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TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°5 - EURO 6,00 Redazionale: C’É UN’ITALIA ROVESCIATA CHE.. Maestri storici: LUCIANO FABRO Testimonianze: GIANNI CARAVAGGIO PIETRO COLETTA HIDETOSHI NAGASAWA Sulla Scultura: ACHILLE BONITO OLIVA Patrimonio storico: LA PINACOTECA ALBERTINA DI TORINO N.A.B.A. MILANO L.A.B.A. BRESCIA Docenti: GIULIO DE MITRI GABRIELE DI MATTEO BARBARA TOSI Sul Restauro: DUILIO TANCHIS Fondazione Maimeri: TRATTATO SULLA PITTURA Ex studenti dell’Accademia di Roma Recensioni Sostieni Academy! con pubblicità e abbonamenti per il nuovo anno anche individuali, ognuno potrà ricevere la rivista comodamente a casa propria. contattaci scrivendo a: [email protected] o telefonando al: 02.87388250 / 3397880296 versamento su c/c postale n°89424840 oppure bonifico bancario intestato a: Editrice L’Immagine srl UNICREDIT BANCA DI ROMA SPA - MOLFETTA IBAN: IT 36 Z 03002 41560 000010242187 REDAZIONALE Distruggere l’Accademia di Brera Intervista a MICHELANGELO PISTOLETTO La sua esperienza all’Accademia di Vienna Intervista a DANILO ECCHER Direttore della GAM di Torino Redazionale: C’É UN’ITALIA ROVESCIATA CHE.. Maestri storici: LUCIANO FABRO Testimonianze: GIANNI CARAVAGGIO PIETRO COLETTA HIDETOSHI NAGASAWA Sulla Scultura: ACHILLE BONITO OLIVA Patrimonio storico: LA PINACOTECA ALBERTINA DI TORINO N.A.B.A. MILANO L.A.B.A. BRESCIA Docenti: GIULIO DE MITRI GABRIELE DI MATTEO BARBARA TOSI Sul Restauro: DUILIO TANCHIS Fondazione Maimeri: TRATTATO SULLA PITTURA Ex studenti dell’Accademia di Roma Recensioni TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°4 - EURO 6,00 TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°5 - EURO 6,00 Intervista a ENZO INDACO Presidente dell’Accademia di Catania PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI Accademia di Catania Intervista a MARTINA CORGNATI Docente all’Accademia Albertina di Torino Intervista a NICOLA MARIA MARTINO Artista e Direttore dell’Accademia di Sassari Intervista a ALESSANDRO GUERRIERO Designer e Presidente della NABA, Milano UNICREDIT & ART L’esperienza con l’Accademia Albertina Una mostra GIUSEPPE MARANIELLO Ex studenti MICHELE GIANGRANDE Sommario ragionato di Elisabetta Longari Poiché l’Accademia di Brera è sempre più attiva, in questo numero, nonostante il grande rilievo dato a tale Istituzione, non si segnalano che alcune delle sue numerose iniziative, che pure sarebbero tutte degne di nota (tra le omissioni il rilevante fatto di avere partecipato alla settimana della cultura con l’allestimento di una quadreria di pregiati dipinti di Hayez). Brera ha dedicato di recente due giornate di studi a Luciano Fabro, artista e maestro di grande spessore al cui ricordo viene dato notevole spazio in questo numero di Academy, a incominciare dalla copertina, di un’eloquenza straordinaria nel “dire” qualcosa di ancora attuale, anzi, sempre più attuale, sul Bel Paese. Proprio perché “fare memoria” al presente è tra le vocazioni principali dell’arte, l’attenzione di questo numero si sofferma sulle motivazioni e sulle relative cerimonie di consegna del diploma di secondo livello in Comunicazione e Didattica dell’Arte, conferito, in ordine cronologico, a Roberto Saviano, al Monsignor Ravasi e a Fabio Mauri, nella persona del fratello Achille Mauri. Achille Bonito Oliva racconta cosa pensa della scultura oggi, parla del ruolo di Fabro nel panorama dell’arte e riflette sulle accademie, dimostrando, su quest’ultimo argomento, che probabilmente gli manca da molto tempo un’esperienza diretta sul campo. Mentre procede la ricognizione sulle Accademie private con due speciali, uno su NABA di Milano e l’altro su LABA di Brescia, viene dato risalto al prezioso Patrimonio Storico dell’Accademia Albertina di Torino e il critico Barbara Tosi, che segnala tre ex allievi dell’Accademia di Roma, rilascia un’intervista a Notargiacomo, facendo una sorta di “gioco del rovescio” con il numero precedente (cfr. n.4 di Academy), in cui era lei a intervistare l’artista sulla sua attività. Auguriamo, in senso lato, lunga vita al gioco del rovescio, che, praticando un’inversione dello sguardo, garantisce la pluralità necessaria a qualsiasi attività libera, di cui l’arte e il pensiero sull’arte sono l’emblema. Iniziativa editoriale adottata come progetto dall’Accademia di Belle Arti di Brera A A DEMY OF FINE ARTS NUMERO 5 / Primavera 2010 SEDE Viale Stelvio, 66 20159 Milano tel. 02 87388250 fax 02 6072609 [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE Claudio Cugusi DIRETTORE Gaetano Grillo DIRETTORE MARKETING Marcella Renna REDAZIONE Gaetano Grillo Elisabetta Longari Alessandro Gioiello GRAFICA E PUBBLICITÀ Marcella Renna 3397880296 EDITRICE L’IMMAGINE SRL Zona Industriale Lotto B/12 70056 Molfetta (Ba) Italy FOTOLITO E STAMPA L’IMMAGINE AZIENDA GRAFICA SRL Via Antichi Pastifici Lotto B/12 - Z.I. 70056 Molfetta (Ba) Italy tel. +39.0803381123 fax +39.0803381251 www.limmagine.net [email protected] SOMMARIO *Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito ACADEMY OF FINE ARTS Iscritto al Tribunale di Trani n.3/09 Fondato da Gaetano Grillo HANNO COLLABORATO* Francesca Alfano Miglietti Sandro Baroni Matteo Bergamini Achille Bonito Oliva Gustavo Bonora Gianni Caravaggio Pietro Coletta Federica Facchini Pietro Fortuna Serena Francone Laura Lombardi Hidetoshi Nagasawa Gianfranco Notargiacomo Francesca Petrucci Lorenza Pignatti Raffaella Pulejo Barbara Tosi Dario Trento Andrea Villani 02 Editoriale di Gaetano Grillo 04 Maestri storici: Luciano Fabro 12 Testimonianze: Achille Bonito Oliva 14 Sulla Scultura: Gianni Caravaggio e Pietro Coletta 16 Brera incontra: Fabio Mauri, Mons. Ravasi, Roberto Saviano 20 Patrimoni storici: Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino 24 N.a.b.a.: Politiche della memoria 28 L.a.b.a.: Una realtà innovativa 32 Docenti: Giulio De Mitri, Gabriele Di Matteo, Barbara Tosi 40 Sul Restauro: Duilio Tanchis, Bill Viola a Firenze 45 Accademia di Maerata e Achille Bonito Oliva 46 Ex studenti: Dionigi M. Gagliardi, Neda S. Moghaddam, Il Gruppo Terra 50 Fondazione Maimeri: Trattato sulla Pittura 54 Recensioni 1 In copertina: Luciano Fabro Foto di Giorgio Colombo L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE. C’è un’ITALIA rovesciata che... c’è un “sistema dell’arte” che..... c’è una generazione di artisti-docenti che..................... di Gaetano Grillo redazionale 2 C’è un’Italia che vuole smantellare una grande accademia come l’Accademia di Brera, c’è un’Italia che vorrebbe distruggere tutte le accademie italiane, c’è un’Italia che non ama gli artisti, c’è un’Italia che non vuole la ricerca, c’è un’Italia che non vuole riconoscere ai docenti delle accademie il loro ruolo giuridico universitario, c’è un’Italia che non costruisce il futuro per i giovani, c’è un’Italia che vorrebbe una magistratura subordinata, c’è un’Italia che non crede nella cultura, c’è un’Italia senza colonna vertebrale che si piega ad ogni compromesso, c’è un’Italia che non sopporta gli intellettuali, c’è un’Italia che… C’è un’Italia che ama solo il profitto, c’è un’Italia a cui piace corrompere ed essere corrotta, c’è un’Italia che vuole sentire le mani libere, c’è un’Italia che osanna la furbizia e che la confonde con l’intelligenza, c’è un’Italia che ammira i forti, c’è un’Italia che vuole essere sbrigativa, c’è un’Italia che non sopporta le regole, c’è un’Italia che adora le pacche sulle spalle, c’è un’Italia che si esprime nei corridoi, c’è un’Italia che dimentica gli uomini di valore, c’è un’Italia che scende sempre a patti con la delinquenza, c’è un’Italia che svende il suo patrimonio, c’è un’Italia che ama fare la puttana… C’è un’Italia tutta d’oro ma capovolta e impiccata a testa in giù, nell’immaginario di Luciano Fabro in quel lontano 1968, in quegli anni sui quali si è scatenato il recente revisionismo storico, in quegli anni che ormai a molti sembrano essere l’origine di tutti i mali del presente, il vaso di Pandora. A guardare gli anni ’60 e ’70 oggi, dal crinale piatto, conformista e compassato di questi nostri anni, si avverte invece tutta l’energia di quei tempi, la straripante fiducia nella capacità di migliorare il mondo. Gli artisti si muovevano come leoni, pronti ad aggredire con potenti zampate tutto ciò che volevano cambiare. Al triste calcolo mediatico dei nostri giorni corrispondevano la passione vigorosa per i princìpi dell’arte e comportamenti eroici, sani, robusti e ottimisti. Ai minimi, aridi e forse inutili spostamenti linguistici di quel sistema artificiale che chiamiamo “contemporaneo”, corrispondevano sperimentazioni, innovazioni e mutamenti sorprendenti che ci facevano ripensare alla realtà con salutare entusiasmo radicale. Nelle nostre accademie non venivano parenti, amici, fotografi e fan a festeggiare le “lauree” con cappellini, trombette, mazzi di fiori e tacchi a spillo, ma ragazzi accompagnati soltanto dal loro cieco trasporto per l’arte, animati da una curiosità incontenibile, ragazzi che rovesciavano le cattedre, mettevano a nudo i baroni, ragazzi assetati di conoscenza che pretendevano sapere. Oggi, al contrario, siamo noi a cercare di stimolare loro a visitare le mostre, a leggere, a confrontarsi, a viaggiare; siamo noi ad organizzare le loro esposizioni, a promuoverli, persino ad insegnargli come muoversi tatticamente nel sistema dell’arte per avvicinarsi al “successo”, a questa parola che trent’anni orsono ci faceva addirittura rabbrividire, ci offendeva. Se l’artista aveva successo era asservito al sistema, dunque, inoffensivo, inutile. La copertina dell’ultimo numero di Academy l’abbiamo dedicata ad un grande maestro che ha insegnato all’Accademia di Venezia: Emilio Vedova. Un leone che ha folgorato tanti giovani con il suo insegnamento ma anche con la sua travolgente passione per la vita e per gli ideali. Un artista che ha vissuto facendo scelte coerenti e non di rado opponendosi con coraggio a tutto ciò che poteva corrompere il suo percorso di pensiero. Con questo numero invece rendiamo omaggio ad un altro protagonista dell’arte italiana che ha invece insegnato a Brera: Luciano Fabro. L’occasione ci è data da un convegno che proprio Brera ha dedicato recentemente alla sua opera di artista ma anche al suo interessantissimo impegno didattico svolto in accademia. Fabro ha insegnato con trasporto straordinario fertilizzando le intelligenze di molti giovani che oggi sono artisti affermati. Fra l’Accademia di Brera e la Casa degli Artisti, Luciano ha seminato idee, ha modellato comportamenti, ha pulito preconcetti, ha terso cortine appannate, ha insegnato a riflettere con acume. Questa copertina sembra essere peraltro, anche un’efficace metafora del momento che stiamo attraversando, un periodo non proprio “aureo” e non proprio brillante sotto il profilo etico e culturale. La paradossale situazione in cui si trovano le nostre accademie e l’ancor più assurda circostanza in cui si trova Brera, sono la coerente espressione di quella depressione sociale oltre che economica, in cui versa oggi l’Italia, un’Italia che è fanalino di coda in Europa in quanto ad investimenti su cultura e istruzione, un’Italia che non ha un progetto culturale e che non esporta i suoi talenti. Non ci sarà soluzione ai tanti problemi che stanno stritolando il nostro sistema se non ci sarà un cambiamento sostanziale della mentalità di questo Paese e della nostra stessa. L.Fabro, Italia all’asta (Photo G.Ricci - A.Guidetti). Quanti di noi sono disposti a spendersi per difendere e far valere quelli che ritengono essere nostri diritti? Quanti di noi lottano per affermare con coerenza quello in cui credono? Questo era invece il clima culturale degli anni ’60 e ’70; sia da destra, sia da sinistra, ognuno lottava per affermare i propri princìpi e i propri valori. Le ragioni individuali venivano correttamente arretrate di un passo rispetto alle ragioni sociali. Oggi sono invece le ragioni individuali a prevalere e anche con arroganza, presunzione, talvolta con volgare scompostezza e finanche con violenza. Noi uomini di cultura e di arte, noi persone sensibili e forse anche civili, siamo quasi quotidianamente offesi dalla realtà, mortificati nel nostro profondo, sbeffeggiati e derisi da una società che premia chi incarna il modello opposto a quello statuto di valori nel quale pur ci riconosciamo. Quanti di noi sentono ancora l’orgoglio dell’appartenenza all’accademia in cui insegnano, quanti di noi si oppongono al dilagare del degrado? Quanti di noi si oppongono ai continui compromessi? Quanti di noi hanno il coraggio di smentire chi mente? Quanti di noi difendono ad ogni costo il rigore, la qualità, il merito? Quanti di noi hanno il coraggio delle proprie scelte? Quanti di noi sono disposti a battersi per le ragioni che rivendicano? Se questa è la realtà di cui ci lamentiamo ogni giorno, vuol dire che altro non è se non la conseguenza del nostro disimpegno! L’impegno di Emilio Vedova e poi di Luciano Fabro, sono due insegnamenti a cui dobbiamo guardare con rinnovato interesse. Loro sono stati coerenti, ci hanno consegnato due esperienze di vita che sono lezioni preziose e questo “tesoro” è la ricchezza più grande di cui dobbiamo riappropriarci. L’Italia d’oro, appesa a testa in giù è un monito ma Luciano ci ha anche proposto una doppia Italia, ritagliata nella lamiera più povera e funzionale possibile, quella lamiera che viene usata in edilizia per le superfici percorribili. Una doppia Italia saldata su un asse poggiato volutamente a terra, non una figura sospesa nello spazio ma attratta dalla normale forza di gravità. Un’Italia verde, una doppia Italia capace di rovesciare il senso. 3 una generazione di artisti-docenti che... redazionale Oggi nelle nostre accademie, nonostante tutto, ci sono ancora molti artisti di valore ma trascurati dal mercato e dalla scena dell’arte, ci sono uomini che portano avanti con coerenza le loro ricerche ma frustrati dall’inutile rincorsa ad un “sistema dell’arte contemporanea” che risponde ad altre modalità e ad altri interessi. Emilio Vedova a Venezia, Alik Cavaliere e Luciano Fabro a Milano, ma in passato anche Casorati a Torino, Morandi a Bologna, Monachesi o Scialoia a Roma, Perez a Napoli e tanti altri artisti ancora sino ai nostri giorni, hanno dato senso alle accademie apportando nuovi progetti didattici in assoluta continuità con le proprie esperienze artistiche. Forse dovremmo riflettere su questi temi e trovare la forza e la determinazione per affermare le nostre posizioni con spirito di gruppo uscendo dall’inutile isolamento individuale nel quale un po tutti ci troviamo a lavorare delusi e quasi disillusi. Le accademie sono luoghi di aggregazione, confronto e laboratorio di idee, come tali potrebbero elaborare nuove risposte ad un sistema dell’arte divenuto troppo noioso, conformista e prevedibile, forse perchè troppo allineato al funzionamento della moda e del consenso. L’arte contemporanea, infatti, non è più tale perchè si esprime nel presente ma perchè si identifica in un sistema internazionale che risponde ad un codice preciso. Un “sistema” e come tale, con le sue regole, i suoi templi, i suoi sacerdoti, con le sue divise estetiche. Un “sistema”, appunto, e come tale, una scatola chiusa e proprio per questo motivo divenuto paradossalmente “accademico”, virtuoso, decorativo. Le Accademie invece non rispondono più a modelli culturali ed estetici come lo sono stati in passato qello neoclassico e romantico, paradossalmente sono rimaste talmente fuori dalle strategie da essere oggi più avanti, più libere, più capaci di elaborare nuove idee! C’è una generazione di artisti-docenti che, pur nella diversità dei singoli percorsi artistici, può oggi rivendicare una comune identità di provenienza e nuove prospettive. LUCIANO FABRO maestri storici 4 L.Fabro, tre modi di mettere le lenzuola (Photo Giovanni Ricci). “Con comme un peintre” Sciatteria e rigore nella storia dell’arte di Fabro * di Raffaella Pulejo maniera monca, perpetrando la separazione netta tra la dimensione del “fare” arte e quella del “teorizzare” sull’arte. Chi lavora in queste istituzioni conosce l’ineguagliabile valore di pensare la teoria nei luoghi e a contatto con chi l’arte la pratica e nel contatto con coloro che vogliono impararla. La storia dell’arte nasce nelle accademie a opera degli artisti. In un tempo lontano, alle origini della modernità, a Firenze. A Giorgio Vasari si deve la fondazione della prima accademia e le due prime monumentali Vite degli artisti. Vasari non è il primo artista a scrivere di arte, ma è il primo a scrivere in maniera sistematica e a sancire la necessità che all’arte si accompagni il pensiero sull’arte. La storia dell’arte naturalmente si evolve nel tempo, diventa disciplina insegnata nelle università, produce figure professionali che progressivamente si separano dalle figure degli artisti, i quali a loro volta vengono ‘scippati’ dalla parola, laddove essa non sia pura dichiarazione di poetica o dichiarazione programmatica. […] La conseguenza estrema di questo furto, è che all’artista resta lo spazio di espressione determinato dal comportamento, il comportamento bizzarro che il senso comune riconosce ancora pigramente come patologia del genio e carattere distintivo di ogni forma di artisticità secondo un’attitudine che oscilla tra le due “figure”, entrambe sintomo di alienazione sociale, della sciatteria e del dandismo. “La sciatteria” è il titolo dell’ultimissimo paragrafo dell’ultimo capitolo del libro di Fabro Arte torna Arte. […] “Che cosa c’è di più artistico della sciatteria? Essa ha come opposto la ricercatezza e l’affettazione. Per tradizione romantica -- scrive Fabro -- l’artista è trascurato nel vestire, insensibile alle convenzioni sociali; trascurante della propria persona e dell’effetto che fa sugli altri al punto di voler essere indisponente. Oppure, all’opposto, teso ad esibire la sua ricercatezza al punto di renderla indisponente quanto la sciatteria. Anzi fa portare la sciatteria al punto di farla combaciare con la ricercatezza: dandismo.” Scambiata per una caratteristica propria dell’artista, la sciatteria diventa una specie di rogna, spacciata per attributo distintivo del genio, si trasforma in una malattia della pelle che respinge allo sguardo, un segno distintivo di emarginazione sociale. La sciatteria è probabilmente il primo impatto che molti ricevono oggi dalla Accademia. Una forma di sciatteria che si accompagna a un senso di abbandono, di dissoluzione per inedia, la cui reazione, per contrasto, è una specie di snobbismo, un’attitudine a “marciarci” traendo vantaggio dal lassismo generale, per poi disprezzarlo come se non ci riguardasse. La sciatteria, in questo senso, è qualcosa di più grave del disordine. Il disordine si genera perché abbiamo qualcosa di meglio da fare, porta una traccia di volontà. La sciatteria porta l’impronta del vizio capitale dell’accidia, generato dall’impotenza della coscienza, dal lasciarsi andare e dall’abbandono della responsabilità. È ancora una volta al tema della responsabilità che Luciano Fabro ci richiama. […] Egli procede nei suoi scritti per coppie di opposti, secondo un sistema binario. Ecco, opposta alla sciatteria, l’altro polo necessario alla dimostrazione. C’è poi un altro modo, considerato dagli stranieri tipicamente italiano, che riguarda la tecnica artistica, … Il termine usato è sprezzatura e sta ad indicare un signorile distacco dall’esibizione tecnica, dalla pignoleria nelle finiture, dalla stessa bravura; tutto ciò a favore di una naturalezza coltivata ed esibita come mancanza di riguardo verso la cortigianeria, l’accademismo, la puntigloisità artigianale e l‘applicazione servile volta a distrarre la fatica e l’abilità meccanica. La sprezzatura è la naturalezza declinata nell’arte, è per così dire il manifestarsi della sua più intima natura. I passaggi dimostrativi fanno parte del discorso logico e del discorso filosofico. Ma l’arte come la natura mantengono i loro passaggi impliciti. Nella natura le cose complesse si danno in un tutto immediato, la natura non spiega 5 maestri storici “Con comme un peintre”. Così esordisce Luciano Fabro in una lezione tenuta nel 1997 ai suoi studenti dell’Accademia di Brera, ripetendo un modo di dire francese. “Scemo come un pittore”: è il punto di partenza del senso comune riguardo il mestiere dell’arte, un mestiere, appunto, che non assume dignità di pensiero (bene lo sa chi conosce le difficoltà in cui versano le accademie nel loro osteggiato riconoscimento di formazione di livello universitaria!). Il tentativo è quello di costruire una cortina difensiva, dice Fabro ai suoi studenti, contro il sentimento diffuso che non riconosce a coloro che vogliono fare l’arte la responsabilità etica che questo ruolo comporta. Nel tempo gli artisti si sono preoccupati di riscattare una propria dignità personale o collettiva; alcuni invece ci “hanno marciato” perché questo li deresponsabilizzava dalla ricerca, dal ruolo culturale ed etico del loro lavoro. “Oggi questo è un problema molto grave e molto sentito.Voi qui – dice Fabro agli studenti -- vi trovate a dover fare questa operazione di riscatto e il modo è quello di guardare a esempi di persone che hanno vissuto a stretto contatto con gli artisti, che hanno condiviso delle responsabilità, si sono presi in carico la responsabilità dell’arte e degli strumenti dell’arte; persone che vivevano in un contesto in cui arte e artisti si prendevano delle responsabilità che erano fuori dal puro mestierismo dell’arte. ” Il termine “responsabilità” batte come un martello nella lezione, negli scritti e nell’opera di Fabro. La lezione, documentata in un film di Giampaolo Penco (e proiettata al termine delle giornate di studio che si sono svolte in Accademia lo scorso febbraio), è dedicata a Spinoza. Il pensiero del filosofo è utilizzato come metodo di analisi delle opere degli artisti olandesi suoi contemporanei: Vermeer, Rembrandt, Ruysdael, Seghers, Saenredam. La modalità è quella di una conversazione ‘socratica’ tra maestro e allievi, costruita tra affermazioni, domande, obiezioni, nell’aggiustamento progressivo di tiro e nella mesa a fuoco di una idea. L’idea spinoziana di un Dio, distante da quello trascendente della tradizione biblico-cristiana, inteso come struttura razionale di tutta la realtà, causa immanente e coincidente come logos con la Natura stessa, apre alla lettura dello spazio descritto dagli artisti olandesi del seicento come luogo della sensazione. Artista e spettatore, non più esterni allo spazio dell’opera, vi sono ora immersi. Lo spazio non è un “vuoto” riempito di oggetti , ma un tutto, sostanza fatta di materia rarefatta o addensata che emette luce piuttosto che rifletterla. Le differenza tra la visione degli artisti nordici rispetto a quelli dell’area del Mediterraneo influenzati dalla visione trascendente della realtà appare dal confronto di opere contemporanee dell’età barocca: l’addensarsi di oggetti del barocco mediterraneo si oppone al rarefarsi dello spazio descritto dagli artisti nordici che appare svuotarsi, ripulirsi, superare il descrittivismo e l’horror vacui della precedente tradizione nordica. Eccezioni in area mediterranea, Velasquez e Bernini. Precursori, l’ultimo Tiziano e El Greco. […] Non a caso la lezione ripresa da Penco si svolge sul loggiato della Pinacoteca: Fabro e i suoi studenti sono seduti all’esterno, in corrispondenza della sala dove sono esposti la Pala di Piero della Francesca e il Matrimonio della Vergine di Raffaello. Il rapporto con la storia dell’arte nel pensiero di Fabro è fortissimo e, mi sembra, inedito tra gli artisti contemporanei nella compiutezza di sistema. Un sistema che credo andrebbe ricostruito con attenzione, proprio perché nella storia di Fabro, una parte importante è impegnata nel ruolo di docente e di maestro. Per di più un maestro che possiamo conoscere non solo dalla sua opera di artista e dalla qualità o dal successo di molti fra i suoi allievi, ma anche dai suoi scritti. Ritengo essere questa una testimonianza straordinaria di quanta arte e storia dell’arte si faccia dentro istituzioni bistrattate nel sistema della cultura in questo Paese, con il risultato di un impoverimento intellettuale dell’arte ridotta a “sistema dell’arte” da una parte, e dissipazione di un patrimonio di idee che nella migliore delle ipotesi sopravvive in maestri storici 6 niente. In essa la verità si dà in modo semplice, mentre la struttura resta nascosta, segreta. […] Il testo che fonda e diffonde il concetto di sprezzatura è il Cortigiano di Benedetto Castiglione (1° ed. Venezia 1528). Un gruppo di nobili si riunisce nel palazzo di Guidobaldo da Montefeltro in Urbino e decide di formare con parole un perfetto cortigiano, evitando le prescrizioni di comportamento pratico a corte ma procedendo attraverso sequenze dialogiche per definire il suo modello generale, la sua forma. Il discorso che forma questo Cortigiano “perfetto” si costituisce tutto a partire dall’enunciazione di una “regula universalissima”: “Fuggir quanto più si po’, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e , per dir forse una nova parola , usar in ogni cosa una certa sprezzatura che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi” (cap1 par26). Questa regola della sprezzatura si fonda sul principio della grazia. A sua volta la grazia nasce dal fuggire l’affettazione, in quanto pratica dell’eccesso, del visibile, dell’ostentato, manifestazione dello sforzo, della fatica; dall’usare in ogni cosa la sprezzatura (disinvoltura), in quanto pratica che dissimula lo sforzo e la fatica, nasconde l’eccesso. Tra nascondere ed apparire, si costituisce lo spazio della grazia : insieme simulazione e rappresentazione. La scena della Corte, dei rapporti sociali detti e agiti, è essenzialmente sotto il segno di una teatralità globale. In età manierista il termine “sprezzatura” viene usato dagli artisti e sopravive con una caratterizazione in senso stilistico nell’età barocca. […] Qui il paragone con il Cortigiano viene forzato da Fabro in una direzione antitetica a quella implicita nel testo di Castiglione, rivolta alla convenzione sociale assunta a modello di vita forzato per gli artisti che dalla condizione rustica delle botteghe, si trovava a vivere alle dipendenze di un signore, nei tempi e nei modi della vita cortigiana. La sprezzatura nel testo di Fabro si riferisce alla natura dell’opera, nella quale la rappresentazione dell’artista, come attore sociale, sparisce. La sprezzatura è l’affermazione autorevole di andare dritti al risultato… Nella sprezzatura non è ammesso l’errore, né il superfluo né la compiacenza; ma neanche la supponenza, l’approssimazione. La sprezzatura, vale