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ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2006 Direttore FRANCO SALVATI Comitato di redazione ALFONSO ALTIERI, FRANCESCO BELLI, MAURO CALVANI, GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO MATTIA, GIOVANNI MINARDI, MAURIZIO MORUCCI, FABRIZIO NESI, BRUNO NOTARGIACOMO, SERGIO PILLON, ELIO QUARANTOTTO, MAURIZIO RUSSO, PIETRO SACCUCCI, MICHELE SCOPPIO, GIAN DOMENICO SEBASTIANI, MARIO VALLE Segreteria di redazione: RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA Comitato scientifico-editoriale Coordinatore ROBERTO CANOVA LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, MARCELLO ASSUMMA, GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BIANCO, PIETRO BORMIOLI, PIO BUONCRISTIANI, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA, ALBERTO CIANETTI, MASSIMO CICCHINELLI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, EUGENIO DEL TOMA, FILIPPO DE MARINIS, LORENZO DE MEDICI, CARLO DE SANCTIS, SALVATORE DI GIULIO, GIUSEPPE DI LASCIO, CLAUDIO DONADIO, ALDO FELICI, MARIA ANTONIETTA FUSCO, ALFREDO GAROFALO, LAURA GASBARRONE, GIAMPIERO GASPARRO, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, LUCIA GRILLO, MASSIMO LENTINI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA, LUCIO MANGO, EMILIO MANNELLA, LAURO MARAZZA, MIRELLA MARIANI, MASSIMO MARTELLI, ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO, FRANCESCO MUSUMECI, GIULIO CESARE NICOTRA, MICHEL VOINO ORANSKY, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI, GIUSEPPE PIAZZA, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, COSIMO PRANTERA, GIOVANNI PUGLISI, GIORGIO RABITTI, SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, ALESSANDRO SCHIRRU, GIOVANNI SCHMID, CIRIACO SCOPPETTA, FABRIZIO SOCCORSI, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO, PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, CLAUDIO TONDO, MIRELLA TRONCI, ROBERTO VIOLINI Segreteria: GIOVANNA DE PAOLA NUOVA EDITRICE GRAFICA Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma Direttore Generale: Luigi Macchitella Direttore Sanitario: Fulvio Forino Direttore Amministrativo: Roberto Noto NUOVA EDITRICE GRAFICA Abbonamenti 2006: istituzionali 100, privati 73 Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie rivolgersi a Nuova Editrice Grafica srl, Via Francesco Donati, 180 - 00126 Roma Tel. 065219380 - Fax 06 5219399 Internet: www.negeditrice.it E-mail: [email protected] Garanzia e riservatezza per gli abbonati L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Nuova Editrice Grafica srl, Via Francesco Donati, 180 - 00126 Roma. 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ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Contenuto EDITORIALI Attualità nel trattamento del “naso torto” ARMANDO BOCCIERI 5 New developments in the treatment of the crooked nose La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno ILIO CAMMARELLA, LORETA DI MICHELE Obstructive sleep apnea syndrome ARTICOLI ORIGINALI Reazioni cutanee a farmaci ALESSIA BAGALINO, GIOVANNI CRUCIANI, STEFANO SARAZANI Cutaneous drug reactions 8 12 Il trattamento delle ulcere trofiche con il gel piastrinico ALESSANDRO DE ROSA, CARLO DE SANCTIS, PAOLO AURELI, CESIRA CASTELLANI, CINZIA FERRO, ROSALIA FONTANA, SILVIANO GENTILI, STEFANO PASCUCCI, ROSA LEONE The use of platelet gel to treat difficult-to-heal wounds 23 Monitoraggio continuo del glucosio tramite sensore sottocutaneo (CGMS): possibile ruolo indipendente nel controllo metabolico del diabete di tipo 1 CLAUDIO TUBILI, LELIO MORVIDUCCI, FIORENZA ARGNANI, GIULIANA CARTA, STEFANIA AGRIGENTO, ALDO CLEMENTI Continuous glucose monitoring by subcutaneous sensor (CGMS): possible indipendent role in metabolic control of type 1 diabetes patients 28 CASO CLINICO Linfoadenite istiocitica necrotizzante di Kikuchi GIORGETTA GENCARELLI, MARIO GIUSEPPE ALMA, FEDERICA ANTONELLI, ALFONSO MARIA ALTIERI Kikuchi’s histiocytic necrotising limphoadenitis 34 RASSEGNE Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi in ambito sanitario, con particolare riguardo ai laboratori di analisi FRANCESCO BELLI Risk of blood-borne infections in health care workers and particularly in laboratory personnel 36 Reticulociti e sottopopolazioni reticulocitarie nella diagnostica ematologica ARDUINO BARALDI Reticulocytes and reticulocytes strains in haematological diagnosis 52 GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di maxiemergenza DANILA PENNACCHI, ANNA VIOLA Plan of psychological hospital intervention in major accidents and disaster 56 RECENSIONE Prontuario di Pneumologia Clinica ELIO QUARANTOTTO 62 NOTIZIARIO X Congresso Nazionale FONICAP ROBERTO CANOVA 63 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Editoriali ATTUALITÀ NEL TRATTAMENTO DEL “NASO TORTO” NEW DEVELOPMENTS IN THE TREATMENT OF THE CROOKED NOSE ARMANDO BOCCIERI U.O.C. di Chirurgia Maxillo-Facciale Azienda Ospedaliera San Camillo – Forlanini, Roma Parole chiave: Naso torto, Innesto che espande. Key words: Crooked nose, Spreader graft. Secondo un colorito modo di dire toscano definiamo comunemente con il termine “naso torto” tutte quelle condizioni cliniche in cui la piramide nasale appare variamente deviata rispetto alla linea mediana1. La piramide nasale pertanto appare all’osservatore con un aspetto che vagamente può rassomigliare ad una “C”, ad una “S” o essere in toto depiazzata da un lato. Le conseguenze di questo stato per il paziente sono altamente invalidanti sia per i risvolti funzionali che per quelli estetici. Infatti coesistono sempre un alto grado di difficoltà alla respirazione per via nasale e una rilevante deformità estetica che, data la sede, non può in alcun modo essere nascosta all’osservatore. Questa patologia oggi è di frequente riscontro clinico in quanto spesso riconosce una causa traumatica per incidenti stradali o per traumi sportivi. Se da questo punto di vista “il naso torto” trova un rilevante interesse sociale, ancor più importante è la sua collocazione per l’impatto psicologico che determina in chi ne è affetto. D’altra parte tutti sappiamo come nel nostro mondo il viso sia al primo posto nei rapporti sociali in quanto costituisce il nostro primo biglietto da visita quando ci presentiamo agli altri. Dare un immediato riscontro gradevole di noi stessi al nostro interlocutore costituisce un obiettivo importante per tutti. Il naso, proprio per la sua posizione al centro del viso, se deviato, costituisce un elemento sgradevole che attira immediatamente l’attenzione dell’osservatore. Da qui è facile spiegarsi come chi è affetto da questo tipo di deformità possa essere vittima di notevoli complessi ed insicurezze. Se da un punto di vista sociale ed etiopatogenetico appare chiaro come il “naso torto” costituisca un problema attuale forse non è altrettanto chiara e conosciuta la sua problematica terapeutica che si identifica sostanzialmente nel rischio di una recidiva2. In pratica un risultato che subito dopo l’intervento chirurgico sembra brillante può trasformarsi in un fallimento dopo qualche mese per la ricomparsa della deviazione in varia misura. La responsabilità di tutto ciò appartiene alle strutture cartilaginee della piramide nasale coinvolte nella deformità. Queste strutture anatomiche infatti, proprio per la loro elasticità, conservano la “memoria” della deviazione e, come una molla, tendono a riprendere nel tempo la condizione originaria3. Al contrario le strutture ossee della piramide nasale, anch’esse interessate dalla deviazione, una volta riposizionate al centro rimangono stabilmente fisse nella loro nuova posizione. Tutt’al più può essere utile una doppia osteotomia laterale per consentire una loro maggiore mobilizzazione con scomparsa di ogni vizio anatomico. 6 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 La difficoltà della soluzione del “naso torto” appartiene tutta alla struttura cartilaginea ed in particolare al setto nasale nella sua componente dorsale. Infatti, da un punto di vista funzionale, il setto nasale deviato può essere in gran parte asportato ma è necessario in ogni caso lasciare una struttura a forma di “L” in grado di sostenere tutta la piramide nasale. Nel “naso torto” però è indispensabile modificare anche questa struttura altrimenti la deformità rimarrebbe comunque presente. Numerose tecniche descritte in letteratura si avvalgono dell’impiego di sezioni, incisioni, morsellizzazioni, allo scopo di modificare la porzione cartilaginea del pilastro dorsale del setto e raddrizzare il naso4,5. Purtroppo queste metodiche spesso hanno dato degli insuccessi sia per il persistere, come già detto, della memoria della deviazione, sia per l’eccessivo indebolimento del pilastro di sostegno con conseguente crollo del dorso nasale. Un altro tipo di tecnica in grado di realizzare dei buoni risultati è quella che impiega il “rimodellamento extracorporeo” del setto nasale con il suo reinnestato nella piramide nasale6. In pratica il setto nasale viene completamente asportato, rimodellato e raddrizzato al di fuori del naso e, successivamente suturato nell’interno del naso. La metodica consente di orientare in maniera diversa il setto nasale fissandone in posizione dorsale una parte rimodellata dritta. Il risvolto negativo è costituito dalla difficoltà pratica di ottenere un perfetto allineamento dell’innesto con le strutture circostanti e dal pericolo della sua mobilità nel tempo. Un notevole impulso alla soluzione del problema è stato dato dall’utilizzo degli “spreader grafts” in questa patologia. La tecnica, ideata da Sheen nel 1984, prevedeva il posizionamento ai lati del setto dorsale di due strisce rettangolari di cartilagine prelevate dalla parte centrale del setto7. Questa metodica aveva fondamentalmente l’utilità di rinforzare la volta nasale media nel corso di rinoplastiche a rischio e quindi prevenire il suo crollo dopo l’intervento. Apparve subito evidente anche un’utilità funzionale dovuta all’aumento del flusso aereo inspiratorio per l’ampliamento dell’angolo della valvola nasale interna. Successivamente la tecnica è stata usata anche per il trattamento del naso torto fissando uno “spreader graft” dritto sul lato concavo della deviazione dorsale del setto con funzione di guida e di sostegno. L’innesto infatti, prelevato da una porzione centrale del setto dritta e suturato alla sua porzione dorsale, esercita con la sua forma un’azione di contrasto della memoria cartilaginea della deviazione. Importante è anche la sua azione di rinforzo sul pilastro dorsale che consente di poter eseguire incisioni rimodellanti senza il pericolo di indebolimento della struttura. Molti chirurghi delle più accreditate Scuole di chirurgia nasale di Europa e di America hanno utilizzato negli ultimi anni con successo questa metodica risolvendo molti dei problemi inerenti al trattamento del naso torto8,9,10. Le stesse Scuole hanno adottato nel protocollo chirurgico di questa patologia l’accesso “open” alla piramide nasale che consente, mediante una piccola incisione columellare, una visione completa delle strutture anatomiche ed una precisa sutura degli innesti. Su questo filone si inserisce la tecnica da me ideata e che utilizza per il trattamento del naso torto un innesto denominato “septal crossbar graft” la cui traduzione alla lettera è “innesto a spranga del setto”. In effetti questo innesto cartilagineo rettangolare, prelevato da una porzione dritta del setto , viene ad essere incastrato nel setto dorsale così come una sbarra viene incastrata dietro una porta per impedirne l’apertura dall’esterno. L’effetto che si ottiene è di grande stabilità anatomica, di massimo contrasto della memoria cartilaginea nel tempo e si rivela di grande efficacia nei casi più gravi di naso torto. In questi casi, infatti, un unico spreader graft sul lato concavo potrebbe non essere sufficiente a raggiungere lo spessore necessario per correggere la deformità. Il crossbar graft inoltre esercita una grande azione di apertura sulla valvola nasale interna con un importante effetto funzionale evidente sulla respirazione nasale. La valvola nasale interna è la struttura anatomica nasale fisiologicamente più stretta al passaggio del flusso aereo e, nel caso del naso torto, essa è particolarmente collassata dal lato concavo A. Boccieri: Attualità nel trattamento del “naso torto” 7 della deviazione. Infine, e non in ultimo, la tecnica possiede un grande effetto estetico ristabilendo simmetria ed armonia anche nei casi più gravi di naso torto. La tecnica è stata pubblicata nel 2003 sulla più prestigiosa rivista scientifica di Chirurgia Plastica del mondo: Plastic and Reconstructive Surgery, organo ufficiale della Società Americana di Chirurgia Plastica e di Chirurgia Maxillo-Facciale11. Successivamente nel corso del 2004 ha ottenuto il consenso di numerosi chirurghi in tutto il mondo: infatti sono giunte le testimonianze e gli apprezzamenti di chi, sia in Italia sia all’estero, l’ha utilizzata con entusiasmo. Ma il riconoscimento più grande è stato raggiunto nel 2004, anno in cui la tecnica è stata selezionata in U.S.A. per essere inserita nel “The Year Book of Plastic Surgery 2004”. Ogni anno infatti il Comitato Editoriale di questo libro analizza e valuta la produzione scientifica di tutto il mondo su circa 500 riviste internazionali e sceglie tra esse gli articoli di maggiore interesse. “The septal crossbar graft for the correction of the crooked nose” è stato così inserito nel “libro dell’anno di chirurgia plastica del 2004” tra i 19 articoli di maggiore rilevanza selezionati nel mondo nel campo della chirurgia nasale. Infine nel 2006, il Prof. Gubish di Stoccarda, massimo esponente internazionale di questa patologia, mi ha invitato a scrivere un nuovo articolo sul crossbar graft per una monografia sul “trattamento avanzato ed onnicomprensivo del setto nasale”. La monografia è stata pubblicata su Facial Plastic Surgery, giornale ufficiale della European Academy of Facial Plastic Surgery, peraltro una fotografia intraoperatoria del crossbar ha avuto il privilegio di essere prescelta come sfondo per la copertina, testimoniando l’attuale apprezzamento scientifico per la tecnica12. Tutto ciò pur costituendo fonte di grande soddisfazione personale in quanto testimonia la validità scientifica della tecni- ca da me ideata non costituisce un punto di arrivo ma forse un importante punto di transizione. Credo infatti che la chirurgia del naso torto stia oggi passando da un approccio piuttosto empirico, del passato, ad un approccio più obiettivo e rigorosamente scientifico. Su questa strada probabilmente c’è ancora da lavorare tenendo conto che non tutti i problemi di questa patologia sono ancora completamente risolti e che la valutazione dei risultati va fatta sempre con un grande spirito di autocritica. BIBLIOGRAFIA 1. Micheli Pellegrini V. Il naso torto. Padova, La Garangola, 1985. 2. Byrd HS, Salomon J, Flood J. Correction of the crooked nose. Plast Reconstr Surg 1998; 102: 2148-57. 3. Courtiss EH. Septorhinoplasty of the traumatically deformed nose. Ann Plast Surg 1978; 1: 443-52. 4. Lawson W, Reind AJ. Correcting functional problems. Facial Plast Surg Clin North Am 1994; 2: 501-20. 5. Gomulinski L. La traduction morphologique des deformations septales. Leur correction au cours des rhinoplasties complexes. Ann Chir Plast 1982; 27: 343-49. 6. Gubisch W. The extracorporeal septum plasty: a technique to correct difficult nasal deformities. Plast Reconstr Surg 1995; 95: 672-82. 7. Sheen JH. Spreader graft: A method of reconstructing the roof of the middle nasal vault following rhinoplasty. Plast Reconstr Surg 1984; 73: 230-7. 8. Toriumi DM, Ries WR. Innovative surgical management of the crooked nose. Facial Plast Clin North Am 1993; 1: 63-78. 9. Vinayak BC, Trenitè GJN. External rhinoplasty. FACE 1997; 5: 77-92. 10. Rohrich R.J. Rhinoplasty. Dorsal reduction and spreader graft. Dallas, Rhinoplasty Symposium 2000; (17)153-66. 11. Boccieri A, Pascali M. Septal crossbar graft for the correction of the crooked nose. Plast Reconstr Surg 2003; 111: 629-38. 12. Boccieri A. Evolution of the septal crossbar technique. Facial Plast Surg 2006; 22: 255-65. ____ Per richiesta estratti: Dr. Armando Boccieri - Dirigente U.O.C. Chirurgia Maxillo Facciale - Ospedale San Camillo Via Tupini, 133 - 00144 Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 LA SINDROME DELLE APNEE OSTRUTTIVE NEL SONNO OBSTRUCTIVE SLEEP APNEA SYNDROME ILIO CAMMARELLA*,**, LORETA DI MICHELE* *Centro Universitario per lo studio delle Broncopneumopatie Emergenti Ospedale Forlanini, Roma **Dipartimento Cuore e Grossi Vasi “Attilio Reale” Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Parole chiave: Sonno, Apnea ostruttiva Key words: Sleep, Obstructive apnea La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (Obstructive Sleep Apnea Syndrome-OSAS), secondo la definizione dell’Amercan Sleep Disorders Association, è “una malattia caratterizzata sul piano clinico dalla presenza di sonnolenza diurna e/o alterazioni delle prestazioni diurne con russamento notturno e, sul piano fisiopatologico, da ripetuti episodi di ostruzione parziale o completa delle prime vie aeree durante il sonno, associate a fasiche cadute dell’ossiemia con conseguenti desaturazioni in ossigeno dell’emoglobina arteriosa”. Alla base della sindrome vi è un’alterazione della normale pervietà delle vie aeree: queste fisiologicamente sono deputate, fra l’altro, alla funzione di umidificazione, riscaldamento, filtro dell’aria inspirata; pertanto, per aumentare la superficie di contatto con le mucose, le pareti delle cavità nasali hanno la superficie ampliata dai turbinati. Durante l’inspirazione si crea una pressione negativa endoluminale ma la muscolatura locale, contraendosi ritmicamente, si oppone al collabimento. Questo meccanismo è controllato da vari fattori fra cui stimoli provenienti da chemocettori e da meccanocettori polmonari. Se vi è riduzione del- lo spazio respiratorio, l’aumento della pressione endoluminale, la riduzione del volume corrente e le variazioni dei gas respiratori causano per via riflessa un aumento dell’attività dei muscoli dilatatori come tentativo di ripristinare la pervietà. Questi meccanismi protettivi, già normalmente meno attivi durante il sonno, sono ulteriormente indeboliti dall’assunzione di alcool e sedativi. Durante il sonno anche nel soggetto normale si verifica un aumento delle resistenze delle prime vie aeree, per riduzione del tono muscolare sia generale che dei muscoli dilatatori dell’ipofaringe: se a questo si aggiungono altre cause di aumento di impedenza il maggior ostacolo che si instaura si traduce in vibrazioni del palato molle e quindi in russamento. Quest’ultimo, spesso sottovalutato, solitamente precede di anni l’insorgenza delle apnee ostruttive nel sonno (Obstructive Sleep Apnea – OSA). Infatti, se il lume delle prime vie aeree si restringe ulteriormente, al russamento si possono aggiungere dapprima gli episodi ipopnoici ed in seguito le vere e proprie apnee caratterizzate dall’arresto del flusso aereo: l’ipossia che si viene a determinare ed il conseguente stimolo simpatico si traducono in una riduzione della pro- I. Cammarella et al. La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno fondità del sonno (microrisvegli non avvertiti dal paziente), nuovo aumento del tono dei muscoli dilatatori delle vie aeree e ripresa della respirazione, con uno schema che può ripetersi fasicamente durante tutto il sonno. Non sempre comunque il russamento è seguito da sviluppo di OSA. Dalle apnee ostruttive vanno distinte le apnee centrali, causate da momentanea cessazione dello stimolo proveniente dai centri del respiro diretto ai muscoli respiratori. Le apnee miste hanno meccanismi fisiopatologici e caratteristiche comuni ad entrambe. L’eccesso ponderale per accumulo di adipe anche intorno alle prime vie aeree è la causa più frequente di OSA; l’ostruzione può essere causata anche da ipertrofia adeno-tonsillare, poliposi nasale, deviazione del setto, ipertrofia dei turbinati, macroglossia, dimorfismi cranio-facciali, malocclusioni dentarie, ipoplasia mandibolare. Per stabilire la gravità della sindrome è stato introdotto l’indice di apnea-ipopnea che si basa sul numero di eventi apnoici-ipopnoici per ora di sonno: meno di 20: OSA di grado lieve fra 20 e 30: OSA di grado moderato fra 30 e 60: OSA di grado severo più di 60: OSA di grado molto severo Per quanto riguarda il grado di ostruzione,vi può essere: - un’ostruzione completa: a) apnea ostruttiva: arresto del flusso per almeno 10 secondi e persistenza di movimenti toracoaddominali nel tentativo di vincere la resistenza e riprendere la ventilazione b) apnea centrale: arresto del flusso per almeno 10 secondi senza movimenti toracoaddominali c) apnea mista caratterizzata da assenza di flusso per almeno 10 secondi. Gli episodi iniziano con le caratteristiche dell’apnea centrale e terminano come apnee ostruttive. - un’ostruzione parziale: 9 a) ipopnea, caratterizzata da riduzione del flusso aereo almeno del 50% ma con persistenza dei movimenti toraco-addominali, con o senza desaturazione ossiemoglobinica b) RERA (Respiratory Effort Related Arousal): microrisvegli correlati agli sforzi respiratori per presenza di limitazione di flusso. Tali eventi, evidenziabili solo con l’EEG, determinano frammentazione del sonno e quindi sonnolenza diurna . Sintomo principale è proprio la sonnolenza diurna, di entità tale che i pazienti si possono addormentare nelle situazioni più improbabili: durante il lavoro, mentre mangiano o, molto più pericolosamente, mentre guidano. A questi sintomi si associano russamento ed apnea: classica è la descrizione fatta da Broadbent e riportata da Lavie “Ci sarà un assoluto silenzio per la durata di due, tre o quattro atti respiratori, durante i quali ci saranno movimenti inefficaci della parete toracica; alla fine l’aria entra nei polmoni con un forte rumore e successivamente si hanno molte profonde inspirazioni compensatorie”. Questi ultimi due sintomi sono però spesso riferiti solo dal compagno di letto e, specialmente nei soggetti che vivono da soli, possono sfuggire del tutto: rimangono solo la sonnolenza diurna e, a volte, il risveglio notturno accompagnato da sensazione di soffocamento. L’ipossia e la frammentazione del sonno determinano inoltre una serie di conseguenze che possono essere così riassunte: - ipertensione arteriosa, verosimilmente per aumento del tono adrenergico - policitemia - cardiopatia ischemica - aritmie di varia natura, difficilmente controllabili - cefalea mattutina per vasodilatazione cerebrale - incidenti cerebrovascolari - alterazioni del comportamento, specialmente irritabilità, mancanza di concentrazione, depressione - impotenza - può essere presente inoltre ipertensione polmonare Spesso le OSA si trovano associate alle 10 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 broncopneumopatie croniche ostruttive (Overlap Syndrome): sono entrambe presenti con ampia prevalenza nella popolazione ma a tuttora non è stato ancora chiarito se la combinazione sia solo casuale o se esistano fattori che favoriscano l’insorgenza di entrambe le patologie: in ogni caso l’ipossia notturna delle OSA potrà essere più marcata in pazienti con overlap syndrome e quindi potranno essere più marcate tutte le complicazioni connesse con l’ipossia, in primis le turbe