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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2006
Direttore
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Comitato di redazione
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Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Contenuto
EDITORIALI
Attualità nel trattamento del “naso torto”
ARMANDO BOCCIERI
5
New developments in the treatment of the crooked nose
La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
ILIO CAMMARELLA, LORETA DI MICHELE
Obstructive sleep apnea syndrome
ARTICOLI ORIGINALI
Reazioni cutanee a farmaci
ALESSIA BAGALINO, GIOVANNI CRUCIANI, STEFANO SARAZANI
Cutaneous drug reactions
8
12
Il trattamento delle ulcere trofiche con il gel piastrinico
ALESSANDRO DE ROSA, CARLO DE SANCTIS, PAOLO AURELI, CESIRA CASTELLANI,
CINZIA FERRO, ROSALIA FONTANA, SILVIANO GENTILI, STEFANO PASCUCCI, ROSA LEONE
The use of platelet gel to treat difficult-to-heal wounds
23
Monitoraggio continuo del glucosio tramite sensore sottocutaneo (CGMS):
possibile ruolo indipendente nel controllo metabolico del diabete di tipo 1
CLAUDIO TUBILI, LELIO MORVIDUCCI, FIORENZA ARGNANI, GIULIANA CARTA,
STEFANIA AGRIGENTO, ALDO CLEMENTI
Continuous glucose monitoring by subcutaneous sensor (CGMS):
possible indipendent role in metabolic control of type 1 diabetes patients
28
CASO CLINICO
Linfoadenite istiocitica necrotizzante di Kikuchi
GIORGETTA GENCARELLI, MARIO GIUSEPPE ALMA, FEDERICA ANTONELLI, ALFONSO MARIA ALTIERI
Kikuchi’s histiocytic necrotising limphoadenitis
34
RASSEGNE
Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi in ambito sanitario, con particolare
riguardo ai laboratori di analisi
FRANCESCO BELLI
Risk of blood-borne infections in health care workers and particularly in laboratory personnel
36
Reticulociti e sottopopolazioni reticulocitarie nella diagnostica ematologica
ARDUINO BARALDI
Reticulocytes and reticulocytes strains in haematological diagnosis
52
GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA
Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di maxiemergenza
DANILA PENNACCHI, ANNA VIOLA
Plan of psychological hospital intervention in major accidents and disaster
56
RECENSIONE
Prontuario di Pneumologia Clinica
ELIO QUARANTOTTO
62
NOTIZIARIO
X Congresso Nazionale FONICAP
ROBERTO CANOVA
63
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Editoriali
ATTUALITÀ NEL TRATTAMENTO DEL “NASO TORTO”
NEW DEVELOPMENTS IN THE TREATMENT OF THE CROOKED NOSE
ARMANDO BOCCIERI
U.O.C. di Chirurgia Maxillo-Facciale
Azienda Ospedaliera San Camillo – Forlanini, Roma
Parole chiave: Naso torto, Innesto che espande.
Key words: Crooked nose, Spreader graft.
Secondo un colorito modo di dire toscano definiamo comunemente con il termine
“naso torto” tutte quelle condizioni cliniche in cui la piramide nasale appare variamente deviata rispetto alla linea mediana1. La piramide nasale pertanto appare all’osservatore con un aspetto che vagamente può rassomigliare ad una “C”, ad
una “S” o essere in toto depiazzata da un
lato. Le conseguenze di questo stato per il
paziente sono altamente invalidanti sia
per i risvolti funzionali che per quelli estetici. Infatti coesistono sempre un alto grado di difficoltà alla respirazione per via
nasale e una rilevante deformità estetica
che, data la sede, non può in alcun modo
essere nascosta all’osservatore.
Questa patologia oggi è di frequente riscontro clinico in quanto spesso riconosce
una causa traumatica per incidenti stradali o per traumi sportivi. Se da questo
punto di vista “il naso torto” trova un rilevante interesse sociale, ancor più importante è la sua collocazione per l’impatto
psicologico che determina in chi ne è affetto. D’altra parte tutti sappiamo come
nel nostro mondo il viso sia al primo posto
nei rapporti sociali in quanto costituisce il
nostro primo biglietto da visita quando ci
presentiamo agli altri. Dare un immediato riscontro gradevole di noi stessi al nostro interlocutore costituisce un obiettivo
importante per tutti. Il naso, proprio per
la sua posizione al centro del viso, se deviato, costituisce un elemento sgradevole
che attira immediatamente l’attenzione
dell’osservatore. Da qui è facile spiegarsi
come chi è affetto da questo tipo di deformità possa essere vittima di notevoli complessi ed insicurezze.
Se da un punto di vista sociale ed etiopatogenetico appare chiaro come il “naso
torto” costituisca un problema attuale forse
non è altrettanto chiara e conosciuta la sua
problematica terapeutica che si identifica
sostanzialmente nel rischio di una recidiva2. In pratica un risultato che subito dopo
l’intervento chirurgico sembra brillante può
trasformarsi in un fallimento dopo qualche
mese per la ricomparsa della deviazione in
varia misura. La responsabilità di tutto ciò
appartiene alle strutture cartilaginee della
piramide nasale coinvolte nella deformità.
Queste strutture anatomiche infatti, proprio per la loro elasticità, conservano la
“memoria” della deviazione e, come una
molla, tendono a riprendere nel tempo la
condizione originaria3. Al contrario le strutture ossee della piramide nasale, anch’esse
interessate dalla deviazione, una volta riposizionate al centro rimangono stabilmente
fisse nella loro nuova posizione. Tutt’al più
può essere utile una doppia osteotomia laterale per consentire una loro maggiore mobilizzazione con scomparsa di ogni vizio
anatomico.
6
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
La difficoltà della soluzione del “naso
torto” appartiene tutta alla struttura cartilaginea ed in particolare al setto nasale
nella sua componente dorsale. Infatti, da
un punto di vista funzionale, il setto nasale deviato può essere in gran parte asportato ma è necessario in ogni caso lasciare
una struttura a forma di “L” in grado di sostenere tutta la piramide nasale. Nel “naso
torto” però è indispensabile modificare anche questa struttura altrimenti la deformità rimarrebbe comunque presente. Numerose tecniche descritte in letteratura si
avvalgono dell’impiego di sezioni, incisioni,
morsellizzazioni, allo scopo di modificare la
porzione cartilaginea del pilastro dorsale
del setto e raddrizzare il naso4,5. Purtroppo
queste metodiche spesso hanno dato degli
insuccessi sia per il persistere, come già
detto, della memoria della deviazione, sia
per l’eccessivo indebolimento del pilastro di
sostegno con conseguente crollo del dorso
nasale. Un altro tipo di tecnica in grado di
realizzare dei buoni risultati è quella che
impiega il “rimodellamento extracorporeo”
del setto nasale con il suo reinnestato nella
piramide nasale6. In pratica il setto nasale
viene completamente asportato, rimodellato e raddrizzato al di fuori del naso e, successivamente suturato nell’interno del naso. La metodica consente di orientare in
maniera diversa il setto nasale fissandone
in posizione dorsale una parte rimodellata
dritta. Il risvolto negativo è costituito dalla
difficoltà pratica di ottenere un perfetto allineamento dell’innesto con le strutture circostanti e dal pericolo della sua mobilità
nel tempo.
Un notevole impulso alla soluzione del
problema è stato dato dall’utilizzo degli
“spreader grafts” in questa patologia. La
tecnica, ideata da Sheen nel 1984, prevedeva il posizionamento ai lati del setto
dorsale di due strisce rettangolari di cartilagine prelevate dalla parte centrale del
setto7. Questa metodica aveva fondamentalmente l’utilità di rinforzare la volta nasale media nel corso di rinoplastiche a rischio e quindi prevenire il suo crollo dopo
l’intervento. Apparve subito evidente anche un’utilità funzionale dovuta all’aumento del flusso aereo inspiratorio per
l’ampliamento dell’angolo della valvola
nasale interna.
Successivamente la tecnica è stata usata anche per il trattamento del naso torto
fissando uno “spreader graft” dritto sul lato concavo della deviazione dorsale del
setto con funzione di guida e di sostegno.
L’innesto infatti, prelevato da una porzione centrale del setto dritta e suturato alla
sua porzione dorsale, esercita con la sua
forma un’azione di contrasto della memoria cartilaginea della deviazione. Importante è anche la sua azione di rinforzo sul
pilastro dorsale che consente di poter eseguire incisioni rimodellanti senza il pericolo di indebolimento della struttura. Molti chirurghi delle più accreditate Scuole di
chirurgia nasale di Europa e di America
hanno utilizzato negli ultimi anni con successo questa metodica risolvendo molti dei
problemi inerenti al trattamento del naso
torto8,9,10. Le stesse Scuole hanno adottato
nel protocollo chirurgico di questa patologia l’accesso “open” alla piramide nasale
che consente, mediante una piccola incisione columellare, una visione completa
delle strutture anatomiche ed una precisa
sutura degli innesti.
Su questo filone si inserisce la tecnica
da me ideata e che utilizza per il trattamento del naso torto un innesto denominato “septal crossbar graft” la cui traduzione alla lettera è “innesto a spranga del
setto”. In effetti questo innesto cartilagineo rettangolare, prelevato da una porzione dritta del setto , viene ad essere incastrato nel setto dorsale così come una
sbarra viene incastrata dietro una porta
per impedirne l’apertura dall’esterno.
L’effetto che si ottiene è di grande stabilità anatomica, di massimo contrasto della memoria cartilaginea nel tempo e si rivela di grande efficacia nei casi più gravi
di naso torto. In questi casi, infatti, un
unico spreader graft sul lato concavo potrebbe non essere sufficiente a raggiungere lo spessore necessario per correggere la
deformità. Il crossbar graft inoltre esercita una grande azione di apertura sulla
valvola nasale interna con un importante
effetto funzionale evidente sulla respirazione nasale. La valvola nasale interna è
la struttura anatomica nasale fisiologicamente più stretta al passaggio del flusso
aereo e, nel caso del naso torto, essa è particolarmente collassata dal lato concavo
A. Boccieri: Attualità nel trattamento del “naso torto”
7
della deviazione. Infine, e non in ultimo,
la tecnica possiede un grande effetto estetico ristabilendo simmetria ed armonia
anche nei casi più gravi di naso torto.
La tecnica è stata pubblicata nel 2003
sulla più prestigiosa rivista scientifica di
Chirurgia Plastica del mondo: Plastic and
Reconstructive Surgery, organo ufficiale
della Società Americana di Chirurgia Plastica e di Chirurgia Maxillo-Facciale11.
Successivamente nel corso del 2004 ha ottenuto il consenso di numerosi chirurghi
in tutto il mondo: infatti sono giunte le testimonianze e gli apprezzamenti di chi,
sia in Italia sia all’estero, l’ha utilizzata
con entusiasmo.
Ma il riconoscimento più grande è stato raggiunto nel 2004, anno in cui la tecnica è stata selezionata in U.S.A. per essere inserita nel “The Year Book of Plastic
Surgery 2004”. Ogni anno infatti il Comitato Editoriale di questo libro analizza e
valuta la produzione scientifica di tutto il
mondo su circa 500 riviste internazionali
e sceglie tra esse gli articoli di maggiore
interesse. “The septal crossbar graft for
the correction of the crooked nose” è stato
così inserito nel “libro dell’anno di chirurgia plastica del 2004” tra i 19 articoli di
maggiore rilevanza selezionati nel mondo
nel campo della chirurgia nasale.
Infine nel 2006, il Prof. Gubish di Stoccarda, massimo esponente internazionale
di questa patologia, mi ha invitato a scrivere un nuovo articolo sul crossbar graft
per una monografia sul “trattamento
avanzato ed onnicomprensivo del setto
nasale”. La monografia è stata pubblicata
su Facial Plastic Surgery, giornale ufficiale della European Academy of Facial Plastic Surgery, peraltro una fotografia intraoperatoria del crossbar ha avuto il privilegio di essere prescelta come sfondo per
la copertina, testimoniando l’attuale apprezzamento scientifico per la tecnica12.
Tutto ciò pur costituendo fonte di grande soddisfazione personale in quanto testimonia la validità scientifica della tecni-
ca da me ideata non costituisce un punto
di arrivo ma forse un importante punto di
transizione. Credo infatti che la chirurgia
del naso torto stia oggi passando da un
approccio piuttosto empirico, del passato,
ad un approccio più obiettivo e rigorosamente scientifico. Su questa strada probabilmente c’è ancora da lavorare tenendo
conto che non tutti i problemi di questa
patologia sono ancora completamente risolti e che la valutazione dei risultati va
fatta sempre con un grande spirito di autocritica.
BIBLIOGRAFIA
1. Micheli Pellegrini V. Il naso torto. Padova, La
Garangola, 1985.
2. Byrd HS, Salomon J, Flood J. Correction of the
crooked nose. Plast Reconstr Surg 1998; 102:
2148-57.
3. Courtiss EH. Septorhinoplasty of the traumatically deformed nose. Ann Plast Surg 1978; 1:
443-52.
4. Lawson W, Reind AJ. Correcting functional problems. Facial Plast Surg Clin North Am 1994; 2:
501-20.
5. Gomulinski L. La traduction morphologique des
deformations septales. Leur correction au cours
des rhinoplasties complexes. Ann Chir Plast
1982; 27: 343-49.
6. Gubisch W. The extracorporeal septum plasty: a
technique to correct difficult nasal deformities.
Plast Reconstr Surg 1995; 95: 672-82.
7. Sheen JH. Spreader graft: A method of reconstructing the roof of the middle nasal vault following rhinoplasty. Plast Reconstr Surg 1984;
73: 230-7.
8. Toriumi DM, Ries WR. Innovative surgical management of the crooked nose. Facial Plast Clin
North Am 1993; 1: 63-78.
9. Vinayak BC, Trenitè GJN. External rhinoplasty.
FACE 1997; 5: 77-92.
10. Rohrich R.J. Rhinoplasty. Dorsal reduction and
spreader graft. Dallas, Rhinoplasty Symposium
2000; (17)153-66.
11. Boccieri A, Pascali M. Septal crossbar graft for
the correction of the crooked nose. Plast Reconstr Surg 2003; 111: 629-38.
12. Boccieri A. Evolution of the septal crossbar technique. Facial Plast Surg 2006; 22: 255-65.
____
Per richiesta estratti:
Dr. Armando Boccieri - Dirigente U.O.C. Chirurgia Maxillo Facciale - Ospedale San Camillo
Via Tupini, 133 - 00144 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
LA SINDROME DELLE APNEE OSTRUTTIVE NEL SONNO
OBSTRUCTIVE SLEEP APNEA SYNDROME
ILIO CAMMARELLA*,**, LORETA DI MICHELE*
*Centro Universitario per lo studio delle Broncopneumopatie Emergenti
Ospedale Forlanini, Roma
**Dipartimento Cuore e Grossi Vasi “Attilio Reale”
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Parole chiave: Sonno, Apnea ostruttiva
Key words: Sleep, Obstructive apnea
La sindrome delle apnee ostruttive nel
sonno (Obstructive Sleep Apnea Syndrome-OSAS), secondo la definizione dell’Amercan Sleep Disorders Association, è
“una malattia caratterizzata sul piano
clinico dalla presenza di sonnolenza diurna e/o alterazioni delle prestazioni diurne
con russamento notturno e, sul piano fisiopatologico, da ripetuti episodi di ostruzione parziale o completa delle prime
vie aeree durante il sonno, associate a fasiche cadute dell’ossiemia con conseguenti desaturazioni in ossigeno dell’emoglobina arteriosa”.
Alla base della sindrome vi è un’alterazione della normale pervietà delle vie
aeree: queste fisiologicamente sono deputate, fra l’altro, alla funzione di umidificazione, riscaldamento, filtro dell’aria inspirata; pertanto, per aumentare la superficie di contatto con le mucose, le
pareti delle cavità nasali hanno la superficie ampliata dai turbinati. Durante l’inspirazione si crea una pressione negativa
endoluminale ma la muscolatura locale,
contraendosi ritmicamente, si oppone al
collabimento. Questo meccanismo è controllato da vari fattori fra cui stimoli
provenienti da chemocettori e da meccanocettori polmonari. Se vi è riduzione del-
lo spazio respiratorio, l’aumento della
pressione endoluminale, la riduzione del
volume corrente e le variazioni dei gas
respiratori causano per via riflessa un aumento dell’attività dei muscoli dilatatori
come tentativo di ripristinare la pervietà.
Questi meccanismi protettivi, già normalmente meno attivi durante il sonno, sono
ulteriormente indeboliti dall’assunzione
di alcool e sedativi. Durante il sonno anche nel soggetto normale si verifica un aumento delle resistenze delle prime vie
aeree, per riduzione del tono muscolare
sia generale che dei muscoli dilatatori dell’ipofaringe: se a questo si aggiungono altre cause di aumento di impedenza il maggior ostacolo che si instaura si traduce in
vibrazioni del palato molle e quindi in russamento. Quest’ultimo, spesso sottovalutato, solitamente precede di anni l’insorgenza delle apnee ostruttive nel sonno
(Obstructive Sleep Apnea – OSA). Infatti,
se il lume delle prime vie aeree si restringe ulteriormente, al russamento si
possono aggiungere dapprima gli episodi
ipopnoici ed in seguito le vere e proprie
apnee caratterizzate dall’arresto del flusso aereo: l’ipossia che si viene a determinare ed il conseguente stimolo simpatico si traducono in una riduzione della pro-
I. Cammarella et al. La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
fondità del sonno (microrisvegli non
avvertiti dal paziente), nuovo aumento del
tono dei muscoli dilatatori delle vie aeree
e ripresa della respirazione, con uno
schema che può ripetersi fasicamente durante tutto il sonno. Non sempre comunque il russamento è seguito da sviluppo di OSA.
Dalle apnee ostruttive vanno distinte
le apnee centrali, causate da momentanea
cessazione dello stimolo proveniente dai
centri del respiro diretto ai muscoli respiratori. Le apnee miste hanno meccanismi
fisiopatologici e caratteristiche comuni ad
entrambe.
L’eccesso ponderale per accumulo di
adipe anche intorno alle prime vie aeree è
la causa più frequente di OSA;
l’ostruzione può essere causata anche da
ipertrofia adeno-tonsillare, poliposi
nasale, deviazione del setto, ipertrofia dei
turbinati, macroglossia, dimorfismi
cranio-facciali, malocclusioni dentarie,
ipoplasia mandibolare.
Per stabilire la gravità della sindrome
è stato introdotto l’indice di apnea-ipopnea che si basa sul numero di eventi apnoici-ipopnoici per ora di sonno:
meno di 20: OSA di grado lieve
fra 20 e 30: OSA di grado moderato
fra 30 e 60: OSA di grado severo
più di 60: OSA di grado molto severo
Per quanto riguarda il grado di ostruzione,vi può essere:
- un’ostruzione completa:
a) apnea ostruttiva: arresto del flusso
per almeno 10 secondi e persistenza di
movimenti toracoaddominali nel tentativo
di vincere la resistenza e riprendere la
ventilazione
b) apnea centrale: arresto del flusso per
almeno 10 secondi senza movimenti toracoaddominali
c) apnea mista caratterizzata da assenza di flusso per almeno 10 secondi. Gli
episodi iniziano con le caratteristiche dell’apnea centrale e terminano come apnee
ostruttive.
