L`EVOLUZIONE DELL`INTERVENTO PUBBLICO NELL`ECONOMIA

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L`EVOLUZIONE DELL`INTERVENTO PUBBLICO NELL`ECONOMIA
Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
L’EVOLUZIONE DELL’INTERVENTO PUBBLICO NELL’ECONOMIA E LE
PRIVATIZZAZIONI
Fabrizio Panozzo
Università Ca’ Foscari di Venezia
Introduzione
Negli ultimi decenni è defintivamente caduto il muro che, nelle economie
capitalistiche avanzate, aveva per lungo tempo tenuto separati e distinti il settore
pubblico da quello privato. Non si è trattato però di un crollo improvviso quanto di un
esito largamente prevedibile e previsto: tracciare un linea netta tra “mercato” e “stato” si
era rivelato, e da tempo, alquanto difficile. Ad andare in crisi fin quasi dal suo
concepimento era stata la possibilità stessa di ripartire in maniera ottimale i compiti tra i
due settori dell’economia e con essa l’ipotesi che ci fossero delle attività economiche che
sicuramente il mercato poteva svolgere meglio della Pubblica Amministrazione, e
viceversa. L’evoluzione dei sistemi economici occidentali aveva dimostrato, e continua a
dimostrare, che il sistema pubblico come quello privato hanno una certa tendenza a
“fallire” ovvero a non ottenere quei risultati che in teoria dovrebbero garantire. Proprio
in virtù di questi fallimenti pubblico e privato hanno spesso invaso i rispettivi campi
superando nei fatti quel confine che avrebbe dovuto tenerli distinti.
Fino a qualche decennio fa l’azione delle amministrazioni pubbliche si era svolta
all’interno di un modelllo di organizzazione sociale e politica (il welfare state), che, pur
con rilevanti eccezioni nei paesi occidentali, riservava al soggetto pubblico ed alla sua
struttura amministrativa il diritto/dovere di intervenire direttamente nelle dinamiche
economiche con la produzione diretta di beni e servizi individuali e collettivi. Questo
orientamento comincia decisamente a cambiare in coincidenza con il movimento di
riforma del settore pubblico passato alla storia con il nome di “New Public
Management”. A partire dagli anni ’80 del novecento, le stesse riforme amministrative
trovano forza ed alimento in posizione ideologiche e programmi politici che vedono il
settore pubblico non come uno strumento da perfezionare ma come un “problema” da
risolvere al fine di aumentare il benessere di cittadini ed imprese. È probabilmente questo
l’elemento che più di ogni altro caratterizza la natura e la direzione del cambiamento che
si oggi si richiede alle organizzazioni pubbliche. Da soggetti legittimati dall’esigenza di
fornire beni e servizi che l’economia di mercato non era in grado di produrre e dalla
necessità di proteggere dai “fallimenti” dell’economia capitalistica un determinato
equilibrio sociale ed economico, le amministrazioni pubbliche sono state identificate
come una delle principali cause di inneficienza nei sistemi economici nazionali e regionali
e quindi come una pesante ipoteca sulle possibilità di sviluppo dei cittadini e delle
imprese operanti in quei sistemi. Le riforme di cui parliamo sono fortemente
condizionate dal mandato politico a ridurre questo peso attraverso interventi mirati
appunto allo “snellimento” della PA sia sul piano dimensionale (estensione quantitiva
del settore pubblico) che su quello operativo (regole di funzionamento delle
organizzazioni pubbliche). Più che di una riforma, si è trattato quindi di avviare una vera
e propria una “reinvenzione” della pubblica amministrazione: una ridefinizione radicale
dell’identità, del ruolo e della dimensione della pubblica amministrazione nei sistemi
economici evoluti.
E di queste ultime problematiche, e di alcuni tra i più significativi aspetti che la
caratterizzano, che ci si occupa in questa sede prendendo in considerazione i principali
fenomeni connessi ai processi di privatizzazione che negli ultimi decenni hanno
interessato anche nel nostro paese tutti i settori in cui sono storicamente intervenuti i
pubblici poteri. Tali processi di privatizzazione hanno avuto obiettivi diversificati che
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sono andati dalla promozione dell'azionariato popolare, all'aumento della competitività
del paese, alla de-politicizzazione delle decisioni economiche, alla riduzione del debito
pubblico. Attorno al fenomeno delle privatizzazioni ruota quindi un insieme di
problematiche che vanno ben al di là degli aspetti tecnici riferibili ai passaggi di proprietà
tra pubblico e privato.
Nella prima parte si esaminano quindi le tradizionali modalità di intervento dello
Stato nell'economia attraverso lo strumento dell'impresa. Particolare attenzione viene
dedicata alla forma della società a partecipazione pubblica di controllo sulla quale si sono
storicamente fondati la nascita e il consolidamento del sistema delle partecipazioni
statali. L'assetto caratterizzato dalla presenza di "enti pubblici di gestione" ha per molti
anni rappresentato un elemento distintivo dell'intero sistema economico italiano in cui
l'intervento diretto nell'economia attraverso il sistema delle imprese a partecipazione
statale è stato utilizzato come un vero e proprio strumento di politica economica. Sono
infatti la crisi di questo sistema e la sua rapida disgregazione a rendere particolarmente
rilevante l'esperienza italiana nel campo delle privatizzazioni che viene analizzata nella
seconda parte. La politica delle privatizzazioni in Italia si è configurata come un processo
rapido e graduale, segnato dal progressivo passaggio da forme di privatizzazione
meramente “formali” in cui è cambiata la sola natura giuridica delle imprese che restano
però in mano pubblica, a privatizzazioni sostanziali in cui passa in mani private la
proprietà delle impresse stesse. Le ragioni di questa gradualità nella cessione del
controllo sulle imprese pubbliche sono molteplici ma hanno spesso a che fare con il
tentativo, più o meno giustificato, di salvaguardare la motivazione “sociale” che era stato
all’origine dell’intervento pubblico. Nella fase di transizione caratterizzata dalle
privatizzazioni formali continuano quindi ad avere un rilievo sostanziale le specificità di
natura pubblicistica delle imprese e le “finalità collettive” ad esse attribuite.
L'intervento pubblico nelle attività produttive
Fin dalle sue manifestazioni le caratteristiche dell’intervento pubblico nel sistema
economico italiano possono essere riassunte in tre punti essenziali:
 settore pubblico forte ed esteso;
 disciplina pubblica dell’economia finalistica, mediante la quale il potere pubblico
persegue un proprio scopo prioritario, rispetto agli interessi di altri soggetti;
 gestione di servizi imperniata su enti pubblici di settore.
La situazione relativa all’intervento dello Stato nell’economia si consolida e si
arricchisce, non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche dal punto di vista delle
forme organizzative impiegate, e rimane immutata fino agli anni ’70. Solo negli ultimi
decenni, sono avvenuti dei cambiamenti sensibili, e per molti versi radicali, sia in merito
al grado di espansione di tale intervento che agli strumenti utilizzati per realizzarlo.
Le formule di organizzazione che si sono adottate sono state assai articolate, in
rispondenza, il più delle volte, a motivi di carattere contingente più che ad una
consapevole strategia dell’inserimento dello Stato nelle attività produttive. In linea
generale, le logiche dell’intervento pubblico possono essere riassunte in tre modelli :
 intervento esterno generico, realizzato dalla pubblica amministrazione mediante gli
strumenti di regolazione generale dell'attività economica;
 intervento esterno specifico, consistente in azioni volte a modificare, tramite la politica
degli incentivi (finanziari, fiscali, ecc.), i termini di convenienza delle scelte delle
imprese, come pure in azioni volte a vincolare - per via contrattuale - la gestione di
determinate imprese allo svolgimento di attività produttive funzionali al
raggiungimento di obiettivi sociali (ad esempio: assegnazione di commesse di
particolare rilevanza);
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 intervento diretto, realizzato dalla pubblica amministrazione tramite l'esercizio di
attività d'impresa. Esso si svolge all’interno di strutture organizzative specializzate e
tali da rispondere ad esigenze uguali a quelle che vengono soddisfatte nell’impresa
privata.
Nei paragrafi che seguono l’attenzione è concentrata sull’evoluzione delle modalità
attraverso cui, nel caso italiano, lo Stato ha realizzato il suo intervento diretto nell’attività
produttiva. Fino alla recente politica di privatizzazioni il sistema prevedeva la presenza
di tre figure che, in base alla tradizionale classificazione intesa in senso economico, sono:
1. le imprese-organo
2. le imprese-enti pubblici economici
3. le società private a partecipazione pubblica.
Le tre figure identificano, quanto ai profili organizzativi, differenti gradi di autonomia
dell’impresa pubblica rispetto ai policy maker e, quanto all’attività, livelli crescenti di
assoggettamento dell’impresa pubblica al diritto privato.
L’impresa-organo si caratterizza per il fatto di essere priva di autonoma personalità
giuridica; il suo soggetto giuridico è infatti lo Stato, il quale, attraverso una sua apposita
articolazione, la gestisce e ne assume la titolarità. Potremmo, perciò, considerarla come
uno strumento di cui l’operatore economico pubblico si serve per il raggiungimento delle
finalità che si è preposto. L’impresa-organo è quindi una particolare sezione
dell’organizzazione statale, ma è pur sempre dotata di un proprio ordinamento interno,
che ne regolamenta l’attività svolta. Inoltre, possiede l’opportunità di tenere la propria
contabilità e di redigere un proprio bilancio preventivo distinto da quello dell’ente di
appartenenza; ha la piena disponibilità dei beni patrimoniali, che ad essa fanno capo e
dei quali cura anche l’amministrazione; prevede una speciale regolamentazione del
proprio personale; può concludere contratti seguendo modalità più libere di quelle che
dovrebbe solitamente seguire un’Amministrazione Pubblica; ha la possibilità di ricorrere
a fonti proprie di finanziamento, alla finanza pubblica e all’autofinanziamento; infine,
può stare in giudizio e, quindi, compiere tutti gli atti necessari per il raggiungimento dei
suoi fini. L’attività d’impresa è assoggettata alle norme sulla contabilità pubblica, le quali
impongono che i contratti stipulati dall’impresa siano accompagnati da un’attività
preparatoria o successiva, che si esprime attraverso atti amministrativi.