a dire l’indifferenza a essere apprezzati, si colloca al vertice opposto della sciatteria… La sprezzatura è il camminare su un filo solo perché è il tratto più breve del percorso, o carponi per guardare meglio il suolo. E’ l’aspetto semplice, scarno, francescano, aristocratico che ha l’Arte povera quando si muove con arte, ed è la qualità, l’aspetto che viene a perdere quando si muove con brutalismo manierato (rigida pignoleria dell’arte programmata/ Optical e la successiva minimal.) La sprezzatura è il frutto di un’ascesi, di un distacco dalle apparenze, dagli effetti superficiali, dal ridondante, dal superfluo. Con un termine molto contemporaneo potremmo dire che si tratta di un atteggiamento anticonsumistico delle idee, dei materiali, delle tecniche, degli atteggiamenti stessi. La sola persona che riesce a tenere le redini di questi due opposti è l’artista.” Il percorso che porta fino al raggiungimento della sprezzatura è rigoroso, richiede all’artista un controllo in ogni passaggio. All’inizio c’è il lavoro e l’opera nasce debole, vulnerabile, deve conquistarsi un posto nel mondo. Eleva la natura di grado assumendone il procedimento intrinseco, oppure si ubriaca di tecnologia e, come nelle colture intensive, “impoverisce il terreno” alla ricerca del massimo sfruttamento e del massimo consenso. “Ma tutte queste arti, pur diverse nel senso e nella qualità hanno un elemento in comune: la difesa del lavoro. L’artista del consenso perché deve diventare esemplare; l’artista artista perché non c’è nessun altro che lui che può farlo” […] *(estratto del contributo per il convegno. Le parentesi quadre indicano i tagli del testo originale) *Raffaella Pulejo è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Brera e membro del CNAM. Luciano Fabro con i suoi allievi, Accademia di Brera la casa degli artisti 7 L.Fabro in diversi momenti nella casa degli artisti, Photo G. Ricci maestri storici “Giornate di studio” Luciano Fabro 8 L.Fabro, Italia d’oro (Photo G. Ricci) Il 3 e 4 febbraio 2010 le Scuole di Comunicazione e Didattica dell’Arte e la Scuola di Pittura dell’Accademia di Brera hanno promosso due giornate di studio a cura di Laura Cherubini e Raffaella Pulejo, sulla figura di Luciano Fabro, mirate soprattutto a una messa a fuoco del suo ruolo di maestro all’interno dell’Accademia. Gli interventi dei relatori invitati hanno affrontato aspetti della opera artistica di Fabro in stretta relazione con la sua didattica, il ruolo di fondatore, con Jole De Sanna e Hidetoshi Nagasawa, della Casa degli Artisti e la sua relazione con gli artisti delle più giovani generazioni che con lui si sono formati presso l’Accademia. Di qui la scelta di alternare interventi di studiosi che a diverso titolo hanno avuto relazione con Fabro, con i contributi di alcuni dei suoi allievi (Airò, Caravaggio, Moro, Rudiger). L’iniziativa ha voluto di aprire una riflessione sulla figura di Fabro come teorico e docente all’interno dell’accademia in cui ha insegnato dal 1983 al 2002, e che molto gli deve, senza la pretesa di essere esaustiva, con il proposito di proseguire nel tempo gli studi sul suo importante contributo. La pubblicazione degli Atti che le curatrici si propongono di portare alla luce entro l’anno, sarà un passo ulteriore su questa strada. La fine in realtà era l’inizio Gianni Caravaggio su Luciano Fabro La mostra al Madre di Napoli era pensata e ideata da Luciano Fabro stesso per marcare il significato dell’inizio, l’ ABC enunciativo di un giovane artista in cui in nuce è già inclusa l’idea dei lavori futuri. Siccome Fabro era tutt’altro che un formalista quell’ ABC è da considerarsi l’enunciato di una sensibilità psicofisica che è ricorrente fino all’ultimo lavoro realizzato. L’ evolversi della sensibilità scarta innanzitutto la maniera o il regresso poetico: non esiste una maniera o una ricetta Fabro ma una sua sensibilità. Gli ultimi quindici anni di lavoro di Luciano sono quelli in cui a mio avviso ha egli ha raggiunto l’apice dell’suo lavoro sia come opera che come riflessione teorica indicando alle generazioni future la via essenziale dell’arte. Su Luciano vorrei dire che non ha mai dimenticato il cuore del principiante. Era sempre vicino al cuore dei principianti. Con il senno di poi penso che la motivazione fosse che il principio per lui rappresentava la questione essenziale dell’arte. 1Intervista con Carla Lonzi, in “Marcatre”, 19-22 aprile 1966, ripubblicata in Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato, Bari, 1969) si avvizziscono, si protraggono oltre misura, ciò dipende dal fatto che non si verificano gli atti artistici necessari […]”. Una volta definita la natura dello stimolo originario e il suo vitale destino, si definisce l’essenza dell’esperienza e quindi della forma come funzione e testimone dello stimolo vitale. L’opera Sisifo che Fabro fece nel 1994 è il frutto lampante di tale pensiero. Il mito di Sisifo diventa il ritratto dell’artista che, immerso in una situazione di vuoto di senso, incarna l’atto artistico per generare l’opera e sé stesso. Così si crea senso. Sulla parte curva del cilindro di marmo, infatti, è incisa la figura dell’artista in posa d’Atlante e raffigurato come satiro. Invece sulle due basi si trovano la costellazione astrale dell’emisfero sud da una parte e dall’altra quella dell’emisfero nord. In questo modo l’atto artistico, incarnato dalla figura dell’artista, si trova in uno spazio immaginativo riproducendosi però in una sua traccia fisicamente reale: l’impronta sulla farina. Nell’opera Il giorno mi pesa sulla notte 1 già il titolo, inserito come parte integrante dell’opera, suggerisce come l’artista incarni quell’immagine cosmica che crea il susseguirsi di giorno e notte, il passare del tempo come sensazione fisica o come stato d’animo. Una scheggia di marmo rosa del Portogallo giace sulla parte scheggiata di una colonna di marmo scuro dalla forma particolare. Il tutto è appoggiato su delle biglie di vetro. Da una parte della scheggia di marmo rosa s’irradia un rilievo di cerchi concentrici. La colonna su cui giace è inizialmente di sezione ottagonale ma prolungandosi diventa ovale come se volesse cercare di stampare nello spazio la costellazione astrale che ha impresso sulla sua superficie. In Il giorno mi pesa sulla notte 2 una forma di marmo rosa del Portogallo scolpita in modo roccioso è posata sull’interstizio di due colonne di marmo marquiña posizionate in modo parallelo. Mentre sul fusto delle colonne si trovano delle costellazioni astrali in forma di punti d’oro la sezione delle colonne è lavorata in modo tale da suggerire un arrotolarsi e uno srotolarsi della volta celeste. Tale movimento sembra rendere possibile il sorgere e il calare del sole. L’opera Sole si presenta in modo rudimentale come una colonna di marmo bianco di Carrara posata a terra e segmentata in sette fette. In particolare ogni fetta presenta una variazione che consiste in un buco di forma poligonale partendo dal triangolo. Da tali figure, con una lavorazione essenziale, si formano gli angoli di varie stelle. L’interno crea un’immagine radiante e vorticosa. Luciano mi disse a proposito di tale lavoro che la successione delle fette poteva subire delle variazioni. Prima di tenere la lezione in aula 4 Fabro aveva letto ”Atto artistico” alla conferenza tenuta in occasione della sua mostra personale al museo di San Francisco nel 1992. In platea c’era Tom Friedman che dopo la conferenza era andato da lui a conoscerlo. Un anno dopo, nel ‘93, conoscemmo insieme Gabriel Orozco alla Biennale di Venezia: Fabro esponeva le sue opere nel padiglione Italia e noi, il gruppetto di allora della casa degli artisti, eravamo lì a presentare Sacco, una raccolta di scritti. Sono sicuro che la mostra di Luciano a San Francisco abbia influenzato sia Friedmann che Orozco, indicando ai giovani artisti emergenti una via di uscita dallo strutturalismo rigido dell’arte contestuale socio-politica a favore di un’attenzione rivolta al processo artistico e a una poesia creatrice. In “atto artistico” come abbiamo detto Fabro distingue l’opera d’arte dall’atto artistico, ovvero quell’istante di coscienza meravigliata del mondo di cui l’opera d’arte è la testimonianza. Orozco allo stesso modo mi disse che lui si meraviglia della realtà facendone così esperienza attraverso una scultura se possibile, altrimenti con la foto. Anche lo sguardo della prima fase di lavoro di Friedman è quello della meraviglia, un elemento raro nel contesto dell’arte contemporaneo. Credo che il pensiero dell’immagine naturale sia una presa di coscienza rispetto alle opere prodotto dopo l’atto artistico. In immagine naturale Fabro sembra voler soffermarsi e indicare l’immagine a noi naturale, ovvero un’immagine che fa parte di noi, che ci costituisce. Luciano dice: “l’immagine naturale è quella che viene fuori sia dalla cosa direttamente verso di noi, sia da noi verso la cosa”. Penso che questa questione essenziale sia una questione aperta e sia la fondamentale eredità di Fabro. Sono convinto che l’opera Inverno segni il vertice di questa eredità. La prima sensazione davanti all’opera è di una grandiosità immaginativa e al contempo anche di estrema naturalezza espressiva. È un’immagine che è cresciuta dentro di me e che ancora sta crescendo. In questi ultimi anni è risorta in molti giovani artisti la processualità e con essa il concetto di temporalità degli anni Settanta. Però 9 maestri storici / testimonianze La fine qui si mostra come l’essenza dell’inizio. La mostra al Madre oltre al titolo ufficiale “Didattica magna, minima moralia” aveva un sottotitolo intimista: “ricomincerò...” Nelle mostre come questa ultima progettata da Luciano, il lato intimista apre sempre una riflessione generale sull’arte (interviene sul suo stato di salute e in questo è molto duchampiano): con questo ricominciare dall’ ABC Fabro mette in mostra anche un vuoto poetico generale nel pensiero del sistema dell’arte contemporanea. Penso che da tempo Luciano avvertisse che la dedizione e l’intelligenza da parte degli artisti delle ultime generazioni per creare un proprio ABC visivo/sensibile/pensiero venisse sempre più a mancare a favore di una velocità di carriera che favorisce più “un copia e incolla” di ricette di successo. Penso che questa mostra dovesse essere un segnale in questo senso. Un lavoro dell’ABC di Fabro, Ruota del 1963 getta un ponte psicofisico su Sisifo del 1994, su Il giorno mi pesa sulla notte, 1995-2000, La lune s’allume, del 1997, Sole sempre del 1997 e infine su Inverno del 2007. La fine abbraccia l’inizio rivelandosi come il continuo iniziare… Ruota: la dinamicità tra le cose del mondo, la sentiamo perché anche noi siamo inclusi nei rapporti dinamici con le cose, ed è proprio per questo che l’azione instabile della ruota sulla barretta si svolge in noi stessi. La dinamicità del lavoro Ruota è la dinamicità in noi stessi. Tale esperienza si sensibilizza fisicamente nell’osservatore che così sente se stesso. Fabro parla di mettersi in atteggiamento di attenzione, dice: “Ho capito che attraverso la riproposta dell’oggetto in sé non ne riproponiamo l’esperienza: il problema sta ancora al di là. Non è il processo figurativo anche a livello tautologico che ci propone la cosa, ma c´è un diverso elemento che deve concorrere. Una barra tesa, la sento tesa, è ben diversa da una linea con la stessa forma. Io intendo ricuperare quel momento lì.1” Dall’atto artistico all’immagine naturale I lavori prodotti negli ultimi 15 anni come Sisifo, Il giorno mi pesa sulla notte, La lune s’allume, Sole e Inverno sono legati a due riflessioni di estrema importanza. Mi riferisco ai testi: “Atto artistico” del 1993 e “Immagine Naturale” del 1997. La presenza dello stimolo avvia la possibilità dell’esperienza e dunque il formarsi del linguaggio e della figurazione. Tale consequenzialità presuppone una continuità evolutiva dello stimolo compiuto dall’artista che crea l’opera. Tale continuità tra stimolo e memoria, ovvero tra stimolo e figurazione che ne consegue, fin dall’inizio del Novecento appare in pericolo. La critica di Walter Benjamin alla modernità è che sia caratterizzata da un senso del tempo fatto di attimi, di shock scollegati tra loro, una visione del tempo fondatrice dell’estetica dell’ evento, della trovata e della notizia, che mette ampiamente in crisi il senso di evoluzione. Per rifondare il concetto di esperienza era necessario ridefinire il concetto di stimolo. Nella conferenza “Atto Artistico” tenuta nell’aula 4 il 6 aprile 1993 all’Accademia di Brera davanti ai suoi studenti, Luciano Fabro definisce l’atto artistico come uno stimolo che viene colto dall’artista e l’artista come colui che per testimoniare tale atto crea l’opera d’arte. Fabro continua dicendo: “[…] L’atto artistico sarebbe la scintilla che precede il momento dell’attuarsi dei fenomeni, dei mutamenti, delle scoperte, delle invenzioni, della nascita dei sistemi. […] Noi generalmente facciamo più attenzione ai momenti successivi all’atto artistico, perché ci sembrano più concreti. Ma, ripeto, tutto era già avvenuto. Dopo non possiamo che valutarne le conseguenze, in un campo o nell’altro […]. E così sono arrivato al punto, credo abbastanza chiaro per dire che l’atto artistico si distingue anche dall’opera d’arte come tale. Così fare opere d’arte non vuol dire di per sé vivere atti artistici, ma vuol dire prendersi la responsabilità di trasmettere l’atto artistico stesso. L’artista è colui che attua l’atto artistico in immagine , in ciò che i maestri d’arte, i Greci, chiamarono “idea”. L’atto artistico “si verifica solo quando è necessario. Se però quando fosse necessario non si verificasse, noi avremmo la fine di quell’essere. Io credo che quando succedono fatti artistici c’è da stare allegri. Ma una volta capito che la manifestazione di un fenomeno è una questione d’arte, sorge un senso di responsabilità che invece non rende molto allegri. In pratica quando le cose stanno morendo, credo che la riconsiderazione della materialità, dell’effimero, della performatività rimane ancorata nel passato se non si affronta la questione dell’immagine che è stata bistrattata come oggetto di consumo dalla postmodernità. A mio avviso l’immagine si rinnova evocando l’immaginazione dell’inizio (inizio non nel senso cronologico) l’inizio nel senso di un gesto iniziale dell’arte tout court - l’immagine costituisce e si costituisce in questo gesto inaugurale. Solo allora tale immagine incarna il processo-tempo e significato.Fondamentalmente quindi non si tratta semplicemente di non rimanere ancorato nel passato ma si tratta di una questione di essenza, si tratta dell’uomo che, ritrovando la sua immagine, ritrova sé stesso nell’opera d’arte. Tale questione oggi mi pare la più urgente, è la questione aperta ed è quella più fresca. In questo le opere Luciano Fabro, e penso in particolar modo a Sisifo, Il giorno mi pesa sulla notte o a Inverno danno importanti indicazioni. 10 Pietro Coletta, a proposito di Fabro Nel 1969, ancora studente all’Accademia di Brera, presi un affitto uno spazio in corso Garibaldi 44, come atelier di scultura che in seguito divenne anche la mia abitazione. Un giorno vidi a pochi metri dal luogo in cui lavoravo una porta verde con l’iscrizione “Fabro”. Pensai: <<Bene, sono fortunato ad avere come vicino un fabbro per il mio lavoro. Sarà comunque bravo, anche se ha dimenticato di aggiungere una “b” alla scritta>>. Un giorno vidi vicino alla porta verde un giovane snello, accovacciato mentre impastava il gesso in un bacile. Mi avvicinai, lo salutai e gli dissi: << Ma il fabbro di solito lavora il ferro!>>. Mi guardò sorpreso e immediatamente si aprì in un dolce sorriso. Quello stesso sorriso che mi apparve in sogno la stessa notte delòla sua dipartita mentre usciva da quella porta verde spingendo una grande scultura su due ruote di luce. Sorpreso gli dissi: << Luciano, dove stai andando?>> . MI guardò e rispose solo con lo stesso sorriso del nostro primo incontro: quel sorriso dolce, plasmato da mani invisibili annegate nel magnetico pallido gesso vomitante pensieri arcani di memorie ancestrali echi di materia antica alchimie poetiche disegni sognati dalle mani dell’anima affondate nel pallido gesso ricordo di quel dolce sorriso. “Tutte le volte che lo incontravo lui sorrideva” Gastone Mariani (in apertura del Convegno) G.Caravaggio, Principio con testimone, 2008, dimensioni ambiente. maestri storici / testimonianze Quel dolce sorriso P. Coletta, barchetta al vento IV, 2004, rame e ferro cm. 58 x 100 x 116 h. Un ricordo di Luciano… Hidetoshi Nagasawa su Fabro H.Nagasawa, Tate no me, 2007, legno e ferro, 320 x 700 x 700 cm 11 maestri storici / testimonianze La prima volta che ci siamo incontrati era il 1968, pochi mesi dopo che sono arrivato in Italia. La prima cosa che ho fatto è stata cercare uno studio a Sesto San Giovanni; a fianco c’era Castellani e in un altro palazzo vicino c’era lo studio di Luciano. Ho conosciuto prima Castellani di Fabro, e Castellani ogni tanto mi sollecitava dicendomi: ‘vai a vedere e a fare visita a Luciano che sta facendo qualcosa d’interessante’. E così un giorno con un mio amico francese che lo desiderava sono andato a casa di Luciano. Il mio amico francese mi ha presentato a Luciano con queste parole: ‘ ti presento questo stupido giapponese Nagasawa’. E allora Luciano ha risposto: ‘Molto piacere, sono stupido Fabro’. Così, tra stupidi, siamo rimasti amici quarant’anni. E noi facevamo spesso feste allo studio di Sesto San Giovanni, bevevamo vino cattivo e poi il giorno dopo la mattina era impossibile alzarsi; poi però la stessa sera facevamo un’altra festa. Un giorno Luciano aveva la febbre e diceva che non poteva bere, allora io mi sono ricordato che avevo un’ultima supposta di quelle che avevo portato dal Giappone sigillata dentro una capsula, lui l’ha utilizzata e poi quando mi ha riportato il contenitore ho visto che al suo interno l’aveva scritto il suo nome, Luciano Fabro. Questa cosa mi è piaciuta moltissimo. Ricordo anche che un giorno, che era venuto da me e aveva ascoltato una certa musica che aveva molto apprezzato, allora io gli ho prestato questa cassetta con il nastro e quando una settimana dopo me l’ha restituita e io l’ho inserita nel registratore non suonava più. Allora l’ho tirata fuori è ho trovato che con questo nastro, che era sicuramente vecchio e si era spezzato in due, Luciano aveva fatto un nodo: idea semplice e geniale. Ho sempre conservato la cassetta. Io credevo che lui mi avesse fatto uno scherzo, e invece no, lui l’aveva fatto seriamente, infatti quando raccontavo l’episodio lui stava malissimo; infatti è solo adesso che posso raccontarlo. Più di vent’anni fa, circa venticinque, abbiamo avuto la grande fortuna di vedere i disegni originali di Leonardo da Vinci alla Pinacoteca Ambrosiana. Eravamo solo in quattro: Luciano, Iole De Sanna, la sorella di Iole ed io. Abbiamo incominciato ad aprire con forte emozione questi disegni originali tenuti in cassaforte e molto difficilmente accessibili. E Luciano girando questi disegni tremava così tanto che ha spezzato qualche centimetro della superficie della carta. Allora io ho detto: ‘Ma Luciano!...’ e quando io ho detto ‘Luciano’ La mia saliva è caduta su un disegno! In questo modo abbiamo fatto un danno terribile… però questo è un segreto, per favore non divulgatelo! Dal 1972 al 1975, per tre anni, abbiamo affittato una casa sulla collina di Camaiore, si chiama Casa Rossa. L’abbiamo affittata tutti insieme, Luciano, Trotta, Tonello ed io, e poi venivano tanti amici a trovarci. Andavamo spesso, poi un’estate Luciano ci ha detto che doveva realizzare Spirato ma da solo non era possibile farlo perché lui doveva stare sotto, allora abbiamo lavorato insieme; Luciano era nudo sotto il lenzuolo mentre Trotta, Tonello ed io abbiamo gettato il gesso. Ci abbiamo messo diversi giorni ed è stato molto divertente. Luciano sotto il lenzuolo sapete cosa faceva? Teneva il dito in posizione eretta. Poi mi ricordo che una volta alla Pinacoteca di Brera davanti al Cristo morto del Mantegna lui mi diceva: ’Vedi, questo Cristo è vivo’, ed io ho capito subito che faceva questo gesto. Poi era un modello, e quindi il modello di Mantegna doveva essere vivo. L’avevo capito subito e penso che anche sotto il lenzuolo dello Spirato … ma nessuno l’ha mai detto, sono io che immagino questa cosa bellissima. Anche per esempio a proposito della maschera di Tamerlano [196869] io credo che sicuramente dietro c’è Luciano, perché se no che bisogno c’è di carne? Lui è stato sempre così. Anche la prima volta che sono andato a vedere il suo studio e lui aveva appena finito quel suo famoso lavoro Davanti, Dietro, Destra, Sinistra, Cielo. Tautologia [1967-68], bellissimo lavoro, anche davanti a questo lavoro lui “girava sfuocato”, ma è molto significativo perché lui non era lì ma da un’altra parte dell’opera. E anche per esempio Zampa, che ho visto appena l’aveva realizzato, mi sono ricordato subito del matematico Newton perché Newton spesso partecipava a concorsi di matematica in modo anonimo; allora gli altri matematici dicevano:’ È inutile che si nasconda. Se si vede la zampa si capisce subito che è di leone’. Ricordo anche nel 1987 quando con le nostre famiglie abbiamo fatto un viaggio in Turchia durato circa un mese, spostandoci con diversi mezzi, dall’automobile al cammino a piedi, il momento in cui siamo arrivati a Efeso: era pieno di Luciano. Perché ormai Efeso l’ha fatta lui e la Turchia ai miei occhi era un luogo dove c’erano tanti Luciano. E lui stesso diceva ‘Ecco, vedi!’. Io penso che finché si è sentito giovane non soffrisse tanto, ma poi, da più anziano credo che soffrisse della grande quantità d’idee che aveva e che non avrebbe più potuto realizzare, non certamente tutte. Perché quando lui realizzava un’opera, certamente ciò è vero per tutti gli artisti ma per lui specialmente, aveva un’idea ma anche le necessarie idee per nascondere questa idea: quando un’opera è finita l’idea non si deve vedere. Allora tutti questi lavori… Io penso che nell’universo c’è una corrente, una grande corrente d’idee, e questa finisce nel mare; ecco Luciano è venuto da lì, mentre noi, ‘artisti normali’, viaggiamo verso quella corrente delle idee, a volte qualcuno ci arriva, ma nessuno ti dice di esserci arrivato; ecco, lui invece è arrivato da lì, al contrario. E poi è tornato al suo posto. testimonianze 12 Photo dell’Archivio di Fabrizio Garghetti, Milano ACHILLE BONITO OLIVA Conversazione tra Achille Bonito Oliva ed Elisabetta Longari sulla scultura, su Fabro ed altro ancora. La scultura oggi: ti sembra lingua morta o viva? Ha senso parlare ancora di scultura e se sì in che modo, quali sono le sue prerogative? L’occupazione dello spazio, l’installazione è scultura? Su questa domanda che già si pose Arturo Martini feci una mostra che si chiamava “La lingua morta della scultura” proprio per affermare che la scultura non è morta perché è uscita dalla sua canonica e statica tridimensionalità per spostarsi nella quarta dimensione che è l’installazione. Io dico che la scultura in sé è un genere che vuole essere perdonato, in quanto è di un’invadenza spesso retorica e monumentale. Nell’arte contemporanea nel momento in cui esisteva ancora una netta distinzione tra arte e vita la scultura sembrava costituire una soglia invalicabile, in realtà poi nel suo passaggio a una fluida quarta dimensione che è quella dell’installazione possiamo dire che la scultura è diventata invece un luogo di slittamento, d’intersecazione, d’intreccio, di cortocircuito tra il quotidiano e la forma che l’artista elabora, quindi il tentativo di contaminare esemplarità e normalità. Dunque credo che vista in questa direzione, in questa maniera la scultura acquista anzi la capacità di filtrare, di bucare l’immaginario collettivo, di agganciare l’attenzione del corpo sociale proprio ponendosi in una condizione antieroica, quasi di voluta riduzione di tono. L’eccentricità, che era un carattere anche della scultura contemporanea, viene superata oggi da artisti che tendono a coniugare un rapporto di scambio appunto tra arte e vita, assumendo spesso poi attraverso il discorso delle installazioni alcune tematiche che riguardano il sociale. Dunque la scultura travestita da installazione diventa un luogo che agita e massaggia il muscolo atrofizzato di una comunità ormai narcotizzata dalla telematica, dallo sviluppo della tecnica. La scultura dunque può avere la funzione di irrobustire la sensibilità pellicolare di un corpo sociale sempre più globalizzato che tende tutto sommato a chiedere a tutto ciò che è visibile semplicemente la conferma, uno status quo del proprio essere ed apparire. La scultura può avere una grande funzione, può, come dicevo, diventare sempre più arte pubblica, entrare in scala con il paesaggio urbano e in quello naturale e dunque essere una presenza capace di fare domande e di spostare lo spettatore in una condizione anche, se si può dire, di spaesamento. Mentre prima la scultura era monumentale, adornava piazze pubbliche e nella propria staticità diventava quasi semplicemente uno sfondo, un punto d’appoggio anche per pensionati e anche per animali che magari soddisfacevano lì i propri bisogni; oggi se noi pensiamo ad artisti come Vito Acconci oppure Garutti o Pietroiusti ecc…, vediamo anche che in questa direzione la scultura si vaporizza nello spazio, si smaterializza ma si concretizza nella coscienza del pubblico, e così veramente la profezia di Beuys si avvera: diventa una scultura sociale. Diventa scultura sociale non tanto la forma esterna bensì quella interna: è la coscienza dello spettatore che, attraverso la fruizione, viene modellata. Tu insegni all’Università. Qual’é il tuo metodo d’insegnamento? Da che presupposti parte e in che cosa consiste esattamente? Il mio è un metodo socratico, un metodo di scambio e di confronto, un metodo anche di allargamento dell’insegnamento, portando gli studenti anche a un impatto, a un contatto diretto con l’opera, visitando mostre, accompagnato dai miei assistenti che, in questa direzione, fanno, partendo da questo metodo socratico, un lavoro più capillare attraverso anche uno scambio più quotidiano con gli studenti. Ti dico anche che all’università ho sempre cercato un approccio interdisciplinare alla Storia dell’Arte, ho sempre cercato e difficilmente trovato la collaborazione di altri professori di altre materie ai quali io proponevo spesso di fare lezioni a quattro mani o a sei mani per creare una sorta di teatro della conoscenza attraverso la lezione. Io. Come sai, insegno a La Sapienza, Storia dell’Arte Contemporanea alla Facoltà di Architettura, e mi sono spesso scontrato con il tecnicismo dei professori che privilegiavano anche spesso la manualità e il cosiddetto proprio specifico che non dovrebbe esistere visto che l’Architettura potrebbe rappresentare quell’arte in cui convergono tutti i linguaggi, come Vitruvio una volta ci aveva fatto capire. Quale è il fatto che indicheresti come più significativo del decennio appena concluso? Non ho dubbi a indicare come evento l’11 settembre che ha dimostrato come si è sviluppata un’estetizzazione perfino del terrorismo. D’altra parte Warhol ci aveva insegnato nel 1962 con Empire State Building che è un film di otto ore a camera fissa, che riprendeva la forma immobile di questo grattacielo, dimostrando che senza informazione, che senza comunicazione, nulla esiste. Questo grattacielo che di per sé era emblematico proprio in quanto era ripreso da un video. Che cosa ha fatto Bin Laden? Ha sviluppato un doppio intervento sulle due torri: un primo intervento con il primo aereo che ha bucato il grattacielo richiamando l’attenzione della CNN, e il secondo dopo un quarto d’ora per cui live in televisione l’abbiamo visto tutti, quattro miliardi di persone in diretta. Si è trattato di un attentato che si è moltiplicato, si è liquefatto, e proprio come una macchia d’olio si è allargato negli spazi domestici di tutto il mondo. Qui sembra che il terrorismo islamico, abbia preso, e questo è paradossale, dall’Occidente questo tipo di atteggiamento, di puntare sull’informazione e sui media che amplificano qualsiasi realtà. Warhol diceva che ciascuno di noi ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità, così in questo modo sembra che il terrorismo abbia fatto proprio questo assunto, assistito dai media ha potuto moltiplicarsi, bucare non soltanto due architetture emblematiche di quello che è il potere di New York, dell’America e dell’intero Occidente, ma persistere come shock nell’immaginario collettivo. 