- un’ostruzione parziale:
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a) ipopnea, caratterizzata da riduzione
del flusso aereo almeno del 50% ma con
persistenza dei movimenti toraco-addominali, con o senza desaturazione ossiemoglobinica
b) RERA (Respiratory Effort Related
Arousal): microrisvegli correlati agli sforzi
respiratori per presenza di limitazione di
flusso. Tali eventi, evidenziabili solo con
l’EEG, determinano frammentazione del
sonno e quindi sonnolenza diurna .
Sintomo principale è proprio la sonnolenza diurna, di entità tale che i pazienti si possono addormentare nelle situazioni più improbabili: durante il lavoro,
mentre mangiano o, molto più pericolosamente, mentre guidano. A questi sintomi
si associano russamento ed apnea: classica è la descrizione fatta da Broadbent e riportata da Lavie “Ci sarà un assoluto
silenzio per la durata di due, tre o quattro
atti respiratori, durante i quali ci saranno
movimenti inefficaci della parete toracica;
alla fine l’aria entra nei polmoni con un
forte rumore e successivamente si hanno
molte profonde inspirazioni compensatorie”. Questi ultimi due sintomi sono però
spesso riferiti solo dal compagno di letto e,
specialmente nei soggetti che vivono da
soli, possono sfuggire del tutto: rimangono
solo la sonnolenza diurna e, a volte, il
risveglio notturno accompagnato da sensazione di soffocamento.
L’ipossia e la frammentazione del sonno determinano inoltre una serie di conseguenze che possono essere così riassunte:
- ipertensione arteriosa, verosimilmente
per aumento del tono adrenergico
- policitemia
- cardiopatia ischemica
- aritmie di varia natura, difficilmente
controllabili
- cefalea mattutina per vasodilatazione
cerebrale
- incidenti cerebrovascolari
- alterazioni del comportamento, specialmente irritabilità, mancanza di concentrazione, depressione
- impotenza
- può essere presente inoltre ipertensione polmonare
Spesso le OSA si trovano associate alle
10
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
broncopneumopatie croniche ostruttive
(Overlap Syndrome): sono entrambe presenti con ampia prevalenza nella popolazione ma a tuttora non è stato ancora
chiarito se la combinazione sia solo casuale o se esistano fattori che favoriscano
l’insorgenza di entrambe le patologie: in
ogni caso l’ipossia notturna delle OSA
potrà essere più marcata in pazienti con
overlap syndrome e quindi potranno essere più marcate tutte le complicazioni
connesse con l’ipossia, in primis le turbe
del ritmo cardiaco e l’ipertensione polmonare che avrà un’evoluzione più rapida.
L’obesità associata ad OSA è stata classicamente chiamata “sindrome di Pickwick” perché Joe, “il ragazzotto grosso e
rosso… che dormiva sempre… che dormiva in piedi… si appisolava nella cassetta
delle carrozze… dormiva mentre mangiava a tavola” è stato così vivacemente e
magistralmente descritto da Dickens nel
suo The Posthumous Papers of the Pickwick Club da far pensare che si ispirasse
ad un personaggio reale.
Le linee guida dell’Associazione Italiana Medicina del Sonno indicano come
suggestivi per OSAS:
• Russamento notturno abituale con
pause respiratorie da alcuni mesi (sintomi riferiti dal compagno di letto)
• Sensazione di soffocamento al risveglio
• Sonnolenza diurna
Inoltre:
• Indice di massa corporea ≥ 29
• Circonferenza del collo ≥ 43 cm nell’uomo e ≥ 41 cm nella donna
• Dismorfismi cranio-facciali e anomalie
oro-faringee che possono determinare
una diminuzione del calibro delle vie
aeree.
Alterazioni delle prime vie aeree come
ipertrofia adenotonsillare etc. vanno particolarmente sospettate in pazienti molto
giovani che manifestino una continua sonnolenza senza causa apparente.
Altra situazione da non sottovalutare,
come già detto precedentemente, è l’abuso
di alcoolici che, oltre a contribuire all’incremento ponderale, determina un rilasciamento profondo dei muscoli dilatatori
delle prime vie favorendone il collasso
notturno.
I pazienti con OSA e broncopneumopatia cronica ostruttiva hanno frequentemente anche reflusso gastro-esofageo ma
anche in questo caso non è ancora ben
chiaro se sia una semplice associazione o
se vi siano meccanismi attraverso i quali
il reflusso possa determinare un aggravamento delle manifestazioni respiratorie .
In considerazione dell’importanza della
sonnolenza fra le manifestazioni delle
OSAS, sono stati introdotti nella pratica
clinica numerosi questionari tra i quali ricordiamo l’Epsworth Sleepness Scale .
Nel sospetto di OSA il paziente deve essere inviato in un centro specializzato per
essere valutato con un approccio multidisciplinare, con coinvolgimento, a secondo
dei casi, dello pneumologo, dell’otorinolaringoiatra, del cardiologo, dell’endocrinologo, del nutrizionista, dello psicologo, dell’otorinolaringoiatra. Se necessario il paziente, utilizzando un sistema
portatile, sarà sottoposto ad un monitoraggio notturno cardio respiratorio ridotto
(flusso aereo nasale, frequenza cardiaca,
ossimmetria, posizione corporea) o completo (si registreranno anche movimenti
toraco addominali e rumori respiratori).
In casi selezionati il paziente dovrà essere studiato in laboratorio del sonno,
dove sarà possibile effettuare la polisonnografia, l’unico esame in grado di effettuare la stadiazione del sonno con
l’EEG. Lo studio è limitato ai casi dubbi
quando il monitoraggio ha dato esito
negativo.
La terapia deve in primis rimuovere le
cause: riduzione del peso corporeo, correzione di malformazioni delle prime vie
aeree, abolizione di alcoolici, di sedativi e
di sonniferi. Nella maggior parte dei casi
però si dovrà ricorrere durante le ore notturne alla cPAP (continuous Positive Airway Pressare) per via nasale con lo scopo
di mantenere pervie le vie aeree: spesso
già dalle prime applicazioni si assiste al
drammatico miglioramento dei sintomi.
Per finire un’osservazione: la prevalenza stimata delle OSAS nella popolazione è
di 2-4% quindi numericamente molto rile-
I. Cammarella et al. La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno
vante però secondo alcuni Autori questa
percentuale, già molto elevata, sarebbe
sottostimata. Se si considera inoltre che il
numero di soggetti con eccesso ponderale
sembra aumentare continuamente spe-
11
cialmente tra i giovani, è verosimile aspettarsi in un prossimo futuro una attenzione crescente per le apnee ostruttive da
parte della classe medica e della Sanità
tutta.
BIBLIOGRAFIA
American Thoracic Society: Sleep apnea, sleepness
and driving risk. Am J Respir Crit Care Med
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___
Per richiesta estratti:
Prof. Ilio Cammarella, Via Gomenizza, 40 -00195 ROMA , Tel. 06 37352670
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Articoli originali
REAZIONI CUTANEE A FARMACI
CUTANEOUS DRUG REACTIONS
ALESSIA BAGALINO1, GIOVANNI CRUCIANI2, STEFANO SARAZANI3
Ambulatorio di Allergologia Clinica 4a U.O.C. di Medicina Interna
U.O.D. di Dermatologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma
3
Ambulatorio di Dermatologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma
1
2
Riassunto. Le reazioni avverse a farmaci rappresentano uno degli eventi che possono verificarsi nella vita di ognuno di noi e che possono essere fonte di grande preoccupazione sia per il medico che per il paziente.
Per un medico clinico, differenziare gli effetti secondari o collaterali dalle reazioni allergiche vere e proprie, non risulta sempre facile, per cui spesso vengono attribuite all’allergia responsabilità riferibili alla tossicità da sovradosaggio, all’interazione tra farmaci ed alla sommazione di effetti polifarmacologici.
Fortunatamente le reazioni allergiche o da ipersensibilità sono poco frequenti (5-10% di tutte le
reazioni avverse), pur rappresentando il rischio clinico maggiore perchè in alcuni casi fatali.
Per i meccanismi fisiopatologici implicati, la cute rappresenta spesso l’organo bersaglio di tali
reazioni. La difficoltà nella raccolta anamnestica, nel riconoscimento dei quadri cutanei e delle
possibili correlazioni con i quadri immunopatologici più comuni, rendono indispensabile la divulgazione di informazioni più dettagliate e di linee di condotta pratiche supportate dal parere polispecialistico allergo-dermatologico, per evitare la sospensione spesso ingiustificata di terapie efficaci e a volte meno costose e per dissolvere allarmismi ed immobilismi diagnostici e terapeutici senza alcun razionale.
Parole chiave: Reazioni avverse a farmaci, Reazioni cutanee a farmaci, Ipersensibilità a farmaci, Allergia a farmaci.
Summary. Adverse reactions to medications represent one of the events that’s can occur in anyone’s life and that can become a serious problem for both the doctor and the patient.
For a clinical physician it is not always easy to differentiate the secondary or collateral effects
from the actual allergic reactions and this is why allergy is often considered the cause of symptoms which should instead be connected to the toxicity incurred by the over dosage of medication,
the interaction of different medications or the sum of different pharmacologic effects.
Although allergic or hypersensitivity reaction are not frequent (5-10% of all the adverse reaction),
they represent the highest clinical risk as they can be in some cases lethal.
For involved physiopathological mechanisms, the skin represents the main target organ of such
reaction. The difficulty experienced in compiling the patient’s medical history, in recognizing the
skin aspects and the possible relations with the immune-pathological aspects make important to
broadcast detailed information and guidelines supported by the allergist-dermatologist’s specialized advice, to avoid an unjustified interruption of effective and often inexpensive therapies and
to avoid any irrational diagnostic and therapeutic anxiety and lack of action.
Key words: Drug adverse reactions, Cutaneous drug reactions, Drug hypersensitivity, Drug
allergy.
13
A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci
INTRODUZIONE
Fino a poco più di 15 anni fa il termine
di allergia a farmaci (drug allergy) era
praticamente l’unico utilizzato in clinica e
comprendeva abbastanza genericamente
tutti gli effetti collaterali imprevisti o
inattesi (ma spesso anche quelli prevedibili) dei medicinali.
La definizione usata in tal senso era
completamente priva di razionale poiché
non teneva assolutamente conto dei meccanismi patogenetici sottostanti.
Per tale motivo attualmente si utilizza
il termine più corretto di reazione avversa
a farmaci o DAR (drugs adverse reaction)
con il quale si intende “qualsiasi risposta
indesiderata ed involontaria che si verifica in seguito alla somministrazione, per
motivi diagnostici, terapeutici o preventivi, di un farmaco, per altro appropriato allo scopo desiderato”.
Si riserva quindi l’ulteriore specificazione di allergia a quelle reazioni per cui
sia dimostrato inequivocabilmente il meccanismo patogenetico immunologico1.
La difficile distinzione tra sintomi dovuti alla malattia e sintomi dovuti all’assunzione del farmaco, le difficoltà nello
stabilire un preciso rapporto causa/effetto
e la sempre più frequente prescrizione polifarmacologica o autoprescrizione, rappresentano alcune cause di difficile rilevamento epidemiologico.
Nonostante ciò il 25% circa di tutte le
reazioni avverse a farmaci riportate in
Italia è costituito da reazioni cutanee2 o
CDR (cutaneous drug reaction).
FATTORI DI RISCHIO
Nonostante non sia possibile in termini
assoluti, prevedere l’evenienza di una reazione avversa a farmaci, sono stati identificati alcuni fattori di rischio:
a) dipendenti dal trattamento:
- natura del farmaco (ad es. molecole
con grossa complessità strutturale ed
elevato peso molecolare)
- sensibilizzazione crociata
- vie di somministrazione
- grado di esposizione
b) dipendenti dal soggetto trattato:
- età tra i 20 ed i 50 anni
- sesso femminile
- fattori genetici (atopia e lupus-like
sindrome negli acetilatori lenti)
- reazioni avverse precedenti
- infezione da HIV
- persistenza di risposta immune ai farmaci
- infezioni virali concomitanti
- asma
- uso di ß-bloccanti
- LES3,4.
FATTORI DI RISCHIO
IN ETÀ PEDIATRICA
Particolari condizioni aggiunte possono
ulteriormente differenziare i bambini dagli adulti e sono di seguito elencate:
- bambini plurioperati per spina bifida
o alterazioni urogenitali (reazioni avverse a lattice, ossido di etilene, antibiotici beta-lattamici)
- bambini con un genitore allergico ad
antibiotici beta-lattamici (reazioni avverse ad antibiotici beta-lattamici)
- bambini affetti da mucoviscidosi (antibiotici beta-lattamici)5.
CLASSIFICAZIONE DELLE DAR
Le reazioni avverse e di conseguenza
anche quelle cutanee, si dividono in immunologiche e non immunologiche, prevedibili ed imprevedibili.
La maggior parte di esse (75-80%) è costituito da reazioni non immunologiche
prevedibili.
Per le reazioni imprevedibili, la scarsa
conoscenza dei meccanismi patogenetici
con conseguente scarsità di test affidabili
e l’assenza di criteri diagnostici, rendono
difficili gli studi epidemiologici.
Per tali motivi l’incidenza di queste ultime è riportata come variabile dal 2 al 30%.
14
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
Tabella 1. Classificazione delle DAR.
R. PREVEDIBILI
-
sovradosaggio
effetti collaterali
effetti secondari
interazioni farmacologiche
Le prime hanno come caratteristiche
comuni quelle di essere direttamente correlate all’azione del farmaco, di essere
dose-dipendenti, di potersi verificare teoricamente in qualsiasi soggetto e di non
richiedere alcun meccanismo di sensibilizzazione precedente.
Le seconde hanno come caratteristiche
comuni quelle di essere indipendenti dall’azione farmacologica o recettoriale della
sostanza, di essere solitamente dose dipendenti, di verificarsi solo in soggetti
predisposti e di riconoscere per la maggior
parte un meccanismo immunologico6-9.
R. IMPREVEDIBILI
-
intolleranza (abnorme sensibilità)
idiosincrasia (carenze enzimatiche)
reazioni allergiche/immunologiche
reazioni pseudoallergiche (PAR)
Si deve comunque sottolineare che
nel 2001 l’Accademia Europea di Allergologia ed Immunologia Clinica ha
pubblicato una revisione di tutta la nomenclatura inserendo in questo contesto il termine di “drug hypersensitivity” per intendere tutte le reazioni avverse da farmaci comprendendo a sua
volta “l’ipersensibilità non allergica”
quando il meccanismo non è immunologicamente mediato e “l’allergia a farmaci” se è implicato un meccanismo patogenetico immunologicamente mediato 10 (tabella 2).
Tabella 2. Classificazione secondo Gell e Coombs delle Cutaneous Drug Reaction16.
Tipo di reazione
Meccanismo
Tipo I
(IgE-mediate)
Complessi farmaco-IgE
che provocano la degranulazione dei mastociti
ed il rilascio di mediatori infiammatori
Orticaria,
angioedema,
broncospasmo,
vomito, diarrea,
anfilassi
Da minuti ad ore dopo
l’esposizione al farmaco
Tipo II
(citotossiche)
Anticorpi specifici
di tipo IgG e IgM diretti
contro farmaci-apteni
coated cells
Anemia emolitica,
neutropenia,
trombocitemia
variabile
Tipo III
(da immunocomplessi)
Deposizione tissutale
di complessi farmaco anticorpo con attivazione
del complemento
ed infiammazione
Malattia da siero,
febbre, rash, artralgie,
linfoad., orticaria,
glomerulonefriti,
vasculiti
Da 1 a 3 settimane dopo
l’esposizione al farmaco
Dermatite allergica
da contatto,
rash maculo-papuloso
Da 2 a 7 giorni dopo
l’esposizione cutanea
al farmaco
Tipo IV
Presentazione
MHC(ritardate, cellulo-mediate) farmaco ai linfociti T
con rilascio di citochine
e mediatori
dell’infiammazione
Manifestazioni cliniche Tempi di reazione
15
A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci
Come mostrato in tabella risulta difficile risalire dalla manifestazione clinica al meccanismo patogenetico implicato, mentre di maggior aiuto appaiono i
tempi di reazione o il tempo che intercorre tra l’assunzione del farmaco sospetto alla comparsa della manifestazione clinica.
In questa trattazione cercheremo di fondere gli aspetti immuno-allergologici con
quelli più strettamente dermatologici per
fornire al medico di reparto e di Medicina
Generale alcuni strumenti di orientamento.
REAZIONI PSEUDOALLERGICHE (PAR)
Sono reazioni che mimano i sintomi ed
i segni delle forme a patogenesi immunologica ma che non necessitano di una prima fase di sensibilizzazione e che si verificano per un evento iniziale scatenante
sempre non immunologico quale:
- azione degranulante diretta su mastociti e basofili
- attivazione della via alterna del complemento con liberazione di anafilotossine
- squilibrio del sistema ciclossigenasi /
lipossigenasi a favore dei leucotrieni
flogogeni
- sostanze contenenti istamina o precursori.
I farmaci solitamente coinvolti in questo tipo di reazioni sono l’acido acetilsalicilico e gli altri FANS, gli ACE-inibitori,
gli oppiacei, i mezzi di contrasto iodati, alcuni antibiotici (vancomicina, ciprofloxacina), alcuni miorilassanti.
Non essendo coinvolto un meccanismo
di tipo allergico (per il quale è necessaria
una prima fase di sensibilizzazione alla
quale segue una reazione dopo riesposizione) si può avere una manifestazione clinica già alla prima esposizione6-11.
identificare il medicinale responsabile o l’esatto meccanismo patogenetico coinvolto
sull’unica base dell’obiettività cutanea.
Quella proposta è forse la classificazione
più imperfetta sotto il profilo eziopatogenetico, ma senz’altro la più utile per il medico,
che si trova a dover inquadrare profili
morfologici, anche complessi, di malattia.12,13
L’elenco in ordine decrescente di frequenza è il seguente:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Eruzioni esantematiche
46%
Orticaria-angioedema
23%
Dermatiti da contatto
10-12%
Eruzioni fisse
10%
Eritema multiforme minor e maior 5%
Dermatite esfoliativa
4%
Fotosensibilità
3%
1.
Eruzioni esantematiche (fig.1)
- insorgono dopo 2-3 settimane dall’assunzione del farmaco
- sono lesioni scarlattiniformi, rubeoliche o morbilliformi
- le mucose e le zone palmo-plantari so-
MANIFESTAZIONI CLINICHE
Le DAR si manifestano con un quadro di
reazioni morfologiche cutanee abbastanza
limitato in risposta ad una grande varietà
di stimoli, per cui è spesso impossibile
Figura 1.