Solitamente, tale forma organizzativa gestisce servizi di prevalente interesse pubblico,
la cui erogazione non prevede necessariamente la produzione di reddito. Si tratta, di
conseguenza, di settori nei quali si incontrano degli ostacoli all’ottenimento di vantaggi
di tipo economico in senso stretto, per la difficoltà di raggiungere condizioni di efficienza
e per le tariffe sociali che vengono applicate, in regime di prezzi rigidamente
amministrati. La categoria rappresentata dall’impresa-organo può essere distinta in due
sottocategorie, a seconda che la titolarità dell’impresa spetti all’ente cui appartiene
l’organo, oppure spetti all’organo stesso. In quest’ultimo caso, si parla di “azienda
autonoma” o di “azienda speciale”. Nel primo caso si tratta di particolari sezioni di una
Pubblica Amministrazione, dedicate alla produzione di beni non destinati allo scambio
nel mercato, ma al soddisfacimento dei bisogni dello stesso ente cui appartengono.
Questa è la fondamentale spiegazione del fatto per cui l’impresa-organo potrebbe non
avere i requisiti necessari e fondamentali per essere considerata a tutti gli effetti
un’impresa. Sono esempi significativi la Zecca dello Stato, gli arsenali militari e i “servizi”
alle attività produttive che, per le loro ridotte dimensioni, vengono gestiti in economia
dai vari enti . Godono, invece, di particolare autonomia le “aziende speciali”, le quali
agiscono prevalentemente in regime di monopolio legale. Nonostante il fatto di essere
inquadrate nell’amministrazione statale, possono discrezionalmente compiere tutte le
operazioni necessarie per il raggiungimento delle loro finalità, anche se i profitti
eventualmente realizzati vengono devoluti all’ente di pertinenza. Nella maggior parte dei
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casi, la loro autonomia si manifesta in tutti profili della gestione (quello finanziario,
contabile, amministrativo), mentre, alcune volte, si tratta solo di un’autonomia contabile,
al fine di evidenziare i costi e i ricavi, gli utili o le perdite derivanti dallo svolgimento di
una particolare attività produttiva.
La seconda fondamentale modalità di intervento pubblico è rappresentata
dall’impresa-ente pubblico economico. E’ esercitata da un ente pubblico separato dallo
Stato, ma è sottoposta a direzione e controllo da parte di uno o più Ministeri, al quale si
affianca il controllo politico del Parlamento. Essa opera secondo norme di diritto privato,
mentre i rapporti che intrattiene con l’Amministrazione statale sono regolati da norme di
diritto pubblico. Passando dall’impresa-organo all’impresa-ente pubblico economico,
aumenta la separazione e l’autonomia dell’impresa pubblica, che svolge attività
economica di produzione, rispetto all’Amministrazione.
E’ stata proprio l’espansione dell’intervento dello Stato nell’attività economica, il suo
ingresso in diversi settori e l’allargarsi del numero degli interessi da tutelare a
determinare la diffusione che tale forma organizzativa ha avuto nel passato. Infatti,
l’esigenza di disporre di una struttura che riuscisse a superare le vincolanti procedure
burocratiche e della contabilità pubblica e, allo stesso tempo, fosse in grado di
raggiungere le finalità preposte con una certa flessibilità organizzativa, ha fatto
propendere per la creazione di tali enti pubblici. I più importanti esempi di enti pubblici
economici si sono storicamente avuti nei seguenti settori:
 elettrico, con la nascita dell’Ente Nazionale per l’energia elettrica (ENEL);
 assicurativo, con l’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA), sorto nel 1912;
 creditizio, nel quale si indicano la Banca d’Italia, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia,
il Monte dei Paschi di Siena, l’Istituto S. P. di Torino, la Banca Nazionale del Lavoro e
l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), istituito nel 1931;
 industriale, con la nascita Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), come primo
elemento del complesso sistema delle partecipazioni statali, a cui si aggiunse più tardi
l’Ente Nazionali Idrocarburi (ENI).
In questo modo lo Stato aveva affidato ad appositi enti pubblici la gestione di
determinate attività, ritenute fondamentali per l’economia del Paese, in regime di
monopolio oppure in regime concorrenziale.
Anche gli enti pubblici possono essere distinti in tre sottocategorie:
 enti pubblici che gestiscono imprese direttamente;
 enti che le gestiscono per il tramite di partecipazioni finanziarie in società;
 enti pubblici che assolvono una funzione amministrativa, in un determinato settore
dell’economia, con il compito di sovvenire, dirigere e controllare imprese private
industriali e commerciali. Tali enti operano in base a precise disposizioni di legge e
sotto la continua vigilanza dell’autorità pubblica, per svolgere un’azione vasta e
complessa nei riguardi di tutto un ramo o anche più rami di attività economica.
I primi due tipi di enti pubblici hanno operato, ed in parte ancora operano, in una serie
estesa di settori, quali l’agricoltura, l’industria, i trasporti e l'energia.
La funzione del capitale sociale imprese nelle private viene svolta negli enti pubblici
economici dal “fondo di dotazione” la cui formazione è quindi indice del grado di
indipendenza finanziaria e dell’autonomia nei confronti dell’Amministrazione, poiché
origina dalla sottoscrizione delle quote, in cui è suddiviso, da parte degli enti
espressamente indicati nella legge istitutiva . Nonostante ciò, bisogna sottolineare che in
non poche occasioni lo Stato può intervenire con contribuzioni speciali, per la copertura
di costi ed oneri che l’impresa non riesce da sola ad affrontare ed inoltre effettua apporti
ai fondi di dotazione, per ripianare perdite pregresse degli enti.
La terza ed ultima modalità di intervento pubblico nell’economia è rappresentata dalla
società di diritto privato a partecipazione pubblica, presente tra le forme dell'intervento
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pubblico diretto fin dal 1930. Associato a tale tipo di configurazione organizzativa è lo
sviluppo dell’azionariato pubblico, inizialmente imposto dalla necessità di sostenere il
sistema bancario, travolto dalla crisi economica, che imperversa in quegli anni. Come si
può capire anche dalla sua denominazione, la società privata a partecipazione pubblica
possiede personalità giuridica di diritto privato ed è soggetta alle norme di diritto
comune Attraverso tale forma organizzativa si raggiunge il massimo grado di
separazione e di autonomia tra l’unità produttiva e la Pubblica Amministrazione: l’unica
forma di collegamento è rappresentata dall’assemblea degli azionisti, nella quale il
pubblico potere, con il pacchetto di comando, nomina gli amministratori della società. Lo
Stato non entra direttamente nel capitale delle imprese, non si fa azionista, ma adotta la
mediazione tecnica dell’ente pubblico. Quest’ultimo assume la qualità di azionista e
gestisce le partecipazioni nella forma di holding pubblica che detiene il controllo di società
per azioni (o finanziarie di settore) operanti in regime di diritto privato, in concorrenza
con altre imprese nel mercato. Tale articolazione organizzativa ha dato forma al
complesso sistema delle partecipazioni statale caratterizzato dalla presenza, tra Stato e
società operative, di un anello intermedio dell’ente pubblico.
Tale struttura societaria si è nel tempo rivelata quella maggiormente idonea a
sviluppare la cosiddetta “capacità imprenditoriale”, fondamentale per il raggiungimento
di finalità di tipo economico-produttivo. In questo modo, si attua un collegamento tra
uno strumento privatistico (la struttura societaria appunto) e finalità pubbliche, che
vengono realizzate attraverso di esso. Fondamentale appare l’analisi della composizione
del capitale sociale e della natura dei soggetti che detengono le azioni. Si possono, così,
evidenziare cinque ipotesi, seguendo un ordine decrescente di rappresentazione
dell’interesse pubblico:
 tutte le azioni sono possedute da un unico ente pubblico, di qualsiasi tipo, il quale
consente la massima rappresentazione del pubblico interesse di cui è portatore;
 le azioni sono possedute da più enti pubblici;
 la maggioranza delle azioni è in possesso dello Stato e/o di uno o più enti pubblici,
mentre i privati possiedono le azioni di minoranza;
 la partecipazione dello Stato e/o degli enti pubblici è “minoritaria di controllo”,
consentendo un’attiva presenza nella gestione societaria, mentre il capitale rimanente è
in possesso di privati;
 la partecipazione dello Stato e/o degli enti pubblici è “minoritaria non di controllo” e
il resto del capitale, ovviamente, è in mano di privati.
Nelle prime due ipotesi, si parla di “società a totale partecipazione pubblica”, mentre
nelle ultime tre, si ha la “società di economia mista”. Nel caso in cui la partecipazione
pubblica sia di minoranza, prevale l’interesse dei privati azionisti; invece, nel caso in cui
si tratti di una partecipazione totalitaria o quasi da parte dell’azionista pubblico,
l’interesse di cui quest’ultimo è portatore diviene prioritario. Si tratta di due casi estremi
che non destano particolari perplessità, mentre non si può dire lo stesso relativamente al
caso intermedio. Infatti, il potenziale conflitto tra interessi di natura pubblica e privata è
massimo nel caso di contemporanea presenza dei due tipi di operatori, entrambi indotti
ad orientare l’azione della società verso il perseguimento dell’interesse di cui sono
portatori, tanto che risulta necessario porre un limite al perseguimento degli stessi, in
modo da consentire un equilibrato soddisfacimento di tutte le parti in causa, ma
soprattutto per garantire che l’azione delle società a partecipazione pubblica sia
compatibile con le condizioni di sopravvivenza e sviluppo poste dall’economia di
mercato.
Nelle partecipazioni minoritarie, il fine che si intende perseguire è di tipo finanziario e
di sostegno ad iniziative imprenditoriali, non potendo l’operatore pubblico avere
un’influenza dominante nella gestione dell’attività.
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Nascita e consolidamento del sistema delle partecipazioni statali
Le imprese a partecipazione statale hanno rappresentato, tra gli strumenti di
intervento diretto dello Stato, quello più importante e più diffuso, contribuendo alla
costruzione del sistema industriale nazionale ed alla nascita e allo sviluppo di
fondamentali settori, quali la siderurgia, la chimica e l’energia. Il sistema, in questo
modo, ha dato un importante contributo alla realizzazione di opere pubbliche,
infrastrutture primarie del Paese e ha preso l’iniziativa in settori strategici, le cui
caratteristiche di alta rischiosità e di rendimenti differiti non attraevano capitali privati.