del ritmo cardiaco e l’ipertensione polmonare che avrà un’evoluzione più rapida. L’obesità associata ad OSA è stata classicamente chiamata “sindrome di Pickwick” perché Joe, “il ragazzotto grosso e rosso… che dormiva sempre… che dormiva in piedi… si appisolava nella cassetta delle carrozze… dormiva mentre mangiava a tavola” è stato così vivacemente e magistralmente descritto da Dickens nel suo The Posthumous Papers of the Pickwick Club da far pensare che si ispirasse ad un personaggio reale. Le linee guida dell’Associazione Italiana Medicina del Sonno indicano come suggestivi per OSAS: • Russamento notturno abituale con pause respiratorie da alcuni mesi (sintomi riferiti dal compagno di letto) • Sensazione di soffocamento al risveglio • Sonnolenza diurna Inoltre: • Indice di massa corporea ≥ 29 • Circonferenza del collo ≥ 43 cm nell’uomo e ≥ 41 cm nella donna • Dismorfismi cranio-facciali e anomalie oro-faringee che possono determinare una diminuzione del calibro delle vie aeree. Alterazioni delle prime vie aeree come ipertrofia adenotonsillare etc. vanno particolarmente sospettate in pazienti molto giovani che manifestino una continua sonnolenza senza causa apparente. Altra situazione da non sottovalutare, come già detto precedentemente, è l’abuso di alcoolici che, oltre a contribuire all’incremento ponderale, determina un rilasciamento profondo dei muscoli dilatatori delle prime vie favorendone il collasso notturno. I pazienti con OSA e broncopneumopatia cronica ostruttiva hanno frequentemente anche reflusso gastro-esofageo ma anche in questo caso non è ancora ben chiaro se sia una semplice associazione o se vi siano meccanismi attraverso i quali il reflusso possa determinare un aggravamento delle manifestazioni respiratorie . In considerazione dell’importanza della sonnolenza fra le manifestazioni delle OSAS, sono stati introdotti nella pratica clinica numerosi questionari tra i quali ricordiamo l’Epsworth Sleepness Scale . Nel sospetto di OSA il paziente deve essere inviato in un centro specializzato per essere valutato con un approccio multidisciplinare, con coinvolgimento, a secondo dei casi, dello pneumologo, dell’otorinolaringoiatra, del cardiologo, dell’endocrinologo, del nutrizionista, dello psicologo, dell’otorinolaringoiatra. Se necessario il paziente, utilizzando un sistema portatile, sarà sottoposto ad un monitoraggio notturno cardio respiratorio ridotto (flusso aereo nasale, frequenza cardiaca, ossimmetria, posizione corporea) o completo (si registreranno anche movimenti toraco addominali e rumori respiratori). In casi selezionati il paziente dovrà essere studiato in laboratorio del sonno, dove sarà possibile effettuare la polisonnografia, l’unico esame in grado di effettuare la stadiazione del sonno con l’EEG. Lo studio è limitato ai casi dubbi quando il monitoraggio ha dato esito negativo. La terapia deve in primis rimuovere le cause: riduzione del peso corporeo, correzione di malformazioni delle prime vie aeree, abolizione di alcoolici, di sedativi e di sonniferi. Nella maggior parte dei casi però si dovrà ricorrere durante le ore notturne alla cPAP (continuous Positive Airway Pressare) per via nasale con lo scopo di mantenere pervie le vie aeree: spesso già dalle prime applicazioni si assiste al drammatico miglioramento dei sintomi. Per finire un’osservazione: la prevalenza stimata delle OSAS nella popolazione è di 2-4% quindi numericamente molto rile- I. Cammarella et al. La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno vante però secondo alcuni Autori questa percentuale, già molto elevata, sarebbe sottostimata. Se si considera inoltre che il numero di soggetti con eccesso ponderale sembra aumentare continuamente spe- 11 cialmente tra i giovani, è verosimile aspettarsi in un prossimo futuro una attenzione crescente per le apnee ostruttive da parte della classe medica e della Sanità tutta. BIBLIOGRAFIA American Thoracic Society: Sleep apnea, sleepness and driving risk. Am J Respir Crit Care Med 1994;150: 1463-73. Brown LK: Sleep-related disorders and chronic obstructive pulmonary desease. Respir Care Clin. Am 1994;4, 493-512 Ing AJ, Ngu MC, Breslin AB: Obstructive sleep apnea and gastroesophageal reflux. J Med 2000;108 (Suppl 4a): 120s-125s Lavie P. Nothing new under the moon. Historical accounts of sleep apnea syndrome. Arch Intern Med 1984; 144:2025-8 Jones MW: A new method for measuring daytime sleepiness: the Epworth Sleepiness Scale. Sleep 1991; 14: 540-7Young T, Peppard PE, Gottlieb DJ: State of the art: epidemiology of obstructive sleep apnea. Am J Respir Crit Care Med 2002; 165; 1217-39 Rochester DF, Enson Y: Current concepts in the pathogenesis of the obesity-hypoventilation syndrome: mechanical and circulatory factors. Am J Med 1974; 57: 402-20 Taasan VC, Block AJ: Alcohol increases sleep apnea and oxygen desaturation in asymptomatic men. Am J Med 1981; 71: 240-5. ___ Per richiesta estratti: Prof. Ilio Cammarella, Via Gomenizza, 40 -00195 ROMA , Tel. 06 37352670 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Articoli originali REAZIONI CUTANEE A FARMACI CUTANEOUS DRUG REACTIONS ALESSIA BAGALINO1, GIOVANNI CRUCIANI2, STEFANO SARAZANI3 Ambulatorio di Allergologia Clinica 4a U.O.C. di Medicina Interna U.O.D. di Dermatologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma 3 Ambulatorio di Dermatologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma 1 2 Riassunto. Le reazioni avverse a farmaci rappresentano uno degli eventi che possono verificarsi nella vita di ognuno di noi e che possono essere fonte di grande preoccupazione sia per il medico che per il paziente. Per un medico clinico, differenziare gli effetti secondari o collaterali dalle reazioni allergiche vere e proprie, non risulta sempre facile, per cui spesso vengono attribuite all’allergia responsabilità riferibili alla tossicità da sovradosaggio, all’interazione tra farmaci ed alla sommazione di effetti polifarmacologici. Fortunatamente le reazioni allergiche o da ipersensibilità sono poco frequenti (5-10% di tutte le reazioni avverse), pur rappresentando il rischio clinico maggiore perchè in alcuni casi fatali. Per i meccanismi fisiopatologici implicati, la cute rappresenta spesso l’organo bersaglio di tali reazioni. La difficoltà nella raccolta anamnestica, nel riconoscimento dei quadri cutanei e delle possibili correlazioni con i quadri immunopatologici più comuni, rendono indispensabile la divulgazione di informazioni più dettagliate e di linee di condotta pratiche supportate dal parere polispecialistico allergo-dermatologico, per evitare la sospensione spesso ingiustificata di terapie efficaci e a volte meno costose e per dissolvere allarmismi ed immobilismi diagnostici e terapeutici senza alcun razionale. Parole chiave: Reazioni avverse a farmaci, Reazioni cutanee a farmaci, Ipersensibilità a farmaci, Allergia a farmaci. Summary. Adverse reactions to medications represent one of the events that’s can occur in anyone’s life and that can become a serious problem for both the doctor and the patient. For a clinical physician it is not always easy to differentiate the secondary or collateral effects from the actual allergic reactions and this is why allergy is often considered the cause of symptoms which should instead be connected to the toxicity incurred by the over dosage of medication, the interaction of different medications or the sum of different pharmacologic effects. Although allergic or hypersensitivity reaction are not frequent (5-10% of all the adverse reaction), they represent the highest clinical risk as they can be in some cases lethal. For involved physiopathological mechanisms, the skin represents the main target organ of such reaction. The difficulty experienced in compiling the patient’s medical history, in recognizing the skin aspects and the possible relations with the immune-pathological aspects make important to broadcast detailed information and guidelines supported by the allergist-dermatologist’s specialized advice, to avoid an unjustified interruption of effective and often inexpensive therapies and to avoid any irrational diagnostic and therapeutic anxiety and lack of action. Key words: Drug adverse reactions, Cutaneous drug reactions, Drug hypersensitivity, Drug allergy. 13 A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci INTRODUZIONE Fino a poco più di 15 anni fa il termine di allergia a farmaci (drug allergy) era praticamente l’unico utilizzato in clinica e comprendeva abbastanza genericamente tutti gli effetti collaterali imprevisti o inattesi (ma spesso anche quelli prevedibili) dei medicinali. La definizione usata in tal senso era completamente priva di razionale poiché non teneva assolutamente conto dei meccanismi patogenetici sottostanti. Per tale motivo attualmente si utilizza il termine più corretto di reazione avversa a farmaci o DAR (drugs adverse reaction) con il quale si intende “qualsiasi risposta indesiderata ed involontaria che si verifica in seguito alla somministrazione, per motivi diagnostici, terapeutici o preventivi, di un farmaco, per altro appropriato allo scopo desiderato”. Si riserva quindi l’ulteriore specificazione di allergia a quelle reazioni per cui sia dimostrato inequivocabilmente il meccanismo patogenetico immunologico1. La difficile distinzione tra sintomi dovuti alla malattia e sintomi dovuti all’assunzione del farmaco, le difficoltà nello stabilire un preciso rapporto causa/effetto e la sempre più frequente prescrizione polifarmacologica o autoprescrizione, rappresentano alcune cause di difficile rilevamento epidemiologico. Nonostante ciò il 25% circa di tutte le reazioni avverse a farmaci riportate in Italia è costituito da reazioni cutanee2 o CDR (cutaneous drug reaction). FATTORI DI RISCHIO Nonostante non sia possibile in termini assoluti, prevedere l’evenienza di una reazione avversa a farmaci, sono stati identificati alcuni fattori di rischio: a) dipendenti dal trattamento: - natura del farmaco (ad es. molecole con grossa complessità strutturale ed elevato peso molecolare) - sensibilizzazione crociata - vie di somministrazione - grado di esposizione b) dipendenti dal soggetto trattato: - età tra i 20 ed i 50 anni - sesso femminile - fattori genetici (atopia e lupus-like sindrome negli acetilatori lenti) - reazioni avverse precedenti - infezione da HIV - persistenza di risposta immune ai farmaci - infezioni virali concomitanti - asma - uso di ß-bloccanti - LES3,4. FATTORI DI RISCHIO IN ETÀ PEDIATRICA Particolari condizioni aggiunte possono ulteriormente differenziare i bambini dagli adulti e sono di seguito elencate: - bambini plurioperati per spina bifida o alterazioni urogenitali (reazioni avverse a lattice, ossido di etilene, antibiotici beta-lattamici) - bambini con un genitore allergico ad antibiotici beta-lattamici (reazioni avverse ad antibiotici beta-lattamici) - bambini affetti da mucoviscidosi (antibiotici beta-lattamici)5. CLASSIFICAZIONE DELLE DAR Le reazioni avverse e di conseguenza anche quelle cutanee, si dividono in immunologiche e non immunologiche, prevedibili ed imprevedibili. La maggior parte di esse (75-80%) è costituito da reazioni non immunologiche prevedibili. Per le reazioni imprevedibili, la scarsa conoscenza dei meccanismi patogenetici con conseguente scarsità di test affidabili e l’assenza di criteri diagnostici, rendono difficili gli studi epidemiologici. Per tali motivi l’incidenza di queste ultime è riportata come variabile dal 2 al 30%. 14 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 Tabella 1. Classificazione delle DAR. R. PREVEDIBILI - sovradosaggio effetti collaterali effetti secondari interazioni farmacologiche Le prime hanno come caratteristiche comuni quelle di essere direttamente correlate all’azione del farmaco, di essere dose-dipendenti, di potersi verificare teoricamente in qualsiasi soggetto e di non richiedere alcun meccanismo di sensibilizzazione precedente. Le seconde hanno come caratteristiche comuni quelle di essere indipendenti dall’azione farmacologica o recettoriale della sostanza, di essere solitamente dose dipendenti, di verificarsi solo in soggetti predisposti e di riconoscere per la maggior parte un meccanismo immunologico6-9. R. IMPREVEDIBILI - intolleranza (abnorme sensibilità) idiosincrasia (carenze enzimatiche) reazioni allergiche/immunologiche reazioni pseudoallergiche (PAR) Si deve comunque sottolineare che nel 2001 l’Accademia Europea di Allergologia ed Immunologia Clinica ha pubblicato una revisione di tutta la nomenclatura inserendo in questo contesto il termine di “drug hypersensitivity” per intendere tutte le reazioni avverse da farmaci comprendendo a sua volta “l’ipersensibilità non allergica” quando il meccanismo non è immunologicamente mediato e “l’allergia a farmaci” se è implicato un meccanismo patogenetico immunologicamente mediato 10 (tabella 2). Tabella 2. Classificazione secondo Gell e Coombs delle Cutaneous Drug Reaction16. Tipo di reazione Meccanismo Tipo I (IgE-mediate) Complessi farmaco-IgE che provocano la degranulazione dei mastociti ed il rilascio di mediatori infiammatori Orticaria, angioedema, broncospasmo, vomito, diarrea, anfilassi Da minuti ad ore dopo l’esposizione al farmaco Tipo II (citotossiche) Anticorpi specifici di tipo IgG e IgM diretti contro farmaci-apteni coated cells Anemia emolitica, neutropenia, trombocitemia variabile Tipo III (da immunocomplessi) Deposizione tissutale di complessi farmaco anticorpo con attivazione del complemento ed infiammazione Malattia da siero, febbre, rash, artralgie, linfoad., orticaria, glomerulonefriti, vasculiti Da 1 a 3 settimane dopo l’esposizione al farmaco Dermatite allergica da contatto, rash maculo-papuloso Da 2 a 7 giorni dopo l’esposizione cutanea al farmaco Tipo IV Presentazione MHC(ritardate, cellulo-mediate) farmaco ai linfociti T con rilascio di citochine e mediatori dell’infiammazione Manifestazioni cliniche Tempi di reazione 15 A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci Come mostrato in tabella risulta difficile risalire dalla manifestazione clinica al meccanismo patogenetico implicato, mentre di maggior aiuto appaiono i tempi di reazione o il tempo che intercorre tra l’assunzione del farmaco sospetto alla comparsa della manifestazione clinica. In questa trattazione cercheremo di fondere gli aspetti immuno-allergologici con quelli più strettamente dermatologici per fornire al medico di reparto e di Medicina Generale alcuni strumenti di orientamento. REAZIONI PSEUDOALLERGICHE (PAR) Sono reazioni che mimano i sintomi ed i segni delle forme a patogenesi immunologica ma che non necessitano di una prima fase di sensibilizzazione e che si verificano per un evento iniziale scatenante sempre non immunologico quale: - azione degranulante diretta su mastociti e basofili - attivazione della via alterna del complemento con liberazione di anafilotossine - squilibrio del sistema ciclossigenasi / lipossigenasi a favore dei leucotrieni flogogeni - sostanze contenenti istamina o precursori. I farmaci solitamente coinvolti in questo tipo di reazioni sono l’acido acetilsalicilico e gli altri FANS, gli ACE-inibitori, gli oppiacei, i mezzi di contrasto iodati, alcuni antibiotici (vancomicina, ciprofloxacina), alcuni miorilassanti. Non essendo coinvolto un meccanismo di tipo allergico (per il quale è necessaria una prima fase di sensibilizzazione alla quale segue una reazione dopo riesposizione) si può avere una manifestazione clinica già alla prima esposizione6-11. identificare il medicinale responsabile o l’esatto meccanismo patogenetico coinvolto sull’unica base dell’obiettività cutanea. Quella proposta è forse la classificazione più imperfetta sotto il profilo eziopatogenetico, ma senz’altro la più utile per il medico, che si trova a dover inquadrare profili morfologici, anche complessi, di malattia.12,13 L’elenco in ordine decrescente di frequenza è il seguente: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Eruzioni esantematiche 46% Orticaria-angioedema 23% Dermatiti da contatto 10-12% Eruzioni fisse 10% Eritema multiforme minor e maior 5% Dermatite esfoliativa 4% Fotosensibilità 3% 1. Eruzioni esantematiche (fig.1) - insorgono dopo 2-3 settimane dall’assunzione del farmaco - sono lesioni scarlattiniformi, rubeoliche o morbilliformi - le mucose e le zone palmo-plantari so- MANIFESTAZIONI CLINICHE Le DAR si manifestano con un quadro di reazioni morfologiche cutanee abbastanza limitato in risposta ad una grande varietà di stimoli, per cui è spesso impossibile Figura 1. 16 - - Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 no rispettate ed il volto è di solito poco coinvolto l’eruzione è simmetrica le localizzazioni preferenziali nei pazienti deambulanti sono gli arti inferiori, nei pazienti allettati le zone di decubito o di pressione se la somministrazione del farmaco persiste si può sviluppare una dermatite esfoliativa la risoluzione avviene con desquamazione e pigmentazione postinfiammatoria residua Una forma particolare è la DRESS (Drug Rush with Eosinophilia and Systemic Symptoms) caratterizzata da rash maculo-papuloso diffuso, febbre, coinvolgimento multiviscerale, eosinofilia, linfocitosi atipica e anomalie degli indici di funzionalità epatica, che può insorgere 1-8 settimane dopo l’assunzione del farmaco (soprattutto allopurinolo, anticonvulsivanti e sulfamidici) ed è gravata da una mortalità pari all’8%.14 2. Orticaria-angioedema (fig.2 e 3) - insorge dopo 36 ore dalla prima assunzione del farmaco o anche dopo alcuni minuti in caso di riassunzione - l’angioedema è molto meno frequente - le manifestazioni sono eritematopomfoidi polidistrettuali a volte figurate, pruriginose, fugaci - regrediscono entro un giorno - la risoluzione si ha con restitutio ad integrum. 3. Dermatite da contatto (fig.4) - insorge dopo 24-48 ore - è localizzata nelle aree di contatto con diffusione secondaria ed è quindi asimmetrica - le manifestazioni sono di tipo eritemato-papulo-vescicoloso nella fase acuta, di tipo ipercheratosico lichenificato nella fase cronica - la diagnosi differenziale va posta con la dermatite irritativa (a più rapida insorgenza, simmetrica e con bordi più netti). 4. Eritema fisso (fig.5) - insorge dopo 1-2 settimane dalla pri- Figura 2. Figura 3. Figura 4. 17 A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci Figura 5. Figura 6. Figura 7. - - ma assunzione del farmaco o dopo ore nei casi di pazienti già sensibilizzati ha la tendenza a comparire sempre nella stessa sede con le assunzioni successive aumentano le aree colpite le zone più colpite sono gli arti ed i genitali le manifestazioni sono rappresentate da placche eritemato-edematose ben delimitate, rotondeggianti, della grandezza massima di pochi centimetri e di colorito brunastro o violaceo la risoluzione comporta una lieve desquamazione e pigmentazione residua. 5a. Eritema multiforme minor (fig.6) - può essere causato da farmaci o da agenti infettivi - la lesione tipica è “a bersaglio” con area centrale vescicolare, con alone pallido-cianotico intorno e banda eritematosa esterna - è possibile un coinvolgimento delle labbra, mentre il dorso delle mani è quasi sempre interessato - le lesioni sono simmetriche. 5b. Eritema multiforme major o Sindrome di Stevens-Johnson (fig.7) - compare dopo 6-7 giorni dall’assun- 18 - - - 6. Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 zione del farmaco, spesso sulfamidici si manifesta con lesioni eritematose confluenti sul tronco, lesioni bollose che non superano il 10% della superficie corporea le mucose sono sempre interessate con lesioni emorragico-erosive sulla superficie di almeno una di esse possibile evoluzione verso la Sindrome di Lyell o necrolisi epidermica tossica (TEN) (fig.8) che è caratterizzata da aree eritematose confluenti associate a bolle flaccide con successivo distacco epidermico nel più del 20% della superficie cutanea le mucose sono sempre coinvolte possono insorgere complicanze oculari si associano alterazione della termoregolazione, del bilancio idro-elettrolitico, febbre e compromissione dello stato generale è mortale nel 20-40% dei casi la riepitelizzazione, nei casi di guarigione, avviene in 3-4 settimane. Dermatite esfoliativa (fig.9) - insorge dopo alcune settimane dall’assunzione del farmaco - si manifesta con lesioni eritemato-desquamative diffuse su tutta la superficie del corpo - è presente una linfoadenopatia /linfadenite - è caratterizzata da prurito intenso e dolore - si associa ad una perdita di proteine sieriche, alterazione del bilancio idroelettrolitico e della termoregolazione - frequenti sono le sovrainfezioni. 7a. Fotosensibilità: reazioni fototossiche (fig.10) - sono più frequenti delle reazioni fotoallergiche - possono insorgere in tutte le persone dopo applicazione o assunzione del farmaco seguita dall’esposizione alla luce solare - insorge dopo 5-20 ore dalla prima esposizione alla luce - le manifestazioni sono caratterizzate Figura 8. Figura 9. Figura 10. Figura 11. 19 A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci da eritema, edema, vescicolo-bolle - lasciano una iperpigmentazione residua. 7b. Fotosensibilità: reazioni fotoallergiche (fig.11) - è presente una fase di latenza in cui avviene la sensibilizzazione - insorgono dopo 24-48 ore dalla riesposizione al farmaco ed alla luce solare - non sono dose dipendenti - le manifestazioni cutanee sono polimorfe papulose o lichenoidi - tendono alla cronicizzazione in caso di terapie protratte - sono più frequenti dopo applicazione di antistaminici locali, filtri solari che contengono PABA (acido 4-amminobenzoico) e fragranze oppure dopo assunzione di fenotiazine, sulfamidici, sulfaniluree e diuretici tiazidici. DIAGNOSI Nella trattazione di questo capitolo ci sembra prioritario esordire con alcune certezze: “le pratiche da evitare”. Sono assolutamente da evitare poiché forniscono una previsione assolutamente inattendibile e soprattutto espongono il paziente a rischio di reazioni gravi, potenzialmente letali: - la valutazione preventiva mediante prove in vivo utilizzando il farmaco nella sua forma commerciale (POMFO DI PROVA) - le prove in vivo in pazienti con pregresse reazioni sistemiche gravi - le prove in vivo in pazienti a rischio, quali quelli affetti da cardiopatie, insufficienza renale od epatica, diabete mellito. La diagnosi di CDR dipende dalla coesistenza di più fattori, quali la valutazione dei fattori di rischio, l’identificazione dei sintomi, una dettagliata registrazione dei farmaci assunti nell’ultimo mese (inclusa data di assunzione e dosaggio), presenza di relazione temporale compatibile tra assunzione del medicamento e comparsa dei sintomi, manifestazioni cliniche o segni suggestivi all’esame obiettivo, esami di laboratorio15. Qualora si ritenga di essere di fronte ad una CDR di sospetta natura immuno- logica, si potrà fare ricorso ai test come indicato nella tabella 316. Tabella 3. Test proposti nelle CDR di sospetta natura allergica. Reazione immune Test di laboratorio Tipo I (IgE-mediata) Skin test (prick ed intradermoreazione) ImmunoCAP, RAST Triptasi sierica Test di tolleranza Tipo II (citotossica) Test di Coombs diretto o indiretto Tipo III VES (da immunocomplessi)PCR Immunocomplessi circolanti Studio del complemento Anticorpi antinucleo Biopsia tissutale per studio di immuno fluorescenza diretta Tipo IV (ritardata o cellulo-mediata) Patch test e foto-patch test Degranulazione dei basofili Test di tolleranza L’Immuno-CAP (immunodosaggio a sandwich ad elevata velocità, precisione e riproducibilità, con superiore sensibilità e specificità nel dosaggio delle IgE specifiche rispetto ai test di precedente generazione, in cui il cuore del sistema è la fase solida Immuno-CAP - che consiste in un derivato di cellulosa contenuto in una capsula), il RAST (dosaggio delle IgE specifiche nel siero con test radioimmunologico) e gli skin test (prick ed intradermoreazione) funzionano ovviamente solo per farmaci che si comportano da antigeni completi ed evocano risposte di tipo IgE-mediate, come ad esempio: miorilassanti, determinanti minori e maggiori della penicillina, cefalosporine, cotrimossazolo, insulina, ecc17,18. 