16
-
-
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
no rispettate ed il volto è di solito poco coinvolto
l’eruzione è simmetrica
le localizzazioni preferenziali nei pazienti deambulanti sono gli arti inferiori, nei pazienti allettati le zone di
decubito o di pressione
se la somministrazione del farmaco
persiste si può sviluppare una dermatite esfoliativa
la risoluzione avviene con desquamazione e pigmentazione postinfiammatoria residua
Una forma particolare è la DRESS
(Drug Rush with Eosinophilia and Systemic Symptoms) caratterizzata da rash
maculo-papuloso diffuso, febbre, coinvolgimento multiviscerale, eosinofilia, linfocitosi atipica e anomalie degli indici di
funzionalità epatica, che può insorgere
1-8 settimane dopo l’assunzione del farmaco (soprattutto allopurinolo, anticonvulsivanti e sulfamidici) ed è gravata da
una mortalità pari all’8%.14
2.
Orticaria-angioedema (fig.2 e 3)
- insorge dopo 36 ore dalla prima assunzione del farmaco o anche dopo alcuni minuti in caso di riassunzione
- l’angioedema è molto meno frequente
- le manifestazioni sono eritematopomfoidi polidistrettuali a volte figurate, pruriginose, fugaci
- regrediscono entro un giorno
- la risoluzione si ha con restitutio ad
integrum.
3.
Dermatite da contatto (fig.4)
- insorge dopo 24-48 ore
- è localizzata nelle aree di contatto con
diffusione secondaria ed è quindi
asimmetrica
- le manifestazioni sono di tipo eritemato-papulo-vescicoloso nella fase
acuta, di tipo ipercheratosico lichenificato nella fase cronica
- la diagnosi differenziale va posta con la
dermatite irritativa (a più rapida insorgenza, simmetrica e con bordi più netti).
4.
Eritema fisso (fig.5)
- insorge dopo 1-2 settimane dalla pri-
Figura 2.
Figura 3.
Figura 4.
17
A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci
Figura 5.
Figura 6.
Figura 7.
-
-
ma assunzione del farmaco o dopo ore
nei casi di pazienti già sensibilizzati
ha la tendenza a comparire sempre
nella stessa sede
con le assunzioni successive aumentano le aree colpite
le zone più colpite sono gli arti ed i genitali
le manifestazioni sono rappresentate
da placche eritemato-edematose ben
delimitate, rotondeggianti, della
grandezza massima di pochi centimetri e di colorito brunastro o violaceo
la risoluzione comporta una lieve desquamazione e pigmentazione residua.
5a. Eritema multiforme minor (fig.6)
- può essere causato da farmaci o da
agenti infettivi
- la lesione tipica è “a bersaglio” con
area centrale vescicolare, con alone
pallido-cianotico intorno e banda eritematosa esterna
- è possibile un coinvolgimento delle
labbra, mentre il dorso delle mani è
quasi sempre interessato
- le lesioni sono simmetriche.
5b. Eritema multiforme major o Sindrome
di Stevens-Johnson (fig.7)
- compare dopo 6-7 giorni dall’assun-
18
-
-
-
6.
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
zione del farmaco, spesso sulfamidici
si manifesta con lesioni eritematose
confluenti sul tronco, lesioni bollose
che non superano il 10% della superficie corporea
le mucose sono sempre interessate
con lesioni emorragico-erosive sulla
superficie di almeno una di esse
possibile evoluzione verso la Sindrome di Lyell o necrolisi epidermica
tossica (TEN) (fig.8) che è caratterizzata da aree eritematose confluenti
associate a bolle flaccide con successivo distacco epidermico nel più del
20% della superficie cutanea
le mucose sono sempre coinvolte
possono insorgere complicanze oculari
si associano alterazione della termoregolazione, del bilancio idro-elettrolitico, febbre e compromissione dello
stato generale
è mortale nel 20-40% dei casi
la riepitelizzazione, nei casi di guarigione, avviene in 3-4 settimane.
Dermatite esfoliativa (fig.9)
- insorge dopo alcune settimane dall’assunzione del farmaco
- si manifesta con lesioni eritemato-desquamative diffuse su tutta la superficie del corpo
- è presente una linfoadenopatia /linfadenite
- è caratterizzata da prurito intenso e
dolore
- si associa ad una perdita di proteine
sieriche, alterazione del bilancio
idroelettrolitico e della termoregolazione
- frequenti sono le sovrainfezioni.
7a. Fotosensibilità: reazioni fototossiche
(fig.10)
- sono più frequenti delle reazioni fotoallergiche
- possono insorgere in tutte le persone
dopo applicazione o assunzione del
farmaco seguita dall’esposizione alla
luce solare
- insorge dopo 5-20 ore dalla prima
esposizione alla luce
- le manifestazioni sono caratterizzate
Figura 8.
Figura 9.
Figura 10.
Figura 11.
19
A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci
da eritema, edema, vescicolo-bolle
- lasciano una iperpigmentazione residua.
7b. Fotosensibilità: reazioni fotoallergiche
(fig.11)
- è presente una fase di latenza in cui
avviene la sensibilizzazione
- insorgono dopo 24-48 ore dalla riesposizione al farmaco ed alla luce solare
- non sono dose dipendenti
- le manifestazioni cutanee sono polimorfe papulose o lichenoidi
- tendono alla cronicizzazione in caso di
terapie protratte
- sono più frequenti dopo applicazione
di antistaminici locali, filtri solari che
contengono PABA (acido 4-amminobenzoico) e fragranze oppure dopo assunzione di fenotiazine, sulfamidici,
sulfaniluree e diuretici tiazidici.
DIAGNOSI
Nella trattazione di questo capitolo ci
sembra prioritario esordire con alcune
certezze: “le pratiche da evitare”.
Sono assolutamente da evitare poiché
forniscono una previsione assolutamente
inattendibile e soprattutto espongono il
paziente a rischio di reazioni gravi, potenzialmente letali:
- la valutazione preventiva mediante
prove in vivo utilizzando il farmaco nella
sua forma commerciale (POMFO DI PROVA)
- le prove in vivo in pazienti con pregresse reazioni sistemiche gravi
- le prove in vivo in pazienti a rischio, quali quelli affetti da cardiopatie, insufficienza renale od epatica, diabete mellito.
La diagnosi di CDR dipende dalla coesistenza di più fattori, quali la valutazione dei fattori di rischio, l’identificazione
dei sintomi, una dettagliata registrazione
dei farmaci assunti nell’ultimo mese (inclusa data di assunzione e dosaggio), presenza di relazione temporale compatibile
tra assunzione del medicamento e comparsa dei sintomi, manifestazioni cliniche
o segni suggestivi all’esame obiettivo, esami di laboratorio15.
Qualora si ritenga di essere di fronte
ad una CDR di sospetta natura immuno-
logica, si potrà fare ricorso ai test come indicato nella tabella 316.
Tabella 3. Test proposti nelle CDR
di sospetta natura allergica.
Reazione immune
Test di laboratorio
Tipo I (IgE-mediata) Skin test (prick ed
intradermoreazione)
ImmunoCAP, RAST
Triptasi sierica
Test di tolleranza
Tipo II (citotossica)
Test di Coombs diretto
o indiretto
Tipo III
VES
(da immunocomplessi)PCR
Immunocomplessi
circolanti
Studio del complemento
Anticorpi antinucleo
Biopsia tissutale
per studio
di immuno fluorescenza
diretta
Tipo IV (ritardata
o cellulo-mediata)
Patch test e
foto-patch test
Degranulazione
dei basofili
Test di tolleranza
L’Immuno-CAP (immunodosaggio a
sandwich ad elevata velocità, precisione e
riproducibilità, con superiore sensibilità e
specificità nel dosaggio delle IgE specifiche
rispetto ai test di precedente generazione,
in cui il cuore del sistema è la fase solida Immuno-CAP - che consiste in un derivato
di cellulosa contenuto in una capsula), il
RAST (dosaggio delle IgE specifiche nel siero con test radioimmunologico) e gli skin test (prick ed intradermoreazione) funzionano ovviamente solo per farmaci che si comportano da antigeni completi ed evocano risposte di tipo IgE-mediate, come ad esempio: miorilassanti, determinanti minori e
maggiori della penicillina, cefalosporine, cotrimossazolo, insulina, ecc17,18.
20
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
I patch-test ed i foto - patch-test (test
che pone il farmaco a contatto con la cute
in maniera occlusiva con cerotto ed in caso dei foto-patch prevede una fase, successiva al contatto, di esposizione ai raggi
UV) prevedono una lettura a distanza di
48-72 ore al fine di evidenziare una allergia cellulo-mediata ed hanno assunto
grande rilievo nella diagnostica dell’allergia agli antibiotici.19,20
Il test di tolleranza va eseguito sempre
con prudenza e sotto controllo dello specialista allergologo e in ambiente protetto,
con farmaci alternativi (stessa attività
farmacologica ma diversa struttura chimica), diversi da quelli che hanno dato
problemi a dosi crescenti fino al raggiungimento della dose terapeutica, che qualora tollerata potrà essere utilizzata.
Tale test è vietato per mezzi di contrasto iodati ed è invece possibile per analgesici oppioidi, anestetici generali e locali,
antibiotici, a patto che si proceda alla
somministrazione terapeutica subito dopo
il completamento del test. La tolleranza
indotta è di breve durata21.
Infine è da sottolineare l’esistenza del
test di provocazione (utilizzato anche in
caso di reazioni pseudoallergiche) che,
sebbene eticamente poco proponibile, rappresenta al momento attuale il metodo
più idoneo per dimostrare la sicura relazione causa-effetto e prevede, da parte
dello specialista allergologo ed in ambiente ospedaliero con pronta disponibilità
delle misure di emergenza, la somministrazione del farmaco sospetto, iniziando
da un millesimo o un centesimo della dose
terapeutica e procedendo a incrementi
progressivi del dosaggio fino all’insorgenza della reazione o al raggiungimento del
dosaggio terapeutico.
Risulta gravato però da due inconvenienti di cui uno dei quali assolutamente
non trascurabile, quali quello di non dare
alcuna informazione sulla patogenesi della
reazione avendo solo valore eziologico e in
caso di reazione positiva, di provocare anche reazioni gravi potenzialmente fatali.
Va effettuato pertanto solo in caso di
anamnesi dubbia, solo quando il farmaco
sia assolutamente indispensabile ed in alcun modo sostituibile e gli altri test dia-
gnostici siano insufficienti a fare diagnosi.
È controindicato nel caso in cui il farmaco sia stato coinvolto in gravi reazioni
anafilattiche sistemiche o bolloso-desquamative22.
TERAPIA
Il primo provvedimento da attuare consiste nell’immediata sospensione dei possibili farmaci in causa e, nei casi di fotodermatite, anche dell’esposizione alla luce.
Nelle forme lievi/moderate di CDR, inclusa l’orticaria acuta, è sufficiente l’impiego di antistaminici per via sistemica e
di cortisonici per uso topico.
Nella sindrome orticaria/angioedema si
utilizzano preferenzialmente antistaminici anti-H1 per via sistemica associati a
steroidi per via sistemica. Nelle forme di
orticaria angioedema ingravescente è necessario ricorrere a farmaci vasoattivi,
quali l’adrenalina (0.3-0.5 ml s.c. da ripetere se necessario ogni 10-20 minuti per
due o tre volte) e la dopamina (10-30
mcg/Kg/min. e.v.) associati a cortisonici
(metilprednisolone 500-1000 mg e.v.) e ad
antistaminici per via sistemica (sia antiH1 che anti-H2). In caso di broncospasmo
vi è indicazione all’ossigeno-terapia ed alla somministrazione per via endovenosa
di isoproterenolo ed aminofillina. Infine
qualora si verifichi edema della glottide
occorre l’immediato ricorso all’intubazione tracheale o alla tracheotomia.
Le eruzioni esantematiformi e la dermatite esfoliativa prevedono il trattamento con prednisone per os a dosaggi iniziali
di 25-50 mg/die e successivo graduale decremento.
Nella Sindrome di Stevens-Johnson si
utilizzano dosaggi di prednisone più elevati (1 mg/kg/die) allo scopo di impedire
l’evoluzione verso una TEN.
Per la terapia della Sindrome di Lyell
la gravità e complessità del quadro cutaneo e sistemico rendono indispensabile un
approccio multidisciplinare analogo a
quello richiesto per il trattamento del
“grande ustionato” prevedendo infusioni
glico-saline, alimentazione enterale attraverso sonda naso-gastrica, temperatura
21
A. Bagalino et al.: Reazioni cutanee a farmaci
ambiente costante e controllata (30-32°C),
medicazioni locali con antisettici per uso
topico (argento nitrato allo 0.5%, clorexidina gluconato 0.05%), rimozione chirurgica delle escare. L’uso degli steroidi per
tale sindrome rimane controverso in
quanto per alcuni autori favorirebbe le infezioni e rallenterebbe la guarigione, per
altri potrebbe offrire dei vantaggi solo ad
alte dosi ed in associazione con immunoglobuline13.
Nell’ipotesi patogenetica di una reazione
mediata da linfociti “aggressivi” sensibilizzati contro le cellule dell’epidermide è stato
impiegato di recente in due pazienti, l’etarnecept (inibitore dell’attività del TNF-alfa)
25 mg, per due volte in una settimana, con
netto miglioramento del quadro clinico, sino
a quel momento estremamente critico
(esperienza del dott. Di Donna IDI-Roma), e
in 126 pazienti affetti da reazioni cutanee a
farmaci quali eruzioni maculopapulari, eritema multiforme, sindrome di StevensJohnson e necrolisi epidermica tossica, dimostrando un significativo decremento delle citochine proinfiammatorie dopo il trattamento pur non raggiungendo i valori dei
soggetti di controllo23.
CONCLUSIONI
Tenuto conto della complessità dei quadri clinici spesso multiformi, dei limiti
diagnostici ed in parte terapeutici e della
estrema gravità di alcune forme cutaneo/sistemiche sopramenzionate, alcune
delle quali gravate da un alto indice di
mortalità, ci sembra ancora più opportuno
ribadire alcune semplici raccomandazioni
di “good clinical practice” rivolte sia al cittadino che al medico curante:
1. evitare l’assunzione di farmaci non
prescritti dal medico curante
2. limitare l’uso contemporaneo di più
medicamenti
3. annotare sempre il farmaco che ha
provocato la reazione ed i tempi intercorsi tra l’assunzione e la comparsa
della manifestazione cutanea
4. ricordare i fattori di rischio del paziente
5. nei pazienti a rischio ridurre l’uso di
FANS utilizzando al bisogno quelli con
indice di tolleranza migliore (paracetamolo, nimesulide, etc.)
6. rilasciare al paziente un certificato in
cui vengano elencati i farmaci da evitare ed un elenco, ove possibile, di farmaci alternativi già testati
7. indicare in maniera semplice e chiara i
provvedimenti da adottare in caso di
una nuova reazione avversa al farmaco
8. iniziare con dosaggi sub-terapeutici
più dilazionati nel tempo
9. consultare uno specialista allergologo
prima della somministrazione di mezzi di contrasto o farmaci non sostituibili o non testabili per la messa in atto
di schemi di premedicazione con antistaminici e cortisonici
10. spiegare sempre al paziente che l’applicazione scrupolosa dei criteri e l’esecuzione dei test sopraelencati pur riducendone l’incidenza non è in grado
di escludere una futura reazione avversa a farmaci.
Nell’auspicio di aver percorso qualche
passo in avanti e di essere in procinto di
percorrerne degli altri nel cammino verso
l’uso veramente sicuro dei farmaci sono
da citare le parole di Omero che ricorda
“…..la terra datrice di biade produce moltissimi farmaci, molti buoni, e misti coi
quali molti mortali.” (Odissea, trad. R.
Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1972,
libro IV, vv.219-232).
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____
Per richiesta estratti:
Dott.ssa Alessia Bagalino
Via dei Durantini 384 - 00157 - Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
IL TRATTAMENTO DELLE ULCERE TROFICHE
CON IL GEL PIASTRINICO
THE USE OF PLATELET GEL TO TREAT
DIFFICULT-TO-HEAL WOUNDS
ALESSANDRO DE ROSA,1 CARLO DE SANCTIS,1 PAOLO AURELI,2 CESIRA CASTELLANI,1
CINZIA FERRO,1 ROSALIA FONTANA,1 SILVIANO GENTILI,1 STEFANO PASCUCCI,1 ROSA LEONE1
UOC Servizio di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale
UOC Chirurgia Vascolare - Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini - Roma
1
2
Parole chiave: Parole gel piastrinico, Guarigione delle ferite, Fattori di crescita.
Key words: Platelet gel, Wound healing, Growth factors.
INTRODUZIONE
Nell’ultimo decennio si è andato affermando, nell’ambito della medicina generale e specialistica, l’impiego di emocomponenti per usi alternativi a quelli strettamente trasfusionali fino agli ultimi Decreti Ministeriali del 3.3.2005 che regolano la produzione e la distribuzione degli
emocomponenti, dove il gel piastrinico e la
colla di fibrina sono definiti come veri e
propri “emocomponenti per uso topico”.1
Il prodotto della degranulazione delle
piastrine è in grado di influenzare positivamente la riparazione di tessuti lesionati e la guarigione di ulcere.2,3 Marx ha dimostrato che le piastrine elaborano, immagazzinano e rilasciano, se attivate, numerosi fattori di crescita (Growth Factors)
che sono in grado di stimolare la proliferazione di fibroblasti, cellule endoteliali,
cheratinociti, miociti, osteociti e cellule
mesenchimali.4 Questi GF esercitano poi
un’azione di chemiotassi positiva verso
macrofagi, monociti e granulociti. Dei seguenti è stata ben documentata l'attività5:
PDGF Platelet derived growth factor: azione mitogena ed angiogenetica, up-regulation di altri fattori di crescita.
bFGF: Basic Fibroblast Growth Factor:
stimolazione alla proliferazione di fibroblasti, dell’angiogenesi e degli osteoblasti
TGF-beta Transforming growth factor-beta:
stimolazione di fibroblasti e preosteobla-
sti, inibizione del riassorbimento osseo,
chemiotassi
VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor:
stimolazione dell’angiogenesi
EGF Epidermal growth factor: stimolazione delle cellule mesenchimali ed epidermiche
IGF I e II Insulina like growth factor I e 11:
stimolazione della deposizione di osso
Questa capacità delle piastrine di intervenire nei meccanismi di riparazione
tissutale ha costituito il presupposto teorico all'utilizzo del gel di piastrine (PG) in
odontoiatria, dermatologia, cardiochirurgia, ortopedia, chirurgia ricostruttiva
quando vi sia l'esigenza di attivare un
processo di riparazione tissutale.