Ad un “sistema” delle partecipazioni statali non si giunse però attraverso un
deliberato processo di acquisizione di unita produttive da parte dello Stato ma per effetto
di una successione di interventi mossi ciascuno da motivazioni di carattere contingente.
La partecipazione pubblica in società per azioni private si manifesta prima volta nello
scenario economico italiano negli anni ’20 allorché la liquidazione di alcune banche
d’affari lasciò nelle mani dello Stato partecipazioni di controllo in imprese industriali.
Non essendo il frutto di una deliberata politica di intervento, il controllo pubblico di
società di per azioni venne inizialmente visto come una soluzione provvisoria. Anche dal
punto di vista degli orientamenti di politica economica, l’obiettivo era infatti quello di
riattivare il meccanismo di mercato in modo da fare ritornare tali partecipazioni sotto il
controllo di imprenditori privati. L’atteggiamento dello Stato nei confronti dell’intervento
diretto cambia radicalmente nel 1936 con la trasformazione dell’IRI da istituto di natura
transitoria in holding permanente e polisettoriale con il compito di gestire le
partecipazioni statali che si vengono a creare anche da situazioni diverse dai dissesti
bancari. L’Istituto abbandona così la logica del “salvataggio”, per la quale esso era sorto,
e passa allo svolgimento di una fondamentale funzione di politica industriale. La formula
organizzativa storicamente adottata fu quindi quella dell’ente polisettoriale che riflette
meglio la tesi di una “socialità” coniugata agli obiettivi strategici di programmazione e di
politica economica. L’operare attraverso holding pubbliche dotate di flessibilità e di
capacità polisettoriali faceva assumere alle partecipazioni statali una funzione
fondamentale nel processo di riconversione industriale, di potenziamento dei settori
propulsivi dello sviluppo e dell’occupazione, di recupero dei ritardi accumulati nel
soddisfacimento dei bisogni collettivi.
Con la sucessiva istituzione del Ministero le partecipazioni statali assumono un ruologuida nell’economia del paese assumendo funzioni di interesse generale quali
l’erogazione di servizi indispensabili per la collettività, la difesa contro i monopoli, il
sostegno di iniziative non sviluppabili senza l’intervento dello Stato, la creazione di
infrastrutture e il loro adeguamento alle esigenze del progresso economico, lo sviluppo di
nuove tecnologie e il potenziamento di settori strategici per l’economia italiana, lo
sviluppo del Mezzogiorno e la salvaguardia dei livelli occupazionali, il sostegno degli
investimenti nelle fasi depresse del ciclo economico. Data la natura di dette funzioni, il
loro intervento riguarda soprattutto imprese di grandi dimensioni, che hanno una
importanza notevole in una economia nazionale altrimenti caratterizzata da una
dimensione d’impresa piccola e media.
Durante tutti gli anni ‘60, l’attività delle partecipazioni statali si espanse notevolmente,
come veicolo per il raggiungimento di importanti finalità di politica economica, grazie
anche alla congiuntura favorevole nell’economia italiana che favoriva lo sviluppo di
iniziative imprenditoriali. La legislazione italiana di quel periodo fu inoltre
particolarmente attenta alle esigenze della programmazione economica, nella quale le
partecipazioni statali occuparono un posto preminente. E’ nell’ottica della
programmazione che vennero precisate le funzioni del Ministero e degli altri organi di
direzione nei confronti del sistema delle partecipazioni statali ed, inoltre, il ruolo degli
enti di gestione riguardo alle società controllate. Altri importanti interventi in questo
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campo, portarono alla costituzione dei due comitati interministeriali per la
Programmazione Economica (CIPE) e la Programmazione Industriale (CIPI) quali organi
di guida dell’intera economia e punto di riferimento per tutta la politica economica del
governo. Ad essi venne attribuito il fondamentale compito di esaminare preventivamente
l’attività svolta dagli enti, e di approvazione dei loro programmi annuali e pluriennali .
Al vertice del sistema operava quindi un “polo politico” con responsabilità di indirizzo
e coordinamento economico-finanziario generale . Gli enti di gestione, che formano il
“polo intermedio”, assumevano responsabilità di indirizzo tecnico-amministrativo e
finanziario per tutto il sistema. Ad essi spettava più specificatamente il compito di
tradurre sul piano imprenditoriale le direttive economiche fissate dalle polo politico,
fungendo da punto di incontro tra il potere politico e il “polo imprenditoriale”, costituito
dalle imprese che stanno alla base del sistema: a queste ultime spettava la responsabilità
della gestione industriale.
Crisi e ristrutturazione del sistema delle partecipazioni statali
Nelle fasi di sviluppo dell’economia italiana il sistema delle partecipazioni statali si era
quindi consolidato come attore chiave della filosofia della programmazione e di una fase
sistematica di interventi nei settori essenziali e di base dell’economia, operando ad ogni
livello verso obiettivi di sviluppo organico e globale del sistema. A partire dalla crisi
petrolifera dei primi anni ’70 il sistema venne però ad assumere una diversa funzione:
quella di mediazione tra i conflitti politici, sorti in seguito alla crisi della
programmazione. Ne derivarono gravi conseguenze sulla struttura e sui comportamenti
delle imprese pubbliche, la distorsione dell’originario disegno istituzionale e del ruolo
del Ministero che divenne una sorta di “cinghia di trasmissione” agli enti e alle
finanziarie, non di una strategia organica di politica industriale, ma di direttive e di
richieste isolate, in qualche caso meramente di salvataggio, che godevano però del
sostegno delle forze politiche e delle varie parti sociali. Gli enti, in particolare,
effettuarono notevoli investimenti nel Mezzogiorno, indipendentemente sia da vincoli
finanziari - assorbendo fondi pubblici in misura superiore a qualsiasi precedente – sia dei
principi di economicità con la conseguenza che gli stessi investimenti generarono negli
anni successivi fortissime perdite, il cui ripiano comportava ulteriori massicci
trasferimenti di finanza pubblica. L’obiettivo fondamentale sembrava essere divenuto
quello di accrescere quantitativamente l’ampiezza del sistema e, nel contempo, di isolarlo
dalle spinte esterne. In questo modo il sistema delle partecipazioni statali diveniva
strumento di tipo clientelare nelle mani di parte del potere politico, deciso ad utilizzare le
partecipazioni statali per una pluralità indiscriminata di obiettivi, allontanandole così
dalla loro funzione originaria e peculiare. Da qui, inoltre, il sovrapporsi di una funzione
di salvataggio, interpretata spesso in senso assistenziale ed il sorgere di una netta
conflittualità tra finalità economiche e finalità “sociali”, con perdita di efficienza e di
efficacia dell’azione di politica industriale.
Dopo un intenso periodo di sviluppo che aveva determinato un notevole ampliamento
dell’intervento pubblico, con l'obiettivo di una concreta azione di sussidiarietà e di
supplenza del capitale privato, il ruolo economico e sociale dello Stato-imprenditore
inizia quindi a perdere di significato ed utilità. Il progressivo e costante degrado dei
risultati delle imprese pubbliche provocò inoltre il ridimensionamento della presenza del
capitale privato nel sistema ed il conseguente aumento del numero delle società
totalmente controllate dal socio pubblico. Per effetto di tale situazione, il sistema delle
imprese ha progressivamente perso la sua capacità di proporre la sua funzione strategica
e le sue capacità operative alla politica industriale ed economica dello Stato.
Tutto ciò fu alla base dei vari tentativi di revisione delle norme in materia e di
“ristrutturazione” del sistema delle partecipazioni statali che precedettero la recente
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politica di privatizzazioni. Emersero come esigenze fondamentali l’abbandono della
pratica dell’assistenzialismo indiscriminato e la rinuncia ad assegnare alle partecipazioni
statali un ruolo di supplenza nei confronti delle carenze della politica di programmazione
economica. Le proposte avanzate miravano a riaffermare la logica dell’imprenditorialità e
del rispetto dei criteri di economicità così da potere attuare gli adeguati programmi di
risanamento e, quando opportuno, di liquidazione (Cafferrata, 1983; Sibilio Parri, 1983).
Le dismissioni iniziarono così ad essere considerate come uno strumento utile per
ridisegnare la mappa della presenza dello Stato nell’economia ed in particolare la
configurazione del sistema delle partecipazioni statali.
Anche in conseguenza della loro a-programmaticità, le privatizzazioni realizzate fino
alla fine degli anni ‘80 determinarono però una diminuzione minima della presenza
dell’impresa pubblica e soprattutto non modificarono la fisionomia dell’intervento
pubblico diretto. Esse sono state utilizzate fondamentalmente al fine di diminuire la
dipendenza finanziaria dallo Stato, causata dalla crisi degli anni ‘70, e sfruttata dallo
stesso per intensificare i controlli sugli enti di gestione. Si trattava infatti di
privatizzazioni decise dagli enti pubblici proprietari e non dal Governo. Solo con gli anni
'90 le privatizzazioni diventano uno dei punti chiave della politica economica del
governo come elemento fondamentale per il risanamento economico del paese. In questa
prospettiva si da avvio ad un processo di riorganizzazione e riordino dell’intero sistema
delle imprese facenti parte delle partecipazioni statali. Tale processo ha richiesto, oltre ad
una serie di appositi interventi normativi, una profonda riflessione sull’intervento
pubblico diretto nel sistema economico allo scopo di identificare i settori in cui le imprese
pubbliche possono giustificare la loro presenza e quali quelli da lasciare all’iniziativa
privata. Si tratta quindi di una attività che richiede un’amministrazione dinamica del
patrimonio, fatta non solo di cessioni, ma anche di eventuali acquisizioni in sostituzione,
migliori utilizzi, trasformazioni ed innovazione di prodotto e di processo.