20 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 I patch-test ed i foto - patch-test (test che pone il farmaco a contatto con la cute in maniera occlusiva con cerotto ed in caso dei foto-patch prevede una fase, successiva al contatto, di esposizione ai raggi UV) prevedono una lettura a distanza di 48-72 ore al fine di evidenziare una allergia cellulo-mediata ed hanno assunto grande rilievo nella diagnostica dell’allergia agli antibiotici.19,20 Il test di tolleranza va eseguito sempre con prudenza e sotto controllo dello specialista allergologo e in ambiente protetto, con farmaci alternativi (stessa attività farmacologica ma diversa struttura chimica), diversi da quelli che hanno dato problemi a dosi crescenti fino al raggiungimento della dose terapeutica, che qualora tollerata potrà essere utilizzata. Tale test è vietato per mezzi di contrasto iodati ed è invece possibile per analgesici oppioidi, anestetici generali e locali, antibiotici, a patto che si proceda alla somministrazione terapeutica subito dopo il completamento del test. La tolleranza indotta è di breve durata21. Infine è da sottolineare l’esistenza del test di provocazione (utilizzato anche in caso di reazioni pseudoallergiche) che, sebbene eticamente poco proponibile, rappresenta al momento attuale il metodo più idoneo per dimostrare la sicura relazione causa-effetto e prevede, da parte dello specialista allergologo ed in ambiente ospedaliero con pronta disponibilità delle misure di emergenza, la somministrazione del farmaco sospetto, iniziando da un millesimo o un centesimo della dose terapeutica e procedendo a incrementi progressivi del dosaggio fino all’insorgenza della reazione o al raggiungimento del dosaggio terapeutico. Risulta gravato però da due inconvenienti di cui uno dei quali assolutamente non trascurabile, quali quello di non dare alcuna informazione sulla patogenesi della reazione avendo solo valore eziologico e in caso di reazione positiva, di provocare anche reazioni gravi potenzialmente fatali. Va effettuato pertanto solo in caso di anamnesi dubbia, solo quando il farmaco sia assolutamente indispensabile ed in alcun modo sostituibile e gli altri test dia- gnostici siano insufficienti a fare diagnosi. È controindicato nel caso in cui il farmaco sia stato coinvolto in gravi reazioni anafilattiche sistemiche o bolloso-desquamative22. TERAPIA Il primo provvedimento da attuare consiste nell’immediata sospensione dei possibili farmaci in causa e, nei casi di fotodermatite, anche dell’esposizione alla luce. Nelle forme lievi/moderate di CDR, inclusa l’orticaria acuta, è sufficiente l’impiego di antistaminici per via sistemica e di cortisonici per uso topico. Nella sindrome orticaria/angioedema si utilizzano preferenzialmente antistaminici anti-H1 per via sistemica associati a steroidi per via sistemica. Nelle forme di orticaria angioedema ingravescente è necessario ricorrere a farmaci vasoattivi, quali l’adrenalina (0.3-0.5 ml s.c. da ripetere se necessario ogni 10-20 minuti per due o tre volte) e la dopamina (10-30 mcg/Kg/min. e.v.) associati a cortisonici (metilprednisolone 500-1000 mg e.v.) e ad antistaminici per via sistemica (sia antiH1 che anti-H2). In caso di broncospasmo vi è indicazione all’ossigeno-terapia ed alla somministrazione per via endovenosa di isoproterenolo ed aminofillina. Infine qualora si verifichi edema della glottide occorre l’immediato ricorso all’intubazione tracheale o alla tracheotomia. Le eruzioni esantematiformi e la dermatite esfoliativa prevedono il trattamento con prednisone per os a dosaggi iniziali di 25-50 mg/die e successivo graduale decremento. Nella Sindrome di Stevens-Johnson si utilizzano dosaggi di prednisone più elevati (1 mg/kg/die) allo scopo di impedire l’evoluzione verso una TEN. Per la terapia della Sindrome di Lyell la gravità e complessità del quadro cutaneo e sistemico rendono indispensabile un approccio multidisciplinare analogo a quello richiesto per il trattamento del “grande ustionato” prevedendo infusioni glico-saline, alimentazione enterale attraverso sonda naso-gastrica, temperatura 21 A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci ambiente costante e controllata (30-32°C), medicazioni locali con antisettici per uso topico (argento nitrato allo 0.5%, clorexidina gluconato 0.05%), rimozione chirurgica delle escare. L’uso degli steroidi per tale sindrome rimane controverso in quanto per alcuni autori favorirebbe le infezioni e rallenterebbe la guarigione, per altri potrebbe offrire dei vantaggi solo ad alte dosi ed in associazione con immunoglobuline13. Nell’ipotesi patogenetica di una reazione mediata da linfociti “aggressivi” sensibilizzati contro le cellule dell’epidermide è stato impiegato di recente in due pazienti, l’etarnecept (inibitore dell’attività del TNF-alfa) 25 mg, per due volte in una settimana, con netto miglioramento del quadro clinico, sino a quel momento estremamente critico (esperienza del dott. Di Donna IDI-Roma), e in 126 pazienti affetti da reazioni cutanee a farmaci quali eruzioni maculopapulari, eritema multiforme, sindrome di StevensJohnson e necrolisi epidermica tossica, dimostrando un significativo decremento delle citochine proinfiammatorie dopo il trattamento pur non raggiungendo i valori dei soggetti di controllo23. CONCLUSIONI Tenuto conto della complessità dei quadri clinici spesso multiformi, dei limiti diagnostici ed in parte terapeutici e della estrema gravità di alcune forme cutaneo/sistemiche sopramenzionate, alcune delle quali gravate da un alto indice di mortalità, ci sembra ancora più opportuno ribadire alcune semplici raccomandazioni di “good clinical practice” rivolte sia al cittadino che al medico curante: 1. evitare l’assunzione di farmaci non prescritti dal medico curante 2. limitare l’uso contemporaneo di più medicamenti 3. annotare sempre il farmaco che ha provocato la reazione ed i tempi intercorsi tra l’assunzione e la comparsa della manifestazione cutanea 4. ricordare i fattori di rischio del paziente 5. nei pazienti a rischio ridurre l’uso di FANS utilizzando al bisogno quelli con indice di tolleranza migliore (paracetamolo, nimesulide, etc.) 6. rilasciare al paziente un certificato in cui vengano elencati i farmaci da evitare ed un elenco, ove possibile, di farmaci alternativi già testati 7. indicare in maniera semplice e chiara i provvedimenti da adottare in caso di una nuova reazione avversa al farmaco 8. iniziare con dosaggi sub-terapeutici più dilazionati nel tempo 9. consultare uno specialista allergologo prima della somministrazione di mezzi di contrasto o farmaci non sostituibili o non testabili per la messa in atto di schemi di premedicazione con antistaminici e cortisonici 10. spiegare sempre al paziente che l’applicazione scrupolosa dei criteri e l’esecuzione dei test sopraelencati pur riducendone l’incidenza non è in grado di escludere una futura reazione avversa a farmaci. Nell’auspicio di aver percorso qualche passo in avanti e di essere in procinto di percorrerne degli altri nel cammino verso l’uso veramente sicuro dei farmaci sono da citare le parole di Omero che ricorda “…..la terra datrice di biade produce moltissimi farmaci, molti buoni, e misti coi quali molti mortali.” (Odissea, trad. R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1972, libro IV, vv.219-232). BIBLIOGRAFIA 1. 2. 3. 4. 5. Demolì P, Bousquet J. Epidemiology of drug allergy. Curr Opin Allergy Clin Immunol 2001; 1: 305-10. Bollettino d’informazione sui farmaci. AIFA. Ministero della Salute. 2005; 5-6: 219-21. deShazo RD, Kemp SF. Allergic reaction to drugs and biologic agents. JAMA 1997; 278: 1895-906. Assem E-SK. Drug allergy and tests for its detection. In: Davies’s Text-book of Adverse Drug Reactions. Davies Dm, Ferner RE, de Glanville H (Eds). London: Chapman & Hall, 1998: 790-815. Ortolani C, Vighi G. Criteri generali di trattamento dell'allergia a farmaci. 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Activity of Tumor Necrosis Factor-alpha (TNFalpha) and its soluble type I receptor (p55TNFR) in some drug-induced cutaneous reactions. Ann Univ Mariae Curie Sklodowska [Med]. 2003; 58: 50-6. ____ Per richiesta estratti: Dott.ssa Alessia Bagalino Via dei Durantini 384 - 00157 - Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 IL TRATTAMENTO DELLE ULCERE TROFICHE CON IL GEL PIASTRINICO THE USE OF PLATELET GEL TO TREAT DIFFICULT-TO-HEAL WOUNDS ALESSANDRO DE ROSA,1 CARLO DE SANCTIS,1 PAOLO AURELI,2 CESIRA CASTELLANI,1 CINZIA FERRO,1 ROSALIA FONTANA,1 SILVIANO GENTILI,1 STEFANO PASCUCCI,1 ROSA LEONE1 UOC Servizio di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale UOC Chirurgia Vascolare - Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini - Roma 1 2 Parole chiave: Parole gel piastrinico, Guarigione delle ferite, Fattori di crescita. Key words: Platelet gel, Wound healing, Growth factors. INTRODUZIONE Nell’ultimo decennio si è andato affermando, nell’ambito della medicina generale e specialistica, l’impiego di emocomponenti per usi alternativi a quelli strettamente trasfusionali fino agli ultimi Decreti Ministeriali del 3.3.2005 che regolano la produzione e la distribuzione degli emocomponenti, dove il gel piastrinico e la colla di fibrina sono definiti come veri e propri “emocomponenti per uso topico”.1 Il prodotto della degranulazione delle piastrine è in grado di influenzare positivamente la riparazione di tessuti lesionati e la guarigione di ulcere.2,3 Marx ha dimostrato che le piastrine elaborano, immagazzinano e rilasciano, se attivate, numerosi fattori di crescita (Growth Factors) che sono in grado di stimolare la proliferazione di fibroblasti, cellule endoteliali, cheratinociti, miociti, osteociti e cellule mesenchimali.4 Questi GF esercitano poi un’azione di chemiotassi positiva verso macrofagi, monociti e granulociti. Dei seguenti è stata ben documentata l'attività5: PDGF Platelet derived growth factor: azione mitogena ed angiogenetica, up-regulation di altri fattori di crescita. bFGF: Basic Fibroblast Growth Factor: stimolazione alla proliferazione di fibroblasti, dell’angiogenesi e degli osteoblasti TGF-beta Transforming growth factor-beta: stimolazione di fibroblasti e preosteobla- sti, inibizione del riassorbimento osseo, chemiotassi VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor: stimolazione dell’angiogenesi EGF Epidermal growth factor: stimolazione delle cellule mesenchimali ed epidermiche IGF I e II Insulina like growth factor I e 11: stimolazione della deposizione di osso Questa capacità delle piastrine di intervenire nei meccanismi di riparazione tissutale ha costituito il presupposto teorico all'utilizzo del gel di piastrine (PG) in odontoiatria, dermatologia, cardiochirurgia, ortopedia, chirurgia ricostruttiva quando vi sia l'esigenza di attivare un processo di riparazione tissutale. Scopo del nostro lavoro è stato quello di valutare l’efficacia terapeutica del gel piastrinico nel trattamento delle ulcere cutanee croniche (vascolari, diabetiche, da decubito, traumatiche). Il rationale dell’impiego del gel piastrinico nel trattamento delle ulcere croniche si fonda sulla possibilità di ottenere il rilascio nella sede dell’ulcera dei principali fattori di crescita tessutali (VEGF, IGF 1-1, PDF, TGF-beta, EGF) contenuti e secreti dalle stesse piastrine;6 le ulcere croniche, infatti, differiscono dalle lesioni acute perché non guariscono in un arco di tempo prevedibile (nella maggior parte dei casi tre mesi) e perché, a differenza di queste, presentano elevati livelli di enzimi proteolitici come Relazione tenuta al Meeting “L’ischemia critica degli arti inferiori”, Roma, 26 gennaio 2006 24 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 3, 2006 elastasi e metalloproteinasi7,8 e bassi livelli di fattori di crescita come PDGF e TGF.9,10 Indipendentemente dalla natura delle lesioni, è stato dimostrato che l’applicazione di gel piastrinico nelle ulcere ingravescenti determina riparazione tessutale nei pazienti trattati.11,12,13 Tutti i prodotti impiegati devono essere sottoposti a controlli di qualità per definirne sterilità e caratteristiche; tali dati sono correlati infatti con l’efficacia clinica del gel, in gran parte dipendente dalla concentrazione di piastrine e di fattori di crescita nel prodotto finale.14 MATERIALI E METODI PAZIENTI Nel corso di circa 7 mesi di attività del nostro Servizio (giugno 2005 - gennaio 2006), sono stati trattati 7 pazienti (5 maschi e 2 femmine) portatori di ulcere cutanee di diversa origine da un tempo mediamente superiore ai 6 mesi. Le ulcere erano localizzate ai piedi o agli arti inferiori in 6 casi mentre 1 paziente era affetto da un'ulcera lombo-sacrale. L'eta' dei pazienti variava dai 22 ai 73 anni con una mediana di 46 anni. I pazienti sono stati arruolati previa richiesta di consulenza di Medicina Trasfusionale da parte del medico curante e dopo attenta valutazione del trasfusionista sull'indicazione al trattamento con gel piastrinico. Si è utilizzato previa acquisizione del consenso informato del paziente, il predeposito autologo, ove possibile, o, in alternativa, sangue omologo di donatori periodici dello stesso gruppo sanguigno AB0 ed Rh del paziente da trattare. Le lesioni sono state valutate all’inizio del trattamento, in corso e alla fine della terapia mediante: a) classificazione dell’etiopatogenesi all’accesso: i. vascolare ii. post-traumatica iii. da decubito iv. infettiva v. diabetica b) osservazione delle caratteristiche della lesione i. dimensioni ii. stato di detersione iii. granulazione del fondo dell’ulcera iv. sovrapposizione di processi infettivi c) valutazione dell’evoluzione della lesione nel tempo i. osservazione al tempo 0 ii. osservazione a giorni 15 iii. osservazione a giorni 90 d) controlli microbiologici e) documentazione fotografica all’inizio del trattamento, dopo 15 giorni e a 90 giorni. Su la base dei criteri sopra indicati vengono individuate tre distinte tipologie di risposta al trattamento 15: a) risposta efficace (RE): ulcera ricoperta almeno per l’80% della superficie da attività rigenerativa; b) risposta parziale (RP): ulcera con presenza di tessuto di granulazione ricoprente almeno il 50% della superficie della lesione; c) nessuna risposta (NR): ulcera necrotica senza nessuna evidenza di tessuto di granulazione su tutto l’ambito della superficie. Per la preparazione del gel piastrinico sono state utilizzate sempre donazioni da prelievo multicomponent con produzione di concentrato piastrinico e plasma. Il concentrato piastrinico entro 5 giorni dal prelievo viene applicato oppure stoccato a –40°C in aliquote da 10-20 cc (o inferiori se si tratta di ulcere di piccole dimensioni) sotto forma di lisato piastrinico contenente un numero di piastrine superiore al valore di efficacia secondo Marx di 1,5 x 106 per microlitro 4. Il plasma ottenuto (sia autologo che omologo) è stato immediatamente congelato a –80°C e quindi sottoposto al trattamento per la produzione di crioprecipitato A. De Rosa et al.: Il trattamento delle ulcere trofiche con il gel piastrinico e trombina utilizzando due metodi alternativi: a) metodo "home-made": consiste nella produzione di 15-20 ml di crioprecipitato mediante scongelamento del plasma fresco congelato (autologo o omologo) per 12-18 ore a +4°C (metodo del "sifonamento")16 e di trombina mediante aggiunta di Calcio gluconato al 10% al plasma fresco congelato. Il crioprecipitato e la trombina ottenuti vengono aliquotati per applicazioni seriate in sacche transfer o in provette Vacutainer agendo sterilmente sotto cappa a flusso laminare. b) metodo automatizzato (sistema Cryoseal della ditta Dideco): questo metodo garantisce in poco più di un'ora di lavorazione la produzione di crioprecipitato e trombina. I due componenti vengono suddivisi dal sistema in 4 aliquote e trasferiti in siringhe sterili. Le aliquote di crioprecipitato e trombina ottenute con entrambi i metodi vengono poste in congelatore a –80°C. La suddivisione in aliquote (sia per i costituenti plasmatici che piastrinici) ottimizza l’uso del prodotto riducendo al minimo il numero di procedure aferetiche e consente di avere a disposizione gli emocomponenti per applicazioni seriate nel tempo utilizzando sempre la stessa donazione sia nell'uso autologo che per i preparati allogenici: specie per questi ultimi viene così ridotto al minimo l' eventuale rischio infettivo e immunologico. L’età spesso avanzata dei pazienti e la impossibilità di arruolarli in protocolli di plasma-piastrinoaferesi può costringere infatti ad utilizzare emocomponenti di origine allogenica. In questi casi deve essere valutato il rapporto costo/beneficio dell’utilizzo dei componenti omologhi per uso non trasfusionale anche per l’obbligo dell’emovigilanza derivante da tale pratica (compatibilità gruppo-ematica, immunizzazione, trasmissione di malattie infettive). Al momento dell’impiego del gel piastrinico viene scongelata un’aliquota del lisato piastrinico insieme ad un’aliquota sterile di crioprecipitato e di trombina. L’attivazione e successiva applicazione del 25 gel piastrinico viene fatta al letto del paziente (che si trova abitualmente in regime di ricovero o in Day-Hospital) con cadenza media settimanale. (vedi figg. 1 e 2) La quantità di gel da utilizzare è variabile a seconda della dimensione della lesione ulcerosa. Il gel viene tenuto a contatto in media 3 giorni, viene quindi asportato il prodotto non assorbito, la lesione detersa con soluzione fisiologica e ipoclorito di sodio al 5% e viene effettuata una nuova applicazione. Sono state complessivamente effettuate 159 applicazioni di gel con una media di 20 applicazioni e una durata media del trattamento di 73 gg. per paziente. Figura 1 - Preparazione di gel piastrinico con miscelazione e attivazione dei componenti in siringa o in capsula di Petri a seconda della forma e della estensione della lesione. 26 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 3, 2006 tiva e in gran parte necrotica e solo 2 (29%) una parziale risposta rigenerativa ai precedenti trattamenti. Al tempo T15 (dopo 15 giorni) solo un paziente (12%) non presentava risposta al trattamento, mentre 3 (44%) presentavano risposta efficace (RE) e altri 3 (44%) risposta parziale (RP). Al tempo T90 sono stati valutati solo 3 pazienti dei quali 2 presentavano risposta efficace (RE) e 1 risposta parziale (RP). Gli altri 4 pazienti (2 con RE, 1 con RP e 1 NR al T15) non sono stati valutati al T90 perché hanno interrotto il trattamento in anticipo. Tutti hanno riferito un miglioramento della sintomatologia dolorosa già dopo 1 o 2 applicazioni. In nessun paziente si è osservato un peggioramento clinico dello stato dell'ulcera. CONCLUSIONI Figura 2 - Il gel piastrinico viene applicato su tutta la superficie della lesione e fissato con garza grassa.. RISULTATI Sul prodotto finale fresco sono stati eseguiti dei controlli di qualità riguardo la sterilità di tutti i prodotti impiegati (trombina, concentrato piastrinico e crioprecipitato) e la conta leuco-piastrinica sul concentrato da aferesi. In tutti i campioni da noi esaminati le colture sono risultate sterili a 7 giorni e la conta leucocitaria è sempre risultata inferiore a 1.000.000 di globuli bianchi in ogni concentrato da aferesi prelevato; una grande variabilità si è osservata nel numero delle piastrine che è stato tuttavia sempre superiore a 1,5 x 1011/microlitro. Per quanto riguarda i risultati clinici dei 7 pazienti studiati, 5 (pari al 71%) presentavano al tempo T0 un'ulcera senza segni di attività rigenera- L’esiguo numero di pazienti e la disomogeneità dei casi trattati non ci consente di esprimere un giudizio definitivo sull’efficacia di questa terapia. È risultato però evidente fin dalle prime applicazioni di gel che la maggior parte delle lesioni trattate rispondevano positivamente alla terapia; ciò soprattutto considerando lo stato inveterato delle ulcere e la scarsità di progressi ottenuti con i trattamenti tradizionali nei molti mesi se non anni che hanno preceduto la terapia con gel piastrinico. L’ottima tollerabilità dei prodotti impiegati sia omologhi che autologhi e i bassi costi ottenibili specie utilizzando le metodiche “home-made” incoraggiano ulteriormente la diffusione di questa pratica terapeutica a tutte le tipologie di lesioni ulcerative della cute. La necessità di avere a disposizione studi randomizzati e controllati per confermare i dati ottenuti resta tuttavia essenziale per la ulteriore affermazione e standardizzazione di questa importante alternativa terapeutica. BIBLIOGRAFIA 1. Decreto Ministero della Salute 3 marzo 2005. Caratteristiche e modalità per la donazione di sangue ed emocomponenti; G.U. Serie Generale A. De Rosa et al.: Il trattamento delle ulcere trofiche con il gel piastrinico n. 85 del 13.04.2005 allegato 2 pag. 22. 2. Knighton DR, Ciresi KF, Fiegel VD et al. Classification and treatment of chronic non-healing wounds. Successful treatment with autologous platelet-derived wound healing factors (PDWHF). Ann Surg 1986;204: 322-30. 3. Knighton DR, Ciresi KF, Fiegel VD e al.: Stimulation of repair in chronic, nonhealing, cutaneous ulcers using platelet-derived wound healing formula. Surg Gynecol Obstet 1990;170: 5660. 4. Robert E. Marx. Platelet-rich plasma: Growth factor enhancement for bone grafts. 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Fattore di crescita piastrinico per le ulcere diabetiche. The Medical Letter, 1998;XXVII, 18. 12. Nirmal Joshi, M.D. Infections in Patients with Diabetes Mellitus. N Engl J Med; 1999;341: 1906-12. 13. Bauer E. Sumpio, M.D., Ph. D.Foot Ulcers. N Engl J Med; 2000;343: 787-93. 14. Borzini P, Mazzucco L, Cattana E. Platelet gel: clinical use and unanswered questions. Blood Transfus 2004; 2: 10-4. 15. Caloprisco G, Barbone E, Borean A et al. Local haemotherapy of chronic skin ulcers with leucocyte-platelet gel produced from blood components obtained with a cell separator. Blood transfus 2004; 2: 44-54. 16. Strada P, D’Angiolino A, Caloprisco G. Prelievo, preparazione. Conservazione e assegnazione di componenti del sangue umano per uso terapeutico non trasfusionale. Il Servizio Trasfusionale 2000; 6: I-XII . ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 MONITORAGGIO CONTINUO DEL GLUCOSIO TRAMITE SENSORE SOTTOCUTANEO (CGMS): POSSIBILE RUOLO INDIPENDENTE NEL CONTROLLO METABOLICO DEL DIABETE DI TIPO 1. CONTINUOUS GLUCOSE MONITORING BY SUBCUTANEOUS SENSOR (CGMS): POSSIBLE INDIPENDENT ROLE IN METABOLIC CONTROL OF TYPE 1 DIABETES PATIENTS CLAUDIO TUBILI, LELIO MORVIDUCCI, FIORENZA ARGNANI, GIULIANA CARTA, STEFANIA AGRIGENTO, ALDO CLEMENTI U.O. Dipartimentale di Diabetologia e Malattie Metaboliche Azienda Ospedaliera “S.Camillo – Forlanini” Roma Riassunto. L’ emoglobina glicata (HbA1c) valuta il compenso metabolico nel diabete ma potrebbe non essere in grado di documentare i picchi iperglicemici responsabili delle complicanze. Grazie a sensori sottocutanei è possibile monitorizzare la glicemia per 48-96 h. Scopo dello studio è stato verificare la correlazione tra HbA1c e monitoraggio continuo della glicemia tramite sensore sottocutaneo (CGSM) in un campione di diabetici tipo 1 in terapia con microinfusore(CSII). Sono stati studiati 20 pazienti (età 40±82; M/F 11/9; BMI 23.1±1,5; HbA1c 7.7±4.4%) trattati con microinfusore. Sono state ottenute 494 misurazioni per paziente pari a circa 41 ore consecutive di osservazione e i dati sono stati confrontati con i valori di HbA1c. È stata riscontrata una modesta correlazione tra HbA1c , valore medio e mediano della glicemia (R2=0,27 e 0,25) e numero delle ipoglicemie. Il CGMS ha mostrato che il maggior numero di ipoglicemie si ha in fase preprandiale (8-10%) e durante la notte (6%); le iperglicemie si verificano prevalentemente al mattino (7%) e dopo i pasti (6%). Il CGMS potrebbe pertanto porsi come indicatore della glicemia indipendente dagli altri parametri ormai validati, nonostante il possibile intervento di fattori confondenti. Sono comunque necessari ulteriori studi per definirne il ruolo nel paziente diabetico. Parole chiave: Diabete mellito, Emoglobina Glicata, Monitoraggio del glucosio Summary. In order to evaluate the glycemic control in diabetes, glycated haemoglobin (HbA1c) is usually used; nevertheless it could be not reliable to assess hyperglycaemic peaks, responsible for long term complications. Through subcutaneous sensors (CGMS) is possible to have a continuous glucose monitoring for 48-96 h. Aim of the study was to assess the correlation between HbA1c levels and the continuous glucose monitoring (CGMS) in a sample of type 1 diabetic patients treated with continuous subcutaneous insulin infusion (CSII). The sample consisted of 20 patients (age 40+/- 82; M/F 11/9; BMI 23,1 +/-1,5; HbA1c 7,7 +/- 4,4) treated with CSII. We obtained 494 blood glucose measurements for each subject equivalent to 41 hours of constant observation; subsequently we compare these values with the HbA1c levels. A scant correlation between HbA1c levels and the mean and median glyceamic values was established (R2=0,27 and 0,25); same results were obtained valuing the correlation with hypoglycaemic episodes. The CGMS demonstrated that hypoglycaemic episodes were more frequent during the pre-prandial phase (8-10%) and during the night (6%); whereas the hyperglycaemic episodes were more frequent during the morning (7%) and after meals. CGMS could be an independent tool in indicating blood glucose levels notwithstanding possible confounding factors. Further studies are necessary to provide a definitive answer on its role in diabetic metabolic control. Key words: Diabetes mellitus, Hemoglobin Glycated, Glucose monitoring D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza PREMESSA L’Emoglobina Glicata (HbA1c) riflette i valori glicemici medi delle ultime 8-12 settimane, e la sua periodica rilevazione rappresenta uno dei fondamenti su cui si basa attualmente la valutazione del compenso metabolico nel diabete. L’American Diabetes Association (ADA), l’European Association for the Study of Diabetes (EASD) e tutte le altre Società scientifiche diabetologiche hanno stabilito dei target di HbA1c basati sui risultati dei grandi trials (DCCT; UKPDS) che hanno dimostrato la correlazione fra livelli glicemici e complicanze a distanza del diabete. Negli ultimi anni numerosi studi hanno dimostrato che oltre alla iperglicemia cronica, ben rappresentata dall’HbA1c, esistono nel diabete altri meccanismi di danno tessutale: in particolare è stata sottolineata l’importanza dell’iperglicemia acuta come causa di complicanze attraverso vari meccanismi, quali lo stress ossidativo, l’attivazione della PKC/DAG e la via delle esosamina1. Il monitoraggio della glicemia capillare è raccomandato da tutte le Linee Guida terapeutiche come misura diagnosticoterapeutica complementare all’HbA1c2; questo approccio però, oltre ai limiti dovuti ai costi e soprattutto alla sua invasività che ne limiti l’uso estensivo oltre ai 4-6 test al giorno, non può essere adeguatamente utilizzato nelle ore notturne ed in particolari circostanze sociali, lavorative, sportive: potrebbero pertanto sfuggire importanti fluttuazioni del profilo glicemico, sia nel senso delle iperglicemie che delle ipoglicemie, in certi casi asintomatiche. L’osservazione clinica del monitoraggio capillare dell’HbA1c di molti pazienti suggerisce che l’HbA1c potrebbe non riflettere adeguatamente le rapide escursioni glicemiche che si verificano soprattutto nel diabete tipo 1 e nel diabete tipo 2 insulino-trattato, caratterizzati da elevata instabilità metabolica, dovuta alla terapia insulinica e alla difficoltà di adeguare la dose di tale farmaco alle esigenze quotidiane del paziente. Negli ultimi anni si sono diffuse alcu- 29 ne tecnologie di rilevamento continuo del glucosio basate su sensori sottocutanei3: esse sono basate sul presupposto che esiste una relazione fra la sua concentrazione nei liquidi interstiziali e nel plasma riconducibile a precisi algoritmi matematici: l’applicazione pertanto di un sensore sottocutaneo per 48-96 ore e la rilevazione automatica ad intervalli frequenti può fornire utili informazioni “in continuo” sull’andamento della glicemia soprattutto in quelle “situazioni difficili” quali il sonno, il lavoro, l’esercizio fisico, e può consentire gli opportuni adeguamenti terapeutici4. Il ritardo fisiologico fra i valori del glucosio interstiziale rilevati dal sensore e quello plasmatici può essere corretto retrospettivamente e costituisce attualmente un limite alla trasmissione diretta del dato ad una pompa. È necessaria pertanto l’attiva correzione degli algoritmi terapeutici, con microinfusore o con terapia multiiniettiva tradizionale, da parte di un paziente opportunamente informato ed addestrato5. I sensori sono stati testati con successo in pazienti in Terapia Intensiva6. I dispositivi attualmente a disposizione si basano su sensori elettrodici ad ago o su sensori microdialitici: la loro applicazione è moderatamente invasiva (più per il secondo tipo che per il primo) e i costi sono rilevanti. L’accuratezza di questi due tipi di dispositivi sembra essere sovrapponibile7. Con i sensori sono state descritti in pazienti diabetici di tipo 1 numerosi episodi di ipoglicemia asintomatica e un’alta frequenza di inaspettati picchi iperglicemici (in particolare postprandiali) nonostante i buoni valori di HbA1c8. Nonostante cio’ non esiste ancora un consenso sulla utilizzazione sistematica di questo tipo di dispositivi: ovvero non è chiaro se le informazioni ricavate con il CGMS hanno un valore indipendente nell’ambito del controllo glicemico o se possono essere surrogate da tests ormai validati come HbA1c o dall’autocontrollo glicemico capillare. Per tali motivi il monitoraggio glicemico tramite sensore non ha ancora trovato una precisa collocazione nell’ambito dei protocolli gestionali del diabete. 30 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 OBIETTIVO Obiettivo del presente studio è stato quello di verificare l’eventuale correlazione fra HbA1c e i dati dell’andamento del glucosio ricavati da sensore sottocutaneo CGMS in pazienti diabetici adulti di tipo 1 con diversi livelli di compenso metabolico espressi dall’HbA1c. Pazienti e Metodi- 20 pazienti diabetici di tipo 1 adulti ( fig. 1) con vari livelli di HbA1c, indicativi di diversi livelli di controllo metabolico, le cui caratteristiche sono illustrate nella Tabella 1, trattati con microinfusore (Continuous Subcutaneous Insulin Infusion, CSII; sistemi Minimed Medtronic 508 e 512) sono stati sottoposti a monitoraggio del glucosio con CGMS Minimed Medtronic, basato sull’utilizzazione di sensori elettronici sottocutanei9. È stato ottenuto il consenso informato dei pazienti. Si è raccomandato di non modificare le abituali attività e il regime dietetico. Il periodo medio di osservazione per ogni paziente è stato di 3 giorni; la frequenza di campionamento è stata di una rilevazione ogni 5’. Il sistema è stato ben tollerato, e tutti i pazienti hanno concluso lo studio. Vista la presenza di alcuni valori mancanti o non attendibili nell’ambito del normale funzionamento dell’apparecchio, e considerando l’esigenza statistica di escludere, ove possibile, periodi di “blank”, è stata scelta come dimensione campionaria “l’intervallo comune fra i 20 pazienti avente la massima ampiezza e il 44% 56% M maggior numero di misurazioni consecutive”. Il campione così identificato era costituito da 494 misurazioni per ogni paziente, pari a circa 41 ore continuative di osservazione. L’analisi è stata quindi effettuata sulle 41 ore e, successivamente estrapolata ad una giornata (24 ore). I dati così ottenuti sono stati confrontati con il valore di HbA1c misurata nello stesso giorno del test, e pertanto indicativa del controllo glicemico delle ultime 8-12 settimane. Sono stati studiati: - la correlazione fra HbA1c e gli indicatori di sintesi del CGMS (media, mediana, % di misurazioni contenute in intervalli prestabiliti; coefficiente di correlazione di Pearson); - l’andamento dei CGMS sui singoli pazienti e per l’intera popolazione; - l’analisi della distribuzione delle fasi di ipoglicemia e dei picchi iperglicemici per la totalità dei pazienti; - la sommatoria delle aree superiori ed inferiori ad un intervallo di accettabilità stabilito fra 70 mg/dl e 160 mg/dl. RISULTATI Nel campione in toto la correlazione fra HbA1c e valore medio e mediano del glucosio è risultata debole (R2 = 0.27 e 0.25), e così pure quella con il numero delle ipoglicemie (rilevazioni <70 mg/dl; R2 = 0.06), dei valori >160 mg/dl (R2 = 0.16) e dei valori fuori range di accettabilità nel loro complesso (R2 = 0.14). Dall’esame dell’andamento del CGSM nei singoli pazienti e nell’intera popolazione si osserva che il maggior numero di ipoglicemie si verifica nelle fasi preprandiali (8 % del totale fra le 12 e le 13 e 10%fra le ore 18 e le 19 ). Un altro momento di aggregazione di tali eventi è fra le 2 e le 3 di notte (6%). I valori glicemici più alti tendono invece ad aggregarsi fra le 8 e le 9 del mattino (7% del totale) e dopo i pasti (circa 6%). F DISCUSSIONE Figura 1. Descrizione del campione (pazienti diabetici tipo 1) L’HbA1c è espressione della glicemia media degli ultimi due-tre mesi e per que- C. Tubili et al.: Monitoraggio continuo del glucosio tramite sensore sottocutaneo (CGMS) sto motivo è universalmente riconosciuta come un indicatore sensibile del compenso del diabete. Negli ultimi anni si è venuta a definire come fattore autonomo di danno l’iperglicemia acuta. Picchi iperglicemici fugaci ma non per questo meno pericolosi potrebbero non essere documentati dall’HbA1c o dal monitoraggio della glicemia capillare eseguito secondo le raccomandazioni delle società scientifiche. I sensori del glucosio sottocutaneo possono costituire un utile presidio complementare, documentando in continuo le escursioni glicemiche circadiane. Nel nostro studio 20 pazienti diabetici di tipo 1 adulti con vari livelli di compenso metabolico espressi dall’HbA1c, trattati con microinfusore sono stati sottoposti a monitoraggio del glucosio con CGSM. Sono stati scelti i pazienti utilizzatori di pompa perché essendo più abituati a gestire dispositivi elettronici, offrivano, in fase di reclutamento, le maggiori garanzie di compliance: infatti il sensore richiede una minima collaborazione da parte del paziente, che deve inserire valori glicemici per tarare l’apparecchio, registrare eventi (pasti, terapia, attività fisica) e gestire possibili allarmi per inconvenienti tecnici. I risultati ottenuti nel campione in toto sembrano escludere una correlazione fra i dati ottenuti con il sensore sottocutaneo applicato per 41 ore e l’HbA1c misurata al momento del monitoraggio. Ciò potrebbe dipendere da vari fattori: la scarsa numerosità del campione studiato potrebbe amplificare l’effetto dei profili individuali, rilevati in pazienti di tipo 1, caratterizzati da notevole instabilità glicemica; potrebbero essersi verificati, nelle settimane precedenti lo studio, particolari eventi (stress generico) la cui influenza sul compenso glicemico si era esaurita al momento dello studio; oppure alcuni pazienti potrebbero aver modificato più o meno volontariamente pasti e ritmi della giornata in quanto sotto osservazione (“watching effect”). Precedenti osservazioni10 avevano evidenziato una correlazione fra i valori postprandiali rilevati con il sensore e l’HbA1c, ma non con le aree glicemiche nel loro complesso (iper e ipo): in particolare 31 non c’era correlazione con i valori bassinormali di glicemia. Le informazioni ottenute con CGMS sulle escursioni glicemiche in pazienti diabetici di tipo 1 potrebbero comunque essere realmente differenti da quelle fornite dall’HbA1c evidenziando fluttuazioni glicemiche altrimenti non documentabili10: infatti la particolare instabilità metabolica di questi pazienti potrebbe determinare rapide escursioni glicemiche giornaliere sia nel senso dell’iperglicemia che in quello dell’ipoglicemia scarsamente evidenziate da un indicatore di iperglicemia cronica, quale l’UbA1c, ma comunque rilevanti nella patogenesi delle complicanze diabetiche1. Il monitoraggio glicemico con sensore sottocutaneo potrebbe pertanto porsi come elemento di studio dell’andamento della glicemia nel paziente diabetico con valore indipendente. Il monitoraggio fornisce, inoltre, informazioni specifiche di una certa rilevanza clinica come lo studio delle fasce orarie difficili (il 7% di tutte le ipoglicemie si realizzano ad esempio fra le 2 e le 3 di notte) permettendo così di implementare la terapia. Un altro aspetto interessante è rappresentato dal fatto che i pazienti sembrano aggregarsi in due sottogruppi sulla base dei valori di HbA1c (maggiore o minore di 7%) come si evince osservando i valori glicemici medi e mediani e la distribuzione dei valori fuori range, sia iper che ipo (Figg. 2,3,4,5,6). Anche se la scarsa numerosità del campione non consente di trarre conclusioni significative, ciò sembra suggerire un diverso coefficiente di correlazione fra HbA1c stessa e dati del CGMS, che potrebbe avere pertanto un diverso valore diagnostico in condizioni di compenso accettabile o di scompenso: in effetti, precedenti osservazioni avevano dimostrato una assenza di correlazione fra HbA1c e CGMS per valori inferiori alla soglia di 90 mg/dl10, mentre l’avevano individuata per i valori superiori. Sono pertanto necessari ulteriori studi con popolazioni più ampie per meglio definire il ruolo del monitoraggio sottocutaneo nella gestione del paziente diabetico. 32 Età (aa. M/F BMI HbA1c Durata (aa.) Durata CSII (aa.) Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 40 ± 8.2 11/9 23.1 ± 1.5 7.7 ± 4.4 21 ± 14.0 4.4 ± 15.5 Tabella 1. Descrizione del campione (pazienti diabetici tipo 1) Figura 2. Correlazione tra HbA1c e valore medio del glucosio Figura 3. Correlazione tra HbA1c e valore mediano del glucosio Figura 4. Correlazione fra HbC1c e misurazioni fuori range di normalità Figura 5. Correlazione fra HbA1c e ipoglicemia (inferiore a 70 mg/dl) Figura 6. Correlazione fra HbA1c e iperglicemia (superiore a 160 mg/dl) C. Tubili et al.: Monitoraggio continuo del glucosio tramite sensore sottocutaneo (CGMS) BIBLIOGRAFIA 1. Ceriello A, The post prandial stat and cardiovascular disease; relevance to diabetes mellitus. Diabetes Metab Res Rev 2000; 16: 125-32 2. American Diabetes Association. Clinical Practice Recommendations. Diabetes Care 2005; 28 (S1): S4-S9 3. Continuous Glucose Monitoring, System: CGMS; Mastrototaro JJ. The Minimed Continuous Glucose Monitorino System: CGMS, J Pediatr Endocrinol Metab 1999; 12: 751-8 4. Bode WB, Hirsch IB. Using the Continuous Glucose Monitoring System to improve the management of type 1 diabetes. Diabetes Technol Ther 2000;2 (Suppl): S43-S48 5. Bolinder J, Deiss D, Riveline et al. CGMS with real time glucose values and alarm functions: a new tool for improving glucose control in patients with type 1 diabetes mellitus? 41° Annual Meeting of the European Association for the Study of Diabetes - Atene 10-15 sch 2005. EASD 2005 33 6. De Block CEM, Keenoy BM, Van Gaal LF, Rogiers P. CGM in a MICU. 41° Annual Meeting of the European Association for the Study of Diabetes - Atene 10-15 sch 2005. EASD 2005 7. Wentholt IM, Hart AA, Hoekstral JB, DE Vries JH. Comparison of a needle type and a microdyalisis continuous glucose sensor in type 1 diabetes patients. 41° Annual Meeting of the European Association for the Study of Diabetes - Atene 10-15 sch 2005. EASD 2005 8. Boland E, Monsod T, Delucida M, Brandt CA, Fernando S, Tamborlane Wv. Limitations of conventional methods of selfmonitoring of blood glucose: lessons learned fron 3 days of continuous glucose sensing in pediatric patients with type 1 diabetes. Diabetes Care 2001; 24: 1858-62 9. Mastrototaro JJ. The Minimed Continuous Glucose Monitoring System: CGMS, J Pediatr Endocrinol Metab 1999; 12: 751-8 10. Salardi S, Zucchini S, Santoni R, et al. The Glucose area under the profile obtained with continuous glucose monitoring system relationships with Hba1c in pediatric type 1 diabetic patients. Diabetes Care 2002; 25: 1840-4 ____ Per richiesta estratti: Claudio Tubili - via Madonna di Fatima 2 - 00147 Roma - [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Caso clinico LINFOADENITE ISTIOCITICA NECROTIZZANTE DI KIKUCHI KIKUCHI’S HISTIOCYTIC NECROTISING LIMPHOADENITIS GIORGETTA GENCARELLI1, MARIO GIUSEPPE ALMA2 FEDERICA ANTONELLI2, ALFONSO MARIA ALTIERI2 1 I° Scuola di Specializzazione Malattie Apparato Respiratorio Università la “Sapienza” di Roma U.O.Complessa di Broncopneumologia e Tisiologia Az.Ospedaliera S.Camillo-Forlanini, Roma 2 Riassunto. Per linfoadenopatia si intende un aumento di volume dei linfonodi, che può avere diverse cause, sia di natura benigna (infettiva, infiammatoria) che di natura maligna (neoplasie, malattie autoimmuni.). La linfadenite istiocitica necrotizzante di Kikuchi è una forma benigna di linfoadenopatia, descritta nel 1972 per la prima volta in Giappone, ma è stata riscontrata anche in Europa e negli USA. È una sindrome che colpisce soprattutto i giovani adulti immigrati, si presenta con i sintomi da virosi delle vie respiratorie alte e febbre, ad eziologia sconosciuta. È fondamentale la diagnosi differenziale con la linfoadenite tubercolare o malattie autoimmuni come il LES sia attraverso esami ematochimici che strumentali poiché il trattamento terapeutico è sintomatico e di supporto quando non è un prodromo di LES. Parole chiave: Linfadenite. Kikuchi. Summary. Limphoadenopathy is an increase of limphonodules’volume having various causes either of benign nature (infectious, inflammatory) or of malignant one (neoplasm, autoimmune diseases). The istiocitic necrotising limphoadenitis of Kikuchi is a benign form of Limphoadenopathy, described for the first time in Japan, but also found in Europe and US. It’s a syndrome affecting especially young adult immigrants, it shows symptoms as virosis of high respiratory tracts and fever, with unknown aetiology. Differential diagnosis with the tubercular limphoadenitis or autoimmune diseases as Le using both ematochemical and instrumental examinations, is mandatory because the therapeutic treatment is symptomatic and of support when it isn’t symptom of LES. Key words: Lymphadenitis. Kikuchi. INTRODUZIONE Per linfoadenopatia si intende un aumento di volume dei linfonodi, che può avere diverse cause, sia di natura benigna che maligna. Le patologie che più frequentemente possono dare linfoadenopatia sono: A) neoplasie maligne (ematologhiche e metastatiche), B) malattie immunologiche (Artrite reumatoide, Sindrome di Sjogren, Dermatomiosite, Lupus eritematoso sistemico), C) infettive (virus, batteri, miceti, protozoi) D) infiammatorie (connettiviti, infiammazioni cutanee), E) sarcoidosi, F) malattie metaboliche. Al di sotto dei 30 anni di età circa 80% dei casi di linfodenopatia è imputabile a cause benigne, mentre oltre i 50 anni solo nel 30% dei casi le linfoadenopatie sono benigne. Infatti negli ultimi anni, abbiamo riscontrato, nella nostra pratica clinica, che: a) il 60% delle linfoadenopatie sono segni clinici di malattie neoplastiche come linfomi, leucemie o sede di metastasi di melanomi, tumori polmonari, mammari, gastrointestinali, del collo e della testa, b) il 20% sono dovute a malattie autoimmuni, c) il 10% a malattie infettive come infe- 35 G. Gencarelli et al. Linfoadenite istiocitica necrotizzante di Kikuchi zione da EBV, HIV o tubercolosi, d) il rimanente 10% ingloba le altre cause e le forme benigne. Secondo la nostra casistica la maggior parte delle linfoadenopatie “benigne” si riscontra per lo più tra gli immigrati, correlate in modo particolare alla malattia tubercolare. CASO CLINICO Donna filippina di 33 anni, in Italia da pochi mesi, con una linfoadenopatia laterocervicale dx. La signora riferì di aver praticato terapia antitubercolare (schema a 4 farmaci per 1 solo mese) nel 1997 per tubercolosi polmonare nel proprio paese d’origine. Anche se i dati clinici orientavano per una linfadenite tubercolare, si effettuarono sia esami ematochimici che strumentali per escludere altre cause, porre così una diagnosi corretta ed impostare una terapia adeguata. Gli esami ematochimici risultarono nella norma, la TC ad alta risoluzione del polmone non evidenziò lesioni pleuroparenchimali in fase attiva cosi sì procedette alla biopsia del linfonodo. L’esame istologico mise in evidenza una: ... iperplasia follicolare ed espansione della zona paracorticale con all’interno aree di necrosi non suppurativa comprendente istiociti, dentriti nucleari e corpi apoptotici, aggregati nodulari costituiti da monoliti plasmocitoidi (CD6R+7CD3-) e plasmocitosi (CD138+), quadro plausibile per una linfoadenite necrotizzante non suppurativa compatibile con Linfoadenite di Kikuchi o con una forma di linfoadenite in corso di Lupus eritematoso sistemico. Questa sindrome fu descritta per la prima volta in Giappone nel 1972, ma è stata riscontrata anche in Europa e negli Stati Uniti. Colpisce soprattutto i giovani adulti, e si presenta frequentemente con i sintomi da virosi delle vie respiratorie alte e febbre. La linfoadenomegalia è presente nella maggior parte dei casi. Dal punto di vista istologico i linfonodi coinvolti mostrano una proliferazione localizzata d’istiociti e immunoblasti associata ad abbondante detrito nucleare e necrosi tessutale ed un elevato numero di cellule T CD8+ con TRCgd, mentre, raramente si ha splenomegalia. Si sospetta che la causa sia un agente infettivo non ancora identificato: virale o batterico. Il trattamento è sintomatico e di supporto quando non è un prodromo di lupus eritematoso sistemico. In seguito all’esame istologico, la nostra paziente ha eseguito vari esami per escludere la presenza di un LES, risultati poi tutti negativi. CONCLUSIONI Ancora una volta abbiamo avuto prova di come sia fondamentale per porre una corretta diagnosi ed impostare una terapia adeguata, ricorrere a tutti gli esami ematici e strumentali a disposizione, anche là dove, come in questo caso, il dato amnestico, l’obiettività clinica, fattori concomitanti (la provenienza da un paese ad alta incidenza tubercolare) orientavano per una linfoadenite tubercolare. L’esame istologico è stato fondamentale, infatti il 60% delle diagnosi di linfoadenite, escluse le cause più comuni, vengono fatte attraverso la biopsia linfonodale; qualora l’esito non fosse diagnostico, l’esame deve essere ripetuto. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Arcidiacono G, Conticello A, Privitelli V et al. Linfoadenite Istiocitica Necrotizzante o malattia di Kikuchi-Fujimoto (Descrizione di un caso). Minerva 2000; 91: 69. Pai SA. Kikuchi-like lymphadenitis may be an early manifestation of SLE. J Indian Med Assoc. 2004; 102: 330. ____ Per richiesta estratti: Dott. Alfonso Altieri Via Vegezio, 15 - 00137 Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Rassegna IL RISCHIO BIOLOGICO DA PATOGENI EMOTRASMESSI IN AMBITO SANITARIO, CON PARTICOLARE RIGUARDO AI LABORATORI DI ANALISI * RISK OF BLOOD-BORNE INFECTIONS IN HEALTH CARE WORKERS AND PARTICULARLY IN LABORATORY PERSONNEL FRANCESCO BELLI * Relazione tenuta al corso di aggiornamento: “Il prelievo di sangue: problematiche nell’attività di laboratorio di analisi e di primo soccorso”. Roma, 15 Giugno 2006. Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini - Laboratorio di Microbiologia e Virologia Riassunto. La diffusione di una cultura della sicurezza, sin da quando vennero adottate le precauzioni universali per l’infezione da HIV, ha ridotto per numero e gravità gli incidenti biologici in laboratorio per patogeni trasmessi per via ematica; l’attuazione di programmi di profilassi, quali la vaccinazione anti-HBV ed una più capillare sorveglianza sanitaria dei lavoratori a rischio hanno contribuito a modificare, qualora si verifichino, gravità ed impatto clinico e psicologico dell’evento. Tuttavia tagli e punture accidentali con contaminazione ematica dell’operatore, nei maggiori ospedali italiani, rappresentano ancora il 76 % degli incidenti biologici in generale e il 41 % in laboratorio. La trasmissione di un’eventuale infezione da HBV, HCV o HIV, mediante sangue infetto, dipende da numerose variabili: proprietà infettivologiche del paziente fonte, tipo di ferita, patogenicità, carica e dose infettante dell’agente trasmesso, stato immunologico, sensibilità e recettività dell’operatore esposto. All’incidente biologico deve seguire una serie di procedure, anche urgenti, quali: prima medicazione, valutazione sieroimmunologica del paziente-fonte e dell’operatore, qualora non nota, counseling e medicazione con farmaci antiretrovirali in caso di fonte HIV+, programma di profilassi e sorveglianza post-esposizione, dichiarazione di incidente biologico e denuncia agli enti competenti. Parola chiave. Virus epatotropi; Virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV); paziente fonte; farmaci antiretrovirali. Summary. Spreading of safety education, from general precautions to HIV infection were taken, has reduced amount and severity of occupational risk and biological accidents in laboratory by blood borne pathogens; programs of prophylaxis (anti-HBV vaccination for ex.) and a detail surveillance of health workers have changed severity and clinical and psychological effect of damage. Neverthless fortuitous cuts and pricks with blood contamination of worker, in Italian hospitals, are 76 % of all biological injuries and 41 % in laboratory. Transmission of HBV, HCV or HIV throught infected blood, is due to various factors: infectious characteristics of source, pattern of cut, pathogenicity, charge and dose of transmitted microorganism, immunologic condition, susceptibility and resistance of host. After biological injure some pressing proceedings must follow: first aid, immunologic assesment of source and worker, counseling and anti-retroviral therapy if HIV+ source, prophylaxis and post-exposure management, notice of biological accident and report to competent office. Key words. Hepatitis B C D viruses; Human immunodeficiency virus; source; antiretroviral drugs. F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi INTRODUZIONE Il rischio biologico è di per se intrinseco all’attività sanitaria e ogni operatore, di qualsivoglia qualifica, può trovarsi esposto. Tale rischio è costituito da agenti biologici che possono provocare gravi patologie infettive. Al primo posto per tipologia di incidenti biologici troviamo quelli derivanti dalla contaminazione con il sangue e suoi derivati, vettori di patogeni emotrasmessi. L’operatore sanitario è costantemente a diretto contatto con materiali biologici e/o strumenti che sono stati contaminati da sangue o altri campioni organici potenzialmente infetti. Pertanto il rischio biologico non può essere evitato, ma deve essere conosciuto, valutato, prevenuto e combattuto: di particolare importanza è la valutazione del rischio, intesa come procedimento per la sicurezza e la salute dei lavoratori nell’espletamento delle loro mansioni, in conseguenza e in rapporto all’esistenza di un “pericolo” sul luogo di lavoro. Ricordiamo che clinicamente possiamo definire un “rischio”1 come la probabilità che sia raggiunto il livello potenziale di danno nelle usuali condizioni di impiego ed esposizione, da cui deriva la possibile dimensione del danno stesso. Il presente lavoro fotografa la situazione attuale: pertanto prenderemo in esame il rischio d’infettarsi con HBV, HCV e HIV (più raramente con HDV), i maggiori patogeni emotrasmessi conosciuti oggi: situazione ben diversa rispetto a 15-20 anni fa quando le nostre nozioni su questi virus erano scarse o nulle, così come oggi potremmo non conoscere patogeni che potrebbero emergere fra alcuni anni. Il messaggio pertanto è quello di non abbassare mai la guardia, con nessun campione biologico, nei confronti di un “nemico” subdolo e ancora non emerso2. Scopo fondamentale di questa trattazione è di dare le giuste dimensioni al problema, sia con alcuni dati statistici significativi sia con una disamina razionale della situazione attuale infettivologica dei virus citati; un incidente biologico in ambito ospedaliero viene vissuto dall’operatore, qualunque sia la sua qualifica e pre- 37 parazione scientifica, come un evento drammatico dal punto di vista psicologico, fisico e professionale, come se ad ogni incidente debba seguire inevitabilmente un’infezione, talora contro l’evidenza di controlli clinici e di laboratorio negativi. Vedremo che così non è, anzi la possibilità di trasmissione di un patogeno da paziente fonte ad operatore non è frequente – a fronte di un numero di incidenti comunque alto – e nostro obiettivo precipuo è quello di ridimensionare il problema, se non di tranquillizzare. INTERAZIONI MICRORGANISMOOSPITE È stato coniato dagli Autori anglosassoni il termine di “laboratory acquired infection” (L.A.I.), da attribuire ad un’infezione sicuramente acquisita in laboratorio, qualora il periodo d’incubazione sia compatibile con l’intervallo di tempo intercorso tra l’esposizione al patogeno e la comparsa di malattia. La presenza di un microrganismo patogeno in un tessuto o in un liquido biologico non significa necessariamente che il contatto con il medesimo sia sufficiente a provocare una patologia, analogamente a quanto avviene in ogni infezione naturale. In un incidente o infortunio biologico (IB), i fattori che influenzano l’evento patologico infettivo sono: - concentrazione e carica dell’agente patogeno; - modalità di esposizione al materiale biologico contaminato (dinamica dell’ IB) - stato immunitario generale dell’ospite - porta d’ingresso: difese naturali locali dell’ospite e presenza di recettori specifici o di altri elementi favorenti l’ingresso del microrganismo. Le difese naturali e adattive, umorali e cellulari di un ospite normoimmune sono ampiamente sufficienti, nella maggioranza dei casi, a delimitare l’infezione emotrasmessa e ad evitarne le conseguenze patologiche; ricordiamo, tra i meccanismi di difesa naturali, la presenza di una cute integra e l’azione a livello delle mucose ed epiteli superficiali, di molecole ad azione 38 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 antivirale come gli interferoni e immunoglobuline di superficie, queste ultime, insieme al pattern cellulare linfocitario, in prima linea nei meccanismi di difesa specifici dell’immunità adattiva3. Ma oggi siamo in grado di potenziare l’immunità del lavoratore esposto sia con terapie antimicrobiche quanto e, soprattutto, mediante l’impiego dell’immunizzazione attiva o passiva verso l’HBV. Nel personale sanitario la trasmissione di HBV, HCV, HDV e HIV può avvenire per: - Via parenterale: punture accidentali con aghi o taglienti; - Contaminazione delle mucose: schizzi di liquido biologico nel cavo orale e/o negli occhi; - Contaminazione di cute lesa: liquido biologico su soluzioni di continuo della cute non protetta. Per quanto riguarda i liquidi organici infettanti, HBV HCV e HDV si trasmettono mediante sangue ed emoderivati, bile, secreto nasofaringeo, latte materno, sperma e secrezioni vaginali; HIV è trasmesso mediante tutti questi materiali ma anche tramite diversi tessuti (midollo osseo, linfonodi, tessuto nervoso, cornea, ossa), liquor, liquido sinoviale, versamenti in sierose, liquido amniotico, secrezioni cervico-vaginali. Lacrime, sudore ed urine sono infettanti se contengono sangue. Molto importanti sono le modalità di esposizione e la relazione con il rischio d’infezione, utile per quantizzare il rischio stesso; in caso di ferite profonde, sanguinanti, da ago cavo pieno di sangue o in caso di contatto diretto con virus concentrati (come nei laboratori di ricerca o produzione di vaccini)4, il rischio d’infezione è elevato ed è solo di poco inferiore in caso di ferite o lacerazioni sanguinanti provocate da strumenti contaminati. Il rischio è da ritenere di media entità in caso di contaminazione di ferite aperte o delle congiuntive. Il grado di rischio è molto basso per ferite superficiali non sanguinanti, contaminazione di una ferita chiusa o di mucose diverse dalla congiuntiva, contaminazione anche prolungata di ampie porzioni di cute integra. Il rischio d’infezione è praticamente nullo in caso di contaminazione di piccole porzioni di cute integra con sangue o ferite con strumenti non visibilmente contaminati5. Come in ogni infezione naturale, anche nell’interazione microrganismo-ospite che si determina in un I.B. dobbiamo considerare una serie di fattori correlati all’agente infettante che possono provocare l’instaurarsi della manifestazione infettiva in un ospite suscettibile: patogenicità e virulenza, interazione con il sistema immune di colui che è stato infettato, trasmissibilità, mutazioni e manipolazioni genetiche (come può accadere nei laboratori di ricerca), concentrazione, dose e carica infettante. Riguardo a questi ultimi parametri, sono stati calcolati dei valori indicativi tanto nelle infezioni naturali quanto in quelle occupazionali, che riportiamo: 1012 particelle virali/ml di liquido corporeo per HBV; 105/6 particelle virali/ml di liquido corporeo per HCV; 103/4 particelle virali/ml di liquido corporeo per HIV. Non si hanno dati né precisi né approssimativi in caso di infezione da HDV. CICLO REPLICATIVO VIRALE, MARKERS SIEROLOGICI E MOLECOLARI E INFETTIVITÀ DEI PAZIENTI-FONTE NELLE INFEZIONI OCCUPAZIONALI DA PATOGENI EMOTRASMESSI 1) HEPATITIS B VIRUS (HBV)6. Esiste un’ampia gamma di pazienti con epatite B acuta o cronica e pertanto la contaminazione con sangue infetto deve essere seguita da una completa disamina dei markers sierologici e di alcuni parametri molecolari del paziente fonte, sì da esprimere una valutazione il più possibile corretta dopo l’incidente e nel periodo di follow-up. Il rischio di contrarre un’infezione da HBV dopo esposizione a sangue infetto è massima nel caso di paziente fonte non solo HbsAg+ e HBV-DNA+, ma anche e soprattutto HbeAg+: in questi casi il rischio è stato valutato nell’ordine del 10 – 40 %, mentre scende a meno della metà di questi valori in caso di pazienti HbsAg+ e HBV-DNA+ ma HbeAg-. Pertanto, dopo un incidente biologico, se non è noto, il do- F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi saggio di HbeAg è fondamentale per quantificare il rischio cui va incontro l’operatore infortunato e predisporre un adeguato programma di follow-up7. Alla luce di queste considerazioni, i campioni ematici più contaminanti provengono da pazienti nelle prime 15 settimane d’infezione, se trattasi di forme acute e da pazienti con forme evolutive, croniche, poco o non-responder alle terapie, nei periodi di ripositivizzazione dei marker che possono verificarsi nel corso di mesi o anche anni. Attualmente, con l’introduzione dei programmi vaccinali anti-HBV ad ampio raggio e anche con la possibilità di disporre, per gli operatori infortunati non immunoprotetti, della sieroterapia specifica, la situazione è radicalmente mutata sia in termini di rischio che di protocollo post-esposizione; mutata è soprattutto l’epidemiologia delle infezioni da HBV (ma anche da HDV) nei paesi che hanno adottato la vaccinazione anti-epatite B. In Italia è stata introdotta nel 1991 per i nuovi nati (oggi obbligatoria) e i dodicenni; è consigliata negli operatori sanitari. Oggi è impiegato un vaccino ricombinante, altamente immunogeno anche a lungo termine, ben tollerato. È dimostrato che a 10 anni dal ciclo vaccinale completo il 64 % dei bambini e l’89% degli adulti ha ancora un titolo di anticorpi anti-HBV protettivo (> 10 mIU/ml) e il 95% evidenzia una memoria immunologica: pertanto non vi è necessità di un richiamo dopo 10 anni dal ciclo vaccinale primario8. Ricordiamo che la vaccinazione antiHBV, per il personale sanitario, è raccomandata (DM del 3.10.1991), come, ad esempio, quella anti-influenzale; la messa a disposizione del vaccino, da somministrare a cura del Medico Competente, è preciso obbligo del datore di lavoro, codificato dal DL 626/94 e successive integrazioni. Il vaccino (profilassi attiva) va somministrato al personale sanitario al momento dell’assunzione e, periodicamente, alla scadenza dello stesso; le immunoglobuline (profilassi passiva), come preciseremo in seguito, vanno solitamente date in emergenza, dopo una esposizione, presso il pronto soccorso o altra struttura equivalente preposta. 39 2) HEPATITIS C VIRUS (HCV)9, 10 Il dosaggio dei soli anticorpi, nel paziente fonte, non è assolutamente indicativo del suo grado di infettività: pertanto, non avendo a disposizione nella routine di laboratorio, marker antigenici affidabili, è necessario effettuare il dosaggio quantitativo dell’ HCV-RNA, se non è preventivamente noto, del paziente, dopo l’I.B. per la valutazione della carica virale. Trattandosi di un’infezione ad andamento perlopiù cronico (i casi acuti riconosciuti e ospedalizzati sono decisamente pochi), il livello di RNA nei pazienti non trattati è imprevedibile e soggetto a forti ondulazioni, mentre in quelli trattati è legato al grado di responsività alla terapia antivirale11. Pertanto solo dopo una corretta e completa valutazione virologica del paziente fonte possiamo quantizzare il rischio e le probabilità d’infezione dell’operatore infortunato nei confronti di un virus per il quale, a tutt’oggi, non esiste né vaccino né profilassi farmacologica alcuna. Dopo I.B., comunque, il rischio d’infettarsi con HCV se il paziente fonte è positivo è stato valutato nell’ordine dell’1.5-2%12, 13. 3) HEPATIS D VIRUS (HDV) Il rischio di infettarsi a seguito di esposizione occupazionale con questo virus che, com’è noto, è biologicamente difettivo rispetto ad HBV di cui segue o accompagna l’infezione, è bassissimo e prossimo allo zero: i casi segnalati assommano a poche unità. Il paziente fonte può essere portatore di una coinfezione HBV-HDV o, più raramente, di una superinfezione di HDV in soggetto già affetto da epatite B. Anche in questo caso non tutti i pazienti fonte sono ugualmente infettanti e si rende necessaria una valutazione sierologica e molecolare completa per illustrare lo status virologico: nelle forme acute l’infettività è massima qualora la fonte, HbsAg+ HBVDNA+ e HbeAg+/-, presenti alti livelli di HDV-RNA e la presenza di HDV-Ag, quest’ultimo precoce a comparire e precoce a negativizzarsi; la successiva comparsa di anticorpi anti-HDV di classe IgM, per alcune settimane o qualche mese, si accompagna sempre ad una viremia non indifferente e ad un grado di infettività elevato, situazione che scema decisamente al com- 40 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 parire degli anticorpi di classe IgG; nelle forme croniche, ad andamento protratto e non controllate dalla terapia, la viremia è soggetta a poussè. Comunque a livello preventivo l’introduzione della vaccinazione anti-HBV ha radicalmente mutato lo scenario epidemiologico ed infettivologico anche di questa epatite, per cui fra alcuni anni, almeno in occidente, la trattazione di HDV tra i virus collegati ad un rischio biologico occupazionale dovrebbe essere solo un ricordo. 4) HUMAN IMMUNODEFICIENCY VIRUS (HIV)14 Un I.B. con un campione ematico o di altra natura proveniente da un paziente HIV+ innesca nell’operatore sanitario una reazione psicologica poco razionale difficile da affrontare, nell’immediato e nei mesi successivi, durante il follow-up, anche in presenza di accertamenti sierologici, molecolari e virologici che escludono il contagio: in effetti il rischio di contrarre l’infezione da HIV, dopo esposizione occupazionale, è stato e resta molto basso, valutato nell’ordine dell’0.03 – 0.29%. Tuttavia è una situazione che richiede, da parte dell’infettivologo, del virologo e del medico competente o di medicina del lavoro, che devono affrontarla ognuno per ciò che gli compete, un grande impegno professionale e psicologico. I pazienti fonte più infettanti non sono tanto coloro che, in fase iniziale d’esordio dell’infezione, presentano una viremia più o meno elevata, dal momento che questo periodo è breve, spesso a o paucisintomatico e raramente tale da rchiedere l’ospedalizzazione, quanto i malati in fase di AIDS conclamata o infezione terminale, non responder o resistenti alle terapie, caratterizzati da alti livelli viremici e dai gradi maggiori di immunodeficit. Poiché questi pazienti sono di solito ben monitorati in quanto sia la viremia che la conta dei Cd4+ rappresentano parametri fondamentali per impostare e regolare la terapia, difficilmente dopo un I.B. ci si trova “scoperti” nella valutazione del paziente fonte, che altrimenti, con non pochi problemi operativi, va eseguita immediatamente dopo l’incidente per programmare una corretta profilassi post-esposizione (PPE) ed un adeguato follow-up dell’operatore contaminato. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, la situazione dei malati di AIDS è radicalmente mutata, con l’introduzione dell’ HAART (Highly active antiretroviral therapy): l’impiego di questo cocktail di farmaci antiretrovirali, ognuno con un’azione diversa e specifica in varie fasi della replicazione virale, ha permesso di raggiungere risultati importanti, primo fra tutti la riduzione della carica virale, ma anche la riduzione della trasmissione verticale, un contributo fondamentale all’immunoricostituzione (>Cd4+), la riduzione della frequenza delle infezioni opportunistiche e delle neoplasie secondarie15. Tutto questo, nel mondo occidentale, ove l’HAART è impiegata a fronte degli alti costi che ne frenano l’impiego in altre parti del mondo, ha contribuito nell’ultimo decennio alla diminuzione della mortalità legata alla malattia di base e alle complicanze, ad un aumento della vita media e della qualità di vita. Per quanto riguarda il tema da noi trattato, la presenza di pazienti ricoverati (ma lo stesso discorso vale per i malati seguiti da personale medico o infermieristico a domicilio) trattati con HAART, comporta l’esecuzione di procedure diagnostiche, terapeutiche e assistenziali in soggetti con una carica virale sostanzialmente più bassa rispetto al passato e , quale ulteriore riflesso positivo, un ulteriore decremento del rischio biologico e d’infezione da paziente ad operatore in caso di I.B16. Questa lunga messa a punto della situazione attuale ci sembra necessaria per trasmettere un messaggio rassicurante o quantomeno più razionale per gli operatori sanitari che dovessero incorrere in un I.B. con campioni provenienti da paziente HIV+ DATI STATISTICI Le dimensioni del problema sono evidenziate da alcuni dati statistici che presenteremo; è necessario precisare che, accanto a numerose e aggiornate indagini riguardo I.B. in vari settori e a carico di diverse figure professionali della sanità, i dati sugli incidenti in laboratorio e i suoi F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi specifici operatori non sono molto numerosi e ormai datati. Innanzitutto è utile indicare la prevalenza delle tre principali infezioni di cui ci stiamo occupando in Italia, dedotta dalla positività dei rispettivi marker sierologici (tabella n. 1), nella popolazione generale, tra la popolazione ospedaliera e tra gli operatori sanitari. Il dato non univoco dell’infezione da HCV nella popolazione generale tien conto delle modalità di raccolta dei dati, che risentono dell’area geografica e se comprendenti o meno immigrati ed extracomunitari. Un fenomeno molto importante è quello della sottonotifica dell’incidente biologico da parte dell’operatore sanitario, vuoi per incuria vuoi per la convinzione, assai diffusa, di dover affrontare una procedura burocratica lunga e complessa, che anzi è stata concepita a tutela del lavoratore. Se in caso di contaminazione di cute lesa, di mucose o tagli siamo entro limiti accettabili (tabella n. 2), non così si può dire per gli infortuni da strumenti appuntiti (aghi), che sono la maggioranza, la metà dei quali non viene notificata. In uno studio policentrico italiano, condotto in 39 ospedali italiani per 6 mesi, mediante un questionario autosomministrato circa la frequenza di esposizione a sangue ed altri liquidi biologici in corso di oltre 15.000 interventi chirurgici e riguardante tutto il personale coinvolto (chirurghi, ferristi, infermieri, tecnici adibiti alla raccolta di biopsie ed estemporanee), si evidenziò una percentuale > 9% di I.B. (tabella n. 3) dovuti soprattutto a punture e rotture di guanti, mentre i tagli erano molto infrequenti. Limitatamente ai soli medici chirurghi, le punture rispetto ai tagli e alle contaminazioni congiuntivali da schizzi di sangue rappresentavano la netta Tabella 1. Prevalenza dei marcatori sierologici di HBV, HCV, HIV in Italia (dati SIROH, 2004) Popolazione HBsAg+ HCV-Ab+ HIV-Ab+ Generale 1-2% Ospedalieara 2% Operatori Sanitari 2% 3-6% 4% 2% 0,1% 1% <0,1% 41 maggioranza degli incidenti verificatisi17. Indicativamente, è stato calcolato che, prima dell’adozione integrale e capillare delle precauzioni universali e della piena attuazione del programma vaccinale antiHBV, il rischio cumulativo di contrarre un’infezione da virus emotrasmessi per un chirurgo con 30 anni di attività, 250 interventi l’anno e con una prevalenza di infezioni negli operandi simile a quella precedentemente illustrata, era del 42.7% per HBV, del 34.8% per HCV e dell’0.54% per HIV18. Ma lo stesso studio ha successivamente stimato che, dopo la piena adozione delle precauzioni universali, soprattutto l’uso di barriere