Scopo del nostro lavoro è stato quello di
valutare l’efficacia terapeutica del gel piastrinico nel trattamento delle ulcere cutanee croniche (vascolari, diabetiche, da decubito, traumatiche). Il rationale dell’impiego del gel piastrinico nel trattamento
delle ulcere croniche si fonda sulla possibilità di ottenere il rilascio nella sede dell’ulcera dei principali fattori di crescita
tessutali (VEGF, IGF 1-1, PDF, TGF-beta,
EGF) contenuti e secreti dalle stesse piastrine;6 le ulcere croniche, infatti, differiscono dalle lesioni acute perché non guariscono in un arco di tempo prevedibile
(nella maggior parte dei casi tre mesi) e
perché, a differenza di queste, presentano
elevati livelli di enzimi proteolitici come
Relazione tenuta al Meeting “L’ischemia critica degli arti inferiori”, Roma, 26 gennaio 2006
24
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 3, 2006
elastasi e metalloproteinasi7,8 e bassi livelli di fattori di crescita come PDGF e
TGF.9,10
Indipendentemente dalla natura delle
lesioni, è stato dimostrato che l’applicazione di gel piastrinico nelle ulcere ingravescenti determina riparazione tessutale nei
pazienti trattati.11,12,13 Tutti i prodotti impiegati devono essere sottoposti a controlli di qualità per definirne sterilità e caratteristiche; tali dati sono correlati infatti
con l’efficacia clinica del gel, in gran parte
dipendente dalla concentrazione di piastrine e di fattori di crescita nel prodotto
finale.14
MATERIALI E METODI
PAZIENTI
Nel corso di circa 7 mesi di attività del
nostro Servizio (giugno 2005 - gennaio
2006), sono stati trattati 7 pazienti (5 maschi e 2 femmine) portatori di ulcere cutanee di diversa origine da un tempo mediamente superiore ai 6 mesi. Le ulcere erano localizzate ai piedi o agli arti inferiori
in 6 casi mentre 1 paziente era affetto da
un'ulcera lombo-sacrale. L'eta' dei pazienti variava dai 22 ai 73 anni con una mediana di 46 anni.
I pazienti sono stati arruolati previa richiesta di consulenza di Medicina Trasfusionale da parte del medico curante e dopo attenta valutazione del trasfusionista
sull'indicazione al trattamento con gel
piastrinico. Si è utilizzato previa acquisizione del consenso informato del paziente,
il predeposito autologo, ove possibile, o, in
alternativa, sangue omologo di donatori
periodici dello stesso gruppo sanguigno
AB0 ed Rh del paziente da trattare.
Le lesioni sono state valutate all’inizio
del trattamento, in corso e alla fine della
terapia mediante:
a) classificazione dell’etiopatogenesi all’accesso:
i. vascolare
ii. post-traumatica
iii. da decubito
iv. infettiva
v. diabetica
b) osservazione delle caratteristiche della
lesione
i. dimensioni
ii. stato di detersione
iii. granulazione del fondo dell’ulcera
iv. sovrapposizione di processi infettivi
c) valutazione dell’evoluzione della lesione nel tempo
i. osservazione al tempo 0
ii. osservazione a giorni 15
iii. osservazione a giorni 90
d) controlli microbiologici
e) documentazione fotografica all’inizio
del trattamento, dopo 15 giorni e a 90
giorni.
Su la base dei criteri sopra indicati
vengono individuate tre distinte tipologie
di risposta al trattamento 15:
a) risposta efficace (RE): ulcera ricoperta
almeno per l’80% della superficie da attività rigenerativa;
b) risposta parziale (RP): ulcera con presenza di tessuto di granulazione ricoprente almeno il 50% della superficie
della lesione;
c) nessuna risposta (NR): ulcera necrotica
senza nessuna evidenza di tessuto di
granulazione su tutto l’ambito della superficie.
Per la preparazione del gel piastrinico
sono state utilizzate sempre donazioni da
prelievo multicomponent con produzione
di concentrato piastrinico e plasma.
Il concentrato piastrinico entro 5 giorni
dal prelievo viene applicato oppure stoccato a –40°C in aliquote da 10-20 cc (o inferiori se si tratta di ulcere di piccole dimensioni) sotto forma di lisato piastrinico
contenente un numero di piastrine superiore al valore di efficacia secondo Marx di
1,5 x 106 per microlitro 4.
Il plasma ottenuto (sia autologo che
omologo) è stato immediatamente congelato a –80°C e quindi sottoposto al trattamento per la produzione di crioprecipitato
A. De Rosa et al.: Il trattamento delle ulcere trofiche con il gel piastrinico
e trombina utilizzando due metodi alternativi:
a) metodo "home-made": consiste nella
produzione di 15-20 ml di crioprecipitato mediante scongelamento del plasma
fresco congelato (autologo o omologo)
per 12-18 ore a +4°C (metodo del "sifonamento")16 e di trombina mediante aggiunta di Calcio gluconato al 10% al
plasma fresco congelato. Il crioprecipitato e la trombina ottenuti vengono aliquotati per applicazioni seriate in sacche transfer o in provette Vacutainer
agendo sterilmente sotto cappa a flusso
laminare.
b) metodo automatizzato (sistema Cryoseal della ditta Dideco): questo metodo
garantisce in poco più di un'ora di lavorazione la produzione di crioprecipitato
e trombina. I due componenti vengono
suddivisi dal sistema in 4 aliquote e
trasferiti in siringhe sterili.
Le aliquote di crioprecipitato e trombina ottenute con entrambi i metodi vengono poste in congelatore a –80°C.
La suddivisione in aliquote (sia per i
costituenti plasmatici che piastrinici) ottimizza l’uso del prodotto riducendo al minimo il numero di procedure aferetiche e
consente di avere a disposizione gli emocomponenti per applicazioni seriate nel
tempo utilizzando sempre la stessa donazione sia nell'uso autologo che per i preparati allogenici: specie per questi ultimi
viene così ridotto al minimo l' eventuale
rischio infettivo e immunologico.
L’età spesso avanzata dei pazienti e la
impossibilità di arruolarli in protocolli di
plasma-piastrinoaferesi può costringere
infatti ad utilizzare emocomponenti di origine allogenica. In questi casi deve essere
valutato il rapporto costo/beneficio dell’utilizzo dei componenti omologhi per uso non
trasfusionale anche per l’obbligo dell’emovigilanza derivante da tale pratica (compatibilità gruppo-ematica, immunizzazione, trasmissione di malattie infettive).
Al momento dell’impiego del gel piastrinico viene scongelata un’aliquota del
lisato piastrinico insieme ad un’aliquota
sterile di crioprecipitato e di trombina.
L’attivazione e successiva applicazione del
25
gel piastrinico viene fatta al letto del paziente (che si trova abitualmente in regime di ricovero o in Day-Hospital) con cadenza media settimanale. (vedi figg. 1 e 2)
La quantità di gel da utilizzare è variabile a seconda della dimensione della lesione ulcerosa. Il gel viene tenuto a contatto in media 3 giorni, viene quindi
asportato il prodotto non assorbito, la lesione detersa con soluzione fisiologica e
ipoclorito di sodio al 5% e viene effettuata
una nuova applicazione. Sono state complessivamente effettuate 159 applicazioni
di gel con una media di 20 applicazioni e
una durata media del trattamento di 73
gg. per paziente.
Figura 1 - Preparazione di gel piastrinico con miscelazione e attivazione dei componenti in siringa o
in capsula di Petri a seconda della forma e della
estensione della lesione.
26
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 3, 2006
tiva e in gran parte necrotica e solo 2
(29%) una parziale risposta rigenerativa
ai precedenti trattamenti. Al tempo T15
(dopo 15 giorni) solo un paziente (12%)
non presentava risposta al trattamento,
mentre 3 (44%) presentavano risposta efficace (RE) e altri 3 (44%) risposta parziale (RP). Al tempo T90 sono stati valutati
solo 3 pazienti dei quali 2 presentavano risposta efficace (RE) e 1 risposta parziale
(RP). Gli altri 4 pazienti (2 con RE, 1 con
RP e 1 NR al T15) non sono stati valutati
al T90 perché hanno interrotto il trattamento in anticipo. Tutti hanno riferito un
miglioramento della sintomatologia dolorosa già dopo 1 o 2 applicazioni. In nessun
paziente si è osservato un peggioramento
clinico dello stato dell'ulcera.
CONCLUSIONI
Figura 2 - Il gel piastrinico viene applicato su tutta
la superficie della lesione e fissato con garza grassa..
RISULTATI
Sul prodotto finale fresco sono stati
eseguiti dei controlli di qualità riguardo la
sterilità di tutti i prodotti impiegati (trombina, concentrato piastrinico e crioprecipitato) e la conta leuco-piastrinica sul concentrato da aferesi. In tutti i campioni da
noi esaminati le colture sono risultate sterili a 7 giorni e la conta leucocitaria è sempre risultata inferiore a 1.000.000 di globuli bianchi in ogni concentrato da aferesi
prelevato; una grande variabilità si è osservata nel numero delle piastrine che è
stato tuttavia sempre superiore a 1,5 x
1011/microlitro. Per quanto riguarda i risultati clinici dei 7 pazienti studiati, 5
(pari al 71%) presentavano al tempo T0
un'ulcera senza segni di attività rigenera-
L’esiguo numero di pazienti e la disomogeneità dei casi trattati non ci consente di esprimere un giudizio definitivo sull’efficacia di questa terapia. È risultato
però evidente fin dalle prime applicazioni
di gel che la maggior parte delle lesioni
trattate rispondevano positivamente alla
terapia; ciò soprattutto considerando lo
stato inveterato delle ulcere e la scarsità
di progressi ottenuti con i trattamenti tradizionali nei molti mesi se non anni che
hanno preceduto la terapia con gel piastrinico. L’ottima tollerabilità dei prodotti
impiegati sia omologhi che autologhi e i
bassi costi ottenibili specie utilizzando le
metodiche “home-made” incoraggiano ulteriormente la diffusione di questa pratica
terapeutica a tutte le tipologie di lesioni
ulcerative della cute. La necessità di avere a disposizione studi randomizzati e
controllati per confermare i dati ottenuti
resta tuttavia essenziale per la ulteriore
affermazione e standardizzazione di questa importante alternativa terapeutica.
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
MONITORAGGIO CONTINUO DEL GLUCOSIO TRAMITE SENSORE
SOTTOCUTANEO (CGMS): POSSIBILE RUOLO INDIPENDENTE NEL
CONTROLLO METABOLICO DEL DIABETE DI TIPO 1.
CONTINUOUS GLUCOSE MONITORING BY SUBCUTANEOUS SENSOR (CGMS):
POSSIBLE INDIPENDENT ROLE IN METABOLIC CONTROL OF TYPE 1
DIABETES PATIENTS
CLAUDIO TUBILI, LELIO MORVIDUCCI, FIORENZA ARGNANI, GIULIANA CARTA,
STEFANIA AGRIGENTO, ALDO CLEMENTI
U.O. Dipartimentale di Diabetologia e Malattie Metaboliche
Azienda Ospedaliera “S.Camillo – Forlanini” Roma
Riassunto. L’ emoglobina glicata (HbA1c) valuta il compenso metabolico nel diabete ma potrebbe non essere in grado di documentare i picchi iperglicemici responsabili delle complicanze. Grazie a sensori sottocutanei è possibile monitorizzare la glicemia per 48-96 h. Scopo dello studio è
stato verificare la correlazione tra HbA1c e monitoraggio continuo della glicemia tramite sensore sottocutaneo (CGSM) in un campione di diabetici tipo 1 in terapia con microinfusore(CSII).
Sono stati studiati 20 pazienti (età 40±82; M/F 11/9; BMI 23.1±1,5; HbA1c 7.7±4.4%) trattati con
microinfusore. Sono state ottenute 494 misurazioni per paziente pari a circa 41 ore consecutive
di osservazione e i dati sono stati confrontati con i valori di HbA1c. È stata riscontrata una modesta correlazione tra HbA1c , valore medio e mediano della glicemia (R2=0,27 e 0,25) e numero
delle ipoglicemie. Il CGMS ha mostrato che il maggior numero di ipoglicemie si ha in fase preprandiale (8-10%) e durante la notte (6%); le iperglicemie si verificano prevalentemente al mattino (7%) e dopo i pasti (6%). Il CGMS potrebbe pertanto porsi come indicatore della glicemia indipendente dagli altri parametri ormai validati, nonostante il possibile intervento di fattori
confondenti. Sono comunque necessari ulteriori studi per definirne il ruolo nel paziente diabetico.
Parole chiave: Diabete mellito, Emoglobina Glicata, Monitoraggio del glucosio
Summary. In order to evaluate the glycemic control in diabetes, glycated haemoglobin (HbA1c)
is usually used; nevertheless it could be not reliable to assess hyperglycaemic peaks, responsible
for long term complications. Through subcutaneous sensors (CGMS) is possible to have a continuous glucose monitoring for 48-96 h. Aim of the study was to assess the correlation between
HbA1c levels and the continuous glucose monitoring (CGMS) in a sample of type 1 diabetic patients treated with continuous subcutaneous insulin infusion (CSII). The sample consisted of 20
patients (age 40+/- 82; M/F 11/9; BMI 23,1 +/-1,5; HbA1c 7,7 +/- 4,4) treated with CSII. We obtained 494 blood glucose measurements for each subject equivalent to 41 hours of constant observation; subsequently we compare these values with the HbA1c levels. A scant correlation
between HbA1c levels and the mean and median glyceamic values was established (R2=0,27 and
0,25); same results were obtained valuing the correlation with hypoglycaemic episodes. The
CGMS demonstrated that hypoglycaemic episodes were more frequent during the pre-prandial
phase (8-10%) and during the night (6%); whereas the hyperglycaemic episodes were more frequent during the morning (7%) and after meals.
CGMS could be an independent tool in indicating blood glucose levels notwithstanding possible
confounding factors. Further studies are necessary to provide a definitive answer on its role in
diabetic metabolic control.
Key words: Diabetes mellitus, Hemoglobin Glycated, Glucose monitoring
D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza
PREMESSA
L’Emoglobina Glicata (HbA1c) riflette i
valori glicemici medi delle ultime 8-12 settimane, e la sua periodica rilevazione rappresenta uno dei fondamenti su cui si basa attualmente la valutazione del compenso metabolico nel diabete. L’American
Diabetes Association (ADA), l’European
Association for the Study of Diabetes (EASD) e tutte le altre Società scientifiche
diabetologiche hanno stabilito dei target
di HbA1c basati sui risultati dei grandi
trials (DCCT; UKPDS) che hanno dimostrato la correlazione fra livelli glicemici e
complicanze a distanza del diabete.
Negli ultimi anni numerosi studi hanno dimostrato che oltre alla iperglicemia
cronica, ben rappresentata dall’HbA1c,
esistono nel diabete altri meccanismi di
danno tessutale: in particolare è stata sottolineata l’importanza dell’iperglicemia
acuta come causa di complicanze attraverso vari meccanismi, quali lo stress ossidativo, l’attivazione della PKC/DAG e
la via delle esosamina1.
Il monitoraggio della glicemia capillare è raccomandato da tutte le Linee Guida terapeutiche come misura diagnosticoterapeutica complementare all’HbA1c2;
questo approccio però, oltre ai limiti dovuti ai costi e soprattutto alla sua invasività che ne limiti l’uso estensivo oltre ai
4-6 test al giorno, non può essere adeguatamente utilizzato nelle ore notturne ed
in particolari circostanze sociali, lavorative, sportive: potrebbero pertanto sfuggire
importanti fluttuazioni del profilo glicemico, sia nel senso delle iperglicemie che
delle ipoglicemie, in certi casi asintomatiche.
L’osservazione clinica del monitoraggio
capillare dell’HbA1c di molti pazienti suggerisce che l’HbA1c potrebbe non riflettere adeguatamente le rapide escursioni
glicemiche che si verificano soprattutto
nel diabete tipo 1 e nel diabete tipo 2 insulino-trattato, caratterizzati da elevata
instabilità metabolica, dovuta alla terapia
insulinica e alla difficoltà di adeguare la
dose di tale farmaco alle esigenze quotidiane del paziente.
Negli ultimi anni si sono diffuse alcu-
29
ne tecnologie di rilevamento continuo del
glucosio basate su sensori sottocutanei3:
esse sono basate sul presupposto che esiste una relazione fra la sua concentrazione nei liquidi interstiziali e nel plasma riconducibile a precisi algoritmi matematici: l’applicazione pertanto di un sensore
sottocutaneo per 48-96 ore e la rilevazione automatica ad intervalli frequenti può
fornire utili informazioni “in continuo”
sull’andamento della glicemia soprattutto
in quelle “situazioni difficili” quali il sonno, il lavoro, l’esercizio fisico, e può consentire gli opportuni adeguamenti terapeutici4. Il ritardo fisiologico fra i valori
del glucosio interstiziale rilevati dal sensore e quello plasmatici può essere corretto retrospettivamente e costituisce attualmente un limite alla trasmissione diretta del dato ad una pompa. È necessaria pertanto l’attiva correzione degli algoritmi terapeutici, con microinfusore o con
terapia multiiniettiva tradizionale, da
parte di un paziente opportunamente
informato ed addestrato5. I sensori sono
stati testati con successo in pazienti in
Terapia Intensiva6. I dispositivi attualmente a disposizione si basano su sensori
elettrodici ad ago o su sensori microdialitici: la loro applicazione è moderatamente invasiva (più per il secondo tipo che per
il primo) e i costi sono rilevanti. L’accuratezza di questi due tipi di dispositivi sembra essere sovrapponibile7.
Con i sensori sono state descritti in pazienti diabetici di tipo 1 numerosi episodi
di ipoglicemia asintomatica e un’alta frequenza di inaspettati picchi iperglicemici
(in particolare postprandiali) nonostante i
buoni valori di HbA1c8.
Nonostante cio’ non esiste ancora un
consenso sulla utilizzazione sistematica
di questo tipo di dispositivi: ovvero non è
chiaro se le informazioni ricavate con il
CGMS hanno un valore indipendente nell’ambito del controllo glicemico o se possono essere surrogate da tests ormai validati come HbA1c o dall’autocontrollo glicemico capillare. Per tali motivi il monitoraggio glicemico tramite sensore non ha
ancora trovato una precisa collocazione
nell’ambito dei protocolli gestionali del
diabete.
30
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
OBIETTIVO
Obiettivo del presente studio è stato
quello di verificare l’eventuale correlazione fra HbA1c e i dati dell’andamento del
glucosio ricavati da sensore sottocutaneo
CGMS in pazienti diabetici adulti di tipo
1 con diversi livelli di compenso metabolico espressi dall’HbA1c.
Pazienti e Metodi- 20 pazienti diabetici
di tipo 1 adulti ( fig. 1) con vari livelli di
HbA1c, indicativi di diversi livelli di controllo metabolico, le cui caratteristiche sono illustrate nella Tabella 1, trattati con
microinfusore (Continuous Subcutaneous
Insulin Infusion, CSII; sistemi Minimed
Medtronic 508 e 512) sono stati sottoposti
a monitoraggio del glucosio con CGMS Minimed Medtronic, basato sull’utilizzazione di sensori elettronici sottocutanei9. È
stato ottenuto il consenso informato dei
pazienti. Si è raccomandato di non modificare le abituali attività e il regime dietetico. Il periodo medio di osservazione per
ogni paziente è stato di 3 giorni; la frequenza di campionamento è stata di una
rilevazione ogni 5’. Il sistema è stato ben
tollerato, e tutti i pazienti hanno concluso
lo studio. Vista la presenza di alcuni valori mancanti o non attendibili nell’ambito
del normale funzionamento dell’apparecchio, e considerando l’esigenza statistica
di escludere, ove possibile, periodi di
“blank”, è stata scelta come dimensione
campionaria “l’intervallo comune fra i 20
pazienti avente la massima ampiezza e il
44%
56%
M
maggior numero di misurazioni consecutive”. Il campione così identificato era costituito da 494 misurazioni per ogni paziente, pari a circa 41 ore continuative di osservazione. L’analisi è stata quindi effettuata sulle 41 ore e, successivamente
estrapolata ad una giornata (24 ore). I dati così ottenuti sono stati confrontati con il
valore di HbA1c misurata nello stesso
giorno del test, e pertanto indicativa del
controllo glicemico delle ultime 8-12 settimane.