Nel prosieguo del lavoro viene appunto analizzato il processo che, a partire dai primi
anni Novanta del ‘900, ha portato delle profonde modificazioni nell’ordinamento
istituzionale della particolare forma di intervento dello Stato nell’economia rappresentata
dal sistema delle partecipazioni statali. Il primo passo compiuto di questo processo è
rappresentato dalla privatizzazione formale che si sostanzia nella trasformazione degli
enti pubblici economici in società per azioni. E’ questo il primo forte segnale di
disgregazione dei sistema delle partecipazioni statali che vedrà la definitiva sanzione
della chiusura di un ciclo storico con la soppressione, attraverso referendum popolare,
del relativo Ministero.
La privatizzazione delle imprese pubbliche
La privatizzazione delle imprese pubbliche è un fenomeno che ha rivestito
un’importanza cruciale nelle scelte di politica economica di molti Paesi occidentali negli
ultimi decenni e che ha avuto esiti differenziati, in relazione ai modi con cui si era giunti
al passaggio in mano pubblica delle attività d’impresa. Il fenomeno delle privatizzazioni
ha nel tempo acquisito forza e rilevanza crescente, diventando parte integrante anche
delle riforme strutturali adottate nelle economie in via di sviluppo o transizione. In tutti i
contesti politici ed istituzionali le politiche di privatizzazione hanno però suscitato vasti
dibattiti economici e sociali, con particolare riferimento alla salvaguardia degli obiettivi
di socialità storicamente attribuiti alle imprese pubbliche e messi in discussione da tale
passaggio di proprietà.
Prima di analizzare in dettaglio i vari aspetti del fenomeno, è opportuno focalizzare
l’attenzione, seppure in maniera sintetica, sui principali obiettivi dei processi di
privatizzazione, che hanno rappresentato un tratto comune nelle priorità politiche dei
policy maker nei maggiori paesi europei. Si tratta di obiettivi strettamente legati alle scelte
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fondamentali di politica economica generale, definiti in relazione alle specifiche
condizioni dell’economia nazionale ed anche dell’estensione del settore pubblico e delle
finalità ad esso storicamente assegnata in un dato contesto . Ciononostante sembra
possibile, e opportuno, inquadrare gli orientamenti di fondo delle politiche di
privatizzazione in due distinte tipologie :
 Orientamenti politico-ideologici, raggiungibili per loro stessa natura solo nel mediolungo termine e che sono tipici della prima fase del processo.
 Orientamenti economico-gestionali di miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza del
sistema economico e finanziario, tipici della fase intermedia e di quella matura.
Alla base della decisione di privatizzare l’impresa pubblica c’è quindi l’ipotesi che le
forze di mercato siano in grado di meglio garantire il raggiungimento degli obiettivi
economici e sociali che avevano a suo tempo motivato l’intervento pubblico. La soluzione
di problemi economici e sociali di rilevanza collettiva come quelli dell’occupazione, dello
sviluppo economico o della salvaguardia dei consumatori viene quindi ricercata solo
indirettamente lasciando nelle mani di soggetti privati la facoltà di organizzare
direttamente i mezzi di produzione. Una politica di privatizzazioni affida infatti ai
meccanismi di mercato ed alla capacità imprenditoriale privata il compito di allocare ed
utilizzare risorse umane, materiali e finanziarie. Si tratta di trasformazioni che
comportano uno spostamento degli assetti proprietari e del potere di influenza su vasti
ambiti della vita economica e sociale dal sistema politico-amministrativo a quello
industriale privato. A questa trasformazione deve quindi corrispondere anche una
ridefinizione dei meccanismi di controllo e di regolazione a partire dalle stesse procedure
di scelta degli acquirenti delle imprese pubbliche. Si tratta infatti di salvaguardare
l’interesse pubblico evitando, ad esempio, che un monopolio pubblico si sostituisca un
posizione dominate privata il che aggraverebbero inevitabilmente le inefficienze dal
punto di vista dell’interesse collettivo. La politica delle privatizzazioni può quindi essere
orientata alla trasformazione dello stesso sistema industriale che, nel caso italiano, passa
per la creazione di nuovi centri di potere economico, indipendenti e di dimensione
sufficiente per poter affrontare le nuove situazioni che si vengono a creare nei mercati
internazionali. Il processo di integrazione delle economie tende infatti a fondarsi in
misura crescente, sulle operazioni di fusione ed acquisizione e sulle alleanze strategiche
globali, per elevare il grado di efficienza sistemica e di concorrenza internazionale. Tale
fenomeno è stato particolarmente significativo in settori tipicamente interessati
dall’intervento pubblico diretto quali quello del trasporto aereo, dell’aerospazio e delle
telecomunicazioni dove gli accordi transnazionali sono stati determinanti per aprire
nuovi mercati e acquisire nuove competenze distintive.
Le privatizzazioni hanno inoltre un indubbio ruolo positivo nella riduzione del deficit
pubblico grazie alla possibilità di utilizzare le somme ricavate dalla vendita delle imprese
pubbliche per riacquistare dai privati titoli del debito pubblico. A questi ultimi possono
poi sostituirsi nel portafoglio dei risparmiatori i titoli di proprietà del capitale delle
società privatizzate. Una fondamentale possibilità offerta dalle privatizzazioni è infatti
rappresentata dalla diffusione della proprietà azionaria e, in particolare, dell’azionariato
popolare e di quello dei dipendenti, incoraggiando la partecipazione alla vita delle
imprese, promuovendo e sostenendo gli investimenti, mediante lo sviluppo del mercato
borsistico. Volendo quindi riassumere gli obiettivi generali dei processi di
privatizzazione, così come emergono dai programmi ufficiali dei governi, si possono
elencare i seguenti:
 miglioramento dell'efficienza operativa dell'impresa;
 apertura del mercato e liberalizzazione (nel caso delle imprese di servizi di pubblica
utilità );
 riduzione del debito pubblico e del disavanzo;
9
Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005







sviluppo dei mercati finanziari e dell'azionariato popolare;
riduzione dell'influenza politica sulle decisioni d’impresa;
privatizzazione dei contratti sul mercato del lavoro e degli acquisti;
consolidamento del consenso politico interno;
afflusso di valuta pregiata;
acquisizione di tecnologie e partner strategici;
consenso da parte delle istituzioni finanziarie e politiche internazionali.
Sono quindi molteplici gli obiettivi che si presume di ottenere con lo strumento delle
privatizzazioni; alcuni sono addirittura contrastanti e comunque fortemente legati alle
caratteristiche politiche, sociali ed anche culturali dell’ordinamento nel quale il disegno
di privatizzazione si inserisce. L’Italia, rispetto ad altri maggiori paesi europei quali Gran
Bretagna e Francia, ha avviato con ritardo il processo di privatizzazione, ma ha
recuperato velocemente nella fase successiva. Il Governo italiano avviò ufficialmente il
suo programma di privatizzazione delle imprese pubbliche su larga scala nella prima
metà degli anno ’90. Il Decreto Legge 386 del 1991 (poi convertito nella legge 35 del 1992),
stabilì che gli enti di gestione, gli altri enti pubblici economici e le aziende autonome
dello Stato venissero trasformati in società per azioni (attraverso la conversione del fondo
di dotazione in capitale sociale) e che le azioni, per quanto possibile, fossero collocate tra
il pubblico. Il capitale iniziale delle società formalmente privatizzate doveva essere
determinato dal Ministero del Tesoro in base al netto patrimoniale risultante dall'ultimo
bilancio. Successivamente, con la legge 359 del 1992 vengono trasformati in società per
azioni l'IRI, L'ENI, L'ENEL e L 'INA con attribuzione delle azioni al Ministero del Tesoro al
quale, con il medesimo provvedimento, furono altresì attribuite le azioni della BNL Spa e
D E L L 'I M I Spa. La privatizzazione "formale" di queste imprese ne determinò la
sottomissione alla disciplina del codice civile per le S.p.A., imponendo l’adozione di
rigorosi criteri gestionali. Attribuendo la totalità del capitale sociale al Ministero del
Tesoro si recepivano le indicazioni fornite dal Governo per la predisposizione di un
programma di riordino delle partecipazioni statali che aveva come obiettivi di fondo
quelli di introdurre nella gestione delle imprese pubbliche un più rigoroso rispetto dei
principi di efficacia ed efficienza e di rafforzare il mercato mobiliare italiano attraverso la
diffusione dell’azionariato popolare.
La soppressione degli enti pubblici economici e le aziende autonome lasciò come unico
modello quello della società per azioni in pubblico comando. Le imprese pubbliche,
sottoposte al regime delle società anonime, non costituirono più un autonomo sistema
raccolto in un ordinamento sezionale anche causa della contemporanea eliminazione del
Ministero relativo. Infatti, la trasformazione in società per azioni ed il passaggio dei
pacchetti azionari sotto il controllo del Ministero del Tesoro, aveva inevitabilmente
portato ad una diversa distribuzione delle competenze ministeriali facendo venire meno
la funzione originaria del Ministero delle Partecipazioni Statali . Ma la sanzione formale
della dissoluzione del sistema delle partecipazioni era stata decretata, è importante
sottolinearlo, direttamente dalla volontà popolare con il referendum dell’aprile del 1993
abrogativo della legge istitutiva del Ministero stesso.
Successivamente, le leggi 474/94 e 481/95 completarono il mosaico normativo
necessario per passare alle privatizzazioni più complesse come quelle delle imprese di
servizi di pubblica utilità. La 474/94, in particolare, ha subordinato la dismissione delle
partecipazioni azionarie dello Stato alla creazione delle “Autorità di settore” ossia di
organismi indipendenti per la regolamentazione delle tariffe ed il controllo della qualità
dei servizi di rilevante interesse pubblico. L’evoluzione della normativa nel quadriennio
1992/1995 è illustrata nella tabella che segue:
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
Tabella 1
L’evoluzione della normativa sulle privatizzazioni
L. 359/1992
CIPE Dic. 1992
CIPE ott. 1993
L. 474/1994
L. 481/1995
Trasformazione in
S.p.A. di IRI, ENI, INA
ed ENEL
Definizione delle
procedure di
dimissione
Determinazione del
patrimonio netto e
procedure di
valutazione
Disciplina delle
procedure per la
scelta degli advisor e
per la determinazione
del valore delle
partecipazioni
Avvio delle procedure
per la dismissione
delle partecipazioni in
Enel, Ina, Comit, Imi,
Stet e Agip
Previsione di Poteri
speciali, Limiti al
possesso azionario e
voto di lista
Istituzione delle
Autorità per i settori
dell’energia,
telecomunicazioni e
gas.