cutanee e schermi facciali, l’attuazione della vaccinazione anti-HBV tra la popolazione generale e in ambito sanitario e l’impiego di nuovi presidi e procedure di sicurezza, il rischio cumulativo si è praticamente dimezzato, passando per HBV dal 42.7 al 21%, per HCV dal 34.8 al 16.6% e per HIV dallo 0.54% allo 0.23%19. In un altro studio condotto in 115 ospedali italiani dal gruppo PHASE è stato valutato che, su oltre 28.000 infortuni professionali segnalati, oltre i tre quarti (76.6%) erano rappresentati da esposizioni percutanee (punture da aghi e ferite da altri taglienti) e un quarto (23.4%) da esposizioni mucocutanee, soprattutto congiuntivali. In laboratorio (tabella n.4) gli incidenti biologici con evidente contaminazione ematica, come le lesioni da aghi e taglienti, rapresentano oltre il 41% del totale, ben superiori alla contaminazione mediante aerosol (26.7%) con possibilità di contatto con microrganismi aerotrasmessi e altre tipologie di infortuni. Lo stesso studio PHASE (tabella n.5) ha correlato, in diverse categorie professionali, la percentuale effettiva di incidenti verificatisi con la percentuale precedentemente valutata di eventi attesi: per alcune categorie (medici, infermieri, ostetriche, personale in formazione) i valori sono sovrapponibili, in altre (tecnici di laboratorio) la realtà evidenziata è stata migliore di quella prevista, mentre per gli ausiliari e addetti alla pulizie è stato riscontrato un buon 30% di infortuni in più rispetto alla quota prevista. Tutto questo è importante nella programmazione della 42 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 Il Gruppo Italiano Rischio Occupazionale (GIRO) ha valutato recentemente i tassi di sieroconversione, per singolo agente eziologico, a 88 seguito di singola esposizione, negli operatori sanitari: 78 accanto a valori dello 0.52% 85 sia nell’esposizione percutanea che in quella mucosa per HCV, 0.46% nell’esposizione percutanea e 0.15 % in quel80 100 la mucosa per HIV, è stato evidenziato un significativo 0%, qualunque sia la modalità di esposizione, per HBV: tutto questo in virtù dell’introduzione del programma vaccinale anti-HBV per il personale sanitario e alla somministrazione di Ig specifiche post-esposizione. Nella nostra azienda è stato fatto uno studio capillare degli infortuni biologici e chimici in generale e, tra i primi, di quelli che comportano una contaminazione ematica del lavoratore e un rischio di contrarre infezioni da patogeni emotrasmessi: tutto questo in virtù della sorveglianza e del monitoraggio continuo da parte dei servizi preposti (ufficio infortuni, sorveglianza infezioni occupazionali, ambulatorio vaccinale), tutti facenti capo alla direzione sanitaria, cui si devono i dati seguenti(*). Ovviamente il maggior numero di incidenti si verifica, tanto nella popolazione aziendale, quanto in quella attinente il “118” , tra le fasce di età comprendenti lavoratori di 36/45 e 46/50 anni e questo non solo perché sono le più rappresentate, ma perché includono le categorie più attive e a maggior contatto con malati e campioni biologici: infermieri, tecnici, ausiliari, chirurghi. Il personale infermieristico è quello che paga il tributo maggiore (57 e 55%, rispettivamente, in azienda e al “118”), mentre, come già rilevato altrove, bassa risulta la percentuale di infortuni in alcune categorie, come ad esempio tra i tecnici di laboratorio (7%). Nel 2004, il totale di infortuni tra il personale dell’azienda è stato di 362 casi e, tra questi, il 18.2% riguardante danni da ferite provocate dall’utilizzo di aghi e Tabella 2. Fenomeno della sottonotifica di infortunio a rischio biologico (dati SIROH, 2004) Cont. Cute lesa Cont. Mucose Tagli 56 Punture 0 20 40 60 formazione e dell’aggiornamento del personale e su quali categorie insistere maggiormente. Tabella 3. Frequenza di esposizione a sangue ed altri liquidi biologici in corso di procedure chirurgiche - Studio Policentrico Italiano. Studio condotto in 39 ospedali italiani, della durata di 6 mesi, su 15.375 interventi chirurgici. Questionario autosomministrato Tipo incidente Puntura Taglio Esposiz. congiuntive Esposiz. facciale Rottura guanto Ustione elettrocaut. Superamento camice Totale N. % su 1.418 incidenti % su 15.375 procedure 516 51 36,4 3,6 3,3 0,3 50 100 476 3,5 7,1 33,6 0,3 0,7 3,1 115 8,1 0,8 110 1.418 7,7 100 0,7 9,2 (Pietrabissa et al., World J Surg 2004; 28:573-817) Tabella 4. Esposizione professionale al rischio biologico. Incidenti in laboratorio (pike et al., 1996)20 Tipo di incidente Contaminazione mediante aerorol Punture con aghi Tagli Graffi e morsi da animali Pipettaggio a bocca Altre cause % 26,7 25,3 15,9 13,5 13,1 5,5 (*) Si ringrazia per i dati forniti il Dr. S.Marchesi, dell’ Ufficio Protezione e Prevenzione F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi taglienti e quindi con contaminazione ematica; il 68% ha richiesto una prognosi > a 3 giorni (246 casi), l’1.2% ha comportato esiti a distanza sull’apparato motorio. Complessivamente spicca l’incidenza degli infortuni a carico del personale infermieristico, che rappresenta il 57% della popolazione aziendale infortunata e il 47% di tutta la popolazione aziendale. Per quanto riguarda il personale afferente al “118” il totale degli infortuni è stato pari a 193 casi, di cui solo il 2% derivante dall’impiego di aghi e taglienti (diversa tipologia di utilizzo, ma anche miglior preparazione e maggior soglia d’attenzione del personale); l’87% degli infortuni ha comportato una prognosi > a 3 giorni, nessuno con esiti a distanza. Anche in quest’ambito spicca l’incidenza degli infortuni a carico del personale infermieristico, pari al 55% della popolazione “118” infortunata e al 39% di tutta la popolazione “118”. LE RACCOMANDAZIONI (PRECAUZIONI) UNIVERSALI Affinché l’operatore sanitario metta in pratica comportamenti di prevenzione e protezione per se e per gli altri, è necessario che sviluppi la percezione del rischio sia in termini quantitativi che qualitativi, così da incidere sul livello di sicurezza della prestazione che eroga. Per attuare questo comportamento l’operatore deve: 1) conoscere la realtà operativa ove il rischio è presente; 2) conoscere la frequenza con cui Tabella 5. Esposizione professionale al rischio biologico. Gruppo di Studio PHASE (1994-2000, 115 ospedali)20 Categoria professionale Infermieri Medici Ausiliari/ addetti alle pulizie Tecnici di laboratorio Ostetriche Personale in formazione Altri % accertata infortuni % attesa infortuni 57% 5% 3-6% 6% 18% 2% 1% 12% 4% 2% 13% 4% 12% 5% 43 si verifica l’evento a rischio; 3) conoscere ed attuare le modalità per prevenirlo; 4) conoscere il tipo di danno che si verifica o può verificarsi a seguito dell’evento. Fondamentale, in quest’ottica, è il diritto-dovere alla formazione e all’aggiornamento in materia. Svolta epocale da un punto di vista culturale, professionale ed operativo fu, tra gli anni ’80 e ’90 del secolo passato, a seguito del diffondersi dell’infezione da HIV, l’adozione delle raccomandazioni o precauzioni universali, intese quali idonee procedure-barriera da adottare per prevenire l’esposizione parenterale, cutanea e mucosa qualora si preveda un contatto accidentale con sangue e altri liquidi biologici. Le precauzioni sono rivolte a tutti gli operatori sanitari, la cui attività comporti contatto con pazienti e utenti e con liquidi organici, all’interno di strutture ospedaliere, territoriali e domiciliari; devono coinvolgere tutti gli operatori delle strutture sanitarie, in quanto l’anamnesi e gli accertamenti diagnostici non sono sempre in grado di identificare con certezza e tempestività in tutti i pazienti la presenza di patogeni trasmissibili attraverso il sangue o altri liquidi biologici; devono essere applicate di routine quando si eseguono procedure assistenziali, diagnostiche e terapeutiche o si manipolano presidi, strumenti e attrezzature che prevedono o possono provocare un contatto accidentale con sangue e altro materiale biologico. Le precauzioni universali devono essere applicate ogni qualvolta si può verificare un contatto diretto o indiretto con i liquidi biologici (sangue e non solo) e nei confronti di tutto il materiale biologico contenente tracce visibili di sangue. Essendo comunque tutti i materiali biologici in grado di rappresentare una fonte d’infezione, è necessario applicare le misure di protezione nel contatto con tutti i campioni biologici per prevenire la contaminazione e la diffusione di malattie infettive da microrganismi noti e non noti. Passiamo ora brevemente in rassegna le principali barriere da adottare in ambito sanitario e nei laboratori in particolare per la protezione da microrganismi patogeni emotrasmessi. 44 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 LAVAGGIO DELLE MANI. Le mani degli operatori sanitari sono il veicolo principale di trasferimento di patogeni intra e inter-umano (da un paziente all’altro e da un paziente ad operatore). È necessario lavarsi le mani prima di eseguire procedure a rischio sui pazienti; prima di eseguire azioni a rischio per se (mangiare, telefonare), dopo essere entrati in contatto con sangue e altri liquidi biologici, dopo la rimozione di guanti. In caso di contatto accidentale con sangue o altri liquidi organici, le mani vanno lavate con acqua e sapone liquido per 30’’, con successiva antisepsi con disinfettanti tipo amuchina al 10%; un lavaggio più energico si ottiene con antisettici in soluzione saponosa detergente (PVPJ, clorexidina, irgasan all’1%) per 2’. GUANTI. Prevengono la contaminazione delle mani con sangue e altri liquidi biologici, ma ovviamente non sono in grado di prevenire gli incidenti da punture e le lesioni da aghi e taglienti. Devono essere indossati obbligatoriamente: 1) in corso di addestramento-istruzione del personale nell’esecuzione di procedure a rischio; 2) quando si maneggiano campioni biologici e loro contenitori; 3) quando si maneggiano strumenti e attrezzature contaminate o sospette tali; 4) quando le mani dell’operatore presentano lesioni (ferite, dermatiti); 5) quando è previsto il contatto con mucose o cute non integra. Nelle procedure di accesso vascolare (prelievi, endovenose), i guanti devono essere indossati immediatamente prima e rimossi immediatamente dopo l’esecuzione della procedura; devono essere sostituiti in caso di rotture e lesioni; devono essere utilizzati anche per prelievi da polpastrelli, talloni, lobi auricolari; devono essere sostituiti dopo la prestazione assistenziale di ciascun paziente; non devono essere riutilizzati; devono essere di resistenza idonea alla prestazione che si deve eseguire (ad es., guanti di gomma per la pulizia di strumenti e attrezzature). Dopo aver rimosso i guanti, le mani devono essere lavate. Poiché non solo il sangue risulta a rischio per l’operatore sanitario, è necessario utilizzare i guanti anche nelle seguenti circostanze: quando si maneggiano pre- sidi per l’evacuazione intestinale e urinaria, quando si maneggiano presidi di drenaggio, quando si presta assistenza a pazienti incontinenti, quando si eseguono le cure igieniche, quando si procede alla cura delle stomie. Quali ulteriori indicazioni, è necessario che i guanti siano conservati in luoghi facilmente accessibili agli operatori e che in ogni presidio sanitario vi siano guanti di lattice, vinile e gomma. Per quanto riguarda la sorveglianza delle lesioni alle mani, gli operatori con lesioni essudative o dermatiti secernenti alle mani devono evitare di prestare attività di assistenza diretta al malato o di manipolare strumenti e apparecchiature potenzialmente contaminate, fino alla risoluzione della condizione morbosa. Tali operatori devono segnalare la propria patologia al medico competente del servizio di medicina preventiva. Circa la questione se i guanti debbano essere sempre e comunque indossati durante l’esecuzione di un prelievo, così come previsto, anche qualora rappresentino un problema all’accesso vascolare in casi particolari, ricordiamo che un Decreto Ministeriale del 28.9.1990 recitava: “Nell’esecuzione dei prelievi tecnicamente di difficile esecuzione, per le condizioni del paziente o per particolarità del sito di prelievo e durante l’istruzione del personale all’esecuzione degli stessi prelievi, è obbligatorio l’uso dei guanti”. Ma successive linee-guida del Ministero della Salute affermano: “Considerando la segnalata difficoltà da parte degli operatori di eseguire prelievi con i guanti, pur rimanendo valida l’indicazione ad utilizzarli per i prelievi, la decisione delle condizioni d’impiego può essere delegata alla responsabilità e alla professionalità degli operatori stessi”, il che equivale a dire che la responsabilità e la decisionalità soggettive, in alcune circostanze, possono talora mettere in discussione norme scritte e approvate. DISPOSITIVI DI PROTEZIONE FACCIALE. Le mascherine e gli occhiali protettivi devono essere indossati durante l’esecuzione di procedure diagnostiche, terapeutiche e assistenziali che possono provocare l’esposizione delle mucose orale, F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi nasale e congiuntivale a gocce e schizzi di sangue e altri liquidi biologici o frammenti di tessuti e ossa. La protezione facciale va attuata anche durante la decontaminazione e il lavaggio di ferri chirurgici, vetreria e strumenti di laboratorio. COMPORTAMENTI A RISCHIO Nonostante le indicazioni per prevenire gli I.B., non si è evidenziata una significativa riduzione delle punture da ago e delle ferite da taglio. I motivi possono essere vari: insufficiente conoscenza del rischio e delle fasi lavorative che comportano una maggior esposizione o inadeguata percezione del rischio, personale non adeguatamente formato, mancanza o insufficiente motivazione a cambiare comportamenti e abitudini, insufficiente capacità nell’adottare nuove procedure, attrezzature o presidi insufficienti per quantità o qualità, personale insufficiente per numero, con alti carichi di lavoro, basso turnover. Alla luce di tutto questo, tutto il personale sanitario deve periodicamente analizzare i propri processi di lavoro e ripensarli in modo corretto21. PROTEZIONE E PRECAUZIONI PARTICOLARI IN LABORATORIO ELIMINAZIONE DI AGHI, BISTURI E TAGLIENTI22. Aghi, rasoi, bisturi, pinze, forbici, vetreria in genere e ogni strumento appuntito, affilato e tagliente deve essere considerato pericoloso e deve essere maneggiato con cura per evitare ferite accidentali. Tutti gli operatori sanitari devono adottare le misure necessarie per prevenire incidenti provocati da detti strumenti. I tre momenti maggiormente a rischio sono: 1) pulizia di strumenti e attrezzature (numerosi i casi di incidenti durante la pulizia di vetreria di laboratorio e strumenti chirurgici); 2) incappucciamento di aghi e taglienti dopo l’uso (da evitare!!!, così come il loro disinserimento, piegatura e rottura volontaria); 3) smaltimento di aghi e taglienti (si verificano numerosi incidenti per la loro errata eliminazione in contenitori inidonei: questi ul- 45 timi devono essere resistenti, rigidi, impermeabili con chiusura ermetica e smaltiti come rifiuti sanitari pericolosi). Per quanto riguarda altre manovre a rischio, NON SI DEVE cercare di raccogliere strumenti taglienti, appuntiti e di vetro che stanno cadendo, trasportare taglienti o vetreria in tasca o liberi in borsa, ma su appositi vassoi o in contenitori, prelevare alcunché dai contenitori di smaltimento; SI DEVE, invece, chiedere collaborazione, se il paziente non coopera o è agitato, prima di procedere a manovre invasive (dal semplice prelievo a operazioni più complesse) che prevedono l’utilizzo di strumenti appuntiti o taglienti. SMALTIMENTO DEI RIFIUTI SANITARI PERICOLOSI E DEI CAMPIONI BIOLOGICI. I rifiuti provenienti da: medicazioni; attività diagnostiche, terapeutiche, di ricerca, di sala operatoria; laboratori di analisi; servizi di nefrologia e dialisi; servizi vaccinali; piccola chirurgia; attività ambulatoriali in genere; pronto soccorso; padiglioni di malattie infettive (compresi i residui di pasti), sono definiti “rifiuti sanitari speciali pericolosi” (d.l. n. 22 del 5.2.1997) e pertanto devono essere immessi in contenitori specifici e sottoposti, prima dell’allontanamento e dell’eliminazione, ad idonei trattamenti di decontaminazione. I campioni biologici (comprese le biopsie) vanno collocati e trasportati in appositi contenitori a prova di perdite o rotture accidentali. Il vetro (per il sangue e altri liquidi biologici) è oggi sostituito dalla plastica in provette con tappo ermetico. Per il trasporto si devono utilizzare contenitori a valigetta chiusi con appositi supporti per provette, flaconi e altri contenitori di materiale organico. I contenitori di materiale biologico devono essere maneggiati con i guanti. In caso di spandimento accidentale di liquidi biologici occorre: disinfettare mediante prodotti a base di cloro l’esterno delle provette integre; smaltire le provette rotte negli appositi contenitori per rifiuti speciali sanitari pericolosi; versare il disinfettante nella valigetta e lasciarlo agire per 30’, prima di sciacquare ed asciugare. 46 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 Poiché le precauzioni universali hanno come concetto di base che tutti i campioni biologici di tutti i pazienti possono essere potenzialmente infetti, i campioni non devono essere contrassegnati come tali (ad es., con etichette) in quanto per tutti occorre adottare le stesse corrette manovre di manipolazione. DISINFEZIONE, STERILIZZAZIONE E DECONTAMINAZIONE. È bene precisare subito che i virus di cui ci stiamo occupando e in particolare HBV e HIV, sono tra gli organismi meno resistenti sia nell’ambiente (come in caso di spargimento e contaminazione di superfici con materiale biologico) che ai comuni disinfettanti: pertanto, le procedure a cui ora faremo cenno sono pienamente sufficienti a neutralizzarli23. La decontaminazione è un’operazione di disinfezione preliminare alla pulizia di un presidio sanitario contaminato da materiale organico al fine di prevenire la trasmissione per via ematica di microrganismi quali HBV HCV ed HIV. I decontaminanti chimici più impiegati , tutti per 30’, sono: prodotti a base di cloro; glutaraldeide al 2% (tossica!); PVPJ al 2.5-10%; clorexidina al 4%; fenoli. I primi tre sono consigliati dal CDC; tutti e cinque sono ritenuti efficaci dalle linee-guida del Ministero della Salute nei confronti di HIV. Inoltre, vi sono decontaminanti-detergenti a base di enzimi che spezzano i legami peptidici delle proteine, favorendo il distacco del sangue dagli strumenti , o a base di tensioattivi che facilitano la penetrazione del prodotto. Durante la decontaminazione l’operatore deve indossare guanti, maschera e occhiali. La disinfezione può essere effettuata con efficacia ed intensità a diversi livelli, ma in laboratorio è condotta soprattutto quella a livello alto o intermedio: la prima consiste nell’inattivazione di tutti i microrganismi (compresi HBV HCV HIV e micobatteri), ad eccezione delle spore; la seconda è un’intervento antimicrobico ad ampio spettro indicato in assenza di spore e dei microrganismi di cui sopra. Per la prima si impiegano, quali disinfettanti chimici, sodio ipoclorito, soluzioni di cloro elettrolitico, sodio dicloroisocianurato, cloramina, glutaraldeide. Tutti gli strumenti, presidi e attrezzature che vengono a contatto con organi, tessuti e cute lesa devono essere sterilizzati mediante: autoclave a vapore (121° per 15-20’ o 134° per 5-7’); autoclave a ossido di etilene; acido peracetico; stufa a secco (160° per 2h o 180° per 30’). In caso di spandimento accidentale di liquidi biologici, schizzi di sangue o altro su superfici devono essere prima rimossi e successivamente l’area deve essere decontaminata mediante preparati a base di cloro; l’operatore, durante queste manovre, deve proteggere cute e mucose con i dispositivi appositi. PRECAUZIONI PER IL PERSONALE DI LABORATORIO PREVISTE DALLA LEGGE “626”. In aggiunta alle precauzioni generali, detto personale deve tener presente una serie di accorgimenti specifici previsti in più articoli della legge 626/94. Eccone un sunto, in relazione alla trasmissione di patogeni per via ematica: - tutti i campioni biologici devono essere posti in contenitori atti ad evitare perdite durante il trasporto; - per la gestione di tutti i campioni biologici, umani e animali, vanno impiegate le cabine di sicurezza biologica; queste ultime sono obbligatorie nelle procedure di produzione e manipolazione di virus concentrati e in elevata quantità; - i guanti devono essere utilizzati, oltre alle indicazioni generali, quando esiste il rischio di un contatto diretto della cute con sangue e altri liquidi biologici e quando l’operatore presenta dermatiti o lesioni della pelle; - il lavaggio delle mani va eseguito dopo la manipolazione di materiali contaminati e dopo la fine del lavoro, anche quando si siano indossati i guanti; - deve essere utilizzato materiale monouso; - la vetreria contaminata deve essere decontaminata mediante sterilizzazione in autoclave, prima dello smaltimento; - i piani di lavoro devono essere decontaminati con preparati a base di cloro dopo schizzi di sangue o altro liquido biologico; - le apparecchiature e attrezzature contaminate da sangue o altro liquido bio- F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi logico devono essere pulite e decontaminate, prima di essere riparate, manipolate o sostituite; - ogni volta che il personale lascia il laboratorio deve rimuovere guanti e camici e lavare le mani; - oggi è ammesso solo il pipettaggio automatico, mentre è bandito quello a bocca. Vi è poi tutta una serie di norme specifiche per il personale addetto ad alcune mansioni particolari od operante in laboratori specializzati: ad esempio, coloro che prestano servizio in camera mortuaria e sala autoptica ed effettuano procedure post-mortem devono24: - indossare sempre guanti, maschere, occhiali protettivi, camici e grembiuli a tenuta d’acqua; - indossare guanti di maglia d’acciaio inossidabile in sala settoria durante le operazioni di rimozione della gabbia toracica, delle vertebre e della calotta cranica e durante l’impiego di strumenti per il taglio delle ossa; - trattare strumenti contaminati mediante sterilizzazione a vapore o a secco; - detergere e poi trattare con preparati a base di cloro apparecchiature e superfici contaminate. Il personale dei laboratori di istologia ed anatomia patologica devono invece tener conto quanto segue: - i campioni di tessuto devono essere maneggiati con estrema attenzione, individuando un’area di lavoro apposita e disponibile per apparecchiature comunque contaminate ed in seguito da decontaminare; - particolare attenzione va posta nell’impacchettamento, etichettamento e trasporto dei campioni; - i campioni di grandi dimensioni devono essere selezionati in sala autoptica; - tutti i materiali da eliminare devono essere autoclavati o direttamente inceneriti; - un trattamento con azoto liquido non disinfetta il campione anatomico. 