Sono stati studiati:
- la correlazione fra HbA1c e gli indicatori di sintesi del CGMS (media, mediana, % di misurazioni contenute in
intervalli prestabiliti; coefficiente di
correlazione di Pearson);
- l’andamento dei CGMS sui singoli pazienti e per l’intera popolazione;
- l’analisi della distribuzione delle fasi di
ipoglicemia e dei picchi iperglicemici
per la totalità dei pazienti;
- la sommatoria delle aree superiori ed
inferiori ad un intervallo di accettabilità stabilito fra 70 mg/dl e 160 mg/dl.
RISULTATI
Nel campione in toto la correlazione fra
HbA1c e valore medio e mediano del glucosio è risultata debole (R2 = 0.27 e 0.25),
e così pure quella con il numero delle ipoglicemie (rilevazioni <70 mg/dl; R2 =
0.06), dei valori >160 mg/dl (R2 = 0.16) e
dei valori fuori range di accettabilità nel
loro complesso (R2 = 0.14).
Dall’esame dell’andamento del CGSM
nei singoli pazienti e nell’intera popolazione si osserva che il maggior numero di
ipoglicemie si verifica nelle fasi preprandiali (8 % del totale fra le 12 e le 13 e
10%fra le ore 18 e le 19 ). Un altro momento di aggregazione di tali eventi è fra
le 2 e le 3 di notte (6%). I valori glicemici
più alti tendono invece ad aggregarsi fra
le 8 e le 9 del mattino (7% del totale) e dopo i pasti (circa 6%).
F
DISCUSSIONE
Figura 1. Descrizione del campione (pazienti
diabetici tipo 1)
L’HbA1c è espressione della glicemia
media degli ultimi due-tre mesi e per que-
C. Tubili et al.: Monitoraggio continuo del glucosio tramite sensore sottocutaneo (CGMS)
sto motivo è universalmente riconosciuta
come un indicatore sensibile del compenso
del diabete. Negli ultimi anni si è venuta
a definire come fattore autonomo di danno
l’iperglicemia acuta. Picchi iperglicemici
fugaci ma non per questo meno pericolosi
potrebbero non essere documentati dall’HbA1c o dal monitoraggio della glicemia
capillare eseguito secondo le raccomandazioni delle società scientifiche. I sensori
del glucosio sottocutaneo possono costituire un utile presidio complementare, documentando in continuo le escursioni glicemiche circadiane. Nel nostro studio 20 pazienti diabetici di tipo 1 adulti con vari livelli di compenso metabolico espressi dall’HbA1c, trattati con microinfusore sono
stati sottoposti a monitoraggio del glucosio con CGSM. Sono stati scelti i pazienti
utilizzatori di pompa perché essendo più
abituati a gestire dispositivi elettronici,
offrivano, in fase di reclutamento, le maggiori garanzie di compliance: infatti il sensore richiede una minima collaborazione
da parte del paziente, che deve inserire
valori glicemici per tarare l’apparecchio,
registrare eventi (pasti, terapia, attività
fisica) e gestire possibili allarmi per inconvenienti tecnici. I risultati ottenuti nel
campione in toto sembrano escludere una
correlazione fra i dati ottenuti con il sensore sottocutaneo applicato per 41 ore e
l’HbA1c misurata al momento del monitoraggio.
Ciò potrebbe dipendere da vari fattori:
la scarsa numerosità del campione studiato potrebbe amplificare l’effetto dei profili
individuali, rilevati in pazienti di tipo 1,
caratterizzati da notevole instabilità glicemica; potrebbero essersi verificati, nelle
settimane precedenti lo studio, particolari
eventi (stress generico) la cui influenza
sul compenso glicemico si era esaurita al
momento dello studio; oppure alcuni pazienti potrebbero aver modificato più o
meno volontariamente pasti e ritmi della
giornata in quanto sotto osservazione
(“watching effect”).
Precedenti osservazioni10 avevano evidenziato una correlazione fra i valori postprandiali rilevati con il sensore e l’HbA1c, ma non con le aree glicemiche nel
loro complesso (iper e ipo): in particolare
31
non c’era correlazione con i valori bassinormali di glicemia.
Le informazioni ottenute con CGMS
sulle escursioni glicemiche in pazienti diabetici di tipo 1 potrebbero comunque essere realmente differenti da quelle fornite
dall’HbA1c evidenziando fluttuazioni glicemiche altrimenti non documentabili10:
infatti la particolare instabilità metabolica di questi pazienti potrebbe determinare rapide escursioni glicemiche giornaliere sia nel senso dell’iperglicemia che in
quello dell’ipoglicemia scarsamente evidenziate da un indicatore di iperglicemia
cronica, quale l’UbA1c, ma comunque rilevanti nella patogenesi delle complicanze
diabetiche1. Il monitoraggio glicemico con
sensore sottocutaneo potrebbe pertanto
porsi come elemento di studio dell’andamento della glicemia nel paziente diabetico con valore indipendente.
Il monitoraggio fornisce, inoltre, informazioni specifiche di una certa rilevanza
clinica come lo studio delle fasce orarie
difficili (il 7% di tutte le ipoglicemie si realizzano ad esempio fra le 2 e le 3 di notte)
permettendo così di implementare la terapia.
Un altro aspetto interessante è rappresentato dal fatto che i pazienti sembrano
aggregarsi in due sottogruppi sulla base
dei valori di HbA1c (maggiore o minore di
7%) come si evince osservando i valori glicemici medi e mediani e la distribuzione
dei valori fuori range, sia iper che ipo
(Figg. 2,3,4,5,6). Anche se la scarsa numerosità del campione non consente di trarre conclusioni significative, ciò sembra
suggerire un diverso coefficiente di correlazione fra HbA1c stessa e dati del CGMS,
che potrebbe avere pertanto un diverso
valore diagnostico in condizioni di compenso accettabile o di scompenso: in effetti, precedenti osservazioni avevano dimostrato una assenza di correlazione fra
HbA1c e CGMS per valori inferiori alla soglia di 90 mg/dl10, mentre l’avevano individuata per i valori superiori.
Sono pertanto necessari ulteriori studi con popolazioni più ampie per meglio
definire il ruolo del monitoraggio sottocutaneo nella gestione del paziente diabetico.
32
Età (aa.
M/F
BMI
HbA1c
Durata (aa.)
Durata CSII (aa.)
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
40 ± 8.2
11/9
23.1 ± 1.5
7.7 ± 4.4
21 ± 14.0
4.4 ± 15.5
Tabella 1. Descrizione del campione (pazienti diabetici tipo 1)
Figura 2. Correlazione tra HbA1c e valore medio
del glucosio
Figura 3. Correlazione tra HbA1c e valore
mediano del glucosio
Figura 4. Correlazione fra HbC1c e misurazioni
fuori range di normalità
Figura 5. Correlazione fra HbA1c e ipoglicemia
(inferiore a 70 mg/dl)
Figura 6. Correlazione fra HbA1c e iperglicemia
(superiore a 160 mg/dl)
C. Tubili et al.: Monitoraggio continuo del glucosio tramite sensore sottocutaneo (CGMS)
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____
Per richiesta estratti:
Claudio Tubili - via Madonna di Fatima 2 - 00147 Roma - [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Caso clinico
LINFOADENITE ISTIOCITICA NECROTIZZANTE DI KIKUCHI
KIKUCHI’S HISTIOCYTIC NECROTISING LIMPHOADENITIS
GIORGETTA GENCARELLI1, MARIO GIUSEPPE ALMA2
FEDERICA ANTONELLI2, ALFONSO MARIA ALTIERI2
1
I° Scuola di Specializzazione Malattie Apparato Respiratorio Università la “Sapienza” di Roma
U.O.Complessa di Broncopneumologia e Tisiologia Az.Ospedaliera S.Camillo-Forlanini, Roma
2
Riassunto. Per linfoadenopatia si intende un aumento di volume dei linfonodi, che può avere diverse cause, sia di natura benigna (infettiva, infiammatoria) che di natura maligna (neoplasie, malattie autoimmuni.). La linfadenite istiocitica necrotizzante di Kikuchi è una forma benigna di linfoadenopatia, descritta nel 1972 per la prima volta in Giappone, ma è stata riscontrata anche in Europa e negli USA. È una sindrome che colpisce soprattutto i giovani adulti immigrati, si presenta con
i sintomi da virosi delle vie respiratorie alte e febbre, ad eziologia sconosciuta. È fondamentale la diagnosi differenziale con la linfoadenite tubercolare o malattie autoimmuni come il LES sia attraverso esami ematochimici che strumentali poiché il trattamento terapeutico è sintomatico e di supporto quando non è un prodromo di LES.
Parole chiave: Linfadenite. Kikuchi.
Summary. Limphoadenopathy is an increase of limphonodules’volume having various causes either
of benign nature (infectious, inflammatory) or of malignant one (neoplasm, autoimmune diseases).
The istiocitic necrotising limphoadenitis of Kikuchi is a benign form of Limphoadenopathy, described
for the first time in Japan, but also found in Europe and US. It’s a syndrome affecting especially
young adult immigrants, it shows symptoms as virosis of high respiratory tracts and fever, with
unknown aetiology. Differential diagnosis with the tubercular limphoadenitis or autoimmune diseases as Le using both ematochemical and instrumental examinations, is mandatory because the therapeutic treatment is symptomatic and of support when it isn’t symptom of LES.
Key words: Lymphadenitis. Kikuchi.
INTRODUZIONE
Per linfoadenopatia si intende un aumento di volume dei linfonodi, che può
avere diverse cause, sia di natura benigna
che maligna. Le patologie che più frequentemente possono dare linfoadenopatia sono:
A) neoplasie maligne (ematologhiche e
metastatiche),
B) malattie immunologiche (Artrite reumatoide, Sindrome di Sjogren, Dermatomiosite, Lupus eritematoso sistemico),
C) infettive (virus, batteri, miceti, protozoi)
D) infiammatorie (connettiviti, infiammazioni cutanee),
E) sarcoidosi,
F) malattie metaboliche.
Al di sotto dei 30 anni di età circa 80%
dei casi di linfodenopatia è imputabile a
cause benigne, mentre oltre i 50 anni solo
nel 30% dei casi le linfoadenopatie sono benigne. Infatti negli ultimi anni, abbiamo riscontrato, nella nostra pratica clinica, che:
a) il 60% delle linfoadenopatie sono segni
clinici di malattie neoplastiche come
linfomi, leucemie o sede di metastasi di
melanomi, tumori polmonari, mammari,
gastrointestinali, del collo e della testa,
b) il 20% sono dovute a malattie autoimmuni,
c) il 10% a malattie infettive come infe-
35
G. Gencarelli et al. Linfoadenite istiocitica necrotizzante di Kikuchi
zione da EBV, HIV o tubercolosi,
d) il rimanente 10% ingloba le altre cause
e le forme benigne.
Secondo la nostra casistica la maggior
parte delle linfoadenopatie “benigne” si riscontra per lo più tra gli immigrati, correlate in modo particolare alla malattia tubercolare.
CASO CLINICO
Donna filippina di 33 anni, in Italia da
pochi mesi, con una linfoadenopatia laterocervicale dx. La signora riferì di aver
praticato terapia antitubercolare (schema
a 4 farmaci per 1 solo mese) nel 1997 per
tubercolosi polmonare nel proprio paese
d’origine. Anche se i dati clinici orientavano per una linfadenite tubercolare, si effettuarono sia esami ematochimici che
strumentali per escludere altre cause,
porre così una diagnosi corretta ed impostare una terapia adeguata. Gli esami
ematochimici risultarono nella norma, la
TC ad alta risoluzione del polmone non
evidenziò lesioni pleuroparenchimali in
fase attiva cosi sì procedette alla biopsia
del linfonodo. L’esame istologico mise in
evidenza una: ... iperplasia follicolare ed
espansione della zona paracorticale con
all’interno aree di necrosi non suppurativa comprendente istiociti, dentriti nucleari e corpi apoptotici, aggregati nodulari costituiti da monoliti plasmocitoidi
(CD6R+7CD3-) e plasmocitosi (CD138+),
quadro plausibile per una linfoadenite necrotizzante non suppurativa compatibile
con Linfoadenite di Kikuchi o con una forma di linfoadenite in corso di Lupus eritematoso sistemico.
Questa sindrome fu descritta per la
prima volta in Giappone nel 1972, ma è
stata riscontrata anche in Europa e negli
Stati Uniti. Colpisce soprattutto i giovani
adulti, e si presenta frequentemente con i
sintomi da virosi delle vie respiratorie alte e febbre. La linfoadenomegalia è presente nella maggior parte dei casi. Dal
punto di vista istologico i linfonodi coinvolti mostrano una proliferazione localizzata d’istiociti e immunoblasti associata
ad abbondante detrito nucleare e necrosi
tessutale ed un elevato numero di cellule
T CD8+ con TRCgd, mentre, raramente si
ha splenomegalia. Si sospetta che la causa sia un agente infettivo non ancora
identificato: virale o batterico. Il trattamento è sintomatico e di supporto quando
non è un prodromo di lupus eritematoso
sistemico. In seguito all’esame istologico,
la nostra paziente ha eseguito vari esami
per escludere la presenza di un LES, risultati poi tutti negativi.
CONCLUSIONI
Ancora una volta abbiamo avuto prova
di come sia fondamentale per porre una
corretta diagnosi ed impostare una terapia adeguata, ricorrere a tutti gli esami
ematici e strumentali a disposizione, anche là dove, come in questo caso, il dato
amnestico, l’obiettività clinica, fattori concomitanti (la provenienza da un paese ad
alta incidenza tubercolare) orientavano
per una linfoadenite tubercolare. L’esame
istologico è stato fondamentale, infatti il
60% delle diagnosi di linfoadenite, escluse
le cause più comuni, vengono fatte attraverso la biopsia linfonodale; qualora l’esito non fosse diagnostico, l’esame deve essere ripetuto.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Arcidiacono G, Conticello A, Privitelli V et al.
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Pai SA. Kikuchi-like lymphadenitis may be an
early manifestation of SLE. J Indian Med Assoc.
2004; 102: 330.
____
Per richiesta estratti:
Dott. Alfonso Altieri
Via Vegezio, 15 - 00137 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Rassegna
IL RISCHIO BIOLOGICO DA PATOGENI EMOTRASMESSI
IN AMBITO SANITARIO,
CON PARTICOLARE RIGUARDO AI LABORATORI DI ANALISI *
RISK OF BLOOD-BORNE INFECTIONS IN HEALTH CARE WORKERS
AND PARTICULARLY IN LABORATORY PERSONNEL
FRANCESCO BELLI
* Relazione tenuta al corso di aggiornamento: “Il prelievo di sangue: problematiche nell’attività
di laboratorio di analisi e di primo soccorso”. Roma, 15 Giugno 2006.
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini - Laboratorio di Microbiologia e Virologia
Riassunto. La diffusione di una cultura della sicurezza, sin da quando vennero adottate le precauzioni universali per l’infezione da HIV, ha ridotto per numero e gravità gli incidenti biologici in laboratorio per patogeni trasmessi per via ematica; l’attuazione di programmi di profilassi, quali la vaccinazione anti-HBV ed una più capillare sorveglianza sanitaria dei lavoratori a rischio hanno contribuito a modificare, qualora si verifichino, gravità ed impatto clinico e psicologico dell’evento.
Tuttavia tagli e punture accidentali con contaminazione ematica dell’operatore, nei maggiori ospedali italiani, rappresentano ancora il 76 % degli incidenti biologici in generale e il 41 % in laboratorio.
La trasmissione di un’eventuale infezione da HBV, HCV o HIV, mediante sangue infetto, dipende da
numerose variabili: proprietà infettivologiche del paziente fonte, tipo di ferita, patogenicità, carica e
dose infettante dell’agente trasmesso, stato immunologico, sensibilità e recettività dell’operatore
esposto.
All’incidente biologico deve seguire una serie di procedure, anche urgenti, quali: prima medicazione,
valutazione sieroimmunologica del paziente-fonte e dell’operatore, qualora non nota, counseling e
medicazione con farmaci antiretrovirali in caso di fonte HIV+, programma di profilassi e sorveglianza post-esposizione, dichiarazione di incidente biologico e denuncia agli enti competenti.
Parola chiave. Virus epatotropi; Virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV); paziente fonte;
farmaci antiretrovirali.
Summary. Spreading of safety education, from general precautions to HIV infection were taken,
has reduced amount and severity of occupational risk and biological accidents in laboratory by blood
borne pathogens; programs of prophylaxis (anti-HBV vaccination for ex.) and a detail surveillance of
health workers have changed severity and clinical and psychological effect of damage.
Neverthless fortuitous cuts and pricks with blood contamination of worker, in Italian hospitals, are
76 % of all biological injuries and 41 % in laboratory.
Transmission of HBV, HCV or HIV throught infected blood, is due to various factors: infectious characteristics of source, pattern of cut, pathogenicity, charge and dose of transmitted microorganism,
immunologic condition, susceptibility and resistance of host.
After biological injure some pressing proceedings must follow: first aid, immunologic assesment of
source and worker, counseling and anti-retroviral therapy if HIV+ source, prophylaxis and post-exposure management, notice of biological accident and report to competent office.
Key words. Hepatitis B C D viruses; Human immunodeficiency virus; source; antiretroviral
drugs.
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
INTRODUZIONE
Il rischio biologico è di per se intrinseco all’attività sanitaria e ogni operatore,
di qualsivoglia qualifica, può trovarsi
esposto. Tale rischio è costituito da agenti
biologici che possono provocare gravi patologie infettive.
Al primo posto per tipologia di incidenti biologici troviamo quelli derivanti dalla
contaminazione con il sangue e suoi derivati, vettori di patogeni emotrasmessi.
L’operatore sanitario è costantemente a
diretto contatto con materiali biologici e/o
strumenti che sono stati contaminati da
sangue o altri campioni organici potenzialmente infetti.
Pertanto il rischio biologico non può essere evitato, ma deve essere conosciuto,
valutato, prevenuto e combattuto: di particolare importanza è la valutazione del
rischio, intesa come procedimento per la
sicurezza e la salute dei lavoratori nell’espletamento delle loro mansioni, in conseguenza e in rapporto all’esistenza di un
“pericolo” sul luogo di lavoro. Ricordiamo
che clinicamente possiamo definire un “rischio”1 come la probabilità che sia raggiunto il livello potenziale di danno nelle
usuali condizioni di impiego ed esposizione, da cui deriva la possibile dimensione
del danno stesso.