Azioni attribuite al
Min. del Tesoro
Delega al Tesoro a
predisporre il piano di
riordino
Costituzione del
Comitato per le
privatizzazioni
Accelerazione delle
procedure per la
privatizzazione degli
istituti di credito
Previsione di Autorità
di regolazione per i
servizi pubblici
Obbligo per il governo
di definire modalità
per la privatizzazione
dei servizi pubblici e
conseguente
espressione del
parere da parte del
Parlamento
La privatizzazione formale
Il primo importante atto normativo di avvio del processo di privatizzazione è quindi
rappresentato dalla trasformazione dello status giuridico degli enti e della aziende
pubbliche con l’adozione della forma della società per azioni. In questa prima fase la
trasformazione in società per azioni appare come un obiettivo da perseguire per
realizzare la necessaria razionalizzazione del sistema degli enti e delle aziende pubblici
statali, impegnandone maggiormente la gestione a criteri di economicità ed assicurando
loro una redditività soddisfacente ed un’autonomia finanziaria. Spesso infatti ai processi
di privatizzazione “formale” si sono accompagnate significative ristrutturazioni
dell’assetto organizzativo delle imprese, realizzate anche attraverso fusioni al fine di
sfruttare le economie dimensionali e le sinergie che possono derivarne; oppure con lo
scorporo e la cessione delle attività lontane dal core business, con lo scopo di realizzare
una maggiore concentrazione strategica. La trasformazione in società per azioni consente
poi di sfruttare la snellezza delle opzioni gestionali previste dal diritto privato, come, ad
esempio, un’agevole mobilitazione del capitale e la possibilità di modificazione degli
assetti proprietari .
Bisogna, inoltre, sottolineare che, grazie al passaggio da ente pubblico a società per
azioni, si ottiene una migliore rappresentazione del patrimonio, ed in prospettiva del
valore, delle imprese stesse. Infatti, nel sistema di contabilità pubblica, la proprietà delle
imprese statali si poteva evincere solo dal lato delle passività (sotto la forma di contributi
alla gestione e investimenti), mentre, proprio per la particolare natura degli enti pubblici
la cui attività non era del tutto distinta dalle altre gestioni statali, mancava l’indicazione
dal lato delle attività. Con la trasformazione suddetta, invece, si determina la
patrimonializzazione di tali attività e, quindi, il loro adeguato inserimento nello Stato
Patrimoniale. I notevoli vantaggi ottenuti da tale situazione diventano ancora più
consistenti ed evidenti con la successiva collocazione dei titoli sul mercato azionario e con
la cessione ai privati.
La principale questione posta dalla privatizzazione formale riguarda il ruolo esercitato
dal soggetto pubblico in quanto azionista il cui comportamento e formalmente sottoposto
ai principi del diritto societario privato. Il problema risiede soprattutto nel potenziale
conflitto tra il perseguimento di finalità collettive ed il rispetto principi di una forma
societaria tradizionalmente orientata all’ottenimento del profitto. E si tratta di una
questione ancor più rilevante in quei casi in cui (e sono la grande maggioranza) la
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
privatizzazione formale si pone come fase di passaggio per procedere all’allargamento
del gruppo di controllo ad investitori privati. La prospettiva finora illustrata vede
nell’adozione del modello della società per azioni un modo per imporre allo Stato che
interviene nell’economia un mutamento radicale da attuarsi con il pieno rispetto delle
regole di mercato in cui la società per azioni viene ad operare.
All’estremo opposto, la privatizzazione formale può però essere vista come una mera
soluzione tecnica all’esigenza di riordinare e razionalizzare le partecipazioni dello Stato.
Secondo questa interpretazione, la trasformazione in società per azioni non è strumentale
all’abbandono dell’intervento pubblico diretto ma riflette semplicemente la volontà di
superare il modello dell’ente pubblico economico in favore di quello societario che,
proprio per questo, viene gravato da consistenti deroghe al diritto comune. In altre parole
attraverso la privatizzazione formale potrebbe configurare una “Società per azioni-ente
pubblico” come riconosciuto peraltro anche dalla Corte Costituzionale. Ciò
discenderebbe dall’impiego sempre più frequente per il perseguimento di finalità di
interesse pubblico, dell’istituto della società per azioni. Tale ricorso sarebbe possibile in
quanto le società di capitali avrebbero una configurazione economico-giuridica
“neutrale” il che le rende utilizzabili come uno strumento idoneo a realizzare qualsiasi
scopo lecito sia esso lucrativo o anche soltanto ideale.
I provvedimenti normativi che hanno definito i procedimenti di “privatizzazione
formale” sembrano in realtà delineare una disciplina speciale per le società privatizzate
configurando di fatto un’ipotesi di controllo di tipo proprietario, stante la diretta
attribuzione di “poteri speciali”, al Ministro del Tesoro e la loro mancata incorporazione
in un titolo azionario. Queste fondamentali prerogative lasciate nelle mani dei pubblici
poteri vengono interpretate come lo strumento per assicurare la realizzazione
dell’interesse pubblico. Lo Stato, in questo modo, rimane in grado di determinare gli
indirizzi strategici delle imprese in oggetto “tenuto conto degli obiettivi nazionali di
politica economica ed industriale”. Le giustificazioni addotte per mantenere un forte
controllo pubblico sono relative alla rilevanza strategica dell’impresa per l’economia
nazionale, alla necessità di evitare traumi occupazionali, agli obblighi di esercizio
pubblico, etc.. Si allude, in particolare, a quei servizi di pubblica utilità, come l’elettricità,
il gas, etc., che sono fondamentali per la collettività e debbono quindi essere perseguiti
anche se la società di diritto privato che svolge i relativi compiti, in proprio o per conto
dello Stato.
Diventa quindi importante sottolineare come, data la specificità della trasformazione,
quella che si configura è una forma giuridica non completamente coincidente con quella
della società per azioni di diritto comune . Infatti, nonostante la generica affermazione
della sottoposizione delle società derivanti dalla trasformazione alla normativa vigente
per le società per azioni, possono essere evidenziate una serie di particolarità che
caratterizzano fortemente gli esiti della privatizzazione formale.
Una prima specificità si riscontra nello stesso iter costitutivo delle nuove società. Di
regola è la volontà dei soci (ai sensi degli articolo 2328 e seguenti del Codice Civile) a
determinare la nascita della persona giuridica di cui poi i fondatori diventano azionisti.
Nel caso della privatizzazione formale viene invece attivato un procedimento complesso
che ha inizio con una proposta del Ministero del Bilancio cui fanno seguito la
deliberazione del CIPE, la deliberazione di trasformazione degli organi amministrativi
degli enti ed infine l’approvazione dei Ministri del bilancio, del Tesoro nonché dei
competenti ministri per settore.
Un’altra deroga significativa alla normativa sulle società per azioni riguarda la
deliberazione da parte dei soci dell’operazione di trasformazione. Il problema nasce dal
fatto che non tutti i soggetti indicati per la trasformazione possiedono una struttura
associativa ma alcuni (soprattutto le aziende autonome) hanno una struttura di
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
fondazione che richiederebbe lo scorporo da quest’ultima dell’azienda di fondazione e di
conferimento di quest’ultima ad una società per azioni appositamente costituita. La
normativa si limita a prevedere la successione nella titolarità dei rapporti giuridici delle
società derivanti dalla trasformazione e la conversione dei fondi di dotazione in capitale
sociale. Mancando però negli enti a struttura di fondazione un soggetto esterno all’ente
che possa considerarsene proprietario si configura una sorta di “auto-trasformazione”
che non trova riscontro nel diritto comune.
In sintesi, si può quindi affermare che anche in seguito alla privatizzazione formale
delle imprese pubbliche tendono ad essere mantenute, quasi a controbilanciare le
potenzialità dello strumento gestionale della società per azioni, una serie di vincoli tesi a
salvaguardare l’interesse pubblico.
I controlli di tipo pubblicistico teoricamente esercitabili sulle imprese formalmente
privatizzate sono quindi di almeno 6 tipi:
1. Il controllo delle Autorità di regolazione sulle imprese operanti nei settori delle public
utilities;
2. Il controllo del Ministro del Tesoro, quando gli statuti delle società devono prevedere
l’attribuzione a quest’ultimo dei poteri speciali previsti dalla legge 474/94.
3. I poteri di controllo derivanti dal rapporto di concessione e attribuiti al Ministro
concedente, se l’impresa opera in regime di concessione;
4. I poteri di controllo derivanti dalla titolarità di azioni attribuita al Ministro del Tesoro
partecipante al nucleo stabile in caso di riserva, a favore di quest’ultimo, del diritto di
prelazione in seguito alla cessione della partecipazione da parte di un azionista del
nucleo stesso
5. Il controllo conseguente dalla esplicitazione degli “indirizzi di carattere generale”
previsti dalla legge 35/1992 che dovrebbero essere riservati al Governo sulle aziende
autonome trasformate in società per azioni;
6. I controlli della Corte dei conti che sarebbero configurabili anche per le società di
diritto privato nella misura in cui lo Stato conservi una partecipazione esclusiva o
prevalente al capitale azionario.
La rilevanza delle finalità collettive nelle imprese pubbliche
Anche in seguito alla privatizzazione formale delle imprese pubbliche la salvaguardia
di finalità collettive rimane quindi una componente essenziale dell’intervento pubblico
diretto. La società per azioni diventa uno strumento dell’intervento pubblico nell’ambito
del quale si precisa l’esercizio da parte del soggetto economico pubblico di poteri di
indirizzo e di regolazione a tutela dell’interesse generale. Le finalità collettive perseguite
per il tramite dell’impresa formalmente privatizzata sono l'espressione delle finalità
sociali e collettive della stessa. In questi casi assume quindi particolare rilevanza il
problema delle relazioni fra aspetti economici ed aspetti sociali della gestione, fra
economicità e socialità. Ciò si comprende quando si consideri che:
 l'impresa, sia privata che pubblica, ha sempre un oggetto di natura economica,
svolgendo essa un'attività di consumo e/o di produzione di beni economici per il
soddisfacimento dei bisogni umani. La sua funzione strumentale si esplica tramite la
realizzazione di questi processi di consumo e/o di produzione;
 nell'impresa privata, all'oggetto economico si accompagnano anche finalità primarie di
ordine economico;
 nell'impresa pubblica in genere, all'oggetto economico corrisponde anche una finalità
di tipo collettivo.
Nel caso dell’impresa privata, concordando la natura dei fini del soggetto economico e
quella dell'oggetto dell’impresa, agli aspetti sociali della gestione viene normalmente
assegnata una rilevanza secondaria. Nell’impresa pubblica formalmente privatizzata si
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
pone invece il problema di verificare fino a che punto la socialità sia compatibile con
l'economicità, intesa come sintesi delle condizioni di durevole operatività dell'impresa. In
un certo senso, si tratta di un problema opposto a quello considerato per le imprese
private. In questo caso, però, la ricerca della suddetta compatibilità sembra resa più
ardua della discordanza fra le motivazioni (almeno in parte di natura "sociale") del
soggetto economico e la natura (economica) dell'oggetto dell'impresa .
La socialità può essere utilmente analizzata sotto due aspetti. É infatti opportuno
distinguere fra la oggettiva capacità di agire nel rispetto di criteri di socialità e la
soggettiva disponibilità delle persone che esercitano il governo dell'impresa ad intendere
il perseguimento di finalità collettive come obiettivo primario della gestione. La socialità
in senso oggettivo (prima accezione) dovrebbe accomunare tutte le aziende in un sistema
economico che si voglia ordinato. Ed è compito dei pubblici poteri creare le condizioni
normative e di fatto perché ciò si verifichi. La socialità in senso soggettivo (seconda
accezione) è caratteristica distintiva di particolari aziende. Così, è possibile che il soggetto
economico di un'impresa privata abbia una forte motivazione sociale e assegni alle
motivazioni economiche un ruolo secondario. Quindi le anche le imprese private, i cui
organi di governo hanno normalmente motivazioni più spiccatamente economiche,
possono oggettivamente servire la socialità in modo apprezzabile .
Si può quindi concludere che nell'impresa sotto controllo pubblico il perseguimento
dell'economicità è il modo più efficace per garantire la socialità. Infatti, un'impresa
strutturalmente antieconomica è di fatto anche antisociale: essa può servire determinate
finalità sociali immediate e ristrette, ma difficilmente sarà conforme ad una prospettiva
ampia e compiuta di salvaguardia dell’interesse collettivo. Questi concetti sono stati
eloquentemente sintetizzati nell'affermazione secondo la quale lo stesso perseguimento
dell'economicità va elevato al rango di vero e proprio obiettivo strategico che si persegue
con la privatizzazione formale.
Il rapporto fra economicità e socialità nelle imprese pubbliche formalmente
privatizzate dovrebbe quindi porsi nel modo seguente.
 il soggetto economico dell'impresa persegue finalità di tutela dell’interesse collettivo;
 l'oggetto dell’impresa è sempre di natura economica; conseguentemente, le finalità
collettive vanno perseguite in termini economici, cioè sottoponendo le decisioni ai
principi di convenienza economica e garantendo all’impresa il mantenimento delle
condizioni indispensabili di vitalità economica;
 in conclusione: l'economicità, lungi dal prospettarsi come mero vincolo alla socialità e
fattore secondario, è coessenziale alla definizione stessa di socialità almeno finché si
considera il caso di finalità collettive da perseguire il tramite dello strumento
"impresa".
Il concetto di economicità nelle imprese pubbliche
L'economicità, nell’impresa pubblica, non si pone quindi né come "massimizzazione
del profitto" né come "limite alla socialità". L'economicità è espressione globale
dell'attitudine all’autosufficienza economica di lungo periodo, e all'equilibrio dinamico
fra costi e ricavi, essa diviene, così, anche la condizione di base per il conseguimento di
un equilibrio finanziario a valere nel tempo. Non contrasta con questo concetto l'ipotesi
dell’alternarsi di risultati positivi e negativi dei singoli esercizi, poiché l'attitudine
dell’impresa ad operare durevolmente implica la capacità di assorbire nel tempo risultati
economici di breve periodo eventualmente negativi. L'equilibrio dinamico fra costi e
ricavi deve essere considerato sotto un duplice profilo: quello oggettivo e quello
soggettivo. Sotto il profilo oggettivo, va inteso come mantenimento di un livello minimo
di economicità in relazione all’esigenza di continuità dell’impresa. Si possono elaborare
diverse formulazioni quantitative di questa condizione di minima economicità: quella più
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
correntemente utilizzata richiede che in un periodo medio tipico di gestione i ricavi siano
almeno tali da coprire integralmente i costi, comprendendo fra questi anche l'interesse
figurativo sul capitale di rischio e il compenso per l'opera dell'imprenditore.
Tale condizione di equilibrio oggettivo può anche essere descritta come soglia minima
per garantire all'impresa l'autosufficienza economica. Nella permanenza di una
condizione di autosufficienza economica risiede la possibilità di avviare e perpetuare un
processo di autofinanziamento della gestione; così, in altri termini, si stabiliscono le
condizioni della continuità dell'impresa come entità economica vitale ed autonoma.
Infatti, garantendosi una situazione di autosufficienza economica, l'impresa ha la
possibilità di coprire con il flusso dei ricavi il flusso dei costi di tutti i fattori produttivi
autofinanziando così il processo produttivo.
L'esistenza dell’equilibrio economico non implica normalmente autosufficienza anche
in senso finanziario. Infatti, i flussi monetari in uscita, legati ai costi dei fattori produttivi,
e i flussi monetari in entrata, derivanti dal processo di disinvestimento, presentano
sfasamenti temporali spesso notevoli. All'equilibrio economico dovrà quindi
accompagnarsi la ricerca dell’equilibrio finanziario. Quest'ultimo si configura come
ulteriore condizione, da affiancare a quelle di autosufficienza economica, per consentire
pratica fattibilità e conveniente svolgimento ai programmi sui quali si fonda la continuità
dell'impresa in una prospettiva di equilibrio dinamico. L’equilibrio finanziario si fonda
sul continuo adeguamento dell’entità e delle caratteristiche delle fonti di finanziamento
(considerate nella durata e nel grado di elasticità) all'entità e alle caratteristiche
dell’insieme dei fabbisogni finanziari, opportunamente analizzati in aggregati di
impieghi significativi sotto il profilo del tempo di permanenza e del grado di rigidità.
Ma le condizioni di economicità (equilibrio dinamico) dell’impresa pubblica devono
deve essere considerato anche in senso soggettivo. Esistono le condizioni soggettive di
equilibrio dinamico tra costi e ricavi se, una volta verificato il rispetto della condizione
oggettiva, il soggetto economico giudica il risultato complessivo “congruo” in rapporto
alle finalità dell’impresa. Poiché nella valutazione dell’equilibrio soggettivo dinamico
viene ad assumere diretto rilievo il fine assegnato all’impresa, il giudizio formulato dal
soggetto economico fa più immediato riferimento all’efficacia della gestione. Ma il
giudizio di equilibrio soggettivo può significativamente differenziarsi, nel suo processo
logico, secondo la natura dei soggetti e dei fini. In particolare l'esperienza delle
partecipazioni statali ha messo in luce come si possa concentrare l'attenzione più
sull'efficacia nel conseguimento dei fini collettivi posti che su un determinato divario fra
ricavi e costi; tale divario può comunque entrare nella formulazione del giudizio di
equilibrio soggettivo in modo indiretto ovvero come espressione della capacità
prospettica o consolidata di consentire il perseguimento dei fini sociali.
Le motivazioni del soggetto economico, in presenza di fini sociali extraeconomici,
possono anche condurre all'indifferenza riguardo al segno del divario fra ricavi e costi,
tanto da fare giudicare soggettivamente equilibrata anche una gestione nella quale i ricavi
siano sistematicamente inferiori ai costi (non consentendo, ad esempio, un’adeguata
remunerazione del capitale). Peraltro, ammettere l'indifferenza riguardo al segno del
divario fra ricavi e costi, significa porre in discussione anche la validità della condizione
di equilibrio economico oggettivo, fondato sul divario positivo fra i ricavi e tutti i costi,
compresi quelli figurativi.
Le relazioni tra responsabilità politiche ed operative
Il livello dei policy makers ha la particolare responsabilità di determinare gli indirizzi
strategici delle imprese in oggetto “tenuto conto degli obiettivi nazionali di politica
economica ed industriale” e di elaborare appropriati sistemi di regole a salvaguardia
dell’interesse generale all’interno dei quali far operare le imprese sotto controllo
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
pubblico. I policy makers non hanno invece la responsabilità di individuare azioni
specifiche e mezzi operativi per conseguire, attraverso le imprese, i suddetti obiettivi.
Conseguentemente, l'ottica propria dell'organismo politico dovrebbe essere diversa da
quella aziendale. In condizioni “fisiologiche” di funzionamento del sistema, questa
allocazione delle responsabilità non dovrebbe porre particolari problemi, essendo il
management deputato alla ricerca dei modi più corretti edper tradurre le direttiva
politiche in azioni imprenditoriali efficaci e rispettose del criterio aziendale di
economicità. In ogni caso, per il livello politico del sistema, l’economicità non può che
significare massimizzazione del rapporto fra fini perseguiti e risorse impiegate. Qui
l’economicità diviene dunque sinonimo di efficienza; e, poiché l’organismo politico non è
istituzionalmente diretto partecipe di decisioni aziendali, si può più correttamente
utilizzare il concetto di “efficienza sociale”.
Considerando poi che la tutela dell’interesse collettivo può essere ricondotta alla
generazione di “benefici sociali” e che il collegato assorbimento di risorse può essere
ricondotto alla manifestazione di “costi sociali”, l'efficienza sociale può essere intesa
anche come massimizzazione del beneficio sociale netto, inteso come divario positivo fra
benefici sociali e costi sociali. Il risultato dell’attività d’impresa può quindi essere
conforme ad efficienza sociale e non ad economicità intesa nel significato aziendale
quando a fronte di un divario negativo fra ricavi e costi per l'impresa, si manifesti un
divario positivo fra benefici e costi “esterni” (sempre rispetto all'impresa considerata),
tale da rendere positivo il beneficio sociale netto. Nell’ipotesi che ci sia divergenza fra il
giudizio al quale condurrebbe un criterio di efficienza sociale e quello a cui condurrebbe
un criterio di durevole autosufficienza economica possono essere distinti due casi
particolari.