13 testimonianze Luciano Fabro. Se tu dovessi brevemente presentarlo che caratteristiche del suo lavoro sottolineresti? Fabro è stato un artista fuori da ogni schema, un artista che ha saputo sviluppare la grande lezione di Lucio Fontana; da una parte, sul piano della propria poetica, ha intercettato il concetto di continuum e quindi ha stabilito un rapporto senza cesure tra arte e vita. Ha lavorato per “delegazione”, cioè, voglio dire, affermando i generi, ma travestendoli e attraversandoli anche con una sorta di ironia. Goethe diceva che l’ironia è la passione che si libera nel distacco, ecco, Fabro è stato un artista altamente ironico che ha saputo oggettivare, formalizzare il linguaggi adoperato per difendere l’autonomia dell’arte, e difendendola in questo senso ha sviluppato anche un forte senso politico. Ha chiesto all’arte di essere se stessa, ovvero un’attività che serve a fare domande sul mondo e sulla realtà, quindi ha sviluppato un grande punto interrogativo, chiedendo invece naturalmente alla didattica, alla scuola, alla politica di essere delle attività necessarie per dare quelle risposte sul piano operativo che l’arte non deve dare. L’arte di Fabro scavalca il presente e cavalca il futuro. Rappresenta l’applicazione di uno dei concetti fondamentali delle avanguardie che è quello di utopia, cioè del non luogo, e con le sue forme ci ha aiutato in questa deriva che non è stata mai improvvisata o casuale ma sempre ben direzionata da una forte coscienza estetica e civile. Quali sono secondo te gli attuali luoghi deputati della cultura artistica? Le Accademie hanno ancora una loro funzione formativa, caratterizzata e differente certamente da quella universitaria…? Io debbo dire che le Accademie sono antiquariali. Trovo che nulla si è mosso rispetto ad una concezione di bottega medioevale dove il fare prevale sul pensare. Ritengo che le accademie andrebbero ristrutturate. Ricordo di un progetto che avevamo elaborato all’Accademia di Belle Arti de L’Aquila durante il 1969-70. Allora era l’accademia pilota d’Italia, ci insegnavo io che ero anche vicedirettore, c’erano anche Castellani, Furio Colombo, Carmelo Bene, Fabio Mauri, ecc… Elaborammo un progetto dove s’ipotizzava un ribaltamento: un biennio prima di tipo teorico d’impostazione e un secondo operativo, dove il fare si agganciava appunto all’elaborare, ed elaborare significa partire dal riconoscimento, come diceva Leonardo Da Vinci, che “l’arte è cosa mentale”. Ora invece noi ci troviamo di fronte a un immobilismo, all’accademia dell’accademia e per questo direi che la figura di Fabro è stata una figura storica ed esemplare perché lui ha attraversato questa “palude” creando anche un gruppo operativo che, legato naturalmente alla sua mentalità, è diventato una sorta di soggetto collettivo che dall’interno ha lavorato per smantellare questo vecchio principio dell’accademia. Note sintetiche sulla scultura di Pietro Coletta Dice Goethe: “Non è sempre necessario che il vero prenda corpo; è già sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito e provochi una sorta d’accordo come quando il suono delle campane si distende amico nell’atmosfera di pace”. Quando l’artista intuisce, contatta il Divino e comprende. Quando si esprime, comunica all’umanità. Si tratta di aperture in entrambi i casi. Una sul pano verticale, l’altra sul piano orizzontale. Questo è il senso della croce. Al centro è il suo cuore. Cuore e mente si fondono e formano il “sentire”. Cos’è la scultura? La scultura a priori è di per sé spazio. Spazio nello spazio; pieno nel vuoto; materia nel vuoto; vuoto nella materia; vuoto nel vuoto; pieno sul pieno. Tautologico è il processo della metamorfosi spazio-scultura. L’intuizione è la grande forza propulsiva dell’artista, nasce nell’anima, percorre la mente, costruisce virtualmente l’essenza del pensiero e si concretizza in immagine, nel topos. Lo spazio sacro è lo spirito che prende forma, si condensa fino a divenire materia. Lo spazio profano è la mente razionale che cristallizza il pensiero in una forma, immagine materiale sovrapponendosi allo spirito, soffocandolo. Lo spazio si fa corpo in tutte le sue peculiarità come: la materia, il cromatismo, il ritmo compositivo, le dimensioni, in virtù dell’esistenza della luce vibrazionale. Il cielo notturno di infinita tenebra non esisterebbe nella dimensione siderale se non avesse infinite fonti di luce, danzanti negli spazi incommensurabili, come parametri di riferimento dimensionale, anche se illusori. In ultima analisi, tutta la nostra percezione del mondo visibile esteriore e del mondo interiore invisibile si fonda sull’esistenza della coscienza dell’io individuale: solus ipse. L’artista è un’anima risvegliata, cocreatore nel complesso processo alchemico meta-linguistico, cattura l’invisibile nella dimensione segreta e poetica dell’esistenza e lo rende visibile, riscattando in un impeto d’orgoglio la materia in spirito. coletta sulla scultura 14 °Pietro Coletta (Bari,1949), Ha studiato Scultura all’Accademia di Brera con Alik Cavaliere. Vive e lavora a Milano e in India. Al principio di Gianni Caravaggio Ho per lungo evitato di parlare del senso della scultura nello specifico perché in quanto arte si rivela nella questione essenziale dell’arte. Col tempo però la sua presenza ha richiesto alla riflessione una specifica attenzione di ciò che giaceva nell’inespresso. Posso testimoniare che fare una scultura è una necessità caratteriale essenziale che riproduce le capacità sensibili di sé fuori da sé stessi; dare visione a una visione, a un’idea, insomma a un’entità che prima della sua formazione fluttua nel nostro occhio interiore. Nell’occhio interiore la scultura giace come entità astratta o come immagine indefinita, come se questa visione per venire al mondo prendesse principio dalla nostra sensibilità fisica, dalla nostra azione materiale e solo in ultimo dalla nostra capacità visiva. Il senso scultorio, se si può veramente chiamare così, sembra svilupparsi nel buio fisico prima di avere il suo principio visivo. Vi è quasi un principio notturno che precede quello diurno – gli antichi sostenevano che fosse Apollo, dio del sole, a creare il regno delle forme e quindi della scultura. In questa riflessione Apollo diventa l’effetto successivo di una causa buia che sembra emergere improvvisamente nella nostra mente ma in realtà brulicava già in tutto il nostro fisico fino a divenire una causa ineluttabile. Sentire questo brulicare sta al principio della scultura. Sentire e individuare questo brulicare evoca gradualmente un’immagine netta che in quanto netta è essenziale. L’attenzione a tale brulicare si riflette nella mente come pensiero, ma il pensiero ne è solo una naturale conseguenza non il suo principio; è poi la scultura stessa che mette in atto in chi la osserva la relazione tra il brulicare e il pensiero. G.Caravaggio, Scenario 2, 2009, installazione Vorrei soffermarmi ancora su questo brulicare, su questo buio fisico da cui nasce l’immagine della scultura. Mi piace persino pensare che il brulicare sia già l’immagine (della scultura), un’ immagine seme come l’ho già definita, che cresce in noi gradualmente per il tempo di cui abbiamo bisogno per comprenderla. Tale tempo decide il corpo della scultura. Se però al contrario abbiamo un corpo della scultura ma non c’è stato il brulicare, allora questa scultura non corrisponde all’arte. Infatti esiste anche e soprattutto la convenzione della scultura. La scultura di chi già sa come essa dovrebbe essere o di chi vorrebbe essere rassicurato da una forma consueta. Questo è un problema che deriva da un lato da una distorsione nel modo di comprendere la tradizione, dall’altro dall’ansia di inseguire le mode. In ambedue i casi la scultura è privata del suo corpo e presenta solo la sua buccia, una buccia che inganna perché del corpo possiede le stesse caratteristiche: la plasticità, l’estensione nello spazio, la leggerezza, la pesantezza, la concretezza, la matericità, l’eleganza, la semplicità… tutto, ma privo dell’immagine seme. Al principio c’è l’immagine seme. Bisogna essere pronti e sapere accoglierla. Flessibili ad ascoltare i suoi diversi modi e capaci di pensarli. Bisogna acquisire la sensibilità necessaria a dare ogni volta un’immagine propria all’ immagine seme senza imporle i propri pregiudizi. È così che la nostra immagine seme germoglia come scultura. *Gianni Caravaggio (1968). Ha studiato Pittura all’Accademia di Brera con Luciano Fabro, Vive e lavora a Milano e Stuttgart. 15 caravaggio sulla scultura L’ARTE NELLO SGUARDO All’Accademia di Brera le lezioni magistrali dei neodiplomati Honoris Causa Roberto Saviano e Gianfranco Ravasi con le incancellabili verità messe in scena da Fabio Mauri. di Matteo Bergamini Commosso sulla mia infelicità, felice credo nel conforto della parola che svela, che degrada. Temo solo la morte, il puro fatto della morte. Tutto il resto si gioca. Pier Paolo Pasolini brera incontra... 16 Ha chiuso così, sul filo del rasoio, un Roberto Saviano insignito Honoris Causa del Diploma di Secondo Livello in Comunicazione e Didattica dell’Arte all’Accademia di Brera di Milano, lo scorso dieci Dicembre, dal direttore dell’istituzione Gastone Mariani, da Francesca Alfano Miglietti e dal premio Nobel Dario Fo, da anni il portabandiera della causa per cui l’Accademia di Belle Arti deve rimanere a Brera e non essere deportata nelle svariate sedi promesse e proposte. Un evento unico ed emozionante dove un bagno di folla ha applaudito le parole pronunciate dall’intellettuale italiano. Sulla figura di Roberto Saviano si sono spese, in questi ultimi anni, le parole più svariate, spesso becere come quelle usate dal ministro Roberto Castelli, Lega Nord, che all’indomani della premiazione, sull’affermazione dell’intellettuale per cui Milano è la più grande città del sud Italia, ha volgarmente invitato l’autore, per usare un eufemismo, “a darsi all’ippica”. Pochi hanno notato, invece, storditi dal chiasso, di avere di fronte prima di tutto un ottimo scrittore. Infiniti sono i riconoscimenti conferitegli, le cittadinanze onorarie, gli inviti a continuare a combattere e, d’altra parte, sono interminabili le minacce di morte e gli insulti con l’accusa di aver affossato la penisola scoperchiando un vaso di pandora che, tra le pagine di Gomorra, si scopre di dimensioni colossali. Come ha ricordato lo stesso Saviano durante il discorso tenuto a Brera “La camorra è la più grande azienda italiana, con un fatturato stimato dallo Stato in migliaia di miliardi di euro”. Un’azienda che allo stesso tempo è un’enorme fabbrica di sangue: oltre quattromila le vittime in poche decine di anni e un territorio, quello della pianura campana a nord di Napoli, che vive in uno stato di guerriglia perenne. L’autore di Gomorra e La bellezza e l’inferno ha ammaliato la platea per più di un’ora con una vera e propria lectio intorno ai codici linguistici della musica neo-melodica napoletana, dove ogni accordo e ogni singola parola è pronta, contemporaneamente, a spalleggiare e a condannare gli eroi della malavita locale, sceneggiando un quotidiano che è parte integrante del vivere di tutta la popolazione partenopea. Un esempio? Il mio amico camorrista, base musicale in stile Merola e un testo farcito di patetico sentimentalismo: l’amico è camorrista e la sua carriera è costellata di guai eppure, nel rione, è un riferimento per tutti. L’amico è camorrista e la giovanissima mamma spera che il figlioletto non intraprenda proprio quella strada…però in fondo in fondo, pensa, sarebbe bello: un boss della camorra è amato e rispettato e viene riconosciuto e salutato da tutti, non importa se per stima o per paura. Saviano snocciola icone e azioni difficili da comprendere se non vissute sulla propria pelle, come la curiosità dei ragazzini nei territori di guerra nel recarsi ad osservare i cadaveri subito dopo gli agguati: inconcepibile per chi non frequenta certi luoghi ma una sorta di rito, di festa paesana per le zone insanguinate dalle faide. E un modo per controllare da vicino il proprio territorio, per imparare fin da piccoli la scala delle gerarchie, per capire dove andare, come e con chi muoversi. Con l’aiuto di Youtube sono stati snocciolati i pezzi di piccole grandi star locali che conquistano enormi fette di pubblico attraverso slang dialettali in continua mutazione che fanno perno su una quotidianità composta di latitanti, di promesse spose che non possono farla franca accompagnandosi con un ragazzo “normale” (è il caso di Anna si sposa dell’ormai, purtroppo, internazionale Gigi D’Alessio) per chiudere poi con vorticosi rap che omaggiano in maniera arrabbiata i giovani morti della camorra. Per i presenti il racconto di Saviano ha segnato la possibilità di gettare un fascio di luce su una zona d’ombra abissale, su quel buio che tutti quanti pensiamo di conoscere ma del quale non si ha percezione reale: da dove arriva? Da quale fessura entra nelle nostre case? Dietro un cantante popolare, alle spalle di una maglietta, di un disco o di un cellulare piratato si nasconde questa tenebra dalla quale escono poche, pochissime, voci: tutte le altre ne sono al completo servizio, assuefatte e spesso incazzate con chi non lascia tregua al grande mostro della camorra, laboratorio di morte e forma di sostentamento, di un’occupazione ai limiti di ogni umanità. Roberto Saviano è l’ottimo maestro da cui ascoltare la possibile voce della ribellione, del desiderio di cambiare le cose: Dario Fo, nel cappello introduttivo al discorso del neo-diplomato ha esplicitamente chiesto al ricercatore –mai termine potrebbe sembrare più appropriato- una sorta di resoconto del principio della passione per la scrittura, del bagliore che spesso, quando si è ancora studenti, illumina il cammino che si va percorrendo: Saviano ha risposto glissando su agiografie e simili ma solamente dicendo che il voler scrivere, per lui, voleva essere un modo come un altro per scuotere le coscienze, per far ribollire le acque intorno a situazioni estreme. Nessuna volontà di carriera, nessun desiderio di teatralità latente ma la magia dell’idea che l’arte, sia essa letteratura, cinema, poesia o pittura, possa cambiare il mondo. Il parallelo con Pier Paolo Pasolini è quasi dovuto: Francesca Alfano Miglietti introduce la premiazione con un articolo dell’intellettuale friulano apparso sul “Corriere della Sera” il 14 Novembre 1974 con il titolo Che cos’è questo golpe? “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica laddove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia o il mistero”. Il più bel modo di omaggiare il coraggio e la grandiosità letteraria e sociologica di Roberto Saviano, di onorare e alimentare il ricordo e le lezioni di Pier Paolo Pasolini e per non dimenticare le vittime innocenti di quella strage ancora “nera”, la bomba alla banca dell’agricoltura in piazza Fontana, che proprio in quei giorni contava quarant’anni. Se i profeti irrompessero per le porte della notte incidendo ferite di parole nei campi della consuetudine, (...) Se i profeti irrompessero, per le porte della notte e cercassero un orecchio come patria. Orecchio degli uomini Ostruito d’ortica Sapresti ascoltare? Nelly Sachs Monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, riceve dal dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte, presentato da Francesca Alfano Miglietti, il diploma di Secondo Livello lo scorso sedici Marzo. Gli astanti anche in questo caso riempiono l’aula magna dell’Accademia anche se, ovviamente, il numero di pubblico nelle lotte, a risplendere. Due incontri che ravvivano il desiderio di materializzare le possibilità di due atteggiamenti che paiono sempre più vicini all’estinguersi: la passione della ricerca e la volontà di denuncia. Un finale troppo a lieto fine? ma non è obiettivo primario di tutte le istituzioni scolastiche, specialmente umanistiche, formare i giovani all’insegna della libertà di pensiero e nel coinvolgimento di azioni sociali? La terza laurea ad honorem è del 22 aprile scorso, conferita per la prima volta a un artista: Fabio Mauri. Di Francesca Alfano Miglietti, curatrice tra l’altro del volume dell’artista “Scritti in mostra” edito dal Saggiatore, la lectio magistralis, coadiuvata nel corso della cerimonia dalle relazioni di Laura Cherubini e Giacinto Di Pietrantonio. L’onoreficienza è stata consegnta ad Achille Mauri, fratello di Fabio, che, visibilmente commosso ha arricchito la cerimonia con episodi legati all’artista scomparso. Il pubblico, come sempre numeroso, ha visto la presenza dei molti amici e compagni di “avventura” di Fabio Mauri, da Lea Vergine a Inge Feltrinelli, da Tomas Maldonado a Enzo Mari. Artista immenso Fabio Mauri, di cui sono state proiettate nel corso dell’incontro le opere, frammenti di performances e interviste, l’artista che ha voluto indagare la condizione storica dell’Europa nazista e fascista, la produzione dei suoi simboli e la memoria come estetica. Un corpus di opere multiplo e sfaccettato, alcune volte vicino alla pittura altre assolutamente di tipo performativo o articolate in curatissime installazioni. Testimone diretto del Ventennio e delle sue manifestazioni, della propaganda, di una semantica disturbata intorno ai canoni dell’esistenza, amico d’infanzia di Pier Paolo Pasolini, di Alberto Moravia e Francesco Leonetti, con i quali collaborò a fondare la rivista di poesia “Il Setaccio”, durante il periodo vissuto a Bologna a metà degli anni trenta, Fabio Mauri inizia la sua attività artistica all’inizio degli anni cinquanta a Roma dove realizza i primi Schermi utilizzando tele emulsionate: gli Schermi sono esattamente il ritratto della possibilità di vedere una serie d’immagini in trasparenza, fenomeno determinato dalla nascita della televisione: Mauri però, al contrario dei protagonisti della cosiddetta “scuola di Piazza del Popolo”, più che sul flusso di immagini prodotte dal cinematografo e dalla televisione, lavorerà sulle “dissolvenze”, situandosi in un terreno di produzione probabilmente troppo originale, e impegnato, per poter essere etichettato con una definizione o un’aderenza a uno stile.Certamente i linguaggi sono quelli dell’avanguardia, ma l’artista romano pare rifiutare, consapevole del pericolo di omologarsi in un gruppo, o peggio, in una “massa”, qualsiasi attinenza con movimenti e correnti che in qualche modo richiamano l’egemonia di una comune ideologia. L’opera di Mauri è politica senza politicizzarsi; tende a mettere in scena oggetti, simboli e costumi come “rovesciamenti” per sceneggiare metaforicamente e liberamente convenzioni razziste e fasciste, come a denunciare allo stesso tempo l’ignoranza e la tragedia. Alla Biennale del 1993 viene presentato il Muro Occidentale o del Pianto e riproposta Ebrea, emblematica azione che, proposta in una serie di gallerie, tra cui La Salita di Roma, nel 1971, ha contribuito alla fama mondiale di Fabio Mauri: il Muro Occidentale è allo stesso tempo compendio di Muro d’Europa e di Ebrea. Ebrea è una particolare messa in scena dove un totale di diciassette oggetti (non tutti presenti però nelle varie presentazioni della performance-installazione) riconducono allo sterminio nazista. Gli spazi che ospitano la scena divengono a turno piccoli musei da campo di concentramento, dove pelle, denti, capelli ed effetti personali vanno a formare uno scenario inquietante, determinato anche dai titoli delle composizioni, di cui è circondata la protagonista dell’azione: una ragazza nuda davanti a un piccolo specchio che, marchiata sul petto dalla stella di Davide, con una piccola forbice si taglia i capelli, incollando lentamente piccole ciocche allo specchio e formando la stessa stella a sei punte, assunta dopo l’olocausto a simbolo di un odio incolmabile. Il muro del Pianto misura quattro metri di altezza ed è realizzato con vecchie valige accatastate, di cuoio e cartone di dimensioni e colorazioni diverse l’una dall’altra. Il “muro”, in occasione della Biennale, è omogeneo sul lato dove viene riproposta Ebrea, ma dissestato sull’altro, dove una valigia aperta contiene la foto di Paola Montenero, prima performer dell’opera fotografata da Elisabetta Catalano. Non a caso il muro richiama esattamente il muro del Pianto di Gerusalemme, emblema di una disperata fuga, di una divisione del mondo, di una forzatura politica. Fabio Mauri è stato, e continuerà a essere, la spina nel fianco della coscienza europea. Un riconoscimento dovuto, a quasi un anno dalla scomparsa del grande artista, che rimarca il fatto che l’arte non smette mai di esercitare, attraverso la manipolazione della realtà e dell’immaginazione, una sorta di ruolo profondamente pedagogico nei confronti dell’umanità. * Matteo Bergamini studia all’Accademia di Belle Arti di Brera 17 brera incontra... è ridotto rispetto ai presenti alla premiazione della bomba mediatica Saviano. Probabilmente chi si aspettava un sermone in stile messa della domenica è rimasto deluso. Nonostante la posizione ricoperta, Ravasi non ha enunciato nessuna dottrina, se non quella della potenza dell’arte, del suo profondo mistero e allo stesso tempo della conoscenza che ne deriva dalla lettura, citando alternativamente Henry Miller e George Braque, aprendo con l’assunto dell’artista cubista “La scienza rassicura, l’arte inquieta”. Un profondo pensatore che, tra gli altri, è stato anche l’ organizzatore dell’incontro tra Papa Ratzinger e gli artisti. L’arte è un terreno d’incontri e Ravasi inizia il suo discorso partendo proprio dalla tesi che per secoli e secoli l’arte e la fede sono state legate da un filo doppio e intrecciato, l’una bisognosa dell’appoggio dell’altra e viceversa. E, come giustamente ha fatto notare Francesca Alfano Miglietti, la chiesa ha sempre scelto gli artisti all’avanguardia in tutte le epoche, Michelangelo e lo “scandaloso” Caravaggio in primis che, nella Morte della Vergine del 1605, dipinto all’epoca rimosso dalla chiesa di Santa Maria della Scala in Trastevere, raffigura come Madonna una cortigiana, o una prostituta, annegata nel Tevere. Artisti scomodi sì, ma con uno sguardo lontano dalla paura. Una lezione profonda e poetica, molto partecipata a partire dal suo stesso autore. Gli appunti di Monsignor Ravasi si sono rivelati incisivi per enumerare una teoria dell’anima dell’arte e della sua funzione sociale più vicina al simbolico: “L’arte e’ molto potente, perché parla della vita e della morte, ma vuole testimoni, figure che possano essere interlocutori e guide per tutto il corpo studentesco”, ha scritto nella sua introduzione Francesca Alfano Miglietti.. Uno in fila all’altro sono stati illuminanti una serie di profondi concetti, dalla genesi dell’immagine all’iconoclastia: a tal proposito Ravasi riporta il desiderio di vedere il volto di Dio di Mosè: desiderio impossibile e inammissibile; l’uomo potrà vedere il divino solamente nella sua ombra sfuggente. Ed è a partire da questo codice che da un lato si può tracciare l’abisso delineato dall’arte, quello che ne permette l’immaginazione, la disponibilità a raffigurare il volto di Dio rifacendosi all’umano e, sull’altro versante, verso la questione iconoclastica: il lato cristiano-cattolico si può dire, con le parole di Pavel Florenskij, che abbia scelto il lato carnale e opaco della pittura a olio e del suono dell’organo, mentre il ramo ortodosso ed islamico si sono orientati verso quella “pittura della luce” che traccia il confine tra regno visibile e invisibile e permette, secondo le parole del filosofo russo, l’avvicinarsi al divino. “L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita” (Miller) e i simboli, le narrazioni e le conseguenti raffigurazioni attingono, secondo il pensiero di Ravasi, al più grande codice mai scritto, la Bibbia. Un volume che non finisce mai di essere fonte di ispirazione seppur traslato nel tempo, probabilmente proprio per la fondamentale caratteristica di essere la fonte più contemporanea nell’accezione descritta da Giorgio Agamben: “È veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese, ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di afferrare e percepire il suo tempo”; accade ormai da quel famoso anno 1979, spartiacque tra le neoavanguardie e la nostra più sfrontata epoca di riflusso, di sentirsi sempre più lontani dalle grandi narrazioni identificate da Jean François Lyotard ne La condizione postmoderna; se, come potrebbero affermare i più pessimisti, il nostro è un contemporaneo post-mortem e l’arte stagna in una fase in cui ha bisogno di auto-assistersi è doveroso ascoltare le parole di Gianfranco Ravasi e le sue vie interpretative come un monito per una presa di coscienza, se non per trovare nuovi stilemi, quantomeno per dare nuovo smalto ad una fascinazione incessante, per sentirsi, ancora, empaticamente coinvolti da un pensiero, da un “sentire” profondo: Monsignor Ravasi associa l’arte alla mistica del credere Un rapporto di intrinseca fratellanza che in entrambe le parti non riesce a manifestare il mistero che accompagna ugualmente i due “credo”; davanti a un profondo pensiero di Platone come a un profilo bellissimo, anche se sghembo, l’uomo affascinato non riesce a trovare soluzione al perché della nascita, nella propria anima, di questo insolubile senso di misticismo trascendentale. L’ultima, formidabile, citazione che fa di Ravasi non solo un profondo conoscitore dei “codici” ma anche un attento osservatore del proprio tempo è presa in prestito dal premio Nobel Ottavio Paz che ricorda come il decadimento di una società inizia quando si sfalda, quando si corrompe, la sua grammatica. Segno dei tempi, segno di un regno dello spettacolo che sempre di più porta all’indebolimento delle grandi passioni, del bisogno di narrare, della volontà di attenzione. La grammatica cade e la corsa è verso un effimero statico, senza possibilità di movimento se non nell’automatismo di gesti che non significano nemmeno più uno stato di sonnolenza analgesica, ma un delirio schizoide, è proprio il caso di dirlo senza arte nè parte. Gli incontri con Saviano e Ravasi sono stati due momenti incantati di un’illuminazione bruciante, dove sono le parole, che vengono confermate nei fatti e Mons. GIANFRANCO RAVASI ROBERTO SAVIANO Accademia di Brera - 16 marzo 2010 - il dir. G. Mariani e mons. G.Ravasi Accademia di Brera - 10 dicembre 2009 - R. Saviano “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile” scrive Baudelaire, l’arte sembra rendere alle cose la loro natura di essere al mondo, la loro presenza piena, trasgredendo quindi, il concettuale che invece li confina nella generalità dei concetti e quindi nelle astrazioni. Essere nel mondo contemporaneo, pronti a confrontarsi con esso ed a raccogliere le sue sfide, senza essere di questo mondo, appartenendo ad un’altra razza, ad un altro stile, legati ad altri miti e ad altri valori. Solo così si possono evitare due comportamenti ugualmente pericolosi: l’ansia di schierarsi, di partecipare, di essere recuperati al Sistema ed ammessi alla discussione e l’opposto, il ripiegare su dibattiti tutti interni ad un micro-ambiente, in fondo fuori dal mondo. E’ del 21 novembre l’incontro del Papa con gli artisti nella cappella Sistina. E l’altra notizia è che il Vaticano si affaccerà sulla scena della prossima Biennale 2011 con un suo Padiglione, come accade a tutti gli stati. Lo ha annunciato mons.Gianfranco Ravasi, il quale scrive: «…Forse allora è la chiesa ad aver perso contatto con la creatività. (…) L’arte contemporanea deve essere presente nei nuovi spazi delle chiese. Ci vorranno anni per dar vita a un nuovo gusto, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare». Come esempio di questa incapacità di comprendere quel che di nuovo si presenta sulla scena del mondo Ravasi cita la piccola Crocifissione di Joseph Beuys, del 1963. «La Chiesa avrebbe dovuta acquistarla negli anni 60, sarebbe stata un grande segnale». La Crocifissione si compone di due flaconi già usati per la conservazione del plasma, vuoti, posati su blocchetti di legno: rappresentano San Giovanni e Maria ai piedi della croce. Nel mezzo un altro pezzo di legno, verticale con una croce rossa in alto. Dissacrante? Sofferente, piuttosto. Della sofferenza di un artista che cerca di rappresentare un’immagine sulla quale è incardinata la storia (non solo quella dell’arte), e si trova tra le mani solo questi poveri resti ancora pregnanti di un significato. Grazie quindi a Ravasi per aver sollevato la grande questione. “Amare non è guardarsi a vicenda, ma guardare nella stessa direzione” (Antoine de Saint-Exupéry) Le ragioni dell’invisibile brera incontra... 