Il presente lavoro fotografa la situazione attuale: pertanto prenderemo in esame
il rischio d’infettarsi con HBV, HCV e HIV
(più raramente con HDV), i maggiori patogeni emotrasmessi conosciuti oggi: situazione ben diversa rispetto a 15-20 anni
fa quando le nostre nozioni su questi virus
erano scarse o nulle, così come oggi potremmo non conoscere patogeni che potrebbero emergere fra alcuni anni. Il messaggio pertanto è quello di non abbassare
mai la guardia, con nessun campione biologico, nei confronti di un “nemico” subdolo e ancora non emerso2.
Scopo fondamentale di questa trattazione è di dare le giuste dimensioni al problema, sia con alcuni dati statistici significativi sia con una disamina razionale
della situazione attuale infettivologica dei
virus citati; un incidente biologico in ambito ospedaliero viene vissuto dall’operatore, qualunque sia la sua qualifica e pre-
37
parazione scientifica, come un evento
drammatico dal punto di vista psicologico,
fisico e professionale, come se ad ogni incidente debba seguire inevitabilmente
un’infezione, talora contro l’evidenza di
controlli clinici e di laboratorio negativi.
Vedremo che così non è, anzi la possibilità
di trasmissione di un patogeno da paziente fonte ad operatore non è frequente – a
fronte di un numero di incidenti comunque alto – e nostro obiettivo precipuo è
quello di ridimensionare il problema, se
non di tranquillizzare.
INTERAZIONI MICRORGANISMOOSPITE
È stato coniato dagli Autori anglosassoni il termine di “laboratory acquired infection” (L.A.I.), da attribuire ad un’infezione
sicuramente acquisita in laboratorio, qualora il periodo d’incubazione sia compatibile con l’intervallo di tempo intercorso
tra l’esposizione al patogeno e la comparsa di malattia.
La presenza di un microrganismo patogeno in un tessuto o in un liquido biologico non significa necessariamente che il
contatto con il medesimo sia sufficiente a
provocare una patologia, analogamente a
quanto avviene in ogni infezione naturale.
In un incidente o infortunio biologico (IB),
i fattori che influenzano l’evento patologico infettivo sono:
- concentrazione e carica dell’agente patogeno;
- modalità di esposizione al materiale
biologico contaminato (dinamica dell’
IB)
- stato immunitario generale dell’ospite
- porta d’ingresso: difese naturali locali
dell’ospite e presenza di recettori specifici o di altri elementi favorenti l’ingresso del microrganismo.
Le difese naturali e adattive, umorali e
cellulari di un ospite normoimmune sono
ampiamente sufficienti, nella maggioranza dei casi, a delimitare l’infezione emotrasmessa e ad evitarne le conseguenze
patologiche; ricordiamo, tra i meccanismi
di difesa naturali, la presenza di una cute
integra e l’azione a livello delle mucose ed
epiteli superficiali, di molecole ad azione
38
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
antivirale come gli interferoni e immunoglobuline di superficie, queste ultime, insieme al pattern cellulare linfocitario, in
prima linea nei meccanismi di difesa specifici dell’immunità adattiva3. Ma oggi siamo in grado di potenziare l’immunità del
lavoratore esposto sia con terapie antimicrobiche quanto e, soprattutto, mediante
l’impiego dell’immunizzazione attiva o
passiva verso l’HBV.
Nel personale sanitario la trasmissione
di HBV, HCV, HDV e HIV può avvenire
per:
- Via parenterale: punture accidentali
con aghi o taglienti;
- Contaminazione delle mucose: schizzi
di liquido biologico nel cavo orale e/o
negli occhi;
- Contaminazione di cute lesa: liquido
biologico su soluzioni di continuo della
cute non protetta.
Per quanto riguarda i liquidi organici
infettanti, HBV HCV e HDV si trasmettono mediante sangue ed emoderivati, bile,
secreto nasofaringeo, latte materno, sperma e secrezioni vaginali; HIV è trasmesso
mediante tutti questi materiali ma anche
tramite diversi tessuti (midollo osseo,
linfonodi, tessuto nervoso, cornea, ossa),
liquor, liquido sinoviale, versamenti in
sierose, liquido amniotico, secrezioni cervico-vaginali. Lacrime, sudore ed urine sono infettanti se contengono sangue.
Molto importanti sono le modalità di
esposizione e la relazione con il rischio
d’infezione, utile per quantizzare il rischio
stesso; in caso di ferite profonde, sanguinanti, da ago cavo pieno di sangue o in caso di contatto diretto con virus concentrati (come nei laboratori di ricerca o produzione di vaccini)4, il rischio d’infezione è
elevato ed è solo di poco inferiore in caso
di ferite o lacerazioni sanguinanti provocate da strumenti contaminati. Il rischio è
da ritenere di media entità in caso di contaminazione di ferite aperte o delle congiuntive. Il grado di rischio è molto basso
per ferite superficiali non sanguinanti,
contaminazione di una ferita chiusa o di
mucose diverse dalla congiuntiva, contaminazione anche prolungata di ampie porzioni di cute integra. Il rischio d’infezione
è praticamente nullo in caso di contaminazione di piccole porzioni di cute integra
con sangue o ferite con strumenti non visibilmente contaminati5.
Come in ogni infezione naturale, anche
nell’interazione microrganismo-ospite che
si determina in un I.B. dobbiamo considerare una serie di fattori correlati all’agente infettante che possono provocare l’instaurarsi della manifestazione infettiva in
un ospite suscettibile: patogenicità e virulenza, interazione con il sistema immune
di colui che è stato infettato, trasmissibilità, mutazioni e manipolazioni genetiche
(come può accadere nei laboratori di ricerca), concentrazione, dose e carica infettante. Riguardo a questi ultimi parametri, sono stati calcolati dei valori indicativi tanto nelle infezioni naturali quanto in quelle occupazionali, che riportiamo: 1012 particelle virali/ml di liquido corporeo per
HBV; 105/6 particelle virali/ml di liquido
corporeo per HCV; 103/4 particelle virali/ml
di liquido corporeo per HIV. Non si hanno
dati né precisi né approssimativi in caso
di infezione da HDV.
CICLO REPLICATIVO VIRALE, MARKERS SIEROLOGICI E MOLECOLARI
E INFETTIVITÀ DEI PAZIENTI-FONTE
NELLE INFEZIONI OCCUPAZIONALI
DA PATOGENI EMOTRASMESSI
1) HEPATITIS B VIRUS (HBV)6.
Esiste un’ampia gamma di pazienti con
epatite B acuta o cronica e pertanto la
contaminazione con sangue infetto deve
essere seguita da una completa disamina
dei markers sierologici e di alcuni parametri molecolari del paziente fonte, sì da
esprimere una valutazione il più possibile
corretta dopo l’incidente e nel periodo di
follow-up.
Il rischio di contrarre un’infezione da
HBV dopo esposizione a sangue infetto è
massima nel caso di paziente fonte non solo HbsAg+ e HBV-DNA+, ma anche e soprattutto HbeAg+: in questi casi il rischio
è stato valutato nell’ordine del 10 – 40 %,
mentre scende a meno della metà di questi valori in caso di pazienti HbsAg+ e
HBV-DNA+ ma HbeAg-. Pertanto, dopo
un incidente biologico, se non è noto, il do-
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
saggio di HbeAg è fondamentale per
quantificare il rischio cui va incontro l’operatore infortunato e predisporre un adeguato programma di follow-up7. Alla luce
di queste considerazioni, i campioni ematici più contaminanti provengono da pazienti nelle prime 15 settimane d’infezione, se trattasi di forme acute e da pazienti con forme evolutive, croniche, poco o
non-responder alle terapie, nei periodi di
ripositivizzazione dei marker che possono
verificarsi nel corso di mesi o anche anni.
Attualmente, con l’introduzione dei programmi vaccinali anti-HBV ad ampio raggio e anche con la possibilità di disporre,
per gli operatori infortunati non immunoprotetti, della sieroterapia specifica, la situazione è radicalmente mutata sia in termini di rischio che di protocollo post-esposizione; mutata è soprattutto l’epidemiologia delle infezioni da HBV (ma anche da
HDV) nei paesi che hanno adottato la vaccinazione anti-epatite B. In Italia è stata
introdotta nel 1991 per i nuovi nati (oggi
obbligatoria) e i dodicenni; è consigliata
negli operatori sanitari. Oggi è impiegato
un vaccino ricombinante, altamente immunogeno anche a lungo termine, ben tollerato. È dimostrato che a 10 anni dal ciclo vaccinale completo il 64 % dei bambini
e l’89% degli adulti ha ancora un titolo di
anticorpi anti-HBV protettivo (> 10
mIU/ml) e il 95% evidenzia una memoria
immunologica: pertanto non vi è necessità
di un richiamo dopo 10 anni dal ciclo vaccinale primario8.
Ricordiamo che la vaccinazione antiHBV, per il personale sanitario, è raccomandata (DM del 3.10.1991), come, ad
esempio, quella anti-influenzale; la messa
a disposizione del vaccino, da somministrare a cura del Medico Competente, è
preciso obbligo del datore di lavoro, codificato dal DL 626/94 e successive integrazioni. Il vaccino (profilassi attiva) va somministrato al personale sanitario al momento dell’assunzione e, periodicamente,
alla scadenza dello stesso; le immunoglobuline (profilassi passiva), come preciseremo in seguito, vanno solitamente date
in emergenza, dopo una esposizione, presso il pronto soccorso o altra struttura
equivalente preposta.
39
2) HEPATITIS C VIRUS (HCV)9, 10
Il dosaggio dei soli anticorpi, nel paziente fonte, non è assolutamente indicativo del suo grado di infettività: pertanto,
non avendo a disposizione nella routine di
laboratorio, marker antigenici affidabili, è
necessario effettuare il dosaggio quantitativo dell’ HCV-RNA, se non è preventivamente noto, del paziente, dopo l’I.B. per la
valutazione della carica virale. Trattandosi di un’infezione ad andamento perlopiù
cronico (i casi acuti riconosciuti e ospedalizzati sono decisamente pochi), il livello
di RNA nei pazienti non trattati è imprevedibile e soggetto a forti ondulazioni,
mentre in quelli trattati è legato al grado
di responsività alla terapia antivirale11.
Pertanto solo dopo una corretta e completa valutazione virologica del paziente fonte possiamo quantizzare il rischio e le probabilità d’infezione dell’operatore infortunato nei confronti di un virus per il quale,
a tutt’oggi, non esiste né vaccino né profilassi farmacologica alcuna. Dopo I.B., comunque, il rischio d’infettarsi con HCV se
il paziente fonte è positivo è stato valutato nell’ordine dell’1.5-2%12, 13.
3) HEPATIS D VIRUS (HDV)
Il rischio di infettarsi a seguito di esposizione occupazionale con questo virus
che, com’è noto, è biologicamente difettivo
rispetto ad HBV di cui segue o accompagna l’infezione, è bassissimo e prossimo
allo zero: i casi segnalati assommano a poche unità. Il paziente fonte può essere portatore di una coinfezione HBV-HDV o, più
raramente, di una superinfezione di HDV
in soggetto già affetto da epatite B. Anche
in questo caso non tutti i pazienti fonte
sono ugualmente infettanti e si rende necessaria una valutazione sierologica e molecolare completa per illustrare lo status
virologico: nelle forme acute l’infettività è
massima qualora la fonte, HbsAg+ HBVDNA+ e HbeAg+/-, presenti alti livelli di
HDV-RNA e la presenza di HDV-Ag, quest’ultimo precoce a comparire e precoce a
negativizzarsi; la successiva comparsa di
anticorpi anti-HDV di classe IgM, per alcune settimane o qualche mese, si accompagna sempre ad una viremia non indifferente e ad un grado di infettività elevato,
situazione che scema decisamente al com-
40
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
parire degli anticorpi di classe IgG; nelle
forme croniche, ad andamento protratto e
non controllate dalla terapia, la viremia è
soggetta a poussè.
Comunque a livello preventivo l’introduzione della vaccinazione anti-HBV ha
radicalmente mutato lo scenario epidemiologico ed infettivologico anche di questa
epatite, per cui fra alcuni anni, almeno in
occidente, la trattazione di HDV tra i virus
collegati ad un rischio biologico occupazionale dovrebbe essere solo un ricordo.
4) HUMAN IMMUNODEFICIENCY VIRUS (HIV)14
Un I.B. con un campione ematico o di
altra natura proveniente da un paziente
HIV+ innesca nell’operatore sanitario una
reazione psicologica poco razionale difficile da affrontare, nell’immediato e nei mesi successivi, durante il follow-up, anche
in presenza di accertamenti sierologici,
molecolari e virologici che escludono il
contagio: in effetti il rischio di contrarre
l’infezione da HIV, dopo esposizione occupazionale, è stato e resta molto basso, valutato nell’ordine dell’0.03 – 0.29%. Tuttavia è una situazione che richiede, da parte dell’infettivologo, del virologo e del medico competente o di medicina del lavoro,
che devono affrontarla ognuno per ciò che
gli compete, un grande impegno professionale e psicologico.
I pazienti fonte più infettanti non sono
tanto coloro che, in fase iniziale d’esordio
dell’infezione, presentano una viremia più
o meno elevata, dal momento che questo
periodo è breve, spesso a o paucisintomatico e raramente tale da rchiedere l’ospedalizzazione, quanto i malati in fase di
AIDS conclamata o infezione terminale,
non responder o resistenti alle terapie, caratterizzati da alti livelli viremici e dai
gradi maggiori di immunodeficit. Poiché
questi pazienti sono di solito ben monitorati in quanto sia la viremia che la conta
dei Cd4+ rappresentano parametri fondamentali per impostare e regolare la terapia, difficilmente dopo un I.B. ci si trova
“scoperti” nella valutazione del paziente
fonte, che altrimenti, con non pochi problemi operativi, va eseguita immediatamente dopo l’incidente per programmare
una corretta profilassi post-esposizione
(PPE) ed un adeguato follow-up dell’operatore contaminato.
Tuttavia, negli ultimi dieci anni, la situazione dei malati di AIDS è radicalmente mutata, con l’introduzione dell’ HAART
(Highly active antiretroviral therapy):
l’impiego di questo cocktail di farmaci antiretrovirali, ognuno con un’azione diversa e specifica in varie fasi della replicazione virale, ha permesso di raggiungere risultati importanti, primo fra tutti la riduzione della carica virale, ma anche la riduzione della trasmissione verticale, un
contributo fondamentale all’immunoricostituzione (>Cd4+), la riduzione della frequenza delle infezioni opportunistiche e
delle neoplasie secondarie15. Tutto questo,
nel mondo occidentale, ove l’HAART è impiegata a fronte degli alti costi che ne frenano l’impiego in altre parti del mondo,
ha contribuito nell’ultimo decennio alla
diminuzione della mortalità legata alla
malattia di base e alle complicanze, ad un
aumento della vita media e della qualità
di vita. Per quanto riguarda il tema da noi
trattato, la presenza di pazienti ricoverati
(ma lo stesso discorso vale per i malati seguiti da personale medico o infermieristico a domicilio) trattati con HAART, comporta l’esecuzione di procedure diagnostiche, terapeutiche e assistenziali in soggetti con una carica virale sostanzialmente
più bassa rispetto al passato e , quale ulteriore riflesso positivo, un ulteriore decremento del rischio biologico e d’infezione
da paziente ad operatore in caso di I.B16.
Questa lunga messa a punto della situazione attuale ci sembra necessaria per
trasmettere un messaggio rassicurante o
quantomeno più razionale per gli operatori sanitari che dovessero incorrere in un
I.B. con campioni provenienti da paziente
HIV+
DATI STATISTICI
Le dimensioni del problema sono evidenziate da alcuni dati statistici che presenteremo; è necessario precisare che, accanto a numerose e aggiornate indagini riguardo I.B. in vari settori e a carico di diverse figure professionali della sanità, i
dati sugli incidenti in laboratorio e i suoi
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
specifici operatori non sono molto numerosi e ormai datati.
Innanzitutto è utile indicare la prevalenza delle tre principali infezioni di cui ci
stiamo occupando in Italia, dedotta dalla
positività dei rispettivi marker sierologici
(tabella n. 1), nella popolazione generale,
tra la popolazione ospedaliera e tra gli
operatori sanitari. Il dato non univoco dell’infezione da HCV nella popolazione generale tien conto delle modalità di raccolta dei dati, che risentono dell’area geografica e se comprendenti o meno immigrati
ed extracomunitari.
Un fenomeno molto importante è quello della sottonotifica dell’incidente biologico da parte dell’operatore sanitario, vuoi
per incuria vuoi per la convinzione, assai
diffusa, di dover affrontare una procedura
burocratica lunga e complessa, che anzi è
stata concepita a tutela del lavoratore. Se
in caso di contaminazione di cute lesa, di
mucose o tagli siamo entro limiti accettabili (tabella n. 2), non così si può dire per
gli infortuni da strumenti appuntiti
(aghi), che sono la maggioranza, la metà
dei quali non viene notificata.
In uno studio policentrico italiano, condotto in 39 ospedali italiani per 6 mesi,
mediante un questionario autosomministrato circa la frequenza di esposizione a
sangue ed altri liquidi biologici in corso di
oltre 15.000 interventi chirurgici e riguardante tutto il personale coinvolto (chirurghi, ferristi, infermieri, tecnici adibiti alla
raccolta di biopsie ed estemporanee), si
evidenziò una percentuale > 9% di I.B. (tabella n. 3) dovuti soprattutto a punture e
rotture di guanti, mentre i tagli erano molto infrequenti. Limitatamente ai soli medici chirurghi, le punture rispetto ai tagli e
alle contaminazioni congiuntivali da schizzi di sangue rappresentavano la netta
Tabella 1. Prevalenza dei marcatori sierologici di HBV, HCV, HIV in Italia
(dati SIROH, 2004)
Popolazione
HBsAg+ HCV-Ab+ HIV-Ab+
Generale
1-2%
Ospedalieara
2%
Operatori Sanitari 2%
3-6%
4%
2%
0,1%
1%
<0,1%
41
maggioranza degli incidenti verificatisi17.
Indicativamente, è stato calcolato che,
prima dell’adozione integrale e capillare
delle precauzioni universali e della piena
attuazione del programma vaccinale antiHBV, il rischio cumulativo di contrarre
un’infezione da virus emotrasmessi per un
chirurgo con 30 anni di attività, 250 interventi l’anno e con una prevalenza di infezioni negli operandi simile a quella precedentemente illustrata, era del 42.7% per
HBV, del 34.8% per HCV e dell’0.54% per
HIV18. Ma lo stesso studio ha successivamente stimato che, dopo la piena adozione
delle precauzioni universali, soprattutto
l’uso di barriere cutanee e schermi facciali,
l’attuazione della vaccinazione anti-HBV
tra la popolazione generale e in ambito sanitario e l’impiego di nuovi presidi e procedure di sicurezza, il rischio cumulativo si è
praticamente dimezzato, passando per
HBV dal 42.7 al 21%, per HCV dal 34.8 al
16.6% e per HIV dallo 0.54% allo 0.23%19.