Vi può essere anzitutto il caso di una impresa pubblica per la quale ad un positivo
risultato economico di bilancio non corrisponda una azione conforme ad efficienza
sociale. Ciò può discendere dall’incapacità dell'unità produttiva considerata di
conseguire gli obiettivi di salvaguardia degli interessi collettivi e/o al fatto che la sua
azione sia contrassegnata dalla formazione di preponderanti diseconomie esterne. Ma già
abbiamo visto che, nel caso dell'impresa il cui soggetto economico sia pubblico,
l'accertamento della conformità della gestione al criterio di economicità inteso in senso
aziendale non è elemento di giudizio definitivo sul grado di successo della conduzione
aziendale; piuttosto, esso va interpretato come verifica della capacità di svolgere
durevolmente una funzione strumentale rispetto ai fini sociali posti. Si vede, così, che
l'economicità in senso aziendale e l'efficienza sociale sono criteri che non si escludono
vicendevolmente, ma si integrano nella formulazione del giudizio complessivo della
gestione delle imprese pubbliche.
Si può, all’opposto, verificare il caso di una gestione aziendale negativa sotto il profilo
della capacità di autosufficienza economica, ma capace di produrre un saldo positivo fra
benefici sociali e costi sociali. Se in questa situazione si sostituisse sistematicamente al
parametro “aziendale” quello “sociale” si verrebbe a snaturare lo strumento impresa,
soprattutto se questo strumento assume la forma della partecipazione in società per
azioni operanti secondo le norme di diritto privato ed in concorrenza con imprese
private. Quando gli interventi che il soggetto pubblico vuole intraprendere non hanno
caratteristiche tali da poter garantire gestioni dotate di autosufficienza economica,
dovranno essere scelti strumenti diversi, fra i molti che la pratica delle pubbliche
amministrazioni conosce. Se poi si traspongono queste considerazioni dalla singola
impresa pubblica all’intero sistema di governo della politica economica ed industriale, le
argomentazioni appena svolte trovano ulteriore sostegno e conferma. In questa
prospettiva, infatti, si rende manifesto una particolare “esternalità” positiva associata alla
conduzione delle imprese in condizione di organismi vitali ed autopropulsivi: si tratta del
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
beneficio non quantificabile associato al contributo fornito ad un ordinato sviluppo
dell'ordinamento di mercato. In definitiva, la stessa salvaguardia della condizione di
equilibrio economico oggettivo delle imprese diviene fattore positivo nella valutazione di
efficienza sociale del sistema economico.
Quest’ultima osservazione è già un'implicita risposta al secondo degli interrogativi
sopra formulati. In realtà, un vero problema di compatibilità fra il livello delle decisioni
di politica economica e la gestione operativa delle aziende pubbliche – quindi tra
efficienza sociale ed economicità aziendale - non si pone, in quanto i due piani non sono
nettamente separati. L'interdipendenza dei ruoli favorisce l’integrazione delle due
accezioni dell'economicità. La salvaguardia della condizione di minimo economico non è
un problema esclusivo del management delle società operative, ma è pure un problema
dell'organismo politico, che dovrà tenerne conto nelle valutazioni di efficienza sociale.
La considerazione della prospettiva nella quale si pongono i pubblici poteri ha indotto
a ripensare, e alla fine a riconfermare, l'accezione di economicità proposta con riferimento
alle società da essi controllate. In questa esposizione, in particolare, si è visto come appaia
improponibile intendere l'economicità, per le imprese, come “efficienza sociale”.
Alla conclusione di ordine teorico, è però opportuno aggiungere una considerazione di
carattere operativo. E ben noto che il risultato economico di esercizio di un'impresa
presenta notevoli elementi di incertezza, a motivo delle stime e delle congetture alle quali
è necessario affidarsi per determinarlo; ma di gran lunga più difficoltosa è la
quantificazione dei costi e benefici “esterni”, che, sommati algebricamente ai componenti
del conto economico dell'impresa, danno i costi e benefici “sociali”. Quindi, sarebbero
estremamente ardue e incerte le valutazioni di efficienza sociale che si volessero tentare,
in termini quantitativi, per le gestioni d'impresa; impensabile sarebbe poi ricorrervi
sistematicamente, tenendo conto del costo dell'analisi. Conseguentemente, si dovrebbe
ricorrere al giudizio soggettivo, integrato da qualche elemento quantitativo. In definitiva,
se l'economicità fosse intesa per le imprese in questa accezione, la razionalità economica
della gestione finirebbe per avere un presidio ben limitato. Anche da questo punto di
vista si conferma che un preliminare accertamento dell'economicità in senso aziendale
costituisce un solido appoggio per ulteriori valutazioni di efficienza sociale.
Il processo di privatizzazione sostanziale
La trasformazione della veste giuridica delle aziende e degli enti pubblici è il
presupposto necessario per consentire l’alienazione delle azioni, attraverso la quale si
realizza il vero e proprio passaggio parziale o totale della proprietà dall’operatore
pubblico a quello privato, passaggio da effettuarsi con procedure da definire caso per
caso. Si tratta della cosiddetta privatizzazione “sostanziale”, la quale rappresenta la
seconda fase delle trasformazioni attuate a partire dall’inizio degli anni ‘90. Questa
cessione di quote azionarie si configura come un normale processo di compravendita.
Il collocamento delle azioni delle imprese pubbliche, attraverso cui acquisisce sostanza
il processo di privatizzazione, deve essere teso a favorire l’interesse degli investitori
istituzionali massimizzando il ricavo per lo Stato. Relativamente alle forme di
collocamento, la cessione può raggiungere importi consistenti solo se si riesce ad
incentivare l’interesse di un ampio numero di risparmiatori. Ciò è rilevante quando,
come in Italia, gli investitori istituzionali sono poco sviluppati e il risparmio si forma in
larghissima misura presso le famiglie, il che rende l’obiettivo dell’azionariato popolare
una necessità più che una scelta. Inoltre, l’eterogeneità della situazione reddituale e
patrimoniale delle imprese da privatizzare poteva motivare una differenziazione anche
nelle caratteristiche e nelle funzioni assegnate ad eventuali nuclei stabili di azionisti.
Nel processo di privatizzazione sostanziale è quindi necessario fare intervenire un
insieme di soggetti specializzati tanto nella fase di valutazione che in quella del
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collocamento dei titoli delle società formalmente privatizzate. Si tratta di un processo
articolato, costituito da diverse fasi, che richiede un orizzonte temporale di riferimento di
medio/lungo periodo e che coinvolge numerose articolazioni della pubblica
amministrazione centrale. Una schematizzazione dell’intera operazione può essere quella
presentata nella seguente tabella :
Tabella 2
Le fasi della privatizzazione sostanziale
Fase 1
Selezione delle proprietà oggetto di privatizzazione
Fase 2
Verifica dei presupposti giuridici
Fase 3
Verifica dei presupposti economici della cessione
Fase 4
Verifica delle compatibilità di politica economica
Fase 5
Definizione dell’entità della cessione
Fase 6
Valutazione della cessione
Fase 7
Scelta delle tecniche di cessione
Fase 8
Definizione dei tempi della cessione
La prima fase comporta l’individuazione delle attività che risultano essere le più
idonee al raggiungimento degli obiettivi che la privatizzazione si pone, valutandone
anche gli effetti diretti e indiretti sul portafoglio complessivo delle proprietà pubbliche
(sinergie che si vengono a creare tra le varie attività detenute) e sul sistema economico
(apertura alla concorrenza).
La verifica dei presupposti giuridici è strettamente legata alla trasformazione in società
per azioni che facilita poi le procedure di scambio. Si tratta in questa fase di verificare
l’idoneità alla privatizzazione riguardo alla natura giuridica della proprietà.
Il secondo tipo di verifica, quello dei presupposti economici, dopo una attenta analisi
della situazione economico-patrimoniale e finanziaria della proprietà oggetto di cessione,
può comportare alcuni necessari interventi di risanamento. Questi possono consistere
nell’attribuzione all’ente pubblico di passività non riassorbibili dalla gestione ordinaria,
in riduzioni di personale, nella dismissione di rami di attività non rilevanti
strategicamente e in tutte le operazioni che appaiono necessarie al fine di rendere più
appetibile l’impresa sul mercato dei capitali. Dopo aver verificato la compatibilità della
decisione di privatizzazione con le altre decisioni di politica economica, si procede nelle
fasi successive, che sono tra di loro interdipendenti.
Per quanto riguarda la misura della cessione, questa può riguardare la totalità o una
quota minoritaria dell’impresa. Talvolta, la conservazione della maggioranza in mano
pubblica si rivela strategica, come può avvenire nel caso dei monopoli naturali, delle
imprese i cui vantaggi sono legati alla conservazione del controllo pubblico e di quelle
operanti in settori giudicati essenziali per la sicurezza nazionale (come ad esempio la
difesa).
La sesta fase comporta la soluzione di una questione complessa, in quanto si tratta di
rispondere contemporaneamente a due opposti interessi. Da un lato, quello dei potenziali
sottoscrittori ai quali devono essere proposte condizioni allettanti; dall’altro, quello
dell’intera collettività che sta per cedere una propria attività e che pretende che ciò
avvenga alle giuste condizioni. Questo significa il raggiungimento dell’equilibrio tra
prezzo di cessione e capitale economico, il quale deve essere valutato con appropriati
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Dispensa per il corso di Economia delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche I, Anno Accademico 2004/2005
criteri (misti patrimoniali/reddituali) in base ai quali esso riflette la reale ed attendibile
capacità dell’impresa di produrre reddito.