47 INFORTUNI A RISCHIO BIOLOGICO ED ESPOSIZIONE ACCIDENTALE PROFESSIONALE A MATERIALE BIOLOGICO ATTRAVERSO PUNTURE, TAGLI E CONTATTO MUCOSO. Qualora si verifichi un I.B. con contaminazione ematica della cute, provocata perlopiù da punture e tagli, o delle mucose, causata da schizzi di sangue o altri liquidi biologici, una corretta medicazione è il primo step a cui il lavoratore infortunato deve provvedere: sarà pertanto necessario aumentare il sanguinamento, detergere la ferita con acqua e sapone e disinfettare con prodotti a base di cloro o PVPJ (esclusa la cute del viso); nel caso sia coinvolto il cavo orale, questo va risciacquato con prodotti a base di cloro, mentre le congiuntive vanno abbondantemente deterse con acqua25, 26. Il lavoratore deve informare il responsabile della propria unità operativa e deve immediatamente recarsi al pronto soccorso del proprio ospedale o più vicino per eventuali ulteriori medicazioni, interventi profilattici d’emergenza, denuncia d’infortunio e relativa certificazione INAIL. In caso di infortunio a rischio biologico, per l’operatore sanitario è previsto nella nostra azienda, così come nelle maggiori aziende ospedaliere nazionali27, un percorso ben preciso che permette di completare la medicazione, di svolgere una serie di pratiche amministrative, di effettuare una visita-consulenza infettivologica e una serie di procedure immunoprofilattiche con relativo follow-up. Queste le tappe previste: 1) Entro 1h dall’infortunio o appena possibile (ovviamente ha la precedenza il completamento della medicazione, al pronto soccorso o altro presidio d’emergenza) per consulenza infettivologica al Centro di Riferimento AIDS; l’infettivologo provvede a redigere una relazione da consegnare all’Ambulatorio Vaccinazioni, Sorveglianza e Prevenzione Infezioni Occupazionali e ad attivare, se necessario, la profilassi antiretrovirale; 2) Al Pronto Soccorso del presidio più vicino che provvede al rilascio del verbale 48 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 della prestazione erogata e del certificato su modello INAIL; 3) All’Ambulatorio vaccinazioni, Sorveglianza e Prevenzione Infezioni Occupazionali che registra l’infortunio e avvia la sorveglianza post-esposizione, con eventuale follow-up dell’operatore; 4) Alla Direzione Sanitaria Ospedaliera o all’Ufficio Infortuni, per consegnare la dichiarazione di infortunio sul lavoro, il verbale di pronto soccorso e il certificato su modello INAIL. È raccomandata la massima tempestività nel recarsi all’ambulatorio vaccinale e nella consegna dei moduli compilati; il rispetto scrupoloso delle scadenze dei controlli sierologici, secondo i follow-up previsti e le date del calendario vaccinale qualora l’operatore sanitario non fosse precedentemente vaccinato per HBV. Vi sono poi da prendere in considerazione casi particolari, qualora il paziente fonte sia positivo per una delle infezioni da patogeni emotrasmessi maggiori e quindi l’operatore sanitario sia a forte rischio di contagio. 1) Incidente biologico a rischio per HBV (paziente fonte HBV+) in operatore sanitario vaccinato per epatite B. L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione, effettua la denuncia INAIL, esegue l’eventuale profilassi per infezione HBV, che consiste in una dose di richiamo di vaccino antiHBV, non necessaria in caso di titolo documentato di HbsAb >100U/ml negli ultimi sei mesi; al servizio infezioni occupazionali (o ufficio tutela salute dei lavoratori e prevenzione rischio occupazionale) della Direzione Medica Ospedaliera, dopo la valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica di infortunio, viene effettuato un prelievo per la ricerca completa dei markers dell’epatite B (+ la ricerca degli anticorpi anti-HCV e anti-HIV). 2) Incidente biologico a rischio per HBV (paziente fonte HBV+) in operatore sanitario NON vaccinato per epatite B. L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione, effettua la denuncia INAIL, esegue la profilassi per infezione HBV, che in questo caso consiste nella somministrazione di immunoglobuline specifiche, che secondo la maggioranza dei protocolli internazionali vanno inoculate entro 48h dall’incidente e di una prima dose di vaccino anti-HBV; al servizio infezioni occupazionali, dopo la valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica d’infortunio, viene effettuato un prelievo per la ricerca completa dei markers dell’epatite B (+ la ricerca degli anticorpi anti-HCV e anti-HIV) e delle transaminasi ed infine viene programmato il successivo controllo dopo sei mesi dei markers di HBV e transaminasi nonché il calendario delle dosi successive di vaccino. 3) Incidente biologico a rischio per HCV (paziente fonte HCV+). L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione ed effettua la denuncia INAIL; al servizio infezioni occupazionali, dopo la valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica d’infortunio, viene effettuato un prelievo per la ricerca degli anticorpi anti-HCV (+ markers dell’epatite B e anticorpi anti-HIV) e viene programmato il controllo successivo, dopo sei mesi, per la ricerca degli anticorpi anti-HCV. 4) Incidente biologico a rischio per HIV (paziente fonte HIV+). L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione ed effettua la denuncia INAIL; in consulenza dall’infettivologo, che propone la chemioprofilassi antiretrovirale post-esposizione (PPE), da iniziare tempestivamente dopo l’infortunio – vedi oltre per i dettagli –; al servizio infezioni occupazionali, dopo la valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica d’infortunio e la scheda di sorveglianza per infezione HIV, viene effettuato un prelievo per la ricerca degli anticorpi anti-HIV (+ marker epatite B e anticorpi anti-HCV) e vengono programmati i successivi controlli sierologici per HIV dopo 6, 12 e 26 settimane; questo programma cambia in tipologia di esami e tempi di controllo se l’operatore si sottopone a PPE, come illustreremo più avanti. 49 F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi CHEMIOPROFILASSI CON FARMACI ANTIRETROVIRALI DOPO ESPOSIZIONE OCCUPAZIONALE (PPE) AD HIV NEGLI OPERATORI SANITARI (Protocollo congiunto del Ministero della Salute e della Commissione Nazionale per la lotta contro l’AIDS) Elementi ispiratori della PPE vanno ricercati in un’appropriata gestione postesposizione del lavoratore sanitario, quale fattore di sicurezza sul luogo di lavoro e la certezza che il trattamento con farmaci antiretrovirali riduce il rischio di trasmissione dell’HIV dopo esposizione occupazionale a sangue infetto. La prevenzione e la riduzione del rischio d’infezione occupazionale, nonché la limitazione della gravità dell’evento “infezione” sono obiettivi che si ottengono solo se la PPE viene attuata tempestivamente mediante un trattamento precocissimo e dopo ogni esposizione a rischio, anche nei casi in cui l’infortunato riporti ripetute esposizioni28. L’infettivologo, nel proporre la PPE, valuta i fattori associati ad un forte rischio di trasmissione dell’infezione da HIV dopo esposizione occupazionale, prendendo in esame la dinamica dell’incidente; due sono soprattutto i suoi campi d’indagine: 1) Il tipo di esposizione. Sono indicativi di rischio elevato le ferite profonde e sanguinanti spontaneamente, le punture con ago cavo utilizzato per prelievo, la presenza di sangue in quantità visibile sulla superficie del presidio implicato nell’incidente, la contaminazione congiuntivale massiva, qualsiasi esposizione al virus concentrato (laboratori di ricerca e produzione di virus); 2) Le caratteristiche del paziente fonte. In questo caso depongono per un elevato rischio di trasmissione dell’ HIV i pazienti in fase terminale, quelli con infezione acuta (rari in un ambito ospedaliero), i pazienti con >30.000 copie/ml di HIV-RNA, i pazienti con resistenza a uno o più farmaci antiretrovirali (trattati da almeno 6-12 mesi e segni di progressione clinica). Un problema da considerare è quello della tossicità dei farmaci antiretrovirali29: alle dosi attualmente raccomandate la PPE con zidovudina (ZDV) è generalmente ben tollerata dagli operatori sanitari. Tuttavia, mentre vi sono numerosi studi sulla tossicità dei farmaci antiretrovirali in HIV+, non sono invece disponibili dati che permettano di stabilite la possibile tossicità a lungo termine (ritardata) degli antiretrovirali in persone non infettate da HIV. Ricordiamo comunque che il rischio medio di infezione da HIV in seguito a esposizione percutanea di qualsiasi tipo con sangue infetto è inferiore allo 0.3%. Pertanto è l’infettivologo cui spetta il compito se trattare o no l’operatore infortunato con la PPE, dopo un’accurata indagine sulla dinamica dell’incidente biologico, le caratteristiche dell’evento e gli aspetti clinici del paziente fonte. Sono elementi che depongono a favore del trattamento la sicura positività per HIV del paziente fonte o qualora vi sia il fondato sospetto che si trovi nel “periodo finestra”, il caso in cui questi non sia identificabile, qualora l’indagine epidemiologica confidenziale riveli che il paziente fonte HIVpossa essere ad alto rischio di infezione. Elementi di dubbio nel proporre la PPE sono il dato obiettivo che la maggioranza delle esposizioni occupazionali ad HIV non determina la trasmissione dell’infezione e la potenziale tossicità dei farmaci. Controindicazioni assolute sono i casi in cui l’operatore sia affetto da anemia, immunodeficit, malattie croniche del fegato o renali, patologie metaboliche o si trovi in condizione di gravidanza. Nei casi in cui la PPE viene iniziata, è necessario eseguire la ricerca degli anticorpi anti-HIV sul paziente fonte in tempi brevi, per interrompere eventualmente il trattamento. La PPE va comunque iniziata entro 1-4 ore dall’incidente, mai oltre le 24: vi è una stretta correlazione tra tempestività d’intervento ed efficacia. La ZDV, se ben tollerata, va somministrata per 4 settimane. Il follow-up prevede l’esecuzione di un emocromo con formula, test di funzionalità epatica e renale al tempo 0 e ogni 10 giorni per tutta la durata del trattamento. CONCLUSIONI La prevenzione dell’esposizione a sostanze biologiche, applicando comportamenti adeguati, coinvolge tutta l’organiz- 50 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 zazione del servizio e indirizza le strategie da adottare per cambiamenti a breve, medio e lungo termine. La strategia prevede un coinvolgimento diretto operativo, di responsabilità ed economico della Direzione Medica Ospedaliera e dei Servizi di Medicina Preventiva e Infezioni Occupazionali, della Direzione Amministrativa e del Servizio formazione e aggiornamento. L’operatore sanitario deve impegnarsi ad adempiere alle indicazioni operative impartite, al corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e ad esercitare il diritto/dovere alla formazione e all’aggiornamento. La divulgazione delle linee-guida è obbligatoria per tutto il personale, tenendo conto che si tratta di una serie di indicazioni di carattere generale e occorre procedere alla loro applicazione nell’ambito di ciascun servizio e inserire le procedure previste in ogni singolo contesto. Tutti gli operatori sanitari devono avere coscienza dell’esistenza del rischio, devono adottare misure per limitarlo e per interrompere la catena di diffusione dell’infezione. Le misure fondamentali vertono su questi punti: sensibilizzazione (formazione-informazione), condivisione delle procedure, adozione integrale delle misure di sicurezza e prevenzione, adeguamento continuo al progresso tecnologico. Un chirurgo ortopedico nell’800, quando la mortalità fra operati e operandi era altissima in seguito a infezioni contratte per contaminazione ematica e vi erano ben poche barriere protettive, affermava che la misura preventiva più efficace per evitare il diffondersi delle infezioni era: “Lavare fino a che si è stufi e poi lavare ancora un po’”30. Se oggi estendiamo questo modus operandi (applicare assiduamente le misure preventive e non abbassare mai la soglia di attenzione e sorveglianza) a tutte le precauzioni universali, siamo certi non di eliminare ma di contenere fortemente il numero di I.B. da patogeni emotrasmessi nelle strutture sanitarie. BIBLIOGRAFIA 1) Beltrami EM, Williams IT, Shapiro CN et al. 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Relazione al 32° Congresso AMCLI, Firenze, 14-17 ottobre 2003. 8) Baldo V, Floreani A, Dal Vecchio L et al. Occupational risk of blood-borne viruses in healthcare workers: a 5-year surveillance program. Infect Control Hosp Epidemiol 2002; 23: 325-7. 9) Henderson DK. Managing occupational risks for hepatitis C transmission in the health care setting. Clin Microbiol Rev 2003; 16: 546-68. 10) Blanc P, Gabbuti A, Mannino R et al. Infezione nosocomiale da HCV: un problema ancora attuale. Relazione al 4° Congresso SIMIT, Fiuggi, 12-15 dicembre 2005. 11) Wormser GP, Forseter G, Joline C et al. Hepatitis C infection in the health care setting. Low risk from parenteral exposure to blood of human immunodeficiency virus-infected patients. Am J Infect Control 1991; 19: 237-42. 12) Stevens AB, Coyle PV. Hepatitis C virus: an important occupational hazard? Occup Med 2000; 50: 377-82. 13) Zuckerman J, Clewley G, Griffiths P et al. Prevalence of hepatitis C antibodies in clinical health-care workers. 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Un caso di profilassi post-esposizione con enfuvirtide. Relazione al 4° Congresso SIMIT, Fiuggi, 12-15 dicembre 2005. 30) Ghinelli F, Sighinolfi L. Infezioni dopo chirurgia ortopedica. Relazione al 4° Congresso SIMIT, Fiuggi, 12-15-dicembre 2005. ____ Per richiesta estratti: Dr. Belli Francesco, Lab. Microbiologia e Virologia Ospedale C.Forlanini, Piazza C.Forlanini 1, 00151 Roma E-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 RETICOLOCITI E SOTTOPOPOLAZIONI RETICOLOCITARIE NELLA DIAGNOSTICA EMATOLOGICA RETICULOCYTES AND RETYCULOCYTES STRAINS IN HAEMATOLOGICAL DIAGNOSIS ARDUINO BARALDI Laboratorio Biochimica Clinica Ospedale Forlanini - Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Riassunto. I reticolociti costituiscono una piccola quota dei globuli rossi circolanti che pre- sentano residui di organuli citoplasmatici di tipo ribosomiale. Con lo sviluppo delle metodiche citometriche basate sulla fluorescenza si è ottenuta una notevole precisione nel definire le classi di reticolociti con differente maturità. Questo ne ha permesso un’applicazione clinica in molti settori della diagnostica ematologica. Parola chiave. Reticolociti. Citofluorimetria. Summary. The reticulocytes constitute a small part of the circulating red cells that presents residues of ribosomial cytoplasm. The development of the cytometric methods founded on fluorescence has achieved a considerable precision to define the classes of reticulocytes with different maturity. This has allowed a clinical application in many sectors of the haematological diagnosis. Key words. Reticulocytes. Flow Cytometry. INTRODUZIONE Secondo le classificazioni ufficiali i reticolociti sono globuli rossi che hanno ancora al loro interno materiale che assume una colorazione blu con coloranti, come il blu di metilene e che identifica particelle di RNA ribosomiale. METODI MANUALI Questi utilizzano coloranti quali blu di cresile, blu di metilene, azur B che inducono aggregazione e precipitazione dei residui ribosomiali colorandoli in modo da renderli visibili su sfondo chiaro del citoplasma. Il requisito fondamentale di queste tecniche è che non vi sia una fissazione preliminare, che è dato indispensabile affinché vi sia una penetrazione del colorante attraverso la membrana in modo che si determini la precipitazione delle ribonucleoproteine. Le tecniche per la conta al microscopio si basano sulla incubazione a fresco del sangue anticoagulato con il colorante in soluzione salina per alcuni minuti. La proporzione dei reticolociti viene calcolata come percentuale dei globuli rossi g.r. esaminati con la seguente formula: n. reticolociti Reticolociti%= ––––––––––––––– * 100 n. g.r. + ret. Nella conta microscopica la precisione è influenzata dal numero dei globuli rossi e A. Baraldi: Reticolociti e sottopopolazioni reticolocitarie nella diagnostica ematologica 53 reticolociti che vengono contati. Sarebbe opportuno proseguire il conteggio fino a che non si contano almeno 100 reticolociti. I metodi manuali richiedono tempi lunghi e sussiste una notevole variazione statistica fra gli osservatori e poca riproducibilità del metodo. laser del citometro utilizzato. Il migliore colorante utilizzando un laser ad argon è risultato essere l’arancio di tiazolo. La conta reticolocitaria con citofluorimetro è più rapida e molto più precisa rispetto alla conta microscopica. METODI CITOFLUORIMETRICI FATTORI D’INTERFERENZA L’analisi con la citometria a flusso è iniziata negli anni ’80 ed oggi gli apparecchi di ultima generazione sono estremamente affidabili e precisi. Si utilizzano coloranti fluorescenti, detti anche fluorocromi, che si legano agli acidi nucleici e penetrano attraverso la parete cellulare. La lunghezza d’onda d’eccitazione dovrà essere compatibile con quella della luce Vi sono numerosi fattori che possono interferire con la conta reticolocitaria: le leucocitosi di alto grado possono produrre un falso aumento dei reticolociti per interferenza nell’area di conta dei globuli bianchi fluorescenti; ed ancora le conte piastriniche elevate, la presenza di piastrine giganti. Nello schema seguente sono state raggruppate le varie cause d’interferenza: LEUCOCITI Conte elevate PIASTRINE Conte elevate, piastrine giganti, aggregazione piastrinica ERITROCITI Eritroblasti periferici, Corpi di Howell Jolly, Corpi di Heinz, Emoglobine atipiche, Agglutinazione eritrocitaria, Porfirie, Parassita malarico, Babesiosi FATTORI PLASMATICI Paraproteinemie, Crioglobuline e Crioagglutinine, Emolisi, Farmaci fluorescenti, Fluoresceina INDICI DI MATURAZIONE La durata di vita del reticolocita è data dall’intervallo di tempo fra la perdita del nucleo da parte di un eritroblasto e la fase in cui nel citoplasma non si riscontra più presenza di RNA. I reticolociti possono essere divisi in sottopopolazioni in base alla quantità di sostanza reticolare in essi presente secondo la classificazione di Heilmayer: CLASSE 0 Eritroblasti contenenti ancora dei nuclei intatti CLASSE 1 La sostanza reticolare forma un unico ammasso CLASSE 2 La sostanza reticolare ha una minore densità ma occupa ancora la maggior parte della cellula CLASSE 3 È presente disgregazione della sostanza reticolare CLASSE 4 La sostanza reticolare è ridotta a pochi granuli e/o corti filamenti 54 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 La maggiore o minore intensità di fluorescenza porterà all’individuazione di tre classi diverse di reticolociti: 1) quelli a bassa fluorescenza ( LFR ) che rappresentano circa l’80% di tutti i reticolociti e corrispondono alla classe 4 di Heilmayer; 2) quelli a media fluorescenza ( MFR ) e 3) quelli ad alta fluorescenza ( HFR ), che corrispondono alle altre classi. DIAGNOSI EMATOLOGICA La presenza di reticolociti nel sangue periferico rappresenta un significativo indice della funzionalità midollare sotto il profilo della funzione eritropoietica. Nella diagnosi differenziale delle anemie, l’aumento di reticolociti è indice di eritropoiesi efficace. Una soglia per distinguere le anemie con risposta efficace può essere data da: 40*10 /l. Una conta reticolocitaria inferiore a 10*10 l indica una eritropoiesi ridotta. Una reticolocitosi si può osservare nelle anemie acute post-emorragiche ed in tutte le anemie emolitiche sia da causa extra che intracorpuscolare. I maggiori livelli si osservano durante le crisi da deglobulizzazione nelle anemie emolitiche costituzionali, in quelle autoimmuni e nella malaria. Un aumento dei reticolociti si ha anche nelle leucemie acute, mielodisplasie, policitemia vera; nell’aplasia si ha, invece una netta riduzione del numero dei reticolociti. Un altro campo in cui ci si avvale della conta reticolocitaria è quello del controllo della risposta eritropoietica in terapia, per esempio nella anemia megaloblastica e sideropenica. L’utilizzo della vit. B12 e/o dell’acido folico in pazienti con anemia megaloblastica porta ad una trasformazione dell’eritropoiesi midollare che inizia entro 24-48 ore dal trattamento. I reticolociti dopo circa 2-4 giorni aumentano e si ha una intensa e rapida crisi reticolocitaria costituita in prevalenza dalle classi 1 e 2 (fortemente immaturi). Nell’anemia da insufficienza renale sia la conta reticolocitaria che la percentuale di HFR sono lievemente ridotte e correlate con la concentrazione di eritropoietina nel plasma. Nelle anemie emolitiche reticolociti e HFR sono entrambi aumentati e inversamente correlati alla quantità di emoglobina. Nella anemia aplastica si presenta una grave reticolocitopenia con un eventuale incremento della frazione a più intensa fluorescenza. Più in generale si può affermare che la risposta eritropoietica ad una anemia sia data da un aumento assoluto dei reticolociti con un aumento delle frazioni più immature di questi, ad alto contenuto di RNA. Quando, invece ci si trova di fronte ad una eritropoiesi inefficace o depressa l’azione della eritropoietina continua a stimolare la produzione di giovani reticolociti con un aumento, in particolare, della frazione HFR, ma non porta ad un aumento dei globuli rossi e, in conseguenza, la conta reticolocitaria rimane bassa. Il campo in cui si sono ottenuti risultati di grande utilità nelle misurazioni reticolocitarie è quello del trapianto di midollo. Lo studio di questi pazienti, dal momento in cui si trovano nella fase di aplasia midollare indotta da chemioterapia e/o radioterapia sino al momento del trapianto e quindi alla rigenerazione midollare cui fa seguito l’attecchimento, è fondato sullo studio dei principali indici emocitometrici: è il valore dei neutrofili uno dei più importanti ma, insieme a questo, la conta reticolocitaria con metodi citofluorimetrici, si è dimostrata un indice affidabile e sensibile quanto la conta dei neutrofili ed in più, il calcolo della componente ad alto contenuto di RNA, rappresenta l’indice più precoce di rigenerazione eritropoietica e di attecchimento del trapianto. Nell’uso terapeutico dell’eritropoietina ricombinante, come nell’anemia da insufficienza renale, si determina un aumento di reticolociti soprattutto nella frazione a più alta fluorescenza (HFR), ma una carenza funzionale del ferro può determinare una risposta ridotta all’eritropoietina. In conclusione possiamo dire che la possibilità di determinare la quantità di reticolociti e le loro sottopopolazioni rappresentano indici importanti e di indubbia utilità nella valutazione dell’eritropoiesi e, in generale, nella diagnostica ematologica. A. Baraldi: Reticolociti e sottopopolazioni reticolocitarie nella diagnostica ematologica BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: Cline JM, Berlin NI: The reticulocyte count as an indicator of the rate of erithropoiesis. Am. J. Clin. Pathol. 1963; 39: 121 –7; 55 D’Onofrio G., Zini G. Morfologia del sangue. Roma; Verduci Editore 1997 Nobes P.R., Carter A.B. Reticulocyte counting using flow cytometry. J. Clin. Pathol. 