In un altro studio condotto in 115 ospedali italiani dal gruppo PHASE è stato valutato che, su oltre 28.000 infortuni professionali segnalati, oltre i tre quarti
(76.6%) erano rappresentati da esposizioni percutanee (punture da aghi e ferite da
altri taglienti) e un quarto (23.4%) da
esposizioni mucocutanee, soprattutto congiuntivali.
In laboratorio (tabella n.4) gli incidenti
biologici con evidente contaminazione
ematica, come le lesioni da aghi e taglienti, rapresentano oltre il 41% del totale,
ben superiori alla contaminazione mediante aerosol (26.7%) con possibilità di
contatto con microrganismi aerotrasmessi
e altre tipologie di infortuni.
Lo stesso studio PHASE (tabella n.5)
ha correlato, in diverse categorie professionali, la percentuale effettiva di incidenti verificatisi con la percentuale precedentemente valutata di eventi attesi: per alcune categorie (medici, infermieri, ostetriche, personale in formazione) i valori sono
sovrapponibili, in altre (tecnici di laboratorio) la realtà evidenziata è stata migliore di quella prevista, mentre per gli ausiliari e addetti alla pulizie è stato riscontrato un buon 30% di infortuni in più rispetto alla quota prevista. Tutto questo è
importante nella programmazione della
42
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
Il Gruppo Italiano Rischio
Occupazionale (GIRO) ha
valutato recentemente i tassi di sieroconversione, per
singolo agente eziologico, a
88
seguito di singola esposizione, negli operatori sanitari:
78
accanto a valori dello 0.52%
85
sia nell’esposizione percutanea che in quella mucosa per
HCV, 0.46% nell’esposizione
percutanea e 0.15 % in quel80
100
la mucosa per HIV, è stato
evidenziato un significativo
0%, qualunque sia la modalità di esposizione, per HBV: tutto questo
in virtù dell’introduzione del programma
vaccinale anti-HBV per il personale sanitario e alla somministrazione di Ig specifiche post-esposizione.
Nella nostra azienda è stato fatto uno
studio capillare degli infortuni biologici e
chimici in generale e, tra i primi, di quelli
che comportano una contaminazione ematica del lavoratore e un rischio di contrarre
infezioni da patogeni emotrasmessi: tutto
questo in virtù della sorveglianza e del monitoraggio continuo da parte dei servizi
preposti (ufficio infortuni, sorveglianza infezioni occupazionali, ambulatorio vaccinale), tutti facenti capo alla direzione sanitaria, cui si devono i dati seguenti(*).
Ovviamente il maggior numero di incidenti si verifica, tanto nella popolazione
aziendale, quanto in quella attinente il
“118” , tra le fasce di età comprendenti lavoratori di 36/45 e 46/50 anni e questo non
solo perché sono le più rappresentate, ma
perché includono le categorie più attive e
a maggior contatto con malati e campioni
biologici: infermieri, tecnici, ausiliari, chirurghi. Il personale infermieristico è quello che paga il tributo maggiore (57 e 55%,
rispettivamente, in azienda e al “118”),
mentre, come già rilevato altrove, bassa
risulta la percentuale di infortuni in alcune categorie, come ad esempio tra i tecnici di laboratorio (7%).
Nel 2004, il totale di infortuni tra il
personale dell’azienda è stato di 362 casi
e, tra questi, il 18.2% riguardante danni
da ferite provocate dall’utilizzo di aghi e
Tabella 2. Fenomeno della sottonotifica di infortunio a rischio biologico (dati SIROH, 2004)
Cont. Cute lesa
Cont. Mucose
Tagli
56
Punture
0
20
40
60
formazione e dell’aggiornamento del personale e su quali categorie insistere maggiormente.
Tabella 3. Frequenza di esposizione a sangue
ed altri liquidi biologici in corso di procedure
chirurgiche - Studio Policentrico Italiano.
Studio condotto in 39 ospedali italiani, della
durata di 6 mesi, su 15.375 interventi chirurgici. Questionario autosomministrato
Tipo
incidente
Puntura
Taglio
Esposiz.
congiuntive
Esposiz. facciale
Rottura guanto
Ustione
elettrocaut.
Superamento
camice
Totale
N.
% su 1.418
incidenti
% su 15.375
procedure
516
51
36,4
3,6
3,3
0,3
50
100
476
3,5
7,1
33,6
0,3
0,7
3,1
115
8,1
0,8
110
1.418
7,7
100
0,7
9,2
(Pietrabissa et al., World J Surg 2004; 28:573-817)
Tabella 4. Esposizione professionale al rischio biologico. Incidenti in laboratorio
(pike et al., 1996)20
Tipo di incidente
Contaminazione mediante aerorol
Punture con aghi
Tagli
Graffi e morsi da animali
Pipettaggio a bocca
Altre cause
%
26,7
25,3
15,9
13,5
13,1
5,5
(*) Si ringrazia per i dati forniti il Dr. S.Marchesi, dell’ Ufficio Protezione e Prevenzione
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
taglienti e quindi con contaminazione
ematica; il 68% ha richiesto una prognosi
> a 3 giorni (246 casi), l’1.2% ha comportato esiti a distanza sull’apparato motorio. Complessivamente spicca l’incidenza
degli infortuni a carico del personale infermieristico, che rappresenta il 57% della popolazione aziendale infortunata e il
47% di tutta la popolazione aziendale.
Per quanto riguarda il personale afferente al “118” il totale degli infortuni è stato pari a 193 casi, di cui solo il 2% derivante dall’impiego di aghi e taglienti (diversa
tipologia di utilizzo, ma anche miglior preparazione e maggior soglia d’attenzione del
personale); l’87% degli infortuni ha comportato una prognosi > a 3 giorni, nessuno
con esiti a distanza. Anche in quest’ambito
spicca l’incidenza degli infortuni a carico
del personale infermieristico, pari al 55%
della popolazione “118” infortunata e al
39% di tutta la popolazione “118”.
LE RACCOMANDAZIONI
(PRECAUZIONI) UNIVERSALI
Affinché l’operatore sanitario metta in
pratica comportamenti di prevenzione e
protezione per se e per gli altri, è necessario che sviluppi la percezione del rischio
sia in termini quantitativi che qualitativi,
così da incidere sul livello di sicurezza della prestazione che eroga. Per attuare questo comportamento l’operatore deve: 1) conoscere la realtà operativa ove il rischio è
presente; 2) conoscere la frequenza con cui
Tabella 5. Esposizione professionale al rischio biologico. Gruppo di Studio PHASE
(1994-2000, 115 ospedali)20
Categoria
professionale
Infermieri
Medici
Ausiliari/
addetti alle pulizie
Tecnici di laboratorio
Ostetriche
Personale
in formazione
Altri
% accertata
infortuni
% attesa
infortuni
57%
5%
3-6%
6%
18%
2%
1%
12%
4%
2%
13%
4%
12%
5%
43
si verifica l’evento a rischio; 3) conoscere
ed attuare le modalità per prevenirlo; 4)
conoscere il tipo di danno che si verifica o
può verificarsi a seguito dell’evento. Fondamentale, in quest’ottica, è il diritto-dovere alla formazione e all’aggiornamento
in materia.
Svolta epocale da un punto di vista culturale, professionale ed operativo fu, tra
gli anni ’80 e ’90 del secolo passato, a seguito del diffondersi dell’infezione da HIV,
l’adozione delle raccomandazioni o precauzioni universali, intese quali idonee
procedure-barriera da adottare per prevenire l’esposizione parenterale, cutanea e
mucosa qualora si preveda un contatto accidentale con sangue e altri liquidi biologici. Le precauzioni sono rivolte a tutti gli
operatori sanitari, la cui attività comporti
contatto con pazienti e utenti e con liquidi
organici, all’interno di strutture ospedaliere, territoriali e domiciliari; devono
coinvolgere tutti gli operatori delle strutture sanitarie, in quanto l’anamnesi e gli
accertamenti diagnostici non sono sempre
in grado di identificare con certezza e
tempestività in tutti i pazienti la presenza di patogeni trasmissibili attraverso il
sangue o altri liquidi biologici; devono essere applicate di routine quando si eseguono procedure assistenziali, diagnostiche e terapeutiche o si manipolano presidi, strumenti e attrezzature che prevedono o possono provocare un contatto accidentale con sangue e altro materiale biologico.
Le precauzioni universali devono essere applicate ogni qualvolta si può verificare un contatto diretto o indiretto con i liquidi biologici (sangue e non solo) e nei
confronti di tutto il materiale biologico
contenente tracce visibili di sangue. Essendo comunque tutti i materiali biologici
in grado di rappresentare una fonte d’infezione, è necessario applicare le misure
di protezione nel contatto con tutti i campioni biologici per prevenire la contaminazione e la diffusione di malattie infettive
da microrganismi noti e non noti.
Passiamo ora brevemente in rassegna
le principali barriere da adottare in ambito sanitario e nei laboratori in particolare
per la protezione da microrganismi patogeni emotrasmessi.
44
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
LAVAGGIO DELLE MANI. Le mani degli operatori sanitari sono il veicolo principale di trasferimento di patogeni intra e inter-umano (da un paziente all’altro e da un
paziente ad operatore). È necessario lavarsi le mani prima di eseguire procedure a rischio sui pazienti; prima di eseguire azioni
a rischio per se (mangiare, telefonare), dopo essere entrati in contatto con sangue e
altri liquidi biologici, dopo la rimozione di
guanti. In caso di contatto accidentale con
sangue o altri liquidi organici, le mani vanno lavate con acqua e sapone liquido per
30’’, con successiva antisepsi con disinfettanti tipo amuchina al 10%; un lavaggio
più energico si ottiene con antisettici in soluzione saponosa detergente (PVPJ, clorexidina, irgasan all’1%) per 2’.
GUANTI. Prevengono la contaminazione delle mani con sangue e altri liquidi
biologici, ma ovviamente non sono in grado di prevenire gli incidenti da punture e
le lesioni da aghi e taglienti. Devono essere indossati obbligatoriamente: 1) in corso
di addestramento-istruzione del personale
nell’esecuzione di procedure a rischio; 2)
quando si maneggiano campioni biologici
e loro contenitori; 3) quando si maneggiano strumenti e attrezzature contaminate
o sospette tali; 4) quando le mani dell’operatore presentano lesioni (ferite, dermatiti); 5) quando è previsto il contatto con
mucose o cute non integra.
Nelle procedure di accesso vascolare
(prelievi, endovenose), i guanti devono essere indossati immediatamente prima e
rimossi immediatamente dopo l’esecuzione della procedura; devono essere sostituiti in caso di rotture e lesioni; devono essere utilizzati anche per prelievi da polpastrelli, talloni, lobi auricolari; devono essere sostituiti dopo la prestazione assistenziale di ciascun paziente; non devono
essere riutilizzati; devono essere di resistenza idonea alla prestazione che si deve
eseguire (ad es., guanti di gomma per la
pulizia di strumenti e attrezzature). Dopo
aver rimosso i guanti, le mani devono essere lavate.
Poiché non solo il sangue risulta a rischio per l’operatore sanitario, è necessario utilizzare i guanti anche nelle seguenti circostanze: quando si maneggiano pre-
sidi per l’evacuazione intestinale e urinaria, quando si maneggiano presidi di drenaggio, quando si presta assistenza a pazienti incontinenti, quando si eseguono le
cure igieniche, quando si procede alla cura delle stomie.
Quali ulteriori indicazioni, è necessario
che i guanti siano conservati in luoghi facilmente accessibili agli operatori e che in
ogni presidio sanitario vi siano guanti di
lattice, vinile e gomma.
Per quanto riguarda la sorveglianza
delle lesioni alle mani, gli operatori con
lesioni essudative o dermatiti secernenti
alle mani devono evitare di prestare attività di assistenza diretta al malato o di
manipolare strumenti e apparecchiature
potenzialmente contaminate, fino alla risoluzione della condizione morbosa. Tali
operatori devono segnalare la propria patologia al medico competente del servizio
di medicina preventiva.
Circa la questione se i guanti debbano
essere sempre e comunque indossati durante l’esecuzione di un prelievo, così come previsto, anche qualora rappresentino
un problema all’accesso vascolare in casi
particolari, ricordiamo che un Decreto Ministeriale del 28.9.1990 recitava: “Nell’esecuzione dei prelievi tecnicamente di
difficile esecuzione, per le condizioni del
paziente o per particolarità del sito di prelievo e durante l’istruzione del personale
all’esecuzione degli stessi prelievi, è obbligatorio l’uso dei guanti”. Ma successive linee-guida del Ministero della Salute affermano: “Considerando la segnalata difficoltà da parte degli operatori di eseguire
prelievi con i guanti, pur rimanendo valida l’indicazione ad utilizzarli per i prelievi, la decisione delle condizioni d’impiego
può essere delegata alla responsabilità e
alla professionalità degli operatori stessi”,
il che equivale a dire che la responsabilità
e la decisionalità soggettive, in alcune circostanze, possono talora mettere in discussione norme scritte e approvate.
DISPOSITIVI DI PROTEZIONE FACCIALE. Le mascherine e gli occhiali protettivi devono essere indossati durante l’esecuzione di procedure diagnostiche, terapeutiche e assistenziali che possono provocare l’esposizione delle mucose orale,
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
nasale e congiuntivale a gocce e schizzi di
sangue e altri liquidi biologici o frammenti di tessuti e ossa. La protezione facciale
va attuata anche durante la decontaminazione e il lavaggio di ferri chirurgici, vetreria e strumenti di laboratorio.
COMPORTAMENTI A RISCHIO
Nonostante le indicazioni per prevenire
gli I.B., non si è evidenziata una significativa riduzione delle punture da ago e delle ferite da taglio. I motivi possono essere
vari: insufficiente conoscenza del rischio e
delle fasi lavorative che comportano una
maggior esposizione o inadeguata percezione del rischio, personale non adeguatamente formato, mancanza o insufficiente
motivazione a cambiare comportamenti e
abitudini, insufficiente capacità nell’adottare nuove procedure, attrezzature o presidi insufficienti per quantità o qualità,
personale insufficiente per numero, con
alti carichi di lavoro, basso turnover. Alla
luce di tutto questo, tutto il personale sanitario deve periodicamente analizzare i
propri processi di lavoro e ripensarli in
modo corretto21.
PROTEZIONE E PRECAUZIONI
PARTICOLARI IN LABORATORIO
ELIMINAZIONE DI AGHI, BISTURI
E TAGLIENTI22. Aghi, rasoi, bisturi, pinze, forbici, vetreria in genere e ogni strumento appuntito, affilato e tagliente deve
essere considerato pericoloso e deve essere maneggiato con cura per evitare ferite
accidentali. Tutti gli operatori sanitari devono adottare le misure necessarie per
prevenire incidenti provocati da detti
strumenti. I tre momenti maggiormente a
rischio sono: 1) pulizia di strumenti e attrezzature (numerosi i casi di incidenti
durante la pulizia di vetreria di laboratorio e strumenti chirurgici); 2) incappucciamento di aghi e taglienti dopo l’uso (da
evitare!!!, così come il loro disinserimento,
piegatura e rottura volontaria); 3) smaltimento di aghi e taglienti (si verificano numerosi incidenti per la loro errata eliminazione in contenitori inidonei: questi ul-
45
timi devono essere resistenti, rigidi, impermeabili con chiusura ermetica e smaltiti come rifiuti sanitari pericolosi).
Per quanto riguarda altre manovre a
rischio, NON SI DEVE cercare di raccogliere strumenti taglienti, appuntiti e di
vetro che stanno cadendo, trasportare taglienti o vetreria in tasca o liberi in borsa,
ma su appositi vassoi o in contenitori, prelevare alcunché dai contenitori di smaltimento; SI DEVE, invece, chiedere collaborazione, se il paziente non coopera o è agitato, prima di procedere a manovre invasive (dal semplice prelievo a operazioni
più complesse) che prevedono l’utilizzo di
strumenti appuntiti o taglienti.
SMALTIMENTO DEI RIFIUTI SANITARI PERICOLOSI E DEI CAMPIONI
BIOLOGICI. I rifiuti provenienti da: medicazioni; attività diagnostiche, terapeutiche, di ricerca, di sala operatoria; laboratori di analisi; servizi di nefrologia e dialisi; servizi vaccinali; piccola chirurgia; attività ambulatoriali in genere; pronto soccorso; padiglioni di malattie infettive
(compresi i residui di pasti), sono definiti
“rifiuti sanitari speciali pericolosi” (d.l. n.
22 del 5.2.1997) e pertanto devono essere
immessi in contenitori specifici e sottoposti, prima dell’allontanamento e dell’eliminazione, ad idonei trattamenti di decontaminazione.
I campioni biologici (comprese le biopsie) vanno collocati e trasportati in appositi contenitori a prova di perdite o rotture accidentali. Il vetro (per il sangue e altri liquidi biologici) è oggi sostituito dalla
plastica in provette con tappo ermetico.
Per il trasporto si devono utilizzare contenitori a valigetta chiusi con appositi supporti per provette, flaconi e altri contenitori di materiale organico. I contenitori di
materiale biologico devono essere maneggiati con i guanti.
In caso di spandimento accidentale di
liquidi biologici occorre: disinfettare mediante prodotti a base di cloro l’esterno
delle provette integre; smaltire le provette rotte negli appositi contenitori per rifiuti speciali sanitari pericolosi; versare il
disinfettante nella valigetta e lasciarlo
agire per 30’, prima di sciacquare ed
asciugare.
46
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
Poiché le precauzioni universali hanno
come concetto di base che tutti i campioni
biologici di tutti i pazienti possono essere
potenzialmente infetti, i campioni non devono essere contrassegnati come tali (ad
es., con etichette) in quanto per tutti occorre adottare le stesse corrette manovre
di manipolazione.
DISINFEZIONE, STERILIZZAZIONE
E DECONTAMINAZIONE. È bene precisare subito che i virus di cui ci stiamo occupando e in particolare HBV e HIV, sono tra
gli organismi meno resistenti sia nell’ambiente (come in caso di spargimento e contaminazione di superfici con materiale biologico) che ai comuni disinfettanti: pertanto, le procedure a cui ora faremo cenno sono
pienamente sufficienti a neutralizzarli23.
La decontaminazione è un’operazione
di disinfezione preliminare alla pulizia di
un presidio sanitario contaminato da materiale organico al fine di prevenire la trasmissione per via ematica di microrganismi quali HBV HCV ed HIV. I decontaminanti chimici più impiegati , tutti per 30’,
sono: prodotti a base di cloro; glutaraldeide al 2% (tossica!); PVPJ al 2.5-10%; clorexidina al 4%; fenoli. I primi tre sono
consigliati dal CDC; tutti e cinque sono ritenuti efficaci dalle linee-guida del Ministero della Salute nei confronti di HIV.