Le tecniche di vendita
Un momento cruciale nel processo di privatizzazione sostanziale è rappresentato dalla
scelta dei canali di cessione sul mercato. Nell’individuazione delle tecniche di vendita
intervengono variabili quali il tipo il ente che cede, lo stato di salute dell’impresa,
l’assetto proprietario, il livello dei costi da sostenere per la vendita ed il tipo di acquirente
scelto. Le diverse esperienze di privatizzazione in Europa, hanno posto in evidenza una
serie di tecniche di privatizzazione di seguito analizzate :
 Operazioni di offerta pubblica di vendita (OPV): nelle quali le azioni della società da
privatizzare vengono acquistate tramite un sistema aperto a tutti i privati investitori;
 Operazioni di vendita diretta: nelle quali le azioni sono assegnate a gruppi di
investitori precedentemente identificati dal venditore.
In presenza di un mercato dei capitali sviluppato e di una azienda solida, la scelta
tendenzialmente cade sull’offerta pubblica di azioni sul mercato dei capitali. L’OPV è
ritenuta opportuna se l’impresa presenta risultati soddisfacenti in modo da attirare
l’attenzione degli investitori, i quali ne rendono possibile, con i loro acquisti, una veloce
privatizzazione e una notevole diffusione della proprietà.
Le principali tecniche di OPV impiegate sui mercati dei capitali sono l'offerta a prezzo
fisso, da un lato, e una particolare procedura d'asta (book-building), dall'altro.
Nell'offerta di vendita a prezzo fisso, il venditore fissa un prezzo al quale offrire una
quota determinata di azioni e i partecipanti all'offerta devono specificare solamente il
numero delle azioni che intendono acquistare al prezzo prefissato. Sulla base dell'entità
delle domande si avrà completo o parziale accoglimento delle richieste.
Mediante il book-building, la banca d'investimento incaricata che cura la vendita della
società non specifica alcun prezzo fisso, ma solo un prezzo minimo e intraprende un
intenso dialogo con i potenziali acquirenti al fine di determinare la quantità di azioni che
questi ultimi comprerebbero a diversi prezzi, comunque superiori al minimo. La
procedura si conclude con la determinazione da parte del venditore del prezzo di
aggiudicazione che può essere uguale, minore o maggiore del prezzo di equilibrio
derivante dall'incontro dell'offerta (fissa) e della domanda (asta a prezzo uniforme).
L'offerta pubblica di vendita prevede la cessione sul mercato delle azioni della società
da privatizzare consentendo, almeno in teoria, l’allargamento della base azionaria e la
conseguente diffusione della proprietà tra il pubblico dei risparmiatori. Le offerte
pubbliche di vendita sono il metodo più utilizzato per la privatizzazione di imprese di
grandi dimensioni, tipicamente nel caso in cui si persegua la costituzione di public
companies ad azionariato diffuso. La OPV vede molto spesso l’offerta complessiva
ripartita in più tranches e l’esistenza di quote riservate ad investitori istituzionali in
diverse aree geografiche, al fine di facilitarne l’assorbimento da parte del mercato.
Formule di vendita preferenziali sono state inoltre previste per favorire l'acquisto diretto
da parte del piccolo risparmiatore, che è stato quindi privilegiato rispetto agli investitori
istituzionali. Nel caso di società di grandi dimensioni e con un numero elevato di
dipendenti, sono state anche adottate formule di vendita particolarmente attraenti per il
personale. Queste possono prevedere: pagamenti dilazionati e/o finanziati con tassi di
interesse agevolati; sconti immediati sul prezzo di acquisto, ovvero cessioni gratuite di
azioni aggiuntive (bonus shares), se le azioni acquistate vengono detenute per un periodo
minimo prestabilito.
Il successo delle offerte pubbliche di vendita è poi fortemente legato al grado di
sviluppo ed alla liquidità del mercato dei capitali. Non a caso l'esigenza di favorire il
successo di operazioni di collocamento sul mercato ha indotto il legislatore italiano a
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operare ex ante per porre in essere gli istituti giuridici atti a tutelare gli azionisti di
minoranza e a favorire lo sviluppo di un mercato del controllo societario.
La tecnica della vendita diretta viene generalmente adottata per la cessione di imprese
a bassa redditività ad acquirenti con elevata esperienza industriale e solidità finanziaria.
E' altresì adatta per le imprese in crisi che mostrano però prospettive di miglioramento
d’efficacia ed efficienza, e per le dismissioni parziali, da parte di operatori impegnati in
settori contigui. La trattativa diretta prevede che l’impresa venga ceduta direttamente ad
un’altra società (private sale) oppure che rilevanti pacchetti azionari vengano offerti ad un
numero limitato di investitori preselezionati (private placing). Un privato può essere
interessato all’acquisizione di imprese in crisi per sfruttare le sinergie che si vengono a
creare con le attività che già possiede. La selezione dell’acquirente può avvenire mediante
asta, trattativa privata oppure offerta in busta chiusa . L'obiettivo del venditore è quello
di assicurare il successo dell'impresa anche dopo la cessione, oltre che di cercare di
massimizzare il ricavato della vendita; mediante tale tecnica il venditore può selezionare
in anticipo (di norma con l'ausilio di banche di investimento) i potenziali acquirenti adatti
a garantire l'obiettivo di consolidamento della azienda ceduta. I principali vantaggi dei
collocamenti privati possono essere individuati nei due aspetti della semplificazione delle
procedure di emissione e della stabilità del collocamento, qualora gli investitori siano
stati selezionati con accuratezza. La trattativa privata è senz'altro la tecnica più rapida e
più flessibile e consente, inoltre, di negoziare clausole extraprezzo (ad esempio sul
mantenimento del livello di occupazione). Al fine di evitare irregolarità, essa deve essere
accompagnata da un sistema di regole trasparenti per la valutazione e fissazione del
prezzo, la selezione degli acquirenti e le modalità di pagamento.
All’interno della tipologia si possono utilmente distinguere:
 La vendita con asta pubblica, nel caso in cui il prezzo venga definito mediante asta;
 La vendita diretta con trattativa privata, se il prezzo di cessione si forma in seguito alla
negoziazione tra le parti;
 Il Management buy-out, nel caso in cui l’impresa viene ceduta ai dirigenti e/o ai
dipendenti ed il prezzo è solitamente concordato tra le parti. La cessione ai dipendenti
è opportuna quando la ridotta motivazione e il ridotto interesse alla gestione aziendale
sono la causa prima della scarsa efficienza dell’impresa pubblica e quando le relazioni
industriali in un determinato settore renderebbero complessa e più costosa una diversa
soluzione.
Va infine ricordato che la scelta della tecnica di privatizzazione più appropriata è
strettamente legata alla tipologia economico-finanziaria dell’impresa da privatizzare ed
agli obiettivi che si intendono perseguire. Se l’obiettivo è eminentemente di natura
economico-finanziaria (ad esempio la massimizzazione dei proventi della cessione)
risulterebbe più indicata la tecnica della vendita diretta, sia essa ad asta pubblica o a
trattativa privata). Analogamente, nel caso in cui l’obiettivo prioritario è quello di
favorire lo sviluppo del mercato borsistico la tecnica dell’OPV con prezzo fisso si impone
come lo strumento più efficace. Tali considerazioni riassuntive sono sintetizzate nella
s e g u e n t e
t a b e l l a :
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Tabella 3
Tecniche di privatizzazione e obiettivi
TECNICHE
OBIETTIVI
Strategici
Economici
Finanziari
Sviluppo Borsa
Offerta Pubblica di Vendita
basso
medio
medio
elevato
Book building
medio
elevato
elevato
basso
Trattativa privata
elevato
elevato
elevato
basso
Management buy-out
elevato
medio
medio
basso
Le prospettive delle politiche di privatizzazione
Le privatizzazioni portate a termine nel corso degli anni '90 hanno riguardato
essenzialmente imprese industriali e finanziarie strategicamente rilevanti e con buone
prospettive di redditività. Solo verso la fine degli anni '90 il processo di privatizzazione
italiano è entrato in una fase cruciale con l’avvio delle privatizzazione delle più grandi ed
importanti imprese di servizi di pubblica utilità (public utilities) e di quelle operanti nei
segmenti dell’alta tecnologia. Per queste imprese si presenta quindi la necessità di
perseguire il duplice obiettivo di un più efficace posizionamento strategico e
dell’acquisizione di una dimensione adeguata alla competizione di mercato. Nei settori
dei servizi pubblici l’introduzione di un più elevato grado di concorrenza è stato
agevolato dai sensibili progressi delle tecnologie che hanno creato le condizioni
favorevoli al progressivo scomposizione dei monopoli naturali. A quest’ultimo riguardo,
si può osservare come la separazione delle strutture attraverso le quali si realizza l'attività
dei grandi monopoli pubblici nel settore delle public utilities sia stata avviata nei maggiori
paesi europei, in particolare nei settori delle telecomunicazioni, del gas e dell'energia
elettrica e dei trasporti ferroviari. Tale separazione è, per sua natura, un obiettivo
complesso per le implicazioni di natura normativa, per gli equilibri aziendali sui quali va
ad incidere e per i potenziali effetti negativi sugli indici di redditività delle aziende. Resta
tuttavia un obiettivo irrinunciabile, in quanto strumentale all’introduzione di una
maggior concorrenza e quindi di una maggior efficienza complessiva del sistema.
Grande rilevanza è inoltre destinato ad assumere il processo di privatizzazione delle
imprese municipalizzate (acqua, rifiuti, trasporti urbani) per le conseguenze che potrà
avere sulla liberalizzazione dei mercati dei servizi pubblici locali. In quest’ambito l’avvio
di processi di "privatizzazione" acquista una particolare enfasi dal momento che essa si
riferisce ad attività tradizionalmente rientranti nei compiti dell'ente pubblico locale sulla
base di una consolidata tradizione. Le concrete esperienze di "privatizzazione" dei servizi
pubblici locali sono state caratterizzate dalla costituzione di società con capitale pubblico
totalitario o quasi totalitario. La tendenza in atto appare sostanzialmente orientata a
trasferire in forma societaria la realtà delle attuali aziende municipalizzate nella
prospettiva di dare vita a imprese pubbliche locali, passaggio questo che comporta una
riconsiderazione della dimensione territoriale delle attività delle aziende, opportunità di
accorpamento delle stesse e revisione dei meccanismi di governo.
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