1990, 43: 675 –8 ____ Per richiesta estratti: Dr. Baraldi Arduino, Laboratorio Biochimica Clinica Ospedale Forlanini Viale Palmiro Togliatti, 93 - 00175 Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Gestione e organizzazione sanitaria PIANO DI INTERVENTO PSICOLOGICO IN OSPEDALE IN CASO DI MAXIEMERGENZA PLAN OF PSYCHOLOGICAL HOSPITAL INTERVENTION IN MAJOR ACCIDENTS AND DISASTER DANILA PENNACCHI*, ANNA VIOLA** *Psicologo, Servizio Prevenzione Protezione, Membro Gruppo Operativo Interdisciplinare Maxiemergenze, A.O. San Camillo-Forlanini Roma ** Direttore Sanitario di Presidio, Responsabile Aziendale per Maxiemergenze, A.O. San Camillo-Forlanini Roma Parole chiave: Supporto psicologico, maxiemergenza in ospedale. Key words: Psycho-social support, majopr accidents and disaster in hospital Negli ultimi anni l’organizzazione dei Piani di Emergenza in caso di eventi catastrofici è diventata estremamente importante. Tali eventi, e soprattutto quelli non dovuti a cause naturali, sono infatti aumentati a livello internazionale per numero ed intensità degli effetti. In questi casi gli ospedali diventano strutture strategiche finali di riferimento per gestire il soccorso delle vittime. Nella struttura ospedaliera la maggiore attenzione è rivolta all’assistenza sanitaria immediata che risulta chiaramente necessaria e insostituibile , ma tali piani di azione non possono ignorare l’importanza di un congiunto supporto psicologico. L’importanza di questo intervento è diventata però sempre più evidente, soprattutto in relazione a tre aspetti fondamentali. Il primo è di tipo pragmatico: mettere a disposizione delle vittime un supporto psicologico immediato può prevenire episodi di panico collettivo. Il secondo è quello di garantire all’équipe sanitaria una maggiore efficienza nell’affrontare lo stress relativo all’attività di soccorso. Il terzo è di tipo sociale a lungo termine: la vittima prontamente aiutata subito dopo una catastrofe riduce notevolmente le probabilità di successiva insorgenza di Di- sturbi Post Traumatici da Stress. Tale evenienza infatti può essere arginata e prevenuta con un intervento psicologico immediato ed efficace. Parlare di supporto psicologico in caso di maxiemergenza vuol dire accompagnare il soggetto in tre fasi distinte: la prima riguarda l’intervento sul territorio, ovvero sul luogo dell’evento immediatamente dopo la catastrofe. La seconda è il primo soccorso all’interno degli ospedali nel momento in cui sopraggiungono un alto numero di vittime e familiari delle vittime. L’intervento infine non può ignorare una terza fase, quella successiva alla maxiemergenza vera e propria: il soggetto che necessita di supporto psicologico ha bisogno a volte di essere preso in carico anche successivamente, attraverso modalità specifiche e appropriate, al fine di evitare le possibili ripercussioni dell’evento. Le tre le fasi di intervento permettono alla vittima di avere un vero e proprio “contenitore psicologico” che aiuta loro ad affrontare e superare il trauma. La Presidenza del Consiglio dei Ministri con la Direttiva del 13 giugno 2006 si è fatta carico di questo problema decretando i “Criteri di massima sugli Interventi Psicosociali da attuare nelle catastrofi”. 57 D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza L’INTERVENTO PSICOLOGICO IN OSPEDALE Per affrontare la seconda fase di sua pertinenza, l’A.O. San Camillo-Forlanini si occupa del problema delle Maxiemergenze dal 2003 attraverso la stesura del Piano di Emergenza Intraospedaliera per un Massiccio Afflusso di Feriti (PEIMAF) , le sue revisioni continue, la sua divulgazione agli operatori coinvolti e le frequenti simulazioni per valutare la sua efficacia. All’interno del Piano la U.O. di Psicologia ha portato il proprio contributo iniziando a pianificare il proprio intervento in Pronto Soccorso. Questo ha comportato numerosi incontri di confronto e condivisione, partecipazione a Corsi di Formazione sulla Medicina delle Catastrofi, studio della letteratura ed ha prodotto l’attuale Piano di Intervento Psicologico in caso di Massiccio Afflusso di Feriti. Il Piano è nato inizialmente dalla collaborazione con il Gruppo di Lavoro Aziendale per il PEIMAF e di conseguenza dalla condivisione del proprio lavoro con le componenti sanitarie del primo soccorso ospedaliero. È stato costruito secondo le indicazioni della Medicina delle Catastrofi che prevede tre aspetti basilari per la organizzazione di un Piano di Emergenza: la Strategia, la Tattica e la Logistica. Obiettivo principale del Piano è stato quello di accogliere i bisogni psicologici delle vittime e degli operatori coinvolti nella Maxiemergenza e di contenere le “normali” reazioni emotive, al fine di prevenire i Disturbi Post Traumatici da Stress che possono manifestarsi in seguito all’esposizione ad avvenimenti gravi e luttuosi. STRATEGIA La prima fase dello studio ha identificato, quali fruitori dell’intervento psicologico, le Vittime ed i Familiari che pervengono al Pronto Soccorso e gli Operatori Sanitari che offrono loro l’assistenza sanitaria. In seguito sono state individuate le risorse umane necessarie secondo i tre livelli di attivazione del PEIMAF Aziendale e che sono classificati sulla base del numero delle vittime in arrivo all’ospedale (Tab.1) La Tabella 2 -estratta dal Piano di Intervento Psicologico in caso di Massiccio Afflusso di Feriti presentata alla Direzione Sanitaria dell’A.O. San Camillo Forlanini nel dicembre 2005- evidenzia come, in caso di attivazione del PEIMAF, il Reperibile di turno venga allertato dal Centralino e diventi il Coordinatore dell’intervento psicologico. Questo avviene in particolare la mattina quando ha la possibilità di convocare in Pronto Soccorso gli altri colleghi presenti in ospedale. Sono stati poi attivati una serie di Protocolli di Collaborazione che prevedono una sinergia tra gli psicologi e: 1. Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) per favorire l’aspetto comunicativo: - tra i parenti delle vittime e le vittime stesse, in quanto il PEIMAF Aziendale prevede due aree di attesa separate e questa lontananza potrebbe influire negativamente sulle ansie, già presenti, in merito alle condizioni fisiche dei sopravvissuti - tra i parenti ed i medici del Pronto Soccorso, per le notizie sullo stato di salute delle vittime - nei casi di necessità di identificazione delle vittime attraverso l’immagine fotografica: quando non è possibile identificare direttamente i feriti gravi ed è necessario che i parenti scoprano se il loro congiunto fa parte dell’elenco delle vittime attraverso lo scorrimento delle foto - nei casi di gravi notizie o decessi, per accogliere e contenere il dolore dei familiari Tabella 1. Livello n. feriti 1 2 3 20 di cui 4 rossi 30 di cui 10 rossi >30 58 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 Tabella 2. PIANO DI INTERVENTO PSICOLOGICO NELLE MAXI-EMERGENZE Lo psicologo reperibile diventa il coordinatore dell’intervento CHI OBIETTIVI Coordinare Psicologi presenti Psicologo Coordinatore Favorire la comunicazione con HDM Coordinatore, URP, Assistenti Sociali e Ministri di Culto Ridurre il rischio di successiva insorgenza di disturbi da stress negli operatori Gestire le proprie risorse umane Ridurre il rischio di successiva insorgenza di disturbi da stress Psicologo assistenza Vittime Prevenire le reazioni emotive da “contagio collettivo COMPITI Individua gli psicologi per intervento su Vittime e Familiari Attiva le collaborazioni tramite i Protocolli previsti Previene, Monitorizza, Supporta le reazioni acute da stress Valuta la necessità di eventuale riposo dei colleghi Favorisce il canale comunicativo Facilita l’espressione delle emozioni Individua i bisogni psicologici Sostiene emotivamente Contiene e gestisce l’ansia Monitorizza e stabilizza: reazioni emotive adeguate inadeguate transitorie inadeguate stabili Favorisce il canale comunicativo Psicologo assistenza Familiari Ridurre il rischio di successiva insorgenza di disturbi da stress Facilita l’espressione delle emozioni Prevenire le reazioni emotive da “contagio collettivo Contiene e gestisce l’ansia Sostenere psicologicamente in caso di decessi Sostiene emotivamente Monitorizza e stabilizza: reazioni emotive adeguate inadeguate transitorie inadeguate stabili Comunica, insieme al medico, eventuali notizie luttuose D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza 2. Ministri di Culto prevede l’attivazione di varie componenti religiose per dare la possibilità alle vittime ed ai familiari di usufruire anche di un eventuale conforto in questo ambito: - Cattolico, presente all’interno della Azienda con l’Ordine dei Camilliani e di conseguenza immediatamente attivabile - Ebraico, attraverso accordi con il Rabbino Capo, con l’istituzione di una equipe di Rabbini reperibili, da attivare in caso di Maxiemergenza - Islamico, in attesa di definire le modalità di collaborazione. 3. ARES 118 per una migliore gestione delle vittime, dal punto di vista psicologico. Il Servizio di Psicologia dell’ARES 118 è a conoscenza dell’ entità dell’evento ed è il punto di raccolta delle comunicazioni e di raccordo tra gli psicologi che operano sul territorio dove è avvenuto l’evento stesso e gli psicologi presenti negli ospedali dove verranno inviate le vittime. Attraverso i numerosi incontri effettuati che hanno portato al censimento degli psicologi presenti negli ospedali e ad un accordo per l’invio delle vittime in codice bianco, è in grado di indirizzare le persone, bisognose di supporto psicologico, negli ospedali che possono accoglierle con maggiore efficacia e permetterne, per quanto possibile, una presa in carico più adeguata possibile. È nata in questo modo una Rete Comunicativa che permette di avere informazioni, in tempo reale, sugli sviluppi dell’evento, sul numero delle vittime inviate e sulla possibilità di usufruire di eventuali ulteriori supporti psicologici 4. Psicologi presenti negli altri Ospedali, è stato creato un Coordinamento degli Psicologi degli Ospedali sedi di DEA di II Livello per una migliore collaborazione e comunicazione in fase operativa. Allo stato attuale il gruppo di lavoro ha presentato al Responsabile ARES 118 i Criteri di massima per un Piano di Intervento Psicologico in caso di MAF, che ricalca quello in atto per il San Camillo-For- 59 lanini, applicabile in ogni realtà ospedaliera. Inoltre sta approfondendo le modalità di intervento psicologico da attuare nei confronti delle vittime e dei familiari e sta valutando l’applicazione della scheda di Triage Psicologico proposta dal Dipartimento Protezione Civile per un eventuale raccordo con gli psicologi presenti sul luogo dell’evento e per un suo migliore utilizzo nella fase operativa ospedaliera. La collaborazione con il Servizio Sociale Aziendale è in via di attivazione in quanto si attende la stesura del loro Piano di Intervento TATTICA Sono state studiate le esperienze vissute in altre realtà nazionali ed internazionali in occasione di eventi naturali o attentati terroristici per identificare delle metodologie di intervento adeguate ad un primo soccorso psicologico. Sulla base di quanto approfondito, la Tabella 1 definisce gli obiettivi ed i compiti degli psicologi che si occupano delle vittime, dei familiari e degli operatori. Per quanto riguarda le vittime ed i familiari è importante: - prevenire le reazioni emotive da panico individuale che possono condurre a un “contagio collettivo” inarrestabile e dannoso per le singole persone e per gli operatori che assistono i feriti, - ridurre il rischio di successiva insorgenza di Disturbi Post Traumatici da Stress che possono pregiudicare la normale ripresa della vita quotidiana. Per raggiungere queste priorità è necessario utilizzare tecniche di intervento psicologico individuali e collettive, che allo stato attuale però non sono ancora state standardizzate per quanto riguarda l’ ambito ospedaliero. Esistono infatti numerose indicazioni da parte della Psicotraumatologia , ma poche rispetto all’intervento specifico in Ospedale. L’attenzione al rischio di successiva insorgenza di Disturbi Post Traumatici da Stress va posta anche nei confronti degli 60 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006 operatori sanitari che assistono le vittime. È per raggiungere questo obiettivo che nel Piano è stato previsto un monitoraggio costante del livello di stress degli operatori durante la fase dell’assistenza in Pronto Soccorso, attraverso l’osservazione degli eventuali sintomi di disagio psicologico, da parte dello psicologo, e la sensibilizzazione degli operatori stessi (Buddy Care) nei confronti di comportamenti inusuali. Con tali obiettivi l’Azienda Ospedaliera si è fatta promotore ed è uno dei Partner Principali del Progetto Europeo IPPHEC (Improve the Preparedness to give Psychological Help in Event of Crisis”) -presentato dal Ministero della Salute in collaborazione con il Dipartimento della Protezione Civile, l’Agenzia di Sanità Pubblica, la Regione Lazio e numerosi Partners Europei- che ha come obiettivo quello di individuare delle Buone Pratiche di Intervento Psicologico da attuare in Ospedale in caso di Massiccio Afflusso di Feriti per fornire delle Linee Guida in questo campo, a livello Europeo. LOGISTICA È prevista una suddivisione degli psicologi nelle aree di intervento individuate, quando possono esserne attivati almeno tre: - lo psicologo preposto all’intervento sulle vittime svolge la sua funzione nella sala adibita ad attesa dei codici bianco/verdi all’interno del Pronto Soccorso - lo psicologo che gestisce le problematiche legate ai familiari si colloca nell’Atrio della Piastra dove viene allestito un ambiente confortevole di accoglienza e dove è stato individuato un ambiente idoneo per i colloqui. - lo psicologo che ha il compito di monitorare lo stato psicologico degli operatori sanitari che affrontano l’emergenza sanitaria è all’interno dei locali del Pronto Soccorso e collabora con i Responsabili Medici e Infermieristici -Hospital Disaster Management (HDM) Coordinatore, Hospital Disaster Management (HDM) P.S.- per valutare la ne- cessità di interventi anche immediati, come quello di allontanare momentaneamente dalla scena l’operatore. FORMAZIONE La conoscenza di quanto avviene in una Maxiemergenza, delle reazioni emotive che si devono affrontare nella situazione di emergenza e delle modalità di intervento più adeguate aiuta gli operatori a fronteggiare in modo più efficace l’emergenza stessa. Non bisogna dimenticare infatti che mentre il personale del Pronto Soccorso gestisce quotidianamente situazioni di estrema gravità, lo psicologo che svolge il proprio lavoro nei reparti dell’ospedale difficilmente si trova a fronteggiare gravi situazioni di emergenza. È per questo motivo che la Formazione nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza assume un carattere prioritario per gli psicologi dell’A.O. che si dovranno occupare dell’intervento psicologico in questo campo. Allo stato attuale è stata svolta una prima giornata di formazione sul PEIMAF Aziendale per far conoscere a tutta l’equipe di Psicologi l’ assetto organizzativo dell’Azienda in caso di Maxiemergenza: il cambiamento dei ruoli, dei flussi e delle aree e sono previsti ulteriori Progetti Formativi di approfondimento. CONCLUSIONI L’efficacia del Piano di Intervento Psicologico presentato, già messo alla prova attraverso la simulazione svoltasi a Roma il 5 ottobre 2005, è stata sperimentata durante la Maxiemergenza scattata il 17 ottobre 2006 in occasione dello scontro delle due Metropolitane. In tale occasione infatti, oltre ad essere attivato il Piano stesso, sono diventati operativi i Protocolli di collaborazione descritti producendo una Rete di collaborazione che ha permesso di seguire le vittime ed i familiari in un percorso che si è snodato dal luogo dell’evento all’ospedale fino alla presa in carico successiva effet- D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza tuata a livello territoriale dall’Ordine degli Psicologi del Lazio. I Debriefing che si sono svolti successivamente, anche con l’ARES 118 e con il Coordinamento degli Psicologi, hanno evidenziato molti punti di forza e sicuramente alcune criticità da affrontare. Tutti noi siamo a conoscenza della non perfettibilità dei Piani di intervento soprattutto nei casi di Maxiemergenza ed è con questa consapevolezza che ci accingia- 61 mo ad apportare variazioni al Piano di Intervento Psicologico che permettano una ancor più efficace gestione delle problematiche psicologiche che fanno parte delle situazioni di emergenza. Si ringrazia per la collaborazione la D.ssa Claudia Pajewski, tirocinante psicologo presso l’A.O. San Camillo Forlanini, Servizio Prevenzione Protezione. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Abbrugiati C. et altri, “L'intervento psichiatrico e psicologico negli eventi catastrofici”, Protezione Civile Regione Piemonte, Torino, 2003; Bruce H. Young et altri L’Assistenza Psicologica nelle Emergenze, Erikson, 2002 “Criteri di Massima per l’Organizzazione dei Soccorsi Sanitari nelle Catastrofi”. (Decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale– serie generale – n. 81 del 6 aprile 2001) “Criteri di massima sugli Interventi Psicosociali da attuare nelle catastrofi”. Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Protezione Civile Direttiva del 13 giugno 2006 Ehrenreich John H., Copyng with Disaster, A Guidebook to Psychosocial Intervention, october 2001 ____ Per richiesta estratti: Dott.ssa Danila Pennacchi Via Luigi Biolchini 21, 00146 Roma Tel 065573815, cell. 3398686776 e-mail: [email protected] Guía de autoayuda tras los atentados del 11 de marzo 2004, Unidad de Psicología Clínica y de la Salud Facultad de Psicología Universidad Complutense de Madrid, Madrid, 2005 Gunnar J. Kuepper, CEO, Emergency and Disaster Management, Inc., Los Angeles, California The NFPA 1600 Standard on Emergency/Disaster Management: New Edition Expected in 2004, IAEM Bullettin, july 2003 Morra A., Odetto L., Bozza C., Bozzetto P., “Disaster Management”, Protezione Civile Regione Piemonte, Torino, giugno 2002 Report to the General Assembly, Task Force on Disaster and Crisis, European Federation of Psychologists Association (EFPA), Vienna, 2003 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Recensione PRONTUARIO DI PNEUMOLOGIA CLINICA Curato da Franco Salvati Primario Pneumologo emerito dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini di Roma e da Giovanni Schmid Direttore della II Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università La Sapienza di Roma e recentemente pubblicato grazie all’iniziativa editoriale della Società Editrice Universo (1ª edizione 2006, pagg. 257, p.n.i.) il “Prontuario di Pneumologia Clinica” si snoda – attraverso 45 capitoli – nel vasto e multidisciplinare campo della Specialità e senza peraltro trascurare gli aspetti più consolidati e classici della materia esso si richiama alle acquisizioni più recenti tenendo conto che negli ultimi anni lo spettro delle nostre conoscenze si è notevolmente dilatato e che sono stati chiariti molti meccanismi funzionali precedentemente ancora in ombra e che sono stati realizzati, sia nell’ambito diagnostico che in quello terapeutico, rilevanti progressi. Al riguardo vengono sottolineati dai due Coordinatori alcuni esempi: l’asma come “malattia infiammatoria”, il grande rilievo dell’abitudine al fumo nella patologia delle vie aeree (essendo ormai classificato il tabagismo come vera e propria malattia), l’impiego della TC spirale nell’i- dentificazione tempestivamente precoce dei noduli polmonari e la sua importanza nella diagnosi della embolia polmonare, la consacrazione della PET, specie se associata alla TC nell’ambito delle neoplasie polmonari, l’impiego del Quantiferon per la diagnosi dell’infezione tubercolare latente (LTI), le nuove sostanze, targeted drugs delle quali si è arricchito l’armamentario terapeutico del carcinoma broncogeno, i nuovi farmaci antiIge per il controllo dell’asma allergico, ecc. Opera di 29 Autori di provata, grande esperienza nel settore della patologia dell’apparato respiratorio il “Prontuario di Pneumologia Clinica” s’inserisce nella pubblicistica del settore toracico con le caratteristiche della utilità che deriva da uno strumento di rapida consultazione e di agevole aggiornamento, su alcuni dei più comuni quadri morbosi delle vie respiratorie e sui meccanismi etiopatogenetici e fisiopatologici che ne sono alla base, avvalendosi, oltre che di Autori che esplicano la loro attività nell’Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, anche della preziosa collaborazione di esperti di altre Istituzioni italiane. Elio Quarantotto ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006 Notiziario X CONGRESSO NAZIONALE FONICAP Si è tenuto a Roma il 6 e 7 dicembre 2006 il X Congresso Nazionale della Forza Operativa Nazionale Interdisciplinare contro il Cancro del Polmone (FONICAP), presieduto dal Prof. L. Portalone: i principali topic sono stati “La Diagnostica”, “L’Anziano e PS2”, “La Terapia degli stadi iniziali”, “Il Microcitoma”, “La Terapia delle forme avanzate NSCLC”, “Il Mesotelioma” ed “Il Paziente e la sua famiglia”. A latere del Congresso si è svolto nelle due giornate un Corso per Infermieri Professionali incentrato sulle cure, gli aspetti etici, il percorso assistenziale e psico-sociale, la gestione del paziente e gli strumenti operativi, il dolore oncologico, le cure palliative, ecc.. Ben 96 sono stati i relatori e moderatori: tra gli Oncologi O. Alabiso (Novara), M. Antimi (Roma), E. Baldini (Pisa), C. Barone (Roma), G. Cetto (Napoli), C. Boni (Reggio Emilia), G. Gasparini (Roma), C. Gridelli (Benevento), L. Repetto (Roma), A. Santo (Verona), C. Sternberg (Roma), V. Zagonel (Roma), ecc.; tra i Pneumo-oncologi S. Barbera (Cosenza), C. Crispino (Napoli), M. Donghi (Monza), L. Frigieri (Foligno), F. Grossi (Genova), V. Lorusso (Bari), M.R. Migliorino (Roma), V.G. Scagliotti (Torino); tra i Chirurghi Toracici M. Boaron (Bologna), P. Borasio (Torino), G. Cardillo (Roma), F. Coloni (Roma), G. Daddi (Roma), G. Ferrante (Napoli), M. Martelli (Roma), M. Mezzetti (Milano), A. Mussi (Pisa), M. Loizzi (Bari), U. Pastorino (Milano), F. Sartori (Padova), L. Spaggiari (Milano), ecc.; tra i Radioterapisti V. Donato (roma), G. Silvano (Taranto), L. Trodella (Roma), ecc. e numerosi altri cultori delle specialità connese con la patologia toracica. Le relazioni hanno suscitato grande interesse ed hanno stimolato approfondite discussioni da parte dei numerosi partecipanti alle varie Sessioni. In particolare l’ultima Sessione su “Il Paziente e la sua famiglia” Presidente F. Salvati e Chairman L. Onder si è svolta “aperta al pubblico” e l’importante tema (che ha avuto come “testimonial” l’attore e regista C. Verdone) rimarrà obiettivo principale della Forza Operativa per i prossimi anni e con esso la Prevenzione primaria del carcinoma broncogeno, in particolare a livello dei giovanissimi nell’ambito della popolazione scolastica soprattutto nei confronti del tabagismo ed in sempre più stretta collaborazione sia con la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori sia con le altre Società scientifiche pneumologiche. Nell’ambito del Congresso si sono svolte le elezioni per il rinnovo del Consiglio Direttivo Nazionale della FONICAP per il triennio 2007-2009 e che risulta così costituito: Presidente M. Mezzetti, Past Presidente L. Portalone, Vice Presidente S. Barbera, Segretario-Tesoriere G. Cardillo, Consiglieri O. Alabiso, M. Loizzi, G. Silvano, G. Sunseri, G. Genovese, L. Frigieri, P. Macrì, U. Morandi, A. Mussi. Presidenti onorari i Professori C. Ricci e F. Salvati, Soci fondatori della Forza Operativa. Gli “Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini” pubblicheranno, sotto forma di Focus, le principali relazioni tenute al Congresso. Roberto Canova