18 Francesca Alfano Miglietti (estratto dalla Lectura Magistralis) Uno sguardo molteplice Roberto Saviano è uno scrittore. Un bravissimo scrittore. Un autore di testi fatti di scritture molteplici, e molteplici sguardi, testi che rintracciano e identificano un lettore, e con lui intrattiene rapporti di dialogo. Per Roberto Saviano il lettore è un interlocutore e un complice, colui che raccoglie le confidenze e a cui si raccontano episodi e persone, caratteri e luoghi, idee e intuizioni con un atteggiamento sempre spiazzante, perché fatto di dati e di intimità, di curiosità e di ammirazione, di particolari e di universali. Saviano sembra voler lavorare non con teorie ma con vissuti. Si tratta di passare dalla prima ontologia fenomenologica al mondo della vita, si tratta di capire una singola esistenza, altrimenti, sembra suggerire “a che serve la letteratura?”. Ma raccontare una vita non è chiudere l’orizzonte della filosofia in un individuo, ma al contrario, per Saviano la singola biografia dovrà articolarsi con la storia della sua epoca in un movimento dialettico. Non c’è biografia senza Storia, ma non c’è Storia senza biografia. La letteratura, come la filosofia di cui parla Gilles Deleuze, non dev’essere sperimentata in laboratorio ma vuole misurarsi con la storia concreta, con esseri viventi. (…) Roberto Saviano procede dall’interno di un discorso verso l’individuo reale che lo ha prodotto, e gira, in un certo senso, al limite dei testi, conformandoli, seguendone le asprezze, manifestandone il modo di essere, la sua scrittura sembra situarsi nella rottura che dà vita a un certo gruppo di discorsi, discorsi posti nel campo bipolare del sacro e del profano, del lecito e dell’illecito, dell’intimo e del sociale, e realizza così quella possibilità che appartiene all’atto di scrivere quando questo assume l’andamento di un imperativo proprio della letteratura. Saviano parla di letteratura, ma anche di “valori”, che si intrecciano alla scrittura e all’esistenza, una scrittura come una direzione, un itinerario, un progetto, una scrittura di “precisione”, con una aderenza perfetta tra i contenuti e le parole. Quella di Saviano è una scrittura che si legge come un manifesto. Francesca Alfano Miglietti (estratto dalla Lectura Magistralis) FABIO MAURI Universo d’uso 19 Accademia di Brera - 22 aprile 2010 - Manifesto Mons. G. Ravasi É uno degli elementi portanti dell’opera di Fabio Mauri la riflessione sia sulle caratteristiche fondamentali del mondo contemporaneo che sugli aspetti storici della realtà, realtà caratterizzata dal venire meno della pretesa propria dell’epoca moderna di fondare un unico senso del mondo partendo da principi metafisici, ideologici o religiosi. L’epoca moderna che precede la contemporaneità era caratterizzata dal progetto di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi unitari, che possedevano la pretesa di racchiudere il senso dell’intera realtà entro un principio unitario. Il contemporaneo è caratterizzato invece dallo sfaldamento delle certezze stabili. La fine dell’illusione di dare un senso unitario alla realtà comporta dunque il manifestarsi della diversità dei sensi, una diversità che è irriducibile. Ogni ambito della realtà è dotato di un certo senso, ogni tentativo di edificare un senso unitario è solo apparenza. La realtà è differenza, molteplicità irriducibile, mutamento non ingabbiabile entro un unico schema. Ed è questo l’orizzonte dell’opera di Fabio Mauri, nell’intuizione che ogni tentativo di fondare stabilmente un’etica, legandola ad una qualsiasi legge fondante, è destinato a fallire, poiché la diversità irriducibile impedisce di trovare realmente quel senso stabile e assoluto del “tutto” che invece è stata la pretesa e il progetto primo delle filosofie del passato. (…) Nella poetica di Fabio Mauri emerge una forte carica eversiva e i suoi labirinti e i suoi paradossi scovano l’inganno della razionalità, il centro intorno a cui ruotano le sue elaborazioni è il rapporto uomomondo come comportamento; per Fabio Mauri, infatti, il termine “razionalità” ha due accezioni: da un lato la razionalità è spirito critico, dall’altro è organizzazione logica del sapere. Una razionalità, dunque, che presuppone l’utilizzazione di principi o di argomenti complementari, a volte anche concorrenti o antagonisti. Mauri indaga la dialogica tra il logico, l’empirico e l’estetico. Da un lato l’elaborazione di sistemi logici di idee, che si confrontano con il mondo dell’esperienza, in cui è necessaria una adeguazione tra il discorso e la sfera di esperienza alla quale si dovrà applicare. Dall’altro un potente e poetico dispiegamento di elementi, frasi, performance, installazioni, ricostruzioni… mondi e mondi resi visibili a partire dall’opera. (…) Dunque fin dall’inizio Mauri ci pone di fronte all’evidenza che qualsiasi opera è, al pari del pensiero, instabile, che ha bisogno di strategie, di correzioni, di regolazione, di auto-regolazione, e che la riduzione a un sistema coerente di idee della realtà che si pretende di descrivere è impossibile e inutile. Per Fabio Mauri la conoscenza non è il riflesso del mondo. Ogni conoscenza è al tempo stesso costruzione e traduzione: traduzione a partire da un linguaggio ignoto, a cui prestiamo dei nomi. Per Fabio Mauri la conoscenza è l’opera. Francesca Alfano Miglietti (estratto dalla Lectura Magistralis) brera incontra... Accademia di Brera - 22 aprile 2010 - Manifesto F. Mauri 20 20 La Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino: patrimoni storici un esempio da emulare. Con il numero precedente della nostra rivista, abbiamo aperto un’altra rubrica dedicata al patrimonio storico delle accademie. La nota sul lascito di Francesco Hayez all’Accademia di Brera è solo una gemma del grande patrimonio artistico che possiede questa nostra istituzione ma è anche una piccolissima parte di tutto il patrimonio storico conservato nelle accademie italiane. Un patrimonio al quale guardano in tanti e che noi dobbiamo conservare e valorizzare con rinnovato orgoglio programmando anche il restauro di quanto ancora giace nei nostri depositi. E’ inconcepibile, infatti, che le Sovrintendenze e non solo loro, ostacolino la legittima autonomia delle Scuole di Restauro, recentemente attivate nelle nostre accademie, impedendo talvolta che siano loro, a pieno diritto, a provvedere al recupero del patrimonio. L’Accademia Albertina di Torino ha conservato la direzione e la gestione della sua prestigiosa Pinacoteca, dandole nuovo impulso e rilanciandola con intelligente strategia. Si tratta di un esempio al quale guardiamo con ammirazione. Gaetano Grillo LA PINACOTECA DELL’ACCADEMIA ALBERTINA FRA PASSATO E PRESENTE di Francesca Petrucci Nello scorso ottobre è stata riaperta la Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino con un nuovo allestimento espositivo che illustra l’importante ruolo della Scuola nella dinamica artistica del territorio piemontese. La costituzione della Pinacoteca, come delle simili raccolte annesse alle Accademie di Belle Arti fondate fra Sette e Ottocento, ebbe scopo meramente didattico, per offrire ai giovani alti esempi pittorici con cui confrontarsi durante il percorso di studio; ma, a differenza delle analoghe collezioni di Firenze, Venezia, Milano, divenute Musei statali dipendenti dal Ministero dei Beni Culturali, la Pinacoteca Albertina è tuttora gestita e diretta dalla stessa Accademia e continua, pertanto, a svolgere il suo originario compito anche se, contemporaneamente, è aperta al pubblico come ogni Museo. Questa sua particolarità è fonte di un fascino speciale: i visitatori incontrano, nelle sale, studenti che eseguono copie dei quadri al cavalletto o ne disegnano alcuni particolari per approfondire gli studi anatomici, e l’attività scolastica diventa una sorta di lezione pratica 21 patrimoni storici accademia patrimonidistorici catania 22 di tecniche artistiche per lo spettatore - che spesso rimane incerto se soffermarsi più a lungo di fronte all’opera antica o all’esecuzione attuale - ed anche il modo più efficace per comunicare la costante presenza vitalizzante dell’arte nel mondo odierno. La Pinacoteca dell’Albertina si propone, dunque, come luogo di incontro tra passato e presente e, a sottolineare questa sua particolare vocazione, il nuovo assetto ha privilegiato i criteri di chiarezza espositiva e di ampia ospitalità, per offrire a studenti e pubblico ambienti gradevoli dove sostare e ritornare con piacere. Realizzata su finanziamento della Regione Piemonte e affidata allo Studio Simonetti di Torino con la collaborazione dell’architetto Roberto Pagliero, la sistemazione attuale, organizzata su tredici sale, è stata curata dal Direttore e dai docenti dell’Accademia in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte: si è creato un accesso per i visitatori diversamente abili, le sale sono state dotate di un impianto di climatizzazione, di una nuova illuminazione affidata in buona parte alla luce naturale e di una tinteggiatura policroma delle pareti scelta per valorizzare le opere e suddividere visivamente le diverse sezioni espositive. Si è inoltre realizzato un ricco apparato esplicativo affidato a pannelli e lunghe didascalie che, in maniera sintetica ed esauriente, aiuta la comprensione storica ed estetica delle opere esposte, destinato anche ai non vedenti grazie ad un efficace metodo di lettura tattile. Un’agile guida cartacea, completa della riproduzione fotografica di tutti i lavori presenti, si aggiunge come prezioso sussidio alla lettura della raccolta. Il nucleo principale della collezione è costituito dagli oltre duecento dipinti donati nel 1828 dall’arcivescovo casalese monsignor Vincenzo Maria Mossi di Morano (1752-1829) con la precisa finalità di servire all’istruzione “dei giovani inclinati alla bell’arte del disegno e della pittura”: il prelato individuò, nella sua ricchissima collezione, le opere più adatte alla formazione degli studenti, secondo il criterio dell’eccellenza qualitativa e della varietà delle espressioni linguistiche, così da offrire un panorama variegato delle scuole regionali italiane, ma anche una vasta rassegna della pittura straniera, tedesca e fiamminga. Rispetto alle attribuzioni fornite da Mossi, molte sono state le correzioni apportate dagli studiosi in epoche successive, ma il necessario aggiornamento ha confermato l’indubbia sagacità collezionistica del prelato e, dunque, l’importanza museale della Pinacoteca Albertina. I dipinti esposti, fra quelli del suo lascito, raggruppati in modo cronologico e secondo le scuole di appartenenza, sono ora collocati nelle sale con le pareti tinteggiate in rosso pompeiano, ad evocare le storiche quadrerie dei palazzi aristocratici: si inizia con gli artisti del Quattro-Cinquecento di scuola fiorentina e piemontese, fra cui importanti lavori di Filippo Lippi, Francesco Salviati, Defendente Ferrari, Giovanni Martino Spanzotti; nell’ambiente successivo sono opere del Cinque-Seicento di scuola genovese, di Domenico e Antonio Maria Piola, di Bernardo Castello, di Giovanni Battista Carlone; quindi lavori di caravaggeschi come Gregorio e Mattia Preti, Bartolomeo Cavarozzi, Carlo Ceresa; dipinti fiamminghi del Seicento, fra cui le belle e rare nature morte dell’ancora misterioso “Maestro del flauto riparato”; pitture sei-settecentesche di paesaggio e di vedute, con opere di Giovanni Paolo Panini, Francesco Zuccarelli e l’intero nucleo di dodici Vedute veneziane lasciate da Mossi come opere del Canaletto, in seguito attribuite a Michele Marieschi ed infine assegnate all’anonimo “Maestro delle vedute dell’Accademia Albertina”. La sala al centro del percorso accoglie le copie di dipinti celeberrimi - di Raffaello, Andrea del Sarto, Caravaggio, Guido Reni, Rubens - considerate esemplari dalla didattica classicistico-accademica e pertanto legate strettamente al momento storico richiamato dalle sale successive, tinteggiate in azzurro, dove sono presenti i Maestri dell’Accademia Albertina fra Sette e Ottocento: vi sono riuniti numerosi gessi e terrecotte di Ignazio e Filippo Collino, fondatori della Scuola di Scultura, il ritratto di Ignazio Collino dipinto da Lorenzo Pecheux, primo Direttore e Maestro della Scuola di Pittura, e l’importante gruppo di acquerelli eseguiti da Giuseppe Pietro Bagetti, insigne docente dell’Accademia, donati nel 1842 dalla vedova dell’artista insieme al busto-ritratto in marmo realizzato dal collega Giacomo Spalla. L’egemonia culturale proposta dall’Accademia nel corso del primo Ottocento è testimoniata dai numerosi altri lasciti presenti in queste sale, fra cui spicca per rarità ed importanza la preziosa raccolta di sessanta cartoni e disegni cinquecenteschi connessi prevalentemente all’attività di Gaudenzio Ferrari e della sua scuola, donati nel 1832 da Carlo Alberto: le fragili opere cartacee sono poste in un ambiente ad illuminazione ribassata per assicurarne la corretta conservazione e collocate su pannelli scorrevoli che ne permettono la consultazione e facilitano i confronti stilistici. Le due ultime sale, tinteggiate di verde a evocare uno dei colori amati dallo stile Liberty, ospitano una scelta di lavori della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento: alcune opere di paesaggisti della scuola piemontese sono accostate ai dipinti di storia di Carlo Bonatto Minella e di Ludovico Raymond, al Nudo accademico di Marco Calderini, lasciato dagli eredi, ed al notevole busto bronzeo di Antonio Fontanesi eseguito da Leonardo Bistolfi nel 1883, all’esordio della sua luminosa carriera artistica; ed ancora numerose opere di Giacomo Grosso, titolare della cattedra di Pittura dal 1906 al 1933, ed altri lavori giunti di recente all’Accademia, come il bel dipinto di Italo Cremona offerto dall’Archivio Storico a lui intitolato, per ricordare il suo ruolo di docente alla Scuola di Decorazione. Per collegare ulteriormente il patrimonio museale con l’attualità artistica è stato avviato un progetto riservato ad artisti viventi, invitati a realizzare un’opera ispirata all’Albertina. Luigi Mainolfi ha inaugurato la serie di eventi con un pannello in terracotta dipinta, esposto nell’ambiente d’ingresso della Pinacoteca a sottolineare lo specifico compito del Museo: custode del passato e, nel contempo, stimolo operativo al presente. Che questo ruolo di trait-d’union culturale sia stato finora assolto con successo dalla Pinacoteca Albertina lo testimonia anche l’incremento di visite guidate richieste da scuole e gruppi di adulti alla Sezione Didattica ed il moltiplicarsi degli studi storico-artistici relativi alle opere esposte e a quelle conservate nei depositi, ben ordinati ed accessibili su richiesta: l’impegno dell’Accademia di Torino per il futuro è teso a valorizzare ulteriormente l’importanza storica della sua Pinacoteca, letta e compresa come ineludibile e irrinunciabile eredità per lo sviluppo della creatività contemporanea, scopo principale dell’insegnamento e della esistenza stessa dell’istituzione accademica. *Francesca Petrucci è docente di Storia dell’Arte all’Accademia Albertina di Torino. 23 patrimoni storici n.a.b.a. milano 24 Daniela Brenna, Ritratto di famiglia, 2009, frame da video 5’ 4’’ POLITICHE DELLA MEMORIA Una diffusa pratica documentaria o una generica attitudine archivistica è al centro della scena artistica più attuale. Tanto che si tratti delle sue manifestazioni più importanti - come l’ultima edizione di documenta (2007) - quanto delle generazioni artistiche emergenti. E’ per questa ragione che da qualche anno la scuola di arti visive della NABA di Milano ha rivolto la propria attenzione a tematiche come quelle dell’inventario o della storia, integrando i propri corsi curriculari con iniziative pubbliche (conferenze, mostre, screening programmes) rivolte a misurare la portata culturale di un tema come quello della memoria sociale. Da due anni si tiene infatti presso NABA il ciclo internazionale di incontri e proiezioni a carattere monografico Politiche della Memoria, giunto quest’anno al suo secondo appuntamento. Ma già nel 2007 un seminario di studi, promosso da NABA con la rivista belga “A Prior”, aveva permesso agli studenti di incontrare l’artista lituano Deimantas Narkevicius, internazionalmente noto per i suoi video His-story (1998), Once in the XX Century (2004), Revisinting Solaris (2007) e molti altri progetti artistici. Poi, negli ultimi anni, si sono succedute figure come Lisl Ponger, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Gintaras Makarevicius, Eyal Sivan, Hito Steyerl e altri ospiti internazionali. Il tema strutturale di Politiche della Memoria si riallaccia al problema dell’immagine intesa come documento: ai regimi discorsivi che essa informa, ai processi d’identificazione che legittima, alla dialettica temporale che fonda. Politiche della Memoria si focalizza soltanto su una delle procedure di documentazione possibile, ma di certo la più importante, come la narrazione video. Il ciclo di incontri vuole interrogare il documento come traccia oggettiva lasciata dagli eventi, come prova materiale o come certificazione di realtà. Ma interroga soprattutto quello che si definisce “il regime di verità” come principio regolativo, i modi con cui la memoria viene ricondotta a fini specifici e la storia che essa autorizza. Ciò che mette sotto inchiesta dunque non sono soltanto i fatti e i dati ma il sapere che essi definiscono, l’influenza che esercitano. I modi, in sostanza in cui i dati vengono registrati, accumulati. Le strategie con cui essi costruiscono una memoria o definiscono una rimozione storica, una amnesia permanente o temporanea. L’uso del materiale d’archivio o del found footage era al centro del primo ciclo di conferenze 2009 che si concentrava sul tema della memoria colonialista e sovietica. Ma anche sul tema della memoria del mezzo cinematografico stesso con Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi che rifilmano vecchie pellicole documentarie su pace e guerra, su imperialismo e sfruttamento dei subalterni. Precorritori di un “cinema archeologico”, già dalla fine degli anni Settanta i due filmmakers rifotografano, ricolorano materiali d’archivio e intervengono sulla velocità originale del film in modo tale da smascherare ideologie e conflitti in un dato momento della nostra storia recente. Che coincide, non a caso, con quella stessa del cinema e del documentario. Il secondo ciclo di incontri, quello tuttora in corso, è più espressamente rivolto alla trasformazione delle cartografie mondiali in questo momento della storia. Gli attuali confini, l’evoluzione dello spazio geopolitico e della popolazione che vi vive sono al centro dei lavori e degli autori presenti nella nuova edizione di Politiche della Memoria. In questi documentari o progetti video le esplorazioni territoriali diventano viaggi nel tempo, elaborazioni di amnesie, rilevazioni di traumi storici collettivi. Il confine tra Israele e Palestina, i confini della nuova Europa, gli oleodotti transnazionali e altre barriere fisiche sono letti nel loro potenziale trasformativo, nel loro divenire. Flussi di immagini in movimento si incontrano con processi migratori di gruppi etnici e minoranze sociali. Misurarsi con l’altro significa anche e soprattutto confrontarsi con scarti di tempo. La seconda edizione del ciclo si focalizza, attraverso un approccio geopolitico, sui processi diasporici contemporanei e sulla mobilità. Eyal Sivan, Hito Steyerl, Ursula Biemann e Angela Melitopoulos sono tutti artisti e filmmakers internazionalmente riconosciuti per aver posto le basi di una nuova pratica documentaria e per aver messo in luce gli attuali problemi che incidono sulla nostra possibilità di leggere la realtà. Intervista a Marco Scotini a cura di Lorenza Pignatti Per iniziare una domanda d’obbligo… perché Politiche della memoria? Perché in questo momento uno degli interessi maggiori da parte dell’arte contemporanea si concentra su quella che viene chiamata “documentary practice” che non è esclusivamente rivolta al documentario cinematografico o al video ma ha a che fare più ampiamente con una strategia che investe i diversi linguaggi dell’arte visiva (fotografia, installazioni etc). Questo è strano perché se una delle condizioni del modernismo era l’affrancamento dall’idea del documento per un’emancipazione dei manufatti soprattutto etnografici, che venivano accolti dentro lo spazio dell’arte, in questo momento è proprio il sistema dell’arte che riconduce il documento all’ambito estetico. Questo perché si è scoperto che il documento oltre ad avere un aspetto intrinsecamente estetico può essere indagato come condizione di legittimazione della storia, di costruzione di gerarchie sociali attraverso l’inclusione e l’esclusione. Inoltre, dopo l’euforia del post 1989 diversi autori hanno iniziato a riscrivere e a rileggere le vicende storiche. Fino ad ora abbiamo analizzato gli archivi dell’Est europeo ora si inizia invece ad investigare la memoria dell’Ovest, come è accaduto ad esempio a Former West Congress, un progetto promosso dall’Olanda con finanziamenti europei, tenutesi lo scorso novembre al museo BAK (basis voor actuele kunst) a Utrecht. Ed è questo un altro aspetto della “documentary practice”, quello di indagare come sono state manipolate e alterate le fonti storiche. Politiche della memoria, cosi come altre pratiche dell’arte contemporanea è rivolta anche e soprattutto a immaginare e creare nuove modalità espressive. Deleuze diceva infatti che i concetti non si trovano, si creano. Politiche della memoria è giunta quest’anno alla seconda edizione pensa di continuarla nei prossimi anni o pensa che sia in qualche modo conclusa? Si, credo sia una condizione con la quale ci dobbiamo confrontare. Credo che l’ultima edizione di Documenta era a questo riguardo esplicita e che questi temi siano fortemente legati all’ambito della formazione. Credo non sia un caso che questo ciclo di incontri nasca da un corso di formazione accademica come NABA, e che anche il Bard College di New York abbia presentato The Greenroom: Reconsidering the Documentary and Contemporary Art (progetto e conferenza ideata da Hito Steyerl e Maria Lind, entrambe invitate a NABA, la prima quest’anno per Politiche della memoria, la seconda all’interno di The Utopian Display Platform nel 2006). Quello che mi sembra interessante è che se la prima edizione era dedicata alla questione del tempo storico (con Lisl Ponger, Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi, e Gintaras Makarevicius), quest’anno è più legata a una dimensione geopolitica della storia. Ad esempio Eyal Sivan ha presentato il documentario Route 181 (2004), che racconta il viaggio da lui compiuto insieme al regista palestinese Michel Khleifi attraverso quella linea virtuale che segue il confine stabilito dalla risoluzione 181, votata dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947 allo scopo di dividere la Palestina in due differenti stati. L’idea di scegliere il documento come tale, come traccia costitutiva lasciata dagli eventi, come prova materiale o come certificazione di realtà, come viene accettata dagli studenti? Molti artisti che escono dal dipartimento di Pittura e Arti Visive di NABA si confrontano con interesse su questi temi… in questi ultimi anni hanno infatti indagato, collezionato, e proposto nuovi dispositivi narrativi. Questo accade nel Biennio Specialistico in modo sistematico (presto uscirà un reader dal titolo “No Order” che si occupa di questi argomenti) ma anche nel triennio… Politiche della memoria è stato un momento di formazione importante e costituente per il riconoscimento degli studenti che escono da NABA, penso al lavoro di Ingar Noga, Tomaso de Luca, Ian Tweedy, Mirko Smerdel, Danilo Correale, Tommaso Garner, Dario Pecoraro per ricordarne solo alcuni, che già hanno avuto riconoscimenti internazionali. 