Inoltre, vi sono decontaminanti-detergenti a base di enzimi che spezzano i legami
peptidici delle proteine, favorendo il distacco del sangue dagli strumenti , o a base di tensioattivi che facilitano la penetrazione del prodotto. Durante la decontaminazione l’operatore deve indossare guanti,
maschera e occhiali.
La disinfezione può essere effettuata
con efficacia ed intensità a diversi livelli,
ma in laboratorio è condotta soprattutto
quella a livello alto o intermedio: la prima
consiste nell’inattivazione di tutti i microrganismi (compresi HBV HCV HIV e
micobatteri), ad eccezione delle spore; la
seconda è un’intervento antimicrobico ad
ampio spettro indicato in assenza di spore
e dei microrganismi di cui sopra. Per la
prima si impiegano, quali disinfettanti
chimici, sodio ipoclorito, soluzioni di cloro
elettrolitico, sodio dicloroisocianurato, cloramina, glutaraldeide.
Tutti gli strumenti, presidi e attrezzature che vengono a contatto con organi,
tessuti e cute lesa devono essere sterilizzati mediante: autoclave a vapore (121°
per 15-20’ o 134° per 5-7’); autoclave a ossido di etilene; acido peracetico; stufa a
secco (160° per 2h o 180° per 30’).
In caso di spandimento accidentale di
liquidi biologici, schizzi di sangue o altro
su superfici devono essere prima rimossi e
successivamente l’area deve essere decontaminata mediante preparati a base di
cloro; l’operatore, durante queste manovre, deve proteggere cute e mucose con i
dispositivi appositi.
PRECAUZIONI PER IL PERSONALE
DI LABORATORIO PREVISTE DALLA
LEGGE “626”. In aggiunta alle precauzioni generali, detto personale deve tener
presente una serie di accorgimenti specifici previsti in più articoli della legge
626/94. Eccone un sunto, in relazione alla
trasmissione di patogeni per via ematica:
- tutti i campioni biologici devono essere
posti in contenitori atti ad evitare perdite durante il trasporto;
- per la gestione di tutti i campioni biologici, umani e animali, vanno impiegate
le cabine di sicurezza biologica; queste
ultime sono obbligatorie nelle procedure di produzione e manipolazione di virus concentrati e in elevata quantità;
- i guanti devono essere utilizzati, oltre
alle indicazioni generali, quando esiste
il rischio di un contatto diretto della
cute con sangue e altri liquidi biologici
e quando l’operatore presenta dermatiti o lesioni della pelle;
- il lavaggio delle mani va eseguito dopo
la manipolazione di materiali contaminati e dopo la fine del lavoro, anche
quando si siano indossati i guanti;
- deve essere utilizzato materiale monouso;
- la vetreria contaminata deve essere decontaminata mediante sterilizzazione
in autoclave, prima dello smaltimento;
- i piani di lavoro devono essere decontaminati con preparati a base di cloro dopo
schizzi di sangue o altro liquido biologico;
- le apparecchiature e attrezzature contaminate da sangue o altro liquido bio-
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
logico devono essere pulite e decontaminate, prima di essere riparate, manipolate o sostituite;
- ogni volta che il personale lascia il laboratorio deve rimuovere guanti e camici e lavare le mani;
- oggi è ammesso solo il pipettaggio automatico, mentre è bandito quello a
bocca.
Vi è poi tutta una serie di norme specifiche per il personale addetto ad alcune
mansioni particolari od operante in laboratori specializzati: ad esempio, coloro che
prestano servizio in camera mortuaria e
sala autoptica ed effettuano procedure post-mortem devono24:
- indossare sempre guanti, maschere, occhiali protettivi, camici e grembiuli a
tenuta d’acqua;
- indossare guanti di maglia d’acciaio
inossidabile in sala settoria durante le
operazioni di rimozione della gabbia toracica, delle vertebre e della calotta
cranica e durante l’impiego di strumenti per il taglio delle ossa;
- trattare strumenti contaminati mediante sterilizzazione a vapore o a secco;
- detergere e poi trattare con preparati a
base di cloro apparecchiature e superfici contaminate.
Il personale dei laboratori di istologia
ed anatomia patologica devono invece tener conto quanto segue:
- i campioni di tessuto devono essere maneggiati con estrema attenzione, individuando un’area di lavoro apposita e
disponibile per apparecchiature comunque contaminate ed in seguito da
decontaminare;
- particolare attenzione va posta nell’impacchettamento, etichettamento e trasporto dei campioni;
- i campioni di grandi dimensioni devono
essere selezionati in sala autoptica;
- tutti i materiali da eliminare devono
essere autoclavati o direttamente inceneriti;
- un trattamento con azoto liquido non
disinfetta il campione anatomico.
47
INFORTUNI A RISCHIO BIOLOGICO
ED ESPOSIZIONE ACCIDENTALE
PROFESSIONALE A MATERIALE BIOLOGICO ATTRAVERSO PUNTURE, TAGLI E CONTATTO MUCOSO.
Qualora si verifichi un I.B. con contaminazione ematica della cute, provocata perlopiù da punture e tagli, o delle mucose,
causata da schizzi di sangue o altri liquidi
biologici, una corretta medicazione è il primo step a cui il lavoratore infortunato deve
provvedere: sarà pertanto necessario aumentare il sanguinamento, detergere la ferita con acqua e sapone e disinfettare con
prodotti a base di cloro o PVPJ (esclusa la
cute del viso); nel caso sia coinvolto il cavo
orale, questo va risciacquato con prodotti a
base di cloro, mentre le congiuntive vanno
abbondantemente deterse con acqua25, 26. Il
lavoratore deve informare il responsabile
della propria unità operativa e deve immediatamente recarsi al pronto soccorso del
proprio ospedale o più vicino per eventuali
ulteriori medicazioni, interventi profilattici
d’emergenza, denuncia d’infortunio e relativa certificazione INAIL.
In caso di infortunio a rischio biologico,
per l’operatore sanitario è previsto nella
nostra azienda, così come nelle maggiori
aziende ospedaliere nazionali27, un percorso ben preciso che permette di completare
la medicazione, di svolgere una serie di
pratiche amministrative, di effettuare
una visita-consulenza infettivologica e
una serie di procedure immunoprofilattiche con relativo follow-up. Queste le tappe
previste:
1) Entro 1h dall’infortunio o appena possibile (ovviamente ha la precedenza il
completamento della medicazione, al
pronto soccorso o altro presidio d’emergenza) per consulenza infettivologica
al Centro di Riferimento AIDS; l’infettivologo provvede a redigere una relazione da consegnare all’Ambulatorio
Vaccinazioni, Sorveglianza e Prevenzione Infezioni Occupazionali e ad attivare, se necessario, la profilassi antiretrovirale;
2) Al Pronto Soccorso del presidio più vicino che provvede al rilascio del verbale
48
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
della prestazione erogata e del certificato su modello INAIL;
3) All’Ambulatorio vaccinazioni, Sorveglianza e Prevenzione Infezioni Occupazionali che registra l’infortunio e avvia la sorveglianza post-esposizione,
con eventuale follow-up dell’operatore;
4) Alla Direzione Sanitaria Ospedaliera o
all’Ufficio Infortuni, per consegnare la
dichiarazione di infortunio sul lavoro, il
verbale di pronto soccorso e il certificato su modello INAIL.
È raccomandata la massima tempestività nel recarsi all’ambulatorio vaccinale
e nella consegna dei moduli compilati; il
rispetto scrupoloso delle scadenze dei controlli sierologici, secondo i follow-up previsti e le date del calendario vaccinale qualora l’operatore sanitario non fosse precedentemente vaccinato per HBV.
Vi sono poi da prendere in considerazione casi particolari, qualora il paziente
fonte sia positivo per una delle infezioni
da patogeni emotrasmessi maggiori e
quindi l’operatore sanitario sia a forte rischio di contagio.
1) Incidente biologico a rischio
per HBV (paziente fonte HBV+) in
operatore sanitario vaccinato per
epatite B. L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione, effettua
la denuncia INAIL, esegue l’eventuale
profilassi per infezione HBV, che consiste
in una dose di richiamo di vaccino antiHBV, non necessaria in caso di titolo documentato di HbsAb >100U/ml negli ultimi sei mesi; al servizio infezioni occupazionali (o ufficio tutela salute dei lavoratori e prevenzione rischio occupazionale)
della Direzione Medica Ospedaliera, dopo la valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica di infortunio, viene effettuato un prelievo per la
ricerca completa dei markers dell’epatite
B (+ la ricerca degli anticorpi anti-HCV e
anti-HIV).
2) Incidente biologico a rischio per
HBV (paziente fonte HBV+) in operatore sanitario NON vaccinato per
epatite B. L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione, effettua la
denuncia INAIL, esegue la profilassi per
infezione HBV, che in questo caso consiste
nella somministrazione di immunoglobuline specifiche, che secondo la maggioranza dei protocolli internazionali vanno inoculate entro 48h dall’incidente e di una
prima dose di vaccino anti-HBV; al servizio infezioni occupazionali, dopo la valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica d’infortunio, viene effettuato un prelievo per la ricerca completa dei markers dell’epatite B (+ la ricerca
degli anticorpi anti-HCV e anti-HIV) e
delle transaminasi ed infine viene programmato il successivo controllo dopo sei
mesi dei markers di HBV e transaminasi
nonché il calendario delle dosi successive
di vaccino.
3) Incidente biologico a rischio per
HCV (paziente fonte HCV+). L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione ed effettua la denuncia INAIL;
al servizio infezioni occupazionali, dopo la
valutazione dell’infortunio e la compilazione della scheda analitica d’infortunio,
viene effettuato un prelievo per la ricerca
degli anticorpi anti-HCV (+ markers dell’epatite B e anticorpi anti-HIV) e viene
programmato il controllo successivo, dopo
sei mesi, per la ricerca degli anticorpi anti-HCV.
4) Incidente biologico a rischio
per HIV (paziente fonte HIV+).
L’infortunato, al pronto soccorso, completa la medicazione ed effettua la denuncia
INAIL; in consulenza dall’infettivologo,
che propone la chemioprofilassi antiretrovirale post-esposizione (PPE), da iniziare tempestivamente dopo l’infortunio
– vedi oltre per i dettagli –; al servizio infezioni occupazionali, dopo la valutazione
dell’infortunio e la compilazione della
scheda analitica d’infortunio e la scheda
di sorveglianza per infezione HIV, viene
effettuato un prelievo per la ricerca degli
anticorpi anti-HIV (+ marker epatite B e
anticorpi anti-HCV) e vengono programmati i successivi controlli sierologici per
HIV dopo 6, 12 e 26 settimane; questo
programma cambia in tipologia di esami
e tempi di controllo se l’operatore si sottopone a PPE, come illustreremo più
avanti.
49
F. Belli: Il rischio biologico da patogeni emotrasmessi
CHEMIOPROFILASSI CON FARMACI
ANTIRETROVIRALI DOPO ESPOSIZIONE OCCUPAZIONALE (PPE) AD HIV
NEGLI OPERATORI SANITARI (Protocollo congiunto del Ministero della Salute
e della Commissione Nazionale per la lotta contro l’AIDS)
Elementi ispiratori della PPE vanno ricercati in un’appropriata gestione postesposizione del lavoratore sanitario, quale
fattore di sicurezza sul luogo di lavoro e la
certezza che il trattamento con farmaci
antiretrovirali riduce il rischio di trasmissione dell’HIV dopo esposizione occupazionale a sangue infetto. La prevenzione e la
riduzione del rischio d’infezione occupazionale, nonché la limitazione della gravità dell’evento “infezione” sono obiettivi
che si ottengono solo se la PPE viene attuata tempestivamente mediante un trattamento precocissimo e dopo ogni esposizione a rischio, anche nei casi in cui
l’infortunato riporti ripetute esposizioni28.
L’infettivologo, nel proporre la PPE, valuta i fattori associati ad un forte rischio
di trasmissione dell’infezione da HIV dopo
esposizione occupazionale, prendendo in
esame la dinamica dell’incidente; due sono soprattutto i suoi campi d’indagine: 1)
Il tipo di esposizione. Sono indicativi di rischio elevato le ferite profonde e sanguinanti spontaneamente, le punture con ago
cavo utilizzato per prelievo, la presenza di
sangue in quantità visibile sulla superficie del presidio implicato nell’incidente, la
contaminazione congiuntivale massiva,
qualsiasi esposizione al virus concentrato
(laboratori di ricerca e produzione di virus); 2) Le caratteristiche del paziente
fonte. In questo caso depongono per un
elevato rischio di trasmissione dell’ HIV i
pazienti in fase terminale, quelli con infezione acuta (rari in un ambito ospedaliero), i pazienti con >30.000 copie/ml di
HIV-RNA, i pazienti con resistenza a uno
o più farmaci antiretrovirali (trattati da
almeno 6-12 mesi e segni di progressione
clinica).
Un problema da considerare è quello
della tossicità dei farmaci antiretrovirali29: alle dosi attualmente raccomandate la
PPE con zidovudina (ZDV) è generalmente ben tollerata dagli operatori sanitari.
Tuttavia, mentre vi sono numerosi studi
sulla tossicità dei farmaci antiretrovirali
in HIV+, non sono invece disponibili dati
che permettano di stabilite la possibile
tossicità a lungo termine (ritardata) degli
antiretrovirali in persone non infettate da
HIV. Ricordiamo comunque che il rischio
medio di infezione da HIV in seguito a
esposizione percutanea di qualsiasi tipo
con sangue infetto è inferiore allo 0.3%.
Pertanto è l’infettivologo cui spetta il
compito se trattare o no l’operatore infortunato con la PPE, dopo un’accurata indagine sulla dinamica dell’incidente biologico, le caratteristiche dell’evento e gli
aspetti clinici del paziente fonte. Sono elementi che depongono a favore del trattamento la sicura positività per HIV del paziente fonte o qualora vi sia il fondato sospetto che si trovi nel “periodo finestra”, il
caso in cui questi non sia identificabile,
qualora l’indagine epidemiologica confidenziale riveli che il paziente fonte HIVpossa essere ad alto rischio di infezione.
Elementi di dubbio nel proporre la PPE
sono il dato obiettivo che la maggioranza
delle esposizioni occupazionali ad HIV
non determina la trasmissione dell’infezione e la potenziale tossicità dei farmaci.
Controindicazioni assolute sono i casi
in cui l’operatore sia affetto da anemia,
immunodeficit, malattie croniche del fegato o renali, patologie metaboliche o si trovi in condizione di gravidanza.
Nei casi in cui la PPE viene iniziata, è
necessario eseguire la ricerca degli anticorpi anti-HIV sul paziente fonte in tempi
brevi, per interrompere eventualmente il
trattamento. La PPE va comunque iniziata entro 1-4 ore dall’incidente, mai oltre le
24: vi è una stretta correlazione tra tempestività d’intervento ed efficacia. La
ZDV, se ben tollerata, va somministrata
per 4 settimane. Il follow-up prevede l’esecuzione di un emocromo con formula, test di funzionalità epatica e renale al tempo 0 e ogni 10 giorni per tutta la durata
del trattamento.
CONCLUSIONI
La prevenzione dell’esposizione a sostanze biologiche, applicando comportamenti adeguati, coinvolge tutta l’organiz-
50
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
zazione del servizio e indirizza le strategie
da adottare per cambiamenti a breve, medio e lungo termine. La strategia prevede
un coinvolgimento diretto operativo, di responsabilità ed economico della Direzione
Medica Ospedaliera e dei Servizi di Medicina Preventiva e Infezioni Occupazionali,
della Direzione Amministrativa e del Servizio formazione e aggiornamento. L’operatore sanitario deve impegnarsi ad
adempiere alle indicazioni operative impartite, al corretto utilizzo dei dispositivi
di protezione individuale e ad esercitare il
diritto/dovere alla formazione e all’aggiornamento. La divulgazione delle linee-guida è obbligatoria per tutto il personale, tenendo conto che si tratta di una serie di
indicazioni di carattere generale e occorre
procedere alla loro applicazione nell’ambito di ciascun servizio e inserire le procedure previste in ogni singolo contesto.
Tutti gli operatori sanitari devono avere coscienza dell’esistenza del rischio, devono adottare misure per limitarlo e per
interrompere la catena di diffusione dell’infezione.
Le misure fondamentali vertono su
questi punti: sensibilizzazione (formazione-informazione), condivisione delle procedure, adozione integrale delle misure di
sicurezza e prevenzione, adeguamento
continuo al progresso tecnologico.
Un chirurgo ortopedico nell’800, quando la mortalità fra operati e operandi era
altissima in seguito a infezioni contratte
per contaminazione ematica e vi erano ben
poche barriere protettive, affermava che la
misura preventiva più efficace per evitare
il diffondersi delle infezioni era: “Lavare fino a che si è stufi e poi lavare ancora un
po’”30. Se oggi estendiamo questo modus
operandi (applicare assiduamente le misure preventive e non abbassare mai la soglia di attenzione e sorveglianza) a tutte le
precauzioni universali, siamo certi non di
eliminare ma di contenere fortemente il
numero di I.B. da patogeni emotrasmessi
nelle strutture sanitarie.
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Fiuggi, 12-15-dicembre 2005.
____
Per richiesta estratti:
Dr. Belli Francesco, Lab. Microbiologia e Virologia
Ospedale C.Forlanini, Piazza C.Forlanini 1, 00151 Roma
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
RETICOLOCITI E SOTTOPOPOLAZIONI RETICOLOCITARIE
NELLA DIAGNOSTICA EMATOLOGICA
RETICULOCYTES AND RETYCULOCYTES STRAINS
IN HAEMATOLOGICAL DIAGNOSIS
ARDUINO BARALDI
Laboratorio Biochimica Clinica Ospedale Forlanini - Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini
Riassunto. I reticolociti costituiscono una piccola quota dei globuli rossi circolanti che pre-
sentano residui di organuli citoplasmatici di tipo ribosomiale. Con lo sviluppo delle metodiche citometriche basate sulla fluorescenza si è ottenuta una notevole precisione nel definire
le classi di reticolociti con differente maturità. Questo ne ha permesso un’applicazione clinica in molti settori della diagnostica ematologica.
Parola chiave. Reticolociti. Citofluorimetria.
Summary. The reticulocytes constitute a small part of the circulating red cells that presents
residues of ribosomial cytoplasm. The development of the cytometric methods founded on
fluorescence has achieved a considerable precision to define the classes of reticulocytes with
different maturity. This has allowed a clinical application in many sectors of the haematological diagnosis.
Key words. Reticulocytes. Flow Cytometry.
INTRODUZIONE
Secondo le classificazioni ufficiali i reticolociti sono globuli rossi che hanno ancora
al loro interno materiale che assume una
colorazione blu con coloranti, come il blu di
metilene e che identifica particelle di RNA
ribosomiale.
METODI MANUALI
Questi utilizzano coloranti quali blu di
cresile, blu di metilene, azur B che inducono
aggregazione e precipitazione dei residui ribosomiali colorandoli in modo da renderli
visibili su sfondo chiaro del citoplasma. Il
requisito fