloro che come te hanno amato e portano nel
cuore le Accademie di Belle Arti. Buon lavoro come pittore!
URANO PALMA
è tornato nel suo pianeta
Urano Palma e Giampaolo Prearo alla Cascina Galoppa
marzo 2010
Photo Fabrizio Garghetti
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