25 *Lorenza Pignatti scrive per “D di Repubblica”, “Arte e Critica” e altre testate. Insegna Cultura Visuale presso la NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Marco Scotini è critico d’arte e curatore indipendente con base a Milano. E’ direttore del Triennio di Pittura e Arti Visive e del Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso la NABA di Milano. È direttore di “No Order Magazine – Art in a post fordist society”. Suoi testi ed interviste sono apparsi in “Flash Art”, “Springerin”, “Domus”, “Moscow Art Magazine”, “Brumaria”, “Manifesta Journal” e in numerosi cataloghi. Fra le sue mostre recenti figurano A History of Irritated Material (Raven Row, Londra 2010), We Do It (Kunstraum Lakeside, Klagenfurt 2009), Bert Theis. Building Philosophy (Museo Pecci, Prato 2009), Gianni Colombo (Castello di Rivoli, Torino 2009). È inoltre curatore del progetto “Disobedience” (tra le sedi in cui è stato esposto: Kreuzberg/Bethanien, Berlino, 2005; SAPS, Mexico DF 2005; Vanabbe Museum, Eindhoven, 2007; Nottingham Contemporary, Nottingham, 2008; Riga Art Space, Riga 2008; MNAC, Bucarest, 2009). Ha curato importanti personali di Meschac Gaba, Santiago Sierra, Ion Grigorescu, Regina José Galindo, Oliver Ressler e molti altri. È inoltre direttore dell’Archivio Gianni Colombo di Milano per cui ha curato mostre per Palazzo Reale di Milano, Neue Galerie di Graz, Haus Konstruktiv di Zurigo, Castello di Rivoli, Torino. n.a.b.a. milano Dario Leone, Toti Nicola, 2007, incisione su fotografia, dimensioni variabili 26 Nicolò Bruno, Space, 2009, performance, installazione (carta, cartone, tela su muro) dimensioni ambientali n.a.b.a. milano Giulia Currà, Scavo di recupero, 2009, intervento su carta, 30x23 cm 27 Sara Saini, Il kit dell’invisibile, 2008, foto d’ epoca e nastro isolante rosso, nstallazione (particolare) 22x17 cm Giulia Serafini, Pittura di storia, 2009, acrilico su carta e acetato, 30x15 cm n.a.b.a. milano LABA, Libera Accademia di Belle Arti di Brescia, una realtà innovativa l.a.b.a. brescia 28 …Il successo della Laba è dovuto in larga misura alla professionalità e alla disponibilità dei docenti e alla forte sinergia che si è creata tra le diverse componenti: la direzione, i collaboratori, i docenti, gli allievi, tutti animati da un forte senso di appartenenza e di spirito di squadra. La Libera Accademia di Belle Arti Laba di Brescia, ideata da Roberto Dolzanelli nello spirito beuysiano, ha ormai superato il decennale dalla sua fondazione. Fin dalle origini ha inteso fondere la solidità della tradizione alla forza innovativa delle ricerche artistiche più avanzate, considerando di primaria importanza il fattore etico e umano. La Laba è cresciuta negli anni in modo esponenziale oltre ogni aspettativa per numero di studenti - oggi 1000 iscritti - e per intensità di attività e di relazioni, diventando punto di riferimento non solo per la città di Brescia e per la sua provincia, ma per tutto il territorio nazionale. La Laba ha sempre programmato la struttura dei suoi dipartimenti tenendo conto del rapporto quantità-qualità: ogni scuola è infatti a numero programmato, favorendo in tal modo una stretta collaborazione tra allievi e docenti. Inoltre la Laba ha curato il contatto diretto con il mondo dell’arte: con gallerie, con musei, attraverso l’incontro con le maggiori personalità della cultura del nostro tempo in un’iniziativa denominata «Incontri con l’artista», che negli anni ha visto ospiti illustri, quali, ad esempio, Vasco Bendini, Mario Raciti, Medhat Shafik, Enzo Cucchi, Alessandro Mendini, Stefano Giovannoni, Emilio Isgrò, Mimmo Rotella, Remo Salvadori, Salvatore Natoli, Lucio Pozzi, Grazia Neri, Dondero, Jorrit Tornquist, Giangiorgio Pasqualotto, Elena Pontiggia, Lucrezia De Domizio, Frank Dituri, Franco Fontana, Carlo Dettori, Nanda Vigo, Lesile Krims, Sandy Skoglund, J. F. Bory, Jacques Villeglé, Luc Fierens. In modo particolare ha curato collaborazioni con le realtà produttive – imprese e aziende – che hanno generato un forte radicamento sul territorio: Bialetti elettrodomestici, Bisazza mosaico, Bonomi rubinetterie, Clerici & associati comunicazioni, Condor Trade in blu calzature, CTB centro teatrale bresciano, Flos lampadari, Laser Tech design, Mangano fashion, Metamorphosi produzione cinema e tv, One Communication, Palcografico studio fotografico, Primadv design, Stema restauro, Tecnoform oggettistica e molti altri. I «Progetti speciali» riguardano la realizzazione di opere pubbliche, di restauro di edifici e di monumenti e di arredo urbano, commissionate attraverso convenzioni da enti e istituzioni (comuni, ospedali, teatri). L’accademia è vicina agli studenti, così da accompagnarli verso la professione, attraverso il servizio di Placement, che coordina le attività di raccordo tra accademia e mondo del lavoro, mettendo a disposizione le proposte di stage e le offerte di impiego che provengono dalle aziende. Ha promosso al contempo l’apertura verso l’esterno attraverso la diffusione del Progetto Erasmus: scambi intensi avvengono tra la Laba e università e accademie della Gran Bretagna, della Francia, della Spagna, della Repubblica Ceca, della Polonia. Dal 2008 l’accademia dispone di una sede staccata nel cuore di Brescia, la prestigiosa Casa dei Palazzi, riservata alle arti visive. Al suo interno è ospitato lo Spazio Laba, dedicato alle esposizioni degli allievi e dei docenti dell’accademia e di artisti ospiti. Si è costituito in accademia un gruppo teatrale che sta ricevendo riconoscimenti e consensi di pubblico e di critica. Sotto il profilo delle strutture la Laba ha investito in impianti e tecnologie d’avanguardia e in sistemi informatici di ultima generazione. La Laba ha ottenuto nel 2003 la Certificazione di Qualità TUV Italia per la riconosciuta alta qualità dei suoi processi e delle sue strutture. Per sollecitare e favorire la ricerca all’interno dell’accademia la Laba promuove, attraverso una convenzione con La Compagnia della Stampa di Massetti Rodella editore, la pubblicazione dei «Quaderni della Laba» che raccolgono i risultati degli studi dei docenti e che diventano strumento didattico per gli allievi. 29 l.a.b.a. brescia l.a.b.a. brescia 30 31 La soddisfazione maggiore della direzione deriva dalla constatazione che la maggior parte degli studenti diplomati si sono in gran parte inseriti nel mondo delle professioni, soprattutto nel settore delle nuove comunicazioni e delle nuove forme espressive. Il successo della Laba è dovuto in larga misura alla professionalità e alla disponibilità dei docenti e alla forte sinergia che si è creata tra le diverse componenti: la direzione, i collaboratori, i docenti, gli allievi, tutti animati da un forte senso di appartenenza e di spirito di squadra. - - - - - - - l.a.b.a. brescia - Le “Porte del Violino”, opere scultoree di arredo urbano a delimitazione della Zona Trenta pedonale dell’omonimo quartiere cittadino della III Circoscrizione, in collaborazione con il Comune di Brescia, Assessorato all’Urbanistica (Dipartimento di Decorazione e di Scultura), 2007 Recupero conservativo dello Scalinata e dei dipinti murali del Teatro Grande (Dipartimento di Restauro), estate 2007 e 2008 Restauro e ricollocazione in piazza della Vittoria della statua del “Bigio” (Dipartimento di Restauro), in fase di definizione Convenzione con il Comune di Roncadelle per il restauro di edifici pubblici: bocciodromo (2008) e palazzetto dello sport (estate 2009) (Dipartimento di Decorazione) Gli “Alberi”, con l’Assessorato all’Ecologia del Comune di Brescia, 2007 (Dipartimento di Scultura) “Riciclart”, progetto di riciclaggio, con l’ASM e il Comune di Brescia, 2007 (Dipartimento di Design) Teatro: con il Centro Teatrale Bresciano, rappresentazione al Teatro Santa Chiara di Questa nostra giovinezza (primavera 2007) e L’isola, regia di Giorgio Rosa (primavera 2008) (Dipartimento di Scenografia) Arte per la salute: progetto di decorazione del reparto di Oncologia infantile degli Spedali Civili di Brescia e di settori di nuova costruzione dello stesso nosocomio, dal 2007 (Dipartimento di Decorazione) GIULIO DE MITRI La luce come corpo docenti 32 Giulio De Mitri, Mediterraneo, 2009, Installazione 33 Giulio De Mitri, Peace-Love, 2008 Una personale nella storica Galleria Peccolo di Livorno L’opera di De Mitri suscita, mostrando di sapere intrattenere sull’entità luce e colore, il pensiero e la vista dell’osservatore attento. E ciò favorisce la necessità e induce l’opportunità di potervi tornare sopra, ancora in nuova occasione, oltre questa di Livorno, già molto significativa”. E’ stato realizzato, in occasione della mostra, un catalogo edito da Rubettino Arte Contemporanea per la collana ICONICA (cataloghi, biografie, memorie), diretta da Giorgio Bonomi, contenente testi critici di: Rosalba Branà, Bruno Corà, Lorenzo Canova, Luigi Paolo Finizio, Barbara Tosi, apparato iconografico e nota biografica sull’artista. Un secondo sguardo nell’opera di Giulio De Mitri di Pietro Fortuna Si è detto molto su Giulio, ho qui sul tavolo recensioni, articoli, brevi saggi. Guardo i titoli in nero, i nomi degli autori. Qualcuno ha anche scritto per me e cerco di ricordare quando e perché l’abbia fatto… Sono di certo le carte giuste se si vuole cogliere il senso del suo lavoro, ma anche uno stimolo a scavare ancora tra le altre ragioni, forse le ultime, le più discrete, quelle sottratte alla seduttiva evidenza che le sue opere, a un primo sguardo, ci riservano. docenti Si è aperta il 24 aprile scorso, nella storica Galleria Peccolo di Livorno, la mostra personale dell’artista pugliese Giulio De Mitri, intitolata La luce come corpo. La mostra è curata da Bruno Corà, critico, storico e direttore del Museo d’Arte Contemporanea di Lugano. L’artista espone la sua più recente produzione: installazioni e tecnolight-box. “…De Mitri ha reso evidente – come scrive Bruno Corà nella presentazione in catalogo – come sia insito nel suo percorso ideativi lo sconfinamento della valenza oggettiva dell’opera verso la qualità “ambientale”, cioè verso dimensioni sempre variabili del lavoro e delle installazioni in relazione al contesto; ciò perché quanto deve essere “accolto” e reso significativo è il senso dello spazio che scaturisce dall’introduzione fisica dell’opera nei luoghi. Tale carattere appare evidente in ogni sua creazione proprio per quell’appartenenza al grembo di cultura e fisicità che il mondo della Magna Grecia ha sempre espresso, e per la consapevolezza che ne deriva a ciascun erede spirituale di quei luoghi; tanto più se – come nel caso di De Mitri, artista autenticamente motivato – la profondità sorgiva della scaturigine poetica è abissale e insondabile ma tuttora attiva. E, ancora, come afferma il curatore della mostra si identifica con la nozione di Mediterraneità, con le latitudini di orizzonti circolari e sconfinati, pervasi dalla materia liquida, dalla dissolvenza tra i diversi valori del blu marino e di quello aereo e tra gli sfolgorii e i riverberi di luce solare e dei suoi riflessi sugli specchi acquatici. Blu e luce inestricabilmente considerati e compresi in ogni più recente creazione di De Mitri. Giulio De Mitri, Linea blu, 2006, Lambda in tecno-light-box, Installazione ambientale docenti 34 Dunque c’è ancora campo per i nostri occhi e spazio per parole forse inattese dettate da nuovi pensieri. Nuovi perché più urgenti o più attuali, più veri o più certi, ma perché nel dire nuovi sento maggiormente viva la responsabilità del presente che non vorrei mai dissipare. In ogni caso non credo sia un compito così temerario cercare altre ipotesi. Anche perché penso che escludere la possibilità di un’interpretazione diversa, rispetto a quella che abbiamo scelto per abitudine o necessità, può risultare a conti fatti un errore o una risorsa mancata. Una pena che si può evitare se solo si è capaci di rinunciare a quella prudenza che ha la forza di trattenerci almeno quando questa cela il timore di perderci in qualcosa di non vero o meno vero. Se rimaniamo, però, ben piantati di fronte al nostro oggetto, un oggetto cangiante come quello di un’opera, non è poi così azzardato cercare altro, almeno se prendiamo per buono quanto ci dice Wittgenstein a proposito delle figure ambigue: che una seconda interpretazione del medesimo oggetto non ha nulla di meno vero rispetto alla prima. E qui il filosofo viennese non esita a stigmatizzare il pregiudizio o la convenzione. Uno degli aspetti dell’opera di Giulio, quello che più mi stimola, non è tanto l’uso espressivo della natura e i discorsi che conosciamo, ma tenterei di dire, una discreta, quasi furtiva volontà di disattivare gli effetti fascinosi o perturbativi della realtà per far posto al tempo, là dove agganciamo gli umori del nostro spirito. Anche perché ritengo che la luce, gli elementi, le cose della natura, affatto dettati da scelte di ordine formale o retorico, sono in Giulio la diretta espressione di un’identità che affonda nella sua stessa vita, dove la terra è anche patria. Dunque, un luogo che appartiene prima di tutto a lui, così da farmi ritrarre, quasi per pudore, dal superare quella soglia; guardo, ma non voglio vedere e, tanto meno penso che con la scrittura si possa aggirare l’ostacolo. Penso, invece, all’idea della distanza e del tempo, di una volontà di raccogliere l’energia cosmica e trasformarla in un atto intimo che determina qualcosa di altrettanto immateriale. Un’attitudine più che una scelta sviluppata da un sentire che si libera delle immagini, almeno del loro carico letterario. Per riproporsi attraverso uno sguardo alleggerito dalle convenzioni ideologiche e lontano dal clamore della demagogia. Con altrettanto disincanto sì, non per la natura, ma verso quell’immaginario che ha impegnato i sentimenti di intere generazioni nella scommessa ideale di un impossibile raggiungimento di una armoniosa conciliazione con il reale. Nella sua opera la realtà non è filtrata, edulcorata o spenta; il mare così il cielo non sono devitalizzati o miniaturizzati, e le sue teche non sono acquari; ciò che è qui è sottratto al vero, all’irremissibile forza degli elementi, gli è subito restituito attraverso la verità stessa dell’opera. Un secondo sguardo, appunto, che solo l’arte sa offrire, quando scioglie le cose dalla stretta del tempo ordinario e le affida al tempo dilatato dello spirito. Un secondo sguardo che distanzia il reale senza però smentirlo, senza smarrirsi; complice è una quiete un ritardo divenuto occasione di un nuovo evento lasciato alla pazienza, al gesto mite e dissuasore di ogni urgenza. Ecco l’infinito toccato, percepito, nel punto dove il mare è andato con il sole, come dice Rimbaud, e dove, qui, il mare si chiude insieme al cielo. Le immagini rinunciano a raccontare e l’occhio segue lo spirito sulla via della stessa perdizione, nel limite che è in noi e di cui le cose della realtà, nella loro ignoranza, non sanno. Il realismo di Giulio, dunque, non cerca un’esposizione più diretta. Non impone una rappresentazione più vera, come tanta arte di oggi che punta su una vitalità esasperata spingendo il reale verso lo scandalo di una nuda esibizione destituita dal pensiero. Una vanità che lascia le cose al vuoto spettacolo della loro transitorietà e le abbandona ad un fine senza cordoglio. Diversamente, Giulio, le trattiene per segnalare la loro permanenza in ciò che passa, le mette al riparo, le salva aprendo un varco nel tempo verso l’assoluto, dove il divenire e l’eternità si toccano. Roma, aprile 2010 * Giulio De Mitri (Taranto 1952) è docente di Tecniche e Tecnologie della Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. La sua attività si è manifestata da anni attraverso numerosi e significativi eventi, mostre, installazioni e performances, tenute in Italia e all’estero (XV Quadriennale di Roma; Evento collaterale ufficiale alla 52° Biennale di Venezia; Envrionmental Art Festival Lakonia: Arthumanature Topos 2007, Sparta, Grecia) ecc. GABRIELE DI MATTEO Gabriele Di Matteo, The blind man 35 …come pittore più che interessarmi a realizzare dei bei dipinti, ho sempre cercato attraverso la pittura di interrogare le immagini. Intervista a cura di Andrea Villani Andrea Viliani: Il fatto che tu non sia mai stato veramente interessato ad essere un buonpittore, quanto piuttosto a verificarne la possibilità, e le conseguenze, ha contribuito finora al fraintendimento e alla sottovalutazione del tuo lavoro, almeno in Italia. Come descriveresti il tuo approccio alla pittura - concettuale, amatoriale, entrambi? OK, Joyce: torni spesso all’inizio del XX secolo, quella, è, si direbbe, la tua epoca… E dopo Duchamp, Valéry, Picabia, Pollock - a cui hai dedicato il progetto presentato alla tua galleria docenti Gabriele Di Matteo: É vero, come pittore più che interessarmi a realizzare dei bei dipinti, ho sempre cercato attraverso la pittura di interrogare le immagini. Questo ha comportato una verifica continua delle possibilità che il mezzo stesso ti concede. In termini strettamente analitici, i problemi della pittura sono stati ampiamente affrontati e in parte risolti nelle varie correnti succedutesi dagli anni 60 in poi, fino ad avere un arresto, direi quasi un “collasso” con l’avvento della Transavanguradia e a livello internazionale dal Neo-Espressionismo e dalla sue varie declinazioni. La mia storia inizia proprio da qui, con il collasso provocato dalla Transavanguardia. Ora, per me definirmi concettuale o amatoriale come tu dici, può avere quasi lo stesso significato, nel senso che il concetto come elemento costitutivo e fondativo dell’opera, cosi come un approccio di ironico distacco, non sono più sufficienti. E’ necessario sconfinare dall’uno nell’altro, fare con la pittura quello che Joyce ha fatto con la letteratura per esempio. Federico Luger di Milano a gennaio del 2009, … Schnyder, Armleder, Parrino, Shaw, Prina, Sturtevant, - alcuni degli artisti di cui, in questi anni, ho visto nel tuo studio libri e cataloghi ma anche, per esempio, articoli di giornale, inviti, manifesti, CD, VHS, file MP3, allegati a giornali di larga diffusione, ecc. Pur facendo quasi sistematicamente riferimento ad altri artisti e alle loro opere non direi che li citi mai direttamente - non definirei la tua una pratica citazionista o appropriazionista come quella di altri artisti che come te hanno iniziato negli anni Ottanta, quelli che tu chiami gli anni del “collasso” - quanto piuttosto un’operazione di matrice biografica che prescinde almeno in parte dalla biografia dell’artista per rivolgersi alla “biografia delle opere”, alla “biografia dell’icona ”, cioè alla loro registrazione e trasmissione nel tempo e nello spazio, affidata a supporti sempre più seriali lungo l’arco del XX secolo, e a una molteplicità di codifiche e decodifiche di senso (perdita di senso?). In effetti quando guardi i tuoi dipinti è la loro esatta consistenza, funzione e temporalità ad incuriosirti, più che l’immagine: non sai decidere per esempio se sono troppo carichi d’informazione o troppo vuoti ... Sono molto interessato al lavoro di alcuni artisti che tu citi, in particolare Sturtevant, per la sua capacità di interagire con il potere e l’autonomia dell’originale, e Jim Shaw, per la sua disinvoltura a presentare un’imagerieda mercato in contesti istituzionali. La mia serie Le peintresalue la mer– che è stata presentata tra l’altro nella stessa sala del MAMCO di Ginevra dove Jim Shaw aveva presentato le sue ThriftStorePaintings–giocava sul fatto di essere stata commissionata direttamente a veri e propri pittori “commerciali”, una tradizione ancora viva nella città di Napoli, dove sono nato. Uno scarto minimo, rispetto all’operazione di readymade di Shaw, ma sicuramente analoga in quanto poneva un problema di regia e di messa in scena di un metodo ripetitivo e della sua diffusione fra intimità e collettività. Per quanto riguarda il mio lavoro, a quello che io faccio quando mi riferisco alle opere di altri artisti, come Duchamp, Picabia o Pollock, sicuramente non c’è nessuna pratica o intenzione citazionistica. L’opera si trasforma in qualcosa di analogo a quello che tu definisci “biografia dell’opera”, un mettere in scena la pittura “nel corso del 36 Gabriele Di Matteo, History stripped bare, 2005 docenti tempo”, o, come dici tu, “del senso”. Il soggetto stesso molto spesso diventa un pretesto. Nel caso specifico di Pollock, ho riprodotto in modo “fedele” una parte del famoso catalogo della retrospettiva fatta al Centre Pompidou nel 1982. Si tratta di tutti i documenti, i testi e le fotografie private di Pollock. Tutte le immagini sono riprodotte però in pittura, mentre i documenti sono stati ricopiati e, alcuni, riscritti a mano. Ogni riferimento alla pittura di Pollock, all’actionpaintingper esempio, è annullata. Ogni qualvolta infatti in una foto si presenta un immagine di un dipinto di Pollock, questo diventa un’immagine sbiadita, o addirittura un quadro bianco. Questo annullamento, sottrae all’intera operazione (alla riproduzione cioè di oltre settanta nuove pitture che sostituiscono le altrettante foto che illustrano la biografia di Pollock ) l’effetto del tempo, la perdita della centralità e del senso della pittura. La sottrazione, il togliere spessore alla pittura stessa fa perdere tutti i punti di riferimento. Forse è un progetto, quest’ultimo, un po’ romantico… Come se ti accanissi a provocare l’unicità, univocità (banalità?) dell’idea di partenza, i tuoi interventi tendono a strutturarsi, più che in immagini indipendenti (il quadro), in stratificate installazioni pittoriche, cicli spaziali compatti e modulari che, accentuando l’inanità dello sforzo installativo e nello stesso tempo minimizzando l’autonomia del singolo dipinto, sembrano ispirati da un circospetto entusiasmo nella (im)possibilità di raggiungere un risultato qualsiasi. Ho sempre immaginato la pittura in termini di dispositivo spaziale. Un dispositivo, questo, che mi permette di guardare al di là dei confini e delle caratteristiche che il quadro impone alla rappresentazione. Come in un racconto, direi. E come in un racconto le varie fasi di un ciclo pittorico interagiscono con lo spazio che ho a disposizione, passo dopo passo diverso, e ne mettono in scena il copione che è alla base di ogni progetto. Una sorta di sceneggiatura dove a volte il mio ruolo è come quello, appunto, di uno sceneggiatore. Nel ciclo della Nuda UmanitàHistoryStripped Bare (200 dipinti che illustrano l’epopea dell’umanità, in cui però tutti i personaggi storici sono nudi, come nella favola dei vestiti nuovi dell’imperatore) ho delegato per esempio tutto il lavoro pittorico a Salvatore Russo, un copista napoletano. Il suo compito non era quello di dipingere le scene cosi come le avrei dipinte io - gli chiesi espressamente di non imitare il mio stile - ma semplicemente interpretare la parte del pittore. Lo si vede dal video che accompagna il lavoro. Il copistaè per me il pittore per eccellenza, quello che meglio di altri ne può appunto rivestire il ruolo. A una fashion designer, invece, ho affidato il compito di spogliare tutti i personaggi della storia. É evidente che la pittura in questo caso è una messa in scena che assume un desueto carattere di coralità, come certi spettacoli popolari e flokloristici del Sud Italia, la preparazione di certe processioni, diverso quindi dalle collaborazioni a quattro o più mani fra due artisti. Historystripped Bare, anche per il suo carattere epocale e iconografico è, con un pizzico di megalomania, la “storia” della pittura. AV: Spesso la tua ricerca “storica” ti ha portato ad affrontare il tema della dispersione delle immagini, alla loro circolazione, al loro controllo e, quindi,il problema del copyright in relazione al concetto, sempre più compromesso, di autore e alla figura, sempre più ambigua, dell’artista singolo o autonomo. Aspetti, questi, centrali nella ricerca di molti artisti dell’ultima generazione con cui io stesso sto collaborando. Ho l’impressione che più che un approccio analitico, e alla volontà di “ricaricare” l’immagine di partenza attraverso la sua riappropriazione, rielaborazione e riproposizione, tu abbia sviluppato, in relazione a questi temi, una sorta di elegante riserbo, la malinconia venata da toni umoristici di uno storyteller. Come se stessi leggendo le avventure di un personaggio di finzione, come in un bel racconto d’avventura, che è poi un bel modo di vedere la “storia” dell’arte, no? Il problema del copy-right legato all’appropriazione di immagini - e concetti – di cui non sei direttamente l’autore è da un lato molto serio, e dopo l’avvento di internet, molto attuale, dall’altro molto buffo, anche per gli sforzi di esorcizzarlo. Una legislazione corporativa, questa del copy-right, nata inizialmente per salvaguardare gli interessi degli editori, e non degli autori, che ha sicuramente provocato danni allo sviluppo della conoscenza. In seguito anche il diritto degli autori è stato riconosciuto, ma certamente questo non giustifica il fatto Gabriele Di Matteo Prenet, garde à la peinture, 2007 oil on canvas 300 x 400 cm riguarda sento la necessità di legare a questa riflessione di ordine analitico una storia che faccia in qualche modo da collante. Un doppio livello, rispetto a quello che pertiene all’analisi e al metodo utilizzato, di tipo evocativo. É su questo piano che effetti molteplici e non sempre prevedibili possono accadere E allora vorrei proprio chiederti, dato che all’inizio non t’interessava essere un buon pittore... lo sei per caso diventato? Bella domanda. Prendo in prestito quello che mi rispose un pittore commerciale a cui ho fatto un intervista nel film che abbiamo realizzato insieme nel 2005, Dal ragazzo che tirò una pietra. Alla fine dell’intervista, eravamo nel suo studio, gli ho chiesto se riteneva di fare dell’arte, di sentirsi un artista. Lui mi ha risposto: “ come vedi io le pitture le ripeto,cioè, ogni giorno faccio sempre lo stesso quadro, qui dentro io non sono un artista, io sono un pittore”. Gabriele Di Matteo Nato a Torre del Greco nel 1957, vive e lavora a Milano dove è anche docente all’Accademia di Brera. Mostre selezionate 2010 - “Seconde Main“ Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. “ Sull’invisibile ”, Galleria Ciocca, a cura di Francesca Alfano Miglietti. 2009 - Pepe Cobo & Cia, Madrid, Avi Kietelman. Brussels, Art Unlimited, Basel. Fedrico Luger, Milano. “Là ou je n’existe pas” Musée d’Art Moderne de Toulose 2008 - “Le coulour de Miroird” Frac Limousin, Limoges 2007 - P2P, casino Luxembourg, Luxembourg. Annarumma 404 Milano 2005 - MAMCO Musée d’arte Moderne et Contemporain, Ginevra. OK/ OK Swiss Institute, N.Y.; Gallery 101, Ottowa. Gray Art Gallery, N.Y. Frac Languedoc Roussillon, Montpellier; Quadriennale di Roma, Roma docenti che un’idea per esempio, possa essere una proprietà esclusiva.. “ Tousdroitsdesoeuvresenregistréesréservés. Ce programme est destinéuniquement à un usageprivéausense de l’article L 122-5 du Code le la PropriétéIntellettuelle. Quelqueautreulitilisationque ce soit est formellement interdite. Sontégalmentinterditslesprêt, la duplicationet la copie partielleou totale duprogramme ” : l’ho copiato da un DVD che conteneva alcuni film di Méliès, insieme a interviste a vari esperti, e l’ho dipinta. Poco prima di morire Georges Méliès, in un evidente momento di depressione dovuto alla sua sconfitta come autore rispetto all’affermarsi dell’allora nascente “industria ” cinematografica, bruciò tutta la sua produzione. Del resto, se i suoi film non fossero stati copiati e proiettati, non sarebbe rimasto niente di suoora. Méliès fu chiaramente vittima della mancanza, all’epoca, di un qualsiasi diritto d’autore. Del resto dopo la sua morte, la famiglia, avvalendosi proprio della legge sul copy-right, ha controllato sistematicamente la divulgazione della sua produzione artistica, come testimonia la frase che citavo prima. Sono più di quattro anni che sto lavorando a un progetto su Méliès, insieme a Steve Piccolo ( musicista e fondatore del famoso gruppo The LoungeLizards ) dal titolo Prenetgarde à la peinture. Si tratta di un’installazione che mette in relazione alcuni dipinti e alcune video proiezioni che, mischiando filmati d’epoca e registrazioni recenti, presentano specificamente questo aspetto della vita e dell’opera di Méliès. Anche quando si duplica un’immagine già esistente, c’è sempre un piccolo spostamento che fa diventare questa un’immagine diversa. In alcune mie serie, quando ridipingo più volte la stessa immagine risulta evidente innanzitutto a me stesso l’impossibilità della sua ripetizione “fedele”, semmai quello che emerge per chi guarda è la metodologia della ripetizione, che cambio di volta in volta nella speranza di avere più “successo”. Nella serie dei cinque grandi dipinti sul ritratto di Arafat ogni gesto compiuto in relazione a una singola pennellata veniva ripetuto di volta in volta sulle altre tele. Nella serie invece The Blind Man, il ritratto replicato di Jorge Luis Borges ormai quasi cieco, ogni tela veniva finita per poi cercare di ricordare tutti i passaggi nell’esecuzione della tela successiva. La ripetizione di per se può essere noiosa, a volte ossessiva, ma offre molti spunti di riflessione e un margine non così ridotto di creazione. Per quanto mi 37 38 BARBARA TOSI Elaborazione foto: Paolo Canepa …mi ritengo fortunata di insegnare in Accademia dove l’arte si fa, o meglio si cerca di far emergere dal talento dei giovani che si affacciano in questo mondo. docenti Intervista a cura di Gianfranco Notargiacomo Gianfranco Notargiacomo: I tuoi studi hanno anticipato una tendenza oggi molto in voga. Mi sembra che tu abbia studiato a Roma… Barbara Tosi: Si, con una tesi sul mercato dell’arte, che mi creò qualche problema, perchè nessuno dei professori la voleva accettare, anzi mi suggerivano di cambiare facoltà, Economia e Commercio, o i più fantasiosi suggerivano Sociologia, perchè sembrava fuori luogo presso l’Istituto di Storia dell’Arte, che ancora era molto paludato e vecchio stile, nel 1974, ma alla fine l’ho spuntata e l’ho discussa presso la mia facoltà, ovvero Lettere. In seguito, per redigere la tesi avevo fatto molte interviste a Milano: un giovane e intraprendente Fernando De Filippi, ma anche Davide Boriani, Filippo Panseca, Maria Luisa Dalai Emiliani, Fabrizio Caleffi etc... a Roma Antonio Del Guercio, che poi, nel novembre del ‘75, mi chiamò a lavorare come sua assistente all’Accademia di Belle Arti di Roma. In Accademia c’erano alcuni studenti di Toti Scialoja e di Alberto Boatto che si chiamavano Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Nunzio che già cominciarono ad esporre al quartiere Monti e poco tempo dopo si installarono al Pastificio Cerere in via degli Ausoni. Come mai volevi affrontare questo argomento così inusuale per l’epoca? Per una serie di motivi dal 1971 fino ai primi mesi del ‘74 ero stata per lunghi periodi a Canterbury e Londra, dove avevo frequentato il Warburg Institute, mentre a Cambridge avevo seguito le lezioni di Nikolaus Pevsner. Mio padre, appassionato di arte contemporanea, mi commissionò di frequentare aste e gallerie per comprare opere di grafica dei Cobra: Appel, Corneille, Jorn e Alechinsky. Questa mia attività di ricerca e acquisto mi aveva stimolata ed incuriosita, dal momento che in Inghilterra il mercato d’arte era molto diverso da quello italiano. Cosa ti ha spinto a passare dal mondo universitario a quello della critica militante? A Londra avevo stretto amicizia con Caroline Tisdall, critica d’arte del The Guardian, lei era molto legata a Joseph Beuys, che ho incontrato a Kassel nel ‘74. Quando poi ci siamo rivisti a Pescara in una memorabile azione-mostra-evento, a casa di Lucrezia De Domizio, Beuys mi presentò il gotha degli artisti italiani da Mario Merz ad Emilio Prini e da allora ho cominciato a parlare sempre con gli artisti, e non ho mai smesso. Sono, infatti, interlocutori formidabili non solo per il loro lavoro, ma per la storia dell’arte, per i colleghi del presente e quelli del passato. Marco Del Re abitava a Roma e con lui andavamo a vedere tutto il teatro di cantine che in quegli anni erano vivacissime, da Memé Perlini a Giancarlo Nanni a la Gaia Scienza, dal Beat 72, a Mario Ricci a Leo e Perla etc.... La critica d’arte è arrivata in maniera naturale. Molto tempo dopo per otto anni ho vissuto in un luogo particolare a Roma, in via delle Mantellate, i miei vicini di casa erano Mario Schifano e la galleria di Stefania Miscetti, una condizione speciale, che mi rendeva domestica la dimensione e la vita dell’arte, irripetibile e unica. alcuni, alla galleria di Miscetti, ma l’esperienza più particolare è stata in India a New Delhi dove mi trovavo per parlare ad un convegno in occasione della Biennale di Delhi. In mostra per l’Italia c’erano opere di Luigi Ontani, per l’Inghilterrra c’era Stephen Cox, che a Bangalore era di casa, e molti altri artisti e storici europei. In quell’occasione ho conosciuto un gruppo di artisti indiani veramente straordinari, ma che non hanno mai varcato i confini del loro paese, come chiusi in uno scrigno. Parli sempre con gli artisti? E con chi altrimenti? No scherzo, devo dire che ho esteso questo ininterrotto dialogo anche alla didattica in Accademia. Sia prima, nei miei venti anni a Firenze, sia a Roma invito un certo numero, da 8 a 12 circa artisti all’anno, - tu lo sai benissimo visto che l’anno scorso sei stato invitato - per parlare con gli studenti nell’ambito del corso di Contemporanea, ma anche nel corso di Economia e Mercato invito i galleristi, i battitori d’asta etc.. Con i colleghi si parla poco di arte e anche molti anni fa avevo solo un grande interlocutore, con il quale in verità stavo più in ascolto perchè avevo solo da imparare, in quanto era uno studioso formidabile, un grande intellettuale: Filiberto Menna. Attualmente segui il lavoro di giovani artisti? Si, ma non necessariamente giovani. Mi spiego sono sempre curiosa di vedere il lavoro di artisti che non conosco e mi piace visitare gli studi. Di giovani, dal punto di vista anagrafico ci sono gli studenti e spesso cercano confronti e verifiche, a volte ci sono anche belle sorprese. A Roma ci sono anche molte nuove gallerie che fanno proposte inedite. Mi sono sempre chiesto come un critico scelga gli artisti. Bella domanda, speravo proprio che mi chiedessi qualcosa del genere. Bene per cominciare ti svelo che io mi ritengo un lettore di opere, ovvero di poetiche ed in quanto tale credo che la conoscenza profonda della poetica di ciascun artista mi fornisce il criterio di scelta rispetto alla costruzione di una mostra. Ogni mostra ha un’idea che la conduce e all’interno della quale si inscrivono opere ed autori con lo scopo di rendere l’arte avvicinabile dal maggior numero di pubblico, persone, per le quali l’opera aziona un meccanismo del pensiero tanto per citare De Chirico. Contrariamente alla tendenza in voga, o ai modelli in corso, credo che il lavoro del critico sia un lavoro per il quale necessita molta umiltà, capacità di ascolto, esercizio di sintesi e chiarezza di pensiero. Hai avuto esperienze con artisti internazionali. Me ne vuoi parlare? Si ho avuto la fortuna di incontrare Mereth Oppenheim a Roma nella galleria di Mario e Dora Pieroni e da una bellissima metafora sulla nascita dell’opera che lei mi ha raccontato ho mutuato il titolo per una mostra alla Galleria Comunale di Bologna “Perle”. In seguito ho incontrato Orlan, Hermann Nitsch, Marina Abramovic, solo per citare Elaborazione foto: Paolo Canepa *Barbara Tosi Storico e critico d’arte è Docente di Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha collaborato per il settore della critica d’arte a quotidiani quali: L’AVANTI, PAESE SERA, LA REPUBBLICA – TROVAROMA -, LA NUOVA SARDEGNA, LA NUOVA VENEZIA, LA STAMPA a riviste specializzate, settimanali o mensili quali: FLASH ART, SEGNO, CONTEMPORANEA, VOGUE PER LEI, L’ESPRESSO. Ha curato quasi esclusivamente mostre in spazi pubblici e in gran numero. Tra queste si ricorda per il grande successo di pubblico (più di 80.000 visitatori) *Mario Schifano Tutto* presso la Galleria Comunale di Roma Ex Birreria Peroni nel 2002. E’ stata *commissario per la Quadriennale d’Arte di Roma*. Relatrice per l’Italia al Convegno Internazionale alla “VII Triennale India” -New Delhi- Ha ricevuto dal Ministero degli Esteri l’incarico speciale per la diffusione dell’Arte Italiana all’estero, in qualità di *addetto culturale* presso l’Ambasciata d’Italia nei Paesi Bassi L’Aja. Numerose le pubblicazioni e i saggi di arte contemporanea, senza tener conto di articoli e recensioni. 39 docenti Questa riflessione sull’umiltà suona molto innovativa, anzi direi inusuale, come coniughi, quindi la didattica con la critica d’arte? Perfettamente! Esercitare la critica d’arte va di pari passo con la storia dell’arte, non si può essere critico senza conoscere la storia dell’arte e nei due differenti ruoli non lascio mai indietro uno per l’altro, anzi marciano di pari passo. Per questo mi ritengo fortunata di insegnare in Accademia dove l’arte si fa, o meglio si cerca di far emergere dal talento dei giovani che si affacciano in questo mondo. Allo stesso modo portare gli artisti esterni in Accademia, di varie generazioni, di differenti, poetiche e tendenze credo che sia necessario e salutare, per allargare gli orizzonti, per far si che nuovi sguardi si rivolgano all’esterno dei loro tavoli di lavoro e non solo attraverso le mie parole, le mie immagini, ma veri, in persona, su quella cattedra. Come sai ho invitato anche professori interni, che però sulla mia cattedra non erano più i professori del corso, ma artisti, come gli esterni. Un’alternanza di ruolo è solo benefica, come nello psicodramma, il cambio di ruolo, produce comprensione approfondita, superamento e conoscenza. I tuoi corsi sono in merito all’arte italiana? Si, in quanto credo necessaria la conoscenza dell’arte italiana contemporanea per gli studenti dell’Accademia. Ovviamente ci sono riferimenti obbligati e necessari, ma certamente l’arte italiana merita molta attenzione e studio. Sai che dal ‘92 al ‘94 sono stata in Olanda all’Aja presso l’Ambasciata Italiana in qualità di addetto culturale con il preciso compito di diffondere l’Arte Italiana, nei paesi del Nord Europa. Una bellissima esperienza, ma purtroppo l’Italia, diversamente dalla Francia e dall’Olanda stessa, non prevedeva alcun investimento economico per questo progetto, ma nonostante tutto sono riuscita a mettere a segno diverse iniziative. Noi italiani dobbiamo essere sempre molto creativi e ingegnosi!! Come vedi, quindi, il panorama attuale dell’arte? Lo vedo molto vivace ed interessante. Adesso che è un pò passata la “sbornia” per i video e per la fotografia a tutti i costi mi sembra che ci sia molta più consapevolezza. I lavori dei giovani sono più complessi, del resto il mondo è sempre meno semplice e la tecnologia è più assimilata al giusto ruolo di strumento e non di “soggetto”. Tutto induce a osservare e stare all’erta come si conviene ad un critico che voglia essere attento. 40 DUILIO TANKIS sul restauro e la Scuola di Restauro dell’Accademia di Brera. …noi abbiamo avuto dieci, dodici articoli ogni giorno, sulla cronaca di Milano, articoli che attaccavano l’Accademia mostrando lo scempio dei gessi ma la stessa stampa ha addirittura rifiutato di pubblicare le nostre repliche, le ha rifiutate anche il Corriere della Sera. Le nostre ragioni purtroppo non hanno avuto lo stesso risalto della diffamazione che era ed è in atto ma sia chiaro che la responsabilità diretta sullo stato di degrado delle opere è da imputarsi solo ed esclusivamente alla Soprintendenza, che ha sempre escluso la possibilità di un nostro intervento… Intervista a cura di Serena Francone Professore, vorrei che ci parlasse di come sono nate le scuole di restauro nelle Accademie di Belle Arti: quando sono comparse le prime scuole e in quali accademie? La mia esperienza nasce nell’a.a. 1998/’99 quando iniziai nell’Accademia di Belle Arti di Lecce l’insegnamento (allora come corso complementare) di restauro dei dipinti. Stimolato dalla sensibilità del direttore Giacinto Leone progettai ed ottenemmo dal Ministero un corso di restauro che prevedeva tre indirizzi (restauro ligneo, lapideo e pittorico), allora legati alle scuole di Pittura, Scultura e Decorazione. Analoghe iniziative, di cui avevo notizia, riguardavano le Accademie di Milano, Napoli, Venezia e forse altre. Negli anni accademici 1999/2000 e 2000/’01 mi trasferii a Bologna, dove insieme al Direttore e ad alcuni docenti, si strutturò un corso quinquennale nelle more della legge 508 e nei dettati della conferenza di Bologna del giugno 1999. Quindi un corso 3+2? Sì, un 3+2. Successivamente mi trasferii a Napoli dove raccolsi l’eredità del collega Tatafiore, purtroppo deceduto, validissimo docente di restauro, che lì mi volle e di cui purtroppo dovetti prendere il posto. Con l’aiuto dei colleghi Giovanna Cassese, Giuseppe Gaeta e Augusto Giuffredi, trasformai il quadriennio in un percorso 3+2. La Scuola di restauro di Napoli in virtù dei suoi ottimi rapporti con le Soprintendenze iniziò il ciclo dei corsi nel restauro di opere d’arte moderne e contemporanee attingendo al proprio patrimonio (Pinacoteca) e a quello del territorio. Cosa che non avviene purtroppo a Brera… Già… infatti so che gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli negli anni precedenti hanno avuto modo di restaurare i gessi della loro accademia. Esatto, hanno rimesso in piedi la Gipsoteca grazie ad Augusto Giuffredi, ora nostro docente trasferitosi a Brera da due anni. Noi del restauro dei dipinti invece lavoravamo su opere della Pinacoteca, su cui l’Accademia aveva e ha tuttora gestione diretta; la direttrice della Pinacoteca, Aurora Spinosa, era ed è una docente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. In questo fermento e con la vulcanica partecipazione della collega Giovanna Cassese, ora Direttrice, dell’allora Direttore Scotti e dell’onnipresente Gaeta s’iniziò una campagna di interventi su opere della Pinacoteca, sulla Gipsoteca e su opere del territorio come il “Cafe Gambrinus”. Fu un anno molto proficuo, ma per motivi di graduatorie fui costretto ad andare a insegnare a Sassari. Ha girato tante Accademie! Sì: Lecce, Bologna, Napoli, Sassari e Milano, e in tutte, esclusa Sassari, ho avuto modo di progettare o strutturare Scuole di restauro. A Sassari e quindi in Sardegna, ho lavorato (e lavoro) da circa 30 anni nel recupero del patrimonio isolano. Ma in quell’accademia mi è stata negata la possibilità di aprire una Scuola di restauro, in virtù di un’illuminata direzione che ha sempre osteggiato una simile proposta, cancellando addirittura il corso complementare di restauro, che era in assoluto il più frequentato con punte di 96 studenti su 240 iscritti. In quella Sardegna avevo due laboratori, uno di 1600 mq e un altro di 400 mq a Cagliari e Oristano, sono riuscito ad avere anche ventotto addetti, ho restaurato due pinacoteche nazionali, ho fatto due mostre internazionali, trasportando dalla Sardegna fino a New York le opere d’arte tipiche della Sardegna, opere complesse, i grandi retabli di tradizione catalana. A Brera sono arrivato nell’a.a. 2006/’07, e sono arrivato qui in una situazione che tu conoscevi benissimo, cioè laboratori deserti, organico ridotto, un solo docente di ruolo… perché alla fine dei conti le graduatorie erano esaurite, ricordiamoci che la legge 508/99 dà avvio anche all’esaurimento delle stesse graduatorie. E poi il problema della Scuola di restauro è che comunque, come molti dei corsi nuovi, sperimentali, si regge più che altro sul lavoro di docenti a contratto. Esatto. E Milano ne era l’esempio. Molte attività erano delegate all’esterno e con non poche difficoltà si è riportato all’interno della struttura l’operatività altrimenti delegata, riorganizzando i laboratori con una diversa struttura didattica, l’organizzazione logistica degli spazi e l’adeguamento strumentale per sopperire alle diverse esigenze dei laboratori in essere. Tra l’altro tra gli insegnanti della scuola di restauro dell’Accademia di Brera ci sono anche professionisti che si sono diplomati presso l’Opificio delle Pietre Dure a Firenze o all’Istituto Centrale del Restauro a Roma… Ma figuriamoci! Abbiamo un panorama di docenti di tutto rilievo e nonostante questo i nostri studenti dovranno passare adesso sotto le forche caudine di un nuovo esame, e questo secondo me è discutibile e poco dignitoso. Si riferisce all’esame d’accreditamento delle scuole o la prova d’idoneità per ottenere il titolo di restauratore? Quindi pensa che il trasferimento della scuola di restauro di Brera ad Arcore, di cui hanno parlato anche i giornali, sia indispensabile? Non indispensabile, è vitale! Dobbiamo riuscire ad andare ad Arcore. Avere a disposizione delle strutture che sono confacenti ai laboratori senza dover fare miracoli, con le strutture che abbiamo a disposizione qua mi sembra che sia logico ed essenziale andare lì. Noi lì avremo a disposizione circa 3000 mq di superficie perfetta per i nostri laboratori, potremo avere veramente un’organizzazione in quel caso consona alla formazione dei restauratori e al dettato del D.M. 87. Però lasciare la struttura storica dell’Accademia, dove è conservato il patrimonio, non è limitante? O è una scelta indifferente da questo punto di vista, dal momento che da sempre non ci è stato permesso di intervenire sul nostro patrimonio storico, cosa tra l’altro assurda? Noi non andiamo via da Brera, manteniamo qui la nostra struttura in cura del nostro patrimonio, con dei laboratori dedicati alla carta e ai gessi al fine di evitare trasporti e ulteriori rischi. Arcore non è un trasferimento, ma una promanazione della scuola in vista per altro dell’apertura del cantiere di restauro della villa D’Adda Borromeo, che fornirà cantieri di restauro per otto/dieci anni (interventi su opera tutelata come indicato dal D.M. 87). Perché per l’appunto per ottenere l’accreditamento il D.M. prevede che gli studenti operino su beni tutelati in almeno l’80% delle attività tecnico-didattiche. Ma dev’esserci comunque il benestare della Soprintendenza per operare su questa tipologia di opere… Sì, e questo è un punto veramente discutibile del D.M., ed è grave perché limiterà la libera docenza; se ogni intervento dovrà essere autorizzato e dovrà subire un esame di congruità tra l’intervento stesso e le finalità didattiche, vi lascio immaginare che libertà possa avere la libera docenza (vedi art. 2 comma 8 del D.M. 87). A questo si aggiungano le commissioni tutte sbilanciate verso il MiBAC. Noi quando va bene abbiamo un rappresentante del CNAM e uno del MIUR. 41 Nella commissione dell’esame finale previsto per il ciclo unico, o in quella istituita per l’accreditamento? Nella commissione dell’esame finale, ci sono due rappresentanti del MiBAC, due del MIUR contro il docente relatore-corelatore e il presidente di commissione. Secondo me è sbilanciata, così come quella di accreditamento, dove siamo rappresentati da un solo membro del comparto AFAM che magari fa l’antropologo o l’incisore… La mancanza di comunicazione tra MiBAC e MIUR mi sembra esemplificata al massimo proprio qua all’Accademia di Brera, in cui finora la Soprintendenza era collocata nello stesso nostro palazzo, ma nonostante ciò i gessi non si sono potuti restaurare e i dipinti se ne abbiamo avuto uno all’anno su cui poter intervenire è già stato tanto. Quindi la maggior parte degli studenti che si sono formati negli anni precedenti ha avuto modo di metter mano su un’opera solo facendo stage da esterni, società di restauro private e non nell’ambito pubblico. Non ricordo se era il 2008 o il 2009, ma comunque abbiamo raccolto tutti gli articoli di giornale…Noi abbiamo avuto dieci, dodici articoli ogni giorno, sulla cronaca di Milano, articoli che attaccavano l’Accademia mostrando lo scempio dei gessi ma la stessa stampa ha addirittura rifiutato di pubblicare le nostre repliche, le ha rifiutate anche il Corriere della Sera. Le nostre ragioni purtroppo non hanno avuto lo stesso risalto della diffamazione che era ed è in atto ma sia chiaro che la responsabilità diretta sullo stato di degrado delle opere è da imputarsi solo ed esclusivamente alla Soprintendenza, che ha sempre escluso la possibilità di un nostro intervento e ricordiamoci che abbiamo in forza uno dei più esperti restauratori di gessi, Augusto Giuffredi... Ora comunque pare si sia aperto uno spiraglio con la concessione di alcune opere minori. Tra l’altro a Brera da ormai cinque anni c’è un servizio di sul restauro Quindi la scuola di restauro di Brera soprattutto quest’anno ha subito dei cambiamenti per adeguarsi al D.M. 87 del 26 maggio 2009. Che cosa è cambiato rispetto a prima? Premesso che a Brera il corso riguardava un triennio di tipo generico con sette laboratori e un biennio di indirizzo dedicato all’arte contemporanea polimaterica, si è reso necessario trasformare questo percorso nel nuovo ordinamento previsto dal D.M. 87 con la strutturazione delle aree (per Brera pittorico, lapideo e cartaceo) con il conseguente cambio dei piani di studio adeguati alle nuove esigenze. Non ci si neghi però che le accademie soffrano, in questo passaggio, di difficoltà notevoli. Questo adeguamento, però, non deve disconoscere assolutamente il percorso formativo che fino a qui si è svolto, perché il corso di restauro del contemporaneo polimaterico è perfettamente strutturato ed esaustivo raggiungendo punti di eccellenza. Mi viene da chiedere perché questo titolo venga messo in discussione e non debba essere riconosciuto. Ricordo che un simile percorso è previsto nella seconda area dei percorsi formativi professionalizzanti. L’accreditamento mi trova assolutamente favorevole. Non si possono fare nozze con i fichi secchi. O abbiamo strutture, programmi e organici o non si fanno corsi di restauro. al raggiungimento dei crediti che i laboratori di indirizzo dovrebbero garantire in un anno, innalzando la qualità della didattica. Abbiamo bisogno di attrezzature, spazi e autonomia operativa che purtroppo il D.M. 87 può negarci, fatte salve le prerogative di tutela del MiBAC. Quindi è tutto un problema legato principalmente sempre ai finanziamenti. Si, ribadisco: “con i fichi secchi non si possono far nozze”, noi facciamo funzionare le cose con dei meccanismi che rientrano nel dettato della legge, ma che ci costringe a veri salti mortali a cui onestamente vorrei poter rinunciare, in vista di quella competitività che l’Accademia di Brera deve, può e vuole avere. Questo è quanto a Ferrara avrebbe dovuto emergere, così come la situazione del pregresso. sul restauro 42 vigilanza messo in seguito al danno subito da un gesso del Canova dall’elevato valore (tenuto tra l’altro imprudentemente in un’aula di laboratorio), e all’epoca si dette ovviamente la colpa agli studenti dell’accademia. In realtà non si conosce il vero colpevole, personalmente ho sempre dubitato fosse stato uno studente, ma comunque sia stavo proprio riflettendo sul fatto che questo servizio di vigilanza lo paga l’Accademia stessa… nonostante i gessi siano sotto la tutela della Soprintendenza dei Beni Culturali. I gessi e le altre opere appartengono al Demanio e sono ascritti al patrimonio dell’Accademia che li usa per fini didattici (o almeno dovrebbe) e altro e ha l’onere della cura sotto la tutela esercitata dalla Soprintendenza, che dovrebbe però concedere di poterli curare. La nostra Scuola ha in organico restauratori di fama, riconosciuti dal MiBAC e che lavorano su opere tutelate, e al contrario di quanto accade in altre Istituzioni, a Brera è negata la possibilità di intervento su opere del proprio patrimonio. Forse però, le ragioni sono da ricercarsi in altre vicende. E la scuola di restauro di Venaria Reale? Anch’essa sarà soggetta all’accreditamento? Ma Venaria è una situazione un po’ particolare, non fa parte del MiBAC, non è università, è un ente privato con partecipazione pubblica e alla fine anch’essa sarà soggetta all’accreditamento. Ma quel che volevo sottolineare è che noi AFAM-MIUR siamo stati la testa di ponte perché l’ICR e l’OPD diventassero enti di alta formazione a tutti gli effetti. Di conseguenza anche loro (strutture periferiche di un ente di tutela e non di formazione) potranno rilasciare dei titoli riconosciuti a livello europeo, equiparati a delle lauree. Ora mi chiedo: perché il Ministero dell’Agricoltura non forma i suoi laureati in Agraria? Perché il Ministero di Grazia e Giustizia non si fa i suoi avvocati? In conclusione risulterà che ICR, OPD, ecc. saranno sdoganati come enti di formazione universitaria a tutti gli effetti, mentre accademia e università saranno sub judice MiBAC. Mi chiedo chi dei nostri abbia partecipato alla elaborazione di questo capolavoro… Vorrei dire ai miei allievi: “ragazzi ricordatevi che il cane di due padroni non mangia” e lo si è visto al Salone di Ferrara il 26 marzo scorso, era assordante l’assenza del MiBAC e del CUN. Infatti volevo proprio chiederle quali sono state le sue impressioni generali di quell’assemblea al Salone del Restauro, in cui si parlava per l’appunto della formazione dei restauratori presso le accademie. E’ servita a qualcosa quest’assemblea o è stata una semplice vetrina istituzionale? Ho questa impressione, una vetrina istituzionale. Siamo consapevoli che i finanziamenti saranno pesantemente ridotti per il prossimo a.a. 2010/’11 e ciò nonostante ci esponiamo. Che impressione ne ho avuto? Non molto positiva, forse siamo troppo ottimisti e non ci rendiamo conto che in questa realtà e in quella che si va a configurare dovremmo fare salti mortali per portare avanti i nostri corsi. Se non c’è questa consapevolezza e non si cercano rimedi corriamo il rischio di perdere in credibilità, e potere di competizione. Per competere si dovrebbe poter accedere ai contratti quinquennali previsti dalla 508 nel comma 6 dell’articolo 2, perché attualmente possiamo attivare corsi di 120 ore con una frammentazione eccessiva A me è sembrato che praticamente sia stato presentato il lavoro svolto negli anni precedenti, senza dare l’attenzione giusta a chi questo percorso l’ha già fatto e ha finito di frequentare l’accademia. Infatti mi pare che il punto in cui Lei è stato zittito sia stato proprio quando ha accennato alla situazione di disagio di noi studenti che abbiamo frequentato già il 3+2 di restauro. Non è solo disagio, è uno scandalo. Si sarebbe dovuto confortare quegli studenti, fornire loro certezze, anche a quelli iscrittisi dopo il 31 gennaio 2006 che non potranno partecipare alla prova d’idoneità. L’Istituzione, come uno struzzo pone la testa sotto la sabbia, rimanda ad altra data, ad altra sede etc. etc. Viviamo una situazione veramente kafkiana, a Brera per esempio abbiamo un percorso formativo sul restauro dell’arte contemporanea che è riconosciuto “DIPLOMA DI SECONDO LIVELLO” come da D.M. n. 39 del 12/3/’07 firmato Mussi, e che ora è messo in discussione da un esame a sanatoria (con buona pace per il collega Carlomagno, a cui consiglio la lettura dei D.M. 53, 86, 87 e circolari seguenti prima di dare del falso al sottoscritto) a cui però non sono sottoposti ICR e OPD, nonostante in passato fossero pure scuole triennali. E l’art. 3 della Costituzione? Perché allora non sottoporre tutti all’esame a sanatoria? Anzi, appunto dicevamo che alcuni studenti non potranno neanche accedere a questa prova d’idoneità, ovvero tutti coloro iscrittisi dopo il 31 gennaio 2006. E non se ne comprende il motivo… Esatto. A Ferrara non hanno voluto affrontare questo problema, invitandomi a lasciare il palco, e se il prof. Carlomagno non ignora i decreti citati, allora è in malafede accusandomi di falsità. Poi c’è anche il caso di quei corsi quadriennali di restauro, come la scuola di restauro all’Accademia “Aldo Galli” di Como, che paradossalmente vengono equiparati invece a un corso triennale. Del resto è il problema che tocca tra l’altro tutti i corsi quadriennali del vecchio ordinamento… al contrario di quanto è avvenuto nelle università, dove già da anni i vecchi ordinamenti sono stati equiparati a un corso 3+2 e non al semplice triennio. Paradossi e contraddizioni a cui si va incontro. Negli altri paesi, Spagna, Francia… i titoli sono riconosciuti e hanno validità europea. Non ho ancora capito come vorremmo affrontare questo problema. I loro titoli saranno validi o no qui in Italia? E poi tra l’altro adesso ci ritroviamo a fare la sperimentazione della sperimentazione. Perché già il 3+2 era un percorso sperimentale, quindi il ciclo unico non avrà motivo di esistere se non sarà accreditato… perché, se non si ottiene questo accreditamento dal MiBAC, dal momento che bastano tre anni per ottenere il titolo di “collaboratore di restauro” a quel punto che si facesse solo il triennio… Non so se si potrà scegliere una simile opzione, in fondo non sarei d’accordo. Abbiamo la possibilità di affrontare il ciclo completo e ottenere l’accreditamento. Ci stiamo preparando. Tornando alla prova d’idoneità, il D.M. 53 secondo lei come potrebbe essere modificato? Il fatto che questa prova d’idoneità abbia luogo un’unica volta a me sembra una cosa assurda. Dovrebbe essere assolutamente democratica e permettere a chiunque ne abbia titolo di poter affrontare l’esame, e magari dare la possibilità di avere più sessioni e non una tantum. Così com’è, parrebbe più funzionale alle prerogative di una consorteria piuttosto che a porre ordine in modo democratico. Certo. Quindi la prova d’idoneità dovrebbe essere accessibile anche per gli studenti iscritti dopo il 31 gennaio 2006. Se hanno completato un ciclo di studi contemplato nella 53 (leggasi triennio), perché non dovrebbero? Così come per altri tipi di formazione… Dal 31 Gennaio 2006 ad oggi noi abbiamo già completato un triennio e ci accingiamo a completarne un altro. Perché escludere questi studenti? Perché allora nel gennaio 2006 non furono bloccate, ma anzi autorizzate, le selezioni d’ingresso ai corsi? E poi anche i bienni di restauro, che come dicevamo prima sono stati riconosciuti dal decreto di Mussi del 2007, però non vedono il riconoscimento del MiBAC. Il Codice dei Beni Culturali dice che per avere il titolo di “collaboratore” basta aver frequentato “almeno” un corso triennale di restauro presso le accademie. Quindi aver fatto due anni in più, non cambia niente. Sì, ed è avvilente. L’Istituzione di Alta Formazione Accademia di Brera relegata allo stesso livello di ente formativo provinciale, regionale o altro. Anzi meno, perché a loro basta un biennio di 1200 ore formative. Il Decreto Mussi attribuisce dignità di diploma di secondo livello in un percorso formativo per altro pienamente adottato nel D.M. 87. Riconoscimento massimo dal MIUR, però poi agli atti pratici ci si scontra col MiBAC. Già, il MIBAC mette in discussione tutto. Un Ministero non riconosce un altro Ministero. Non è un paradosso? E noi saremmo il cane di due padroni, che com’è noto, non mangia. *Duilio Tanchis è docente di restauro ligneo e tecniche del restauro presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. *Serena Francone è laureanda presso il biennio di restauro dell’arte contemporanea della stessa Accademia di Brera, ed è stata ex rappresentante degli studenti nel triennio 2006-2009. exfabbricadellebambole associazione culturale 43 via dionigi bussola, 6 - milano 377.190.2076 http://exfabbricadellebambole.jimdo.com/ Presidente: Gustavo Bonora Organizzazione e programmi mostre/eventi: Rosy Menta Ufficio Stampa&Relazioni Esterne: Daniela Basadelli Delegà BILL VIOLA alla Galleria dell’Accademia di Firenze sul restauro 44 Bill Viola, Emergence, 2002, video installazione, rear projection, 200x200 cm, Firenze, Galleria dell’Accademia. di Laura Lombardi La Tribuna della Galleria dell’Accademia di Firenze, edificata nel 1882 per accogliere il “David” di Michelangelo, è un luogo invaso ogni giorno da folle di turisti che restano in coda ore ed ore - côte a côte con il ‘mondo’ dell’Accademia di Belle Arti e i venditori ambulanti di cartoline e souvenirs - in attesa di trovarsi di fronte ad un’icona assoluta dell’arte del Rinascimento, per contemplarla con quegli sguardi misti di stupore e di interrogazione (e in parte generati da quella fatica fisica, che contribuisce alla ‘sindrome’ di Stendhal), immortalati da Thomas Struth in un lavoro del 2004 - commissionato dalla Soprintendenza fiorentina in occasione della mostra “Forme per il David” 1-, dove, diversamente da altre fotografie dello stesso artista, non si vede l’opera ma solo i visitatori che la osservano. Era dunque strano entrare di sera - il 19 aprile scorso - nell’oscurità della galleria, tra i marmi grezzi “Prigioni” come pilastri della navata di un’immaginaria basilica, e trovarla del tutto privata del colosso michelangiolesco al centro della Tribuna, scomparso o meglio offuscato, celato, dallo schermo su cui era proiettato un video di Bill Viola, Emergence (2002), che Franca Falletti, direttrice del museo, ha voluto far dialogare, per poche ore (il video è stato poi spostato in altra sala del museo, fino al 9 maggio) con la Pietà da Palestrina, opera appena restaurata, di controversa attribuzione a Michelangelo. Il gruppo scultoreo non è infatti menzionato dalle fonti cinquecentesche ed è ricordato solo dal 1670 nel Palazzo Barberini a Palestrina: neppure le sofisticate indagini scientifiche in occasione del restauro (compiuto da Cristina Samarelli sotto la direzione di Franca Falletti e di Magnolia Scudieri), hanno infatti portato a conclusioni certe sulla paternità (forse uno scultore tardomanierista o addirittura Bernini), anche se certo saranno all’origine di numerosi nuovi studi. La video-installazione di Bill Viola - presentata a Milano nel 2004, ugualmente di sera, all’interno del Duomo, sulla controfacciata -, è un lavoro ben noto: tuttavia la sua messa in scena nel contesto del museo fiorentino era in grado di riattivare emozioni inattese, tanto più che il dialogo tra le due opere non si fondava affatto su un confronto formale stretto, ma meramente evocativo. In Emergence due donne, l’una giovane, l’altra più anziana, sono sedute ai lati di una sorta di cisterna in marmo, in silenzio; improvvisamente, quasi assalite da una premonizione si volgono alla cisterna e da lì vedono affiorare dapprima la testa di un uomo, poi, mentre l’acqua trabocca sul pavimento del cortile, l’intero suo corpo pallidissimo, come senza vita. Una volta emerso, l’uomo barcolla e viene adagiato dalle donne a terra e coperto da un velo. Sappiamo che per quella video-installazione Viola si era ispirato alla Pietà di Empoli di Masolino da Panicale del 1424. Tuttavia Emergence condivide con la Pietà da Palestrina l’inesausta riflessione sui temi della vita, della morte, della resurrezione e della rinascita, che Viola da sempre persegue dialogando con opere d’arte antica, a partire da The Greeting del 1995, ispirato alla Visitazione di Pontormo, straordinaria pala d’altare conservata nella Pieve di San Michele a Carmignano, dove anche il video di Viola fu installato nel 2002. Non potendo raggiungere l’Italia a causa della nube del vulcano islandese, Bill Viola si è collegato con la Galleria dell’Accademia, insieme alla moglie Kira Perov, via skype, e ha ribadito il proprio legame con Firenze, città in cui, dal 1974 al 1976, (è nato nel 1951) ha lavorato, come supervisore tecnico presso uno dei più importanti studi di video art dell’Europa di quegli anni, art/tapes/22, di Maria Gloria Bicocchi, situato - volle il destino! - a pochi passi dalla Galleria dell’Accademia. Viola ha inoltre sottolineato quanto le sue ricerche, che utilizzano sofisticate tecnologie multimediali per indagare attraverso fenomeni percettivi la spiritualità umana, abbiano un rapporto molto profondo col Rinascimento la cui “essenza si trova nella fusione tra arte e scienza, precorrendo dunque la rivoluzione digitale che stiamo vivendo oggi”. Entrambi le epoche, ha aggiunto, “hanno sviluppato un nuovo modo di vedere e di vivere il mondo, ed in ognuna di queste la visione degli artisti ha giocato e continua a giocare un ruolo vitale”. 1 La mostra “Forme per il David” a cura di Bruno Corà, Chiara D’Afflitto e Franca Falletti, in occasione del cinquecentenario della creazione del capolavoro michelangiolesco, aveva messo a confronto cinque artisti contemporanei col “David”: oltre a Struth, erano stati invitati Jannis Kounellis, Luciano Fabro e Robert Morris. *Laura Lombardi è docente di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Brera. L’Accademia di Macerata conferisce il titolo di Accademico Honoris Causa ad Achille Bonito Oliva che nella sua lectio magistralis dice: «la bellezza è la sola cosa che può salvarci in un’epoca di peronismo mediatico frutto di un monopolio dei media che ha sviluppato la formazione di un gusto collettivo, di comportamenti, di uno stile di vita segnato da un atteggiamento autoreferenziale e performativo e dominato dal culto delle immagini» di Federica Facchini collaborazioni di ricerca, sperimentazione e produzione e verso sinergiche progettualità nei settori propri dell’arte, dello spettacolo, dei beni culturali, e della comunicazione visiva; sicuramente a tutto vantaggio del pubblico e del privato, insomma della collettività e soprattutto della comunità scientifica. A seguire, la relazione di Stefano Chiodi, docente di storia dell’arte contemporanea che ha presentato la nuova edizione, da lui curata, del libro di Bonito Oliva “Il Territorio magico: l’arte dello spazio contemporaneo”, la cui prima edizione uscì nel 1969. Nella sua laudatio la docente di storia dell’arte Maria d’Alesio, ha ricordato un’efficace definizione coniata dallo stesso critico «con Bonito Oliva il critico d’arte da servo di scena è diventato un protagonista con una nuova identità e funzione di maggior visibilità», per concludere, dopo una lunga carrellata biografica e professionale, con l’asserire che «ha cambiato per sempre il nostro modo di vedere e capire l’arte». Ed è invece sfruttando una battuta di Andy Warhol «se avessi avuto più forza sarei rimasto in casa a fare le pulizie», che Achille Bonito Oliva ha dato inizio alla sua lectio magistralis. Nel commentare poi il riconoscimento accademico ha ammesso di «trovarlo significativo e importante perché viene da una città che ama molto e da una regione che considera tra le più belle e intelligenti». Una dissertazione incentrata sul tema dell’ideale della bellezza, «la sola che può salvarci in un’epoca di peronismo mediatico frutto di un monopolio dei media che ha sviluppato la formazione di un gusto collettivo, di comportamenti, uno stile di vita segnato da un atteggiamento autoreferenziale e performativo e dominato dal culto delle immagini». Dal Rinascimento, al Manierismo, dal Barocco all’Impressionismo, dalle Avanguardie alla Pop Art, fino ovviamente, alla Trasavanguardia, ha saputo coinvolgere il pubblico con una sintetica quanto esaustiva evoluzione sul concetto e sulla visione della bellezza.« L’arte è importante perché serve a porre domande alla società, è problematica perché la mette a nudo, producendo e consegnando nuovi modi e processi di conoscenza. L’arte in questo senso, è indecisa a tutto, stoicamente sceglie l’indecisione rispetto alla decisione dei modelli autoritari che nascono o dalla politica o dalla telematica o dallo sviluppo tecnologico. E’ un’oscillazione quella che l’arte sceglie per sé come movimento, scavalcando il presente e cavalcando il futuro». 45 accademia di macerata Si è inaugurato all’insegna dell’indagine sull’Arte, sulle funzioni e sui ruoli di tutto il sistema che vi ruota attorno, il 38° anno accademico per l’Accademia di Belle Arti di Macerata, celebrazione che ha visto la partecipazione del padre della Trasavanguardia italiana, alias Achille Bonito Oliva. Durante l’occasione è stato infatti conferito il “Premio Svoboda” al talento artistico e creativo, titolo di Accademico Honoris Causa, del critico d’arte campano (Caggiano, 1939). Con tale riconoscimento un altro personaggio illustre viene annoverato nella rosa di nomi, la cui eccellenza si è distinta nei vari ambiti del settore artistico e che l’Accademia di Macerata da diversi anni si pregia di onorare. L’idea guida del nuovo anno accademico dunque si polarizza sul tema della funzione dell’arte. In apertura della cerimonia, l’intervento del presidente dell’Accademia Franco Moschini, nonché Presidente del Gruppo Poltrona Frau, ha sottolineato come il fecondo incrocio di saperi e una rinnovata cultura del progetto creino creatività e professionalità che non devono andare disperse ma investite nella forza del territorio, non tralasciando infine di ricordare come Macerata quest’anno sia registrata al quarto posto nella classifica delle città italiane sulla qualità della vita. «L’Arte è comunicazione – ha poi iniziato il direttore arch. Anna Verducci – e in un momento di crisi come quello odierno, l’arte è l’ambito di ricerca e laboratorio di nuove visioni per eccellenza. Quest’anno vogliamo incentivare la riflessione sul contemporaneo dell’arte, promuovendo il dialogo tra Istituzioni, addetti ai lavori e pubblici». Non si è però limitata ai soli convenevoli il direttore Verducci: polemizzando sul fatto che ancora il coinvolgimento delle accademie sia limitato ad una “manovalanza” di stagisti, ha denunciato l’indifferenza generalizzata a valorizzare le energie inespresse del settore dell’alta formazione artistica, verso attive Dionigi Gagliardi - Percezione culturale di sei volti, 2009 46 DIONIGI MATTIA GAGLIARDI, GRUPPO TERRA, NEDA SHAFIEE MOGHADDAM. L’Accademia, quindi, per noi storici e critici d’arte rappresenta un grande privilegio: avere l’opportunità di osservare da vicino, quel “vivaio” che sono le stesse Accademie. Scegliere tra talenti e promesse… ex studenti A cura di Barbara Tosi Chissà quanti nei primi anni del novecento tra colleghi e professori avevano notato quei tre amici iscritti alla Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Roma, che si chiamavano Mafai, Bonichi (Scipione) ed Antonietta Raphael. Ci si può domandare la stessa cosa molto più tardi, alla fine degli anni cinquanta a proposito di un giovane Pascali, di Kounellis, ed ancora dopo, nella seconda metà degli anni settanta a proposito di Ceccobelli, di Dessì, di Nunzio, di Tirelli.....L’elenco potrebbe essere molto più lungo per ancora molti altri, provenienti da altre Accademie italiane che sono artisti conosciuti in Italia ed oltre. L’Accademia, quindi, per noi storici e critici d’arte rappresenta un grande privilegio: avere l’opportunità di osservare da vicino, quel “vivaio” che sono le stesse Accademie. Scegliere tra talenti e promesse, anche se non facile è sempre entusiasmante. DIONIGI MATTIA GAGLIARDI elabora una poetica molto personale, rivolta soprattutto al mondo che ci circonda e quanto velocemente cambia. Proprio nelle pieghe di questo cambiamento si situa l’interesse del giovane artista, che affida all’arte il compito di osservare ed indicare percorsi più ricchi di valori, di quelli che attualmente sembrano pallidi in questa società. Egli restituisce al fruitore d’arte un ruolo di grande rilievo nell’opera stessa, come accadeva nella poetica dei Gruppi degli anni sessanta. Così come scrive lo stesso Gagliardi “Il fruitore, in questa ottica, interagisce con l’opera e proietta in essa i suoi contenuti più personali, quelli che costituiscono la parte più profonda della sua identità psicologica:mettendo in crisi o rinforzando il proprio modello di realtà.” Gagliardi affida all’artista il compito di elaborare nuovi valori per futuri universi possibili, così come è avvenuto in passato. In “Percezione culturale di sei volti” le foto di sei individui, tre donne e tre uomini di cultura africana, orientale ed occidentale rappresentano la base di partenza per l’elaborazione da parte del pubblico di una storia, breve, costruita in cinque minuti di tempo, che abbia come protagonisti i sei personaggi. Partendo da quello stimolo proiettivo potente si possono comprendere quanta influenza abbiano le differenze fisiche nell’attività interpretativa, quindi, scavare nell’inconscio dello spettatore e scrutare, studiandoli, i pregiudizi relazionali nei confronti di soggetti somaticamente e culturalmente diversi da noi. Poetiche molto differenti, ma che in comune hanno la freschezza di un sano e solido idealismo che rende lo sguardo vigile sul mondo circostante, giudicandolo per quello che è, ma anche con occhi colmi di aspettative. NEDA SHAFIEE MOGHADDAM è laureata presso l’Accademia di Roma, ma già aveva conseguito una laurea in Arte a Teheran. Il grande amore per l’arte l’ha condotta in Europa ed in Italia, (quale sede migliore per l’arte?), a confrontarsi con l’arte occidentale, con la storia del passato e con tutte le contraddizioni del presente, che sempre di più assiste alla convivenza di culture così diverse tra loro. 47 Per Neda la convinzione che ogni individuo nasconda un mistero e che l’aspetto sia irrilevante rispetto a ciò che copre e contiene viene realizzato sia nelle sculture, sia nei quadri. Nelle prime i solidi geometrici contengono o impediscono la libertà del corpo stesso e come scrive l’autrice “... non fanno che accrescere la percezione che in quelle persone avvengano fenomeni misteriosi, imperscrutabili. tanto più misteriosi, quanto più la razionalità vorrebbe ridurli a formula.”. Nella serie ’humans’, 11 opere rappresentano il lato oscuro, il mistero, che ogni persona porta dentro di sé e che deriva dal suo rapporto unico nei confronti della vita. In queste sculture il corpo umano è compenetrato da una forma geometrica che è simbolo di razionalità. Tuttavia quei solidi non fanno che accrescere la percezione che in quelle persone avvengano fenomeni misteriosi, imperscrutabili; i quali diventano tanto più misteriosi quanto più la razionalità vorrebbe ridurli. Il GRUPPO TERRA nasce a Roma dall’unione di tre artisti: Valentino Martin Davio (Roma, 1980), Marcello Serj Plebani (Bergamo, 1985), Michele Welke (Ascoli Piceno, 1984). Si presentano come un collettivo che diviene un unico artista. La parola Terra sta ad indicare la mèta, così come usavano urlare i navigatori quando intravedevano dall’albero maestro la luce del luogo in cui sarebbero dovuti sbarcare: il fine e l’idea; l’arte infatti, come astrazione, per l’artista rappresenta una mèta, da concretizzare o riportare nel suo linguaggio, in qualsiasi forma o colore, per mezzo di quest’idea. D.N.1 D.N.1 è un opera site specific, realizzata per l’evento della Notte Bianca di Roma (12 Settembre 2009); è un’installazione che comprende un video, una proiezione speculare e un dipinto monocromo. L’elaborazione della proposta “tematica” associata ex studenti Neda Shafiee Moghaddam, Humans 48 all’evento della Notte Bianca, ovvero i “Diritti Umani”, ha fatto si che lo sviluppo di questa stessa proposta si sia presentata come una descrizione approfondita che percorre i diversi aspetti del rapporto tra gli “individui”, analizzando le fusioni del linguaggio fonetico e percettivo, descrivendone le variazioni, di ciò che è “singolo” e ciò che “sarà singolo”. - L’artista è il navigatore - La nave rappresenta tutti i mezzi a sua disposizione per intraprendere e proseguire il viaggio - L’oceano o il mare in cui naviga sta a rappresentare la conoscenza e l’esperienza - La meta (Terra) sta ad indicare l’arte Gruppo Terra, D.N.1, 2009, installazione Il GRUPPO TERRA non propone soluzioni ma ypòthesis e projèctus. Le ipotesi sono le soluzioni del GRUPPO TERRA. TURN (your) BACK (on) doppia personale di studenti Dario Costa Alessandro Gioiello dal 20 maggio al 26 giugno 2010 Via San Massimo 45 (interno cortile) – Torino www.galleriaglance.com [email protected] tel 348 9249217 “SALIVA” 49 Sabina Sala e Valerio Ambiveri “Saliva” Dario Trento una mostra Allo Studio Tufano 25 Sabina Sala e Valerio Ambiveri hanno allestito una presentazione intrecciata del loro lavoro, presentata da Elisabetta Longari. Longari riflette sul tema del volo nelle opere esposte e nella tradizione contemporanea. A mostra allestita mi è parso che ciò che si imponeva con forza era la declinazione del tema nei mezzi linguistici differenziati. Di per sé, i mezzi offerti dalla tecnica obbligano quasi gli artisti alla forma della progressione. In una stanza due video di Ambiveri dialogavano con mini-light box e pellicole di Sala. Nell’altra le stesse immagini di Ambiveri e di Sala erano fissate nell’evidenza di grandi foto stampate. Il fatto che a nessuno venga da chiedere qual’era, nelle diverse versioni, l’originale, è conseguente all’assunto che la ‘traccia’ di un artista nel nostro tempo sia fatta della somma di differenti accumulazioni linguistiche. Ma proprio nella dilatazione plurale sta il modo con cui noi oggi fruiamo della materia dell’arte. A mostra finita come conserviamo la memoria di questi lavori? Fino a poco fa avremmo pensato al catalogo, a riproduzioni a stampa e agli originali tornati negli studi degli artisti o nelle case dei collezionisti. Oggi sappiamo che un’altra presenza – la più rapida e immediata – è nel web. Ma lì sta il punto: quella del web non è una nuova riproduzione ma un’ulteriore estensione dei temi, in grado di proseguire la loro esistenza. Nel suo modo di esistere attuale l’opera è più che mai aperta e sottoposta a un processo di modellazione che in parte supera anche il controllo di chi la produce. Può trattarsi di un processo infinito o di una fase contingente, legata al più generale processo in atto di ridefinizione dei canoni. Se è vera la seconda ipotesi, questa situazione di instabilità si cristallizzerà in un nuovo ordine. Ambiveri e Sala modulano materiali mitici originari per definire la loro identità d’artista nel nostro tempo. Ma questo stesso tempo li costringe a dilatare le loro apparizioni su piani diversi e successivi. Dove finirà il processo? Che importanza ha chiederselo, quando è così stimolante e produttivo stare dentro la sfida? Sul Trattato della Pittura di Gianni Maimeri 50 fondazione maimeri …c’è stato un tempo, e non lontano, in cui i pittori si occupavano di tecniche della pittura e, si badi bene, di “tecniche”: non della “propria tecnica”. Per comprendere appieno il Trattato della pittura è importante capire quale fosse il rapporto tra il pittore Maimeri e le tecniche artistiche: quale ruolo svolgessero, cioè, le tecniche pittoriche nelle concezioni dell’autore, riguardo soprattutto la sua produzione vera e propria di dipinti. Alla sua eclettica personalità e allo spirito pratico, pragmatico, corrispondeva, nella manifestazione artistica un versatile apprezzamento si può dire di quasi tutte le tecniche pittoriche. Fatta la scelta di campo per la pittura, seguendo una personale e precoce inclinazione o vocazione (Maimeri stesso si definirà quasi sempre “pittore” e quasi mai “artista”), le tecniche sono quei “mezzi tecnici” che consentono l’espressione del “personale talento”, mezzi che devono garantire, per quanto possibile, che l’opera “si mantenga inalterata” così come volle “la fantasia dell’artista” destinati “alla creazione di un’espressione nuova”. Mezzi che però “presentano proprie prerogative”, e in ciò anche “limiti”. Importante non voler ricercare in determinate tecniche “risultati che logicamente non si possono raggiungere”, come il caso di chi volesse “una pittura ad olio opaca o un pastello lucido” . Le tecniche pittoriche sono quindi per Gianni Maimeri linguaggi, “mezzi”, che consentono l’espressione alla “fantasia” dell’artista, mezzi però dotati individualmente di caratteristiche “logicamente” proprie, che l’artista sceglie consapevolmente, in funzione dei propri obiettivi. Secondo Maimeri ogni artista ha una massima preoccupazione: “il desiderio che l’opera si mantenga inalterata come la volle”. Ecco che allora una mediazione di questa situazione poteva affacciarsi nella mente dell’artista e imprenditore per, allo stesso tempo, proporre le proprie idee-guida, la propria esperienza e, perché no, anche i propri prodotti. Scrive il Maimeri nel Congedo: “Domando poi venia se spesso ho dovuto riferirmi ad una Casa produttrice nell’illustrare i prodotti, con sospetto di finalità reclamistiche. Certo molte case anche fra le italiane producono materiali ottimi […] ma di quella che ho citato mi posso far garante, perché ne dirigo dall’origine la parte tecnica e molti dei suoi prodotti sono precisamente il frutto delle meditazioni che ho sopra sviluppato ai colleghi, nella speranza di giovar loro”. Questa piccola opera testimonia che c’è stato un tempo, e non lontano, in cui i pittori si occupavano di tecniche della pittura e, si badi bene, di “tecniche”: non della “propria tecnica”. Era profondo, cioè, il rapporto tra tutto ciò che partecipava alla realizzazione fisica dell’opera nel suo essere oggetto della percezione, sia come procedimento conoscitivo e manuale, sia come prodotto, sia come elaborazione e modo d’uso di materiali e strumenti utili e funzionali alla genesi dell’opera. In questo crescevano, oltre che nella pratica della pittura. Maimeri dimostra qui una profonda conoscenza dei materiali e quindi delle loro potenzialità finalizzate all’espressione. Ancora, il desiderio di costruzioni non effimere, dove la ricerca di competenza e qualità contribuisce all’espressione, quanto alla durevolezza. Tutto ciò rappresenta il cuore della Maimeri, ciò che ci spinge a proseguire seguendo le orme tracciate, con la stessa passione di allora. Il Trattato della Pittura di Giannni Maimeri è il simbolo della filosofia Maimeri, strumento unico e irripetibile quindi che ci permette di diffonderla. Sul Trattato della Pittura di Gianni Maimeri di Sandro Baroni Si prova sempre un certo imbarazzo nel curare l’edizione di scritti o carte che un autore mancò di dare alle stampe. Questo non tanto credo, oggi, a causa di un motivo di rispetto per ciò che era quello che potremmo definire uno spazio “privato” dell’autore. L’assalto mediatico e l’infinità di occhi del Grande Fratello che incombe ci hanno abituati ad una più elastica visione della separazione tra pubblico e privato. Piuttosto i miei dubbi sono dovuti ad una sorta di responsabilità nel far diventare “documento storico” ciò che l’autore certo non avrebbe mai voluto che così “storico” diventasse. O meglio, storico “così”: cioè in questo modo. Imperfezioni sintattiche e grammaticali, svarioni, lapsus calami, abbozzi e pensieri sospesi e non sviluppati vengono consegnati alla lettura pubblica da un’edizione postuma che si vorrebbe scientifica, ed io già mi vedo in sogno, o forse in un altro tempo, in una di quelle sterminate e, si spera, serene praterie che chiamiamo Aldilà, interrogato da Gianni Maimeri, con quella sua bella tavolozza che ho appena finito di restaurare, sul perché non abbia tolto questa o quella ripetizione, sciolto quella legnosità in una frase, e poi perché abbia lasciato quel piccolo erroruccio grammaticale che – sai – è una svista, ma non fa bella figura nel mio scritto. Caro Gianni, sono stato restauratore: in tanto lavoro non ho mai cercato di alterare un originale con inutili ritocchi. Ora che mi occupo di testi storici sulla tecnica delle arti per me poco o nulla è cambiato. “Il bello è lo splendore del vero”. Lo pensava già Tommaso d’Aquino e io, certo, lo credo ancora. Lo pensavi anche tu, che il vero hai sempre ritratto, cercandovi il filtro della poesia: il bello. Lo penso, o più spesso faccio fatica a pensarlo, perché il bello e il vero sono talvolta perturbanti, dolorosi, più spesso imperfetti, con quella loro ALESSANDRO RUSSO Galleria Antonio Battaglia via Ciovasso, 5 - 20121 Milano T/F 0236514048 [email protected] www.galleriaantoniobattaglia.com caratteristica di rimandare ad “Altro”. Già lo sapevano i greci, che fecero Afrodite strabica. Ma proprio questa imperfezione, questa fragilità di abbozzi, accenni, pensieri sospesi, trascuratezze sono ciò che ci affascina. E ci affascina anche nella riproposizione e lettura di questo, apparentemente ingenuo, volumetto sulla tecnica della pittura. Qui, ad esempio, nella doppia introduzione, presente in prima stesura e poi in versione “riveduta e corretta”, ci appare quella giusta intolleranza alle pedanterie, che ancora oggi colpisce e fa sorridere chi – sapendone – di trattatistica tecnica si deve occupare: “rifrittura di baggianate” prima, “luoghi comuni e molte inesattezze” poi. La bellezza del vero. Prima nuda e poi “benignamente d’umiltà vestuta”. Per questo motivi, oltre che scientifici e di inclinazione personale, ho cercato e optato per una modalità di edizione del testo che potesse dar ragione della propria originalità e provvisorietà, stanti le cosiddette “varianti d’autore”. Tutto questo, però, in una forma che potesse anche consentire una lettura “piana” dell’opera, “corsiva”, così come la potrà fare chi, seguendo la lettura del testo, tralasci e con ciò si sbarazzi delle note a piè di pagina. Una scelta che vedo forse – e spero di sbagliarmi – oggi un tantino coraggiosa, rispetto alla sempre più dilagante moda del divulgativo, operata “dal basso”, cioè da chi nulla ha da divulgare, ma vorrebbe che tutto ciò che non sa, e che avrebbe bisogno di apprendere, si riducesse ai modesti parametri del proprio status culturale e mentale. *Estratto dell’introduzione all’edizione. 51 Veduta interna della ex fabbrica delle bambole, associazione culturale 52 Ex fabbrica delle bambole era la fabbrica dei giocattoli Mattel, ovvero dove si fabbricavano le Barbie ed Ercolinosempreinpiedi, ora è sede di una nuova e attivissima Associazione Culturale dove è anche possibile essere ospitati con bed & breakfast. iniziative culturali Fondata da Gustavo Bonora (pittore e psicanalista), Rosy Menta (naturopata) e Daniela Basaldelli Delegà (uff. stampa e p.r.), l’Associazione è un luogo gradevolissimo e gestito con energia. Chi sono Gustavo Bonora e Rosy Menta? Gustavo Bonora pittore e psicanalista e Rosy Menta naturopata, hanno gestito negli anni ’80 una galleria-centro culturale Arsgallery-S. Tecla (dal ’78 all’84). Rosy e Gustavo, dopo una lunga parentesi ligure tornate a Milano con un nuovo progetto, di che si tratta? Uno spazio polivalente che accoglie e programma eventi culturali che vanno dall’arte e a tutto ciò che risponde conoscenza e d’informazione interdisciplinare, e accogliere e promuovere giovani artisti, esordienti ma con un’occhio all’impegno etico nel mondo del volontariato e alla collaborazione con persone ed enti che operano nel volontariato, alla difesa dei diritti umani, delle cure non invasive, dell’ambiente. Cos’era il centro culturale S.Tecla? Che iniziative avevate realizzato? Il S.Tecla, nasceva nel centro di Milano con gli stessi intenti di exfabbricadellebambole ma era anche un centro di convegno e ricerca di psicanalisi lacaniana allora in auge. Si organizzavano mostre/eventi in collaborazione con il Comune di Milano, il Goethe Institut, Consolato Danese, Centro Culturale Francese, Consolato Jugoslavo e altri. Hanno esposto, all’epoca: Asinari, Jokanovic-Toumin, Jean Louse Vila, Jean Degottex, Jean Clareboudt (allora erano giovani o poco noti in Italia, ora esposti più prestigiose collezioni/gallerie internazionali); Olivieri, Crippa, Gallerani, Bonora, Carmi, Brusamolino, Pardi, Leddi, Cavaliere, Moncada, Grillo, Vedova, Signorini… tanto per citare alcuni nomi e fra i giovani d’allora, Pizzi, Ho-Kan, Barna, Basile… Com’era la Milano degli anni ’70 e ’80? Com’è la Milano di oggi? Nella Milano di quegli anni, a differenza di oggi, le gallerie erano dei luoghi d’incontro che promuovevano dibattito e progettualità. Mi avete detto che intendete occuparvi di giovani artisti che frequentano l’Accademia e di artisti trascurati dalla critica o addirittura sconosciuti, perché? Perché la logica del mercato e l’andamento della critica persistono sulle certezze dominanti e sui nomi accertati, mentre riteniamo che ci siano molti artisti che per motivi soggettivi ma anche per la difficoltà a inserirsi nel circuito chiuso del sistema. Crediamo che sia giusto dare delle opportunità. Gustavo, tu, con la tua lunga esperienza di pittore critichi fortemente l’arte contemporanea, perché? No, non critico l’arte contemporanea sono scettico nei confronti di un sistema che non è più capace di discriminare fra il vero e il falso. Dove risiede l’equivoco? Quando inizia? Ormai, sotto l’egida del sistema critico-mercantile le categorie logicolinguistiche non sussistono più ed è possibile qualsiasi cazzata. La cosa inizia da quando, dopo l’Avanguardia, si è instaurato il vezzo retorico del “neo-neo-neo…qualsiasi cosa”, purchè voluta e promossa dall’arbitrio indiscriminato dei critici. Vuoi qualche nome? Da Gillo Dorfles a Bonito Oliva, fra i due metti tu i nomi che vuoi, se non hai nulla da temere. Ti invio un sintetico scritto, dal titolo “Concettuale” sperando che tu voglia pubblicarlo perché potrebbe stimolare un dibattito intellettuale. * (pubblicato in calce) La curiosità e l’entusiasmo per la vita sono il segreto della longevità, cosa ti interessa di quanto accade oggi? Comunemente si sorvola sul fatto che un’artista debba o possa essere anche un’intellettuale, è possibile che ciò sia un tabù? Io mi diverto ancora a studiare e a confrontarmi con tutto ciò che serve a spiegare il limite discriminante fra il vero e il falso. Che progetti avete per il futuro? Vogliamo far crescere questo spazio un po’ anticonformista, che fra l’altro ospita anche un servizio “Letto&Colazione” per artisti e turisti culturali e non, farlo diventare un punto d’incontro di cultura, culture e progettualità. “Concettuale” Gustavo Bonora [1] - Teoria e pratiche della critica d’arte, in Atti del Convegno di Montecatini, maggio 1978; Feltrinelli 1979. [2] - M. Merleau-Ponty: La prosa del mondo, Editori riuniti, pp 69-70. [3] - Ermeneutica : disciplina interpretativa che attiene a quattro livelli esegetici: letterale, morale, allegorico e anagogico. [4] - Noetica: noematica ( noesis – da noein = pensiero ) . [5] - Nous - trascrizione kantiana del concetto platonico (Timeo, 51,D) di realtà intelligibile, oggetto della ragione contrapposta alla realtà sensibile, da cui la nozione noematica di produzione concettuale. (6) - Eidos = forma ideativa, dal greco Eidetikòs = formativo. Virtuosità dell’intelligibile che, secondo Platone è la peculiarità della facoltà di astrazione. In Aristotele è la nozione metafisica generalizzata dell’unicità della virtuosità etica. Il concetto di eidetica è mutuato dai fenomenologi della percezione; Husserl che a suo tempo si riferiva agli Stoici, ne fa la riduzione trascendentale della coscienza in essenza etica, ripresa poi da E. Cassirer in Eidos ed eidololon (R. Cortina 2009), riferito a Merleau-Ponty, Sartre, ecc., per designare la facoltà di dar forma alle idee. [7]- significa infatti rinunciare a comprendere il mondo effettivo e passare a un tipo di certezza che non restituirà mai il ‘c’è del mondo: Merleau-Ponty: Il visibile e l’invisibile , Bompiani 1999, p. 34. 53 iniziative culturali Siamo nell’era del “Concettuale”e, al di là del manifesto dei suoi adepti storici, è uno statuto linguistico carico di valori simbolici e teoretici esteso a tutto il mondo dell’arte contemporanea; ma persiste un punto controverso, ci si chiede a chi è conferito il primato teoretico, all’artista o alla critica? Nella disputa che si accese nel 1978 a Montecatini, [1]la voce di F. Menna si elevava con un monito: Una critica senza oggetto non può esistere, anche se resta da accertare lo statuto epistemologico della relazione tra i due termini. Tanto più che non è soltanto la critica che si configura come discorso su un altro discorso: l’arte stessa si presenta con uno statuto analogo, almeno da un’angolazione linguistica, dato che, in ogni caso, essa interviene su un codice acquisito e lo modifica in maniera più o meno profonda. Il monito era rivolto a F. Lyotard che asseriva che, dopo l’Avanguardia, il confine fra la teoria e la pratica è così sottile che l’affinità necessitata dalla strettoia concettuale condiziona la dialettica in tutti i giochi possibili. Come scriveva M. Merleau-Ponty;Il problema moderno di sapere come l’intenzione del pittore rinascerà in coloro i quali guardano i suoi quadri, non è nemmeno posto dalla pittura classica. [2] Quanto alla tempestività di un’interpretazione, vuoi che la critica sia in anticipo sul ritardo della pertinenza a leggere, si pone la questione dell’intelligibilità, il divario persiste fra guardare e vedere, eppure, se il salto metafisico moderno induce il fruitore ad una lettura impegnata, la visione moderna apre anche ad una nuova competenza ermeneutica dei costrutti storici. [3] Lo schema che intercorre fra i due poli del problema moderno suscita la domanda: qual è la condizione perché le due entità si sintonizzino sull’opportunità noetica [4] di intendersi? Occorre la competenza a leggere, altrimenti il fruitore guarda la cosa ma non vede l’imago, la competenza del fruitore implica l’impegno etico dell’adesione concettuale al Nous [5] dell’autore e, condiviso lo statuto estetico, procede dal guardare al saper vedere. Resta sempre da stabilire il ruolo della critica; conferitagli la competenza descrittiva, avrebbe o no la funzione discriminante della valutazione? L’impulso a leggere è quello di un sapere che giunge a confermare un talento non innato, ma acquisito per iniziazione etica. Per esempio, leggere Joyce, significa stare con Joyce lungo il suo noema, contro l’attardante resistenza alla differenza significante; ma c’è di più, al di là della discrezionalità noetica del testo, vi è lo stile, il tratto distintivo che segna il limine soggettivo della facoltà póietica, la cui versatilità, induce la competenza noematica nella stessa misura in cui vela il Nous. Lo stile è il tratto differenziale opposto alle rappresentazioni conformi allo standard del gusto, dove però chi ne gode il limine, gode dell’imago. Il processo di alfabetizzante non è un talento connaturato alla conformità culturale, esso esige selettivamente la facoltà eidetica [6 secondo la singolarità elettiva dell’impegno etico. Vi è in questa causa il dispositivo inclusivo/esclusivo di chi si situa nel punto dell’ultimità eidetica, l’hic et nunc dell’atto creativo. Posta la distinzione generale fra il modo figurativo e l’astratto, occorre una puntualizzazione: è nella potenzialità della traslazione dalla cosa all’icona che il figurativo, con l’associare per similitudine, perviene alla noematica dell’imago, mentre l’astratto, esposto com’è alla verifica semiologica, chiama in causa la prova noematica. [7] Ora si pone necessariamente un quesito: quando l’opera non è figurativa, dal punto di vista semiotico cosa rappresenta? La linea linguistica novecentesca è concorde nel definire i sistemi di rappresentazione secondo tre registri semiotici: il reale, il simbolico e l’immaginario; il reale è la fissità letterale della cosa identica a sé, il simbolico è il tratto sostitutivo che trascende la letteralità della cosa nella virtuosità dell’imago, e l’immaginario è la potenzialità noetica delle rappresentazioni arbitrarie. È all’insegna del Nòmos che il Nous (pregnanza ideativa) assurge alla potenzialità simbolica delle rappresentazioni iconiche, ma l’atto d’arbitrio creativo è l’esercizio della fondazione del nuovo logos che, per la diversità che introduce, suscita il rigetto; il rigetto è connaturato non solo all’inerzia conformistica, è anche la resistenza al nuovo che sovverte le certezze dei fondamenti acquisiti, e si sa come la tradizione ermeneutica si attenga alla lettera, così come i sistemi conservatori impugnano il dogma imperscrutabile che decreta il Nòmos (legalità significante), sul versante opposto, nella misura in cui a far vigere la nominazione è la voce esclusiva delle intellighenzie in auge, sotto il vessillo di qualche manifesto neo-neo-neoideologico, si può legittimare qualsiasi arbitrio. A conclusione della rassegna (necessariamente non esaustiva), se fin qui ho cercato di rintracciare le categorie costitutive della Modernità e di definirle facendo ricorso a ciò che poteva concorrere a nominarle, devo ammettere che, mentre la teoria della nominazione ha raggiunto livelli tanto proficui, paradossalmente, non c’è paradigma strutturale che ricopra il curricolo estetico postmoderno, così è consentita qualsiasi cazzata, chi eleverà il monito decisivo per farla finita? 54 recensioni Le “vedute” di PIETRO CAPOGROSSO alla galleria Andrea Arte Contemporanea di Vicenza e al MIART di Milano con la galleria Paolo Erbetta di Foggia. Per la sua prima mostra personale alla Andrea Arte ContemporaneA (Vicenza), Pietro Capogrosso presenta una inedita serie di “vedute” estrapolate dalla realtà moscovita. Il titolo della mostra, Kutuzoskij prospekt 13 , corrisponde infatti all’indirizzo civico in cui l’artista vive e lavora da alcuni anni a questa parte. Dopo i meriggi paesaggistici della Puglia (che dichiaravano una chiara appartenenza al proprio retroterra, anagrafico come pure culturale) ecco affacciarsi sulla tela i panorami innevati della Mosca post-comunista, il cui aspetto rigoroso e asciutto si confà al ricordo del marziale “Generale Inverno”. Partendo da un’attenta ricognizione della natura e dell’assetto urbano, l’artista inquadra i soggetti con tagli fotografici che ne accentuano la visione frammentaria per poi decontestualizzarli e traslarli in una dimensione astratta e asciutta. La componente stilistica, così come la gamma della tavolozza, è quasi ridotta al grado zero della figurazione. La luce tersa modula il colore su tonalità pastello e sfalda i dettagli lasciando che la sostanza delle cose diventi una massa soggetta a vibrazioni e dissoluzioni; i volumi, di conseguenza, si azzerano proiettando le silhouette di cupole, alberi, case, tralicci, su fondi opalini e rarefatti. L’atmosfera coloristica, unitamente al senso di vuoto e di sospensione che aleggia nelle vedute di Capogrosso, acuisce l’impossibilità di afferrare queste sue “architetture impalpabili”. Inevitabilmente lo sguardo tende a posarsi su elementi secondari, inaspettati, privi di retorica o eroicità, che subiscono «quel senso di abbandono – aveva scritto Marco Pierini – che caratterizza gli oggetti prescelti dal pittore (in solitudine, dimenticati, accantonati ai margini)» capaci di restituire «il momento del silenzio, dell’aria che resta sospesa, del movimento che si arresta». Quello di Capogrosso è un costante lavoro di osservazione, un’ostinata ricerca su soggetti simili ma mai identici, un’indagine paziente intorno a uno spazio “raccolto” (e giammai raccontato) che inclina all’intimismo. Un intimismo personale, ma anche tecnico: di riflessione sui valori stessi della pittura. Non per nulla, i dipinti dell’artista sono “riservati”, “discreti”, ci parlano sottovoce di un mondo autobiografico, sensibilità che qualcuno aveva giustamente fatto risalire a Giorgio Morandi. In punta di pennello Capogrosso pare ereditare la lezione del vivere del maestro emiliano, la volontà cioè di affacciarsi sul mondo da una finestra aperta – la tela – per convertire la realtà oggettiva in una verità pittorica. Or dunque, «qual è il segreto di una pittura in apparenza tanto semplice?» si chiedeva Marchiori a proposito di Morandi, interrogativo che si rinnova di fronte alle opere di Pietro Capogrosso; segreto di cui lo spettatore non deve chiedere spiegazioni, perché le presenze emblematiche di questi quadri si rivolgono solo ed esclusivamente ai nostri occhi. L’incanto (dello sguardo) è tutto, e innanzitutto. *Pietro Capogrosso è docente di Anatomia all’Accademia di Brera 55 ALTROVE Tutta l’immediata freschezza e la vitalità di un maestro della pittura italiana in una ventina di fogli disegnati 14 - 30 maggio 2010 Una mostra a cura di Maurizio Coccia, allo Studio Sisinnio Usai di Sassari. Catalogo edito da Soter Editrice con testi di Sonia Borsato e Maurizio Coccia. Nicola Maria Martino, uno dei protagonisti della pittura italiana degli ultimi trent’anni, in questa mostra torna al disegno. In verità, si tratta di una tecnica mai trascurata, ma che in questa occasione diventa veicolo per una nuova fase produttiva, di ritrovata felicità compositiva, irrobustita da una disinvolta suggestione narrativa. Sono esposti una ventina di piccoli formati su carta ruvida. La figurazione è essenziale. Ma il segno, fluido e incisivo, ha momenti di grande intensità. La matita sostiene strutturalmente il colore, distribuito in tracce diluite. Il disegno assorbe la qualità tattile del supporto, e il vuoto che circonda le figure assume infine valore atmosferico. I soggetti, cari all’autore, rimandano alla calda mitologia mediterranea della sua pittura. Oltre a motivi paesistici di ispirazione meridionale, c’è soprattutto l’epica del viaggio come esperienza formativa. I colori sono chiari. I cieli sereni. Dai disegni emana una generale sensazione di freschezza primaverile. E una buona dose di garbata ironia. recensioni NICOLA MARIA MARTINO Questi lavori, estratti dalla recente e copiosa produzione di Martino, sono il distillato di una ricerca inesausta di eleganza e armonia. E il passaggio dalla pittura al disegno, non mette affatto la sordina alla sontuosità cromatica cui Martino ci aveva abituati. Anzi. La sua prontezza stilistica fa emergere tutto il magistero formale del maestro italiano, cui l’accurato catalogo progettato da Salvatore Ligios, rende il giusto onore. Grazie Nicola! di Gaetano Grillo recensioni 56 Ho conosciuto Nicola Maria Martino molti anni fa perché attraverso Flash Art, che aveva pubblicato delle nostre opere, avevamo scoperto di avere delle cose in comune. Successivamente abbiamo fatto una doppia personale alla Galleria Bianca Pilat di Milano e diverse collettive in giro per l’Italia finchè il destino ha voluto che la mia prima cattedra di Pittura in Accademia fosse proprio a Sassari dove ho vissuto un anno, ospite in casa sua. Ricordo con molta nostalgia quei tempi e in particolare il piacere che avevamo nel parlare finalmente di “Pittura” (cosa sempre più rara e difficile). Quella piccola accademia, grazie a lui, guardava oltre i ristretti confini regionali e sprigionava energia, curiosità e freschezza straordinarie. Il mare, le vele, i colori, la luce e i sapori del mediterraneo sembravano essere il contesto ideale per Nicola, appollaiato sulla passeggiata delle mura di Alghero con il suo immancabile whisky elegante. Molti colleghi non apprezzavano la sua personalità, spesso burbera, ancor più spesso talmente ironica, autoironica e ancor più, sarcastica da infastidire chi non vive profondamente il mondo dell’arte. Il suo rigore nel pretendere dai professori di osservare scrupolosamente i propri doveri, veniva percepito soltanto come una esagerata attenzione alla burocrazia ma senza quell’argine, senza l’occhio vigile di Nicola quell’accademia sarebbe implosa subito o almeno sarebbe diventata una realtà locale con tutti i vizi e i limiti del caso. Siamo passati in tantissimi dall’Accademia di Sassari e i giovani studenti sardi hanno potuto confrontarsi con docenti di qualità, quasi sempre di passaggio, ma proprio quella rotazione è stata l’opportunità che loro hanno avuto per non essere isolati e per connettersi in diretta alle questioni internazionali della ricerca artistica. Nicola, che ha mantenuto la sua cattedra di titolarità all’Accademia di Roma, dove per altro si è formato alla Scuola di Sante Monachesi, avrebbe potuto scegliere di fare la sua carriera accademica anche a Torino o Milano, dove pure ha insegnato ma ha creduto in quella “finestra aperta sul mare” si è sacrificato, ha trascurato l’attività artistica e il suo sacrificio non è stato ancora ripagato e forse neanche riconosciuto. Alla fine di questa sua ventennale avventura sarda, Nicola Maria Martino lascia Sassari senza enfasi ma con una piccola mostra di disegni, un gesto elegante per uscire in punta di piedi dalla scena senza tradire il suo stile che nasconde sotto un’apparente maschera grottesca una sensibilità poetica straordinaria risolta invece con freschezza e leggerezza. Nicola Maria Martino è un artista che ha avuto il coraggio delle sue scelte che ha sempre difeso senza esitazione e senza mai nascondersi, a torto o a ragione ma con orgoglio e intelligenza. E’ l’unico che ha espresso feroci critiche all’attuale riforma, critiche interpretate soltanto come una forma reazionaria e nostalgica per rimanere ancorato alla tradizione. In verità Nicola Maria Martino è il direttore più accreditato come artista e come tale ha visto minacciata la specificità della formazione artistica da problematiche diverse e fuorvianti delle quali oggi, anche i più convinti sostenitori della legge 508/99 iniziano a percepirne il limite. In questo senso Nicola potrà forse un giorno apparire profetico. Il Ministero dell’Università, l’AFAM e il sistema accademico italiano perdono un protagonista coraggioso e coerente ma sono certo che ne guadagnerà il mondo dell’arte perché Nicola, finalmente, alleggerito dalle scartoffie, potrà ritrovare l’energia salutare della PITTURA. Grazie Nicola per quello che hai fatto e per l’orgoglio che hai trasmesso a tutti coloro che come te hanno amato e portano nel cuore le Accademie di Belle Arti. Buon lavoro come pittore! URANO PALMA è tornato nel suo pianeta Urano Palma e Giampaolo Prearo alla Cascina Galoppa marzo 2010 Photo Fabrizio Garghetti naturalmente, il meglio Via Antichi Pastifici Lotto B/12 - Z.I. 70056 Molfetta (Bari) Tel. 080.3381123 - Fax 080.3381251 [email protected] - www.limmagine.net nE L’IMMAGINE AZIENDA GRAFICA SRL mmAG I L’ I ® MAIMERI OLIO x red accademy 10-02-2010 17:46 Pagina 1 DAI POTENZA ALLA TUA FANTASIA modello Porsche dipinto da Alessandro Gedda, concept e photo Claudio Sforza 38 COLORI FORTI E BRILLANTI 4 PASTE A OLIO INNOVATIVO PRATICO IMMEDIATO EFFICACE GRANDE FORMATO CONVENIENTE RISPETTA L’AMBIENTE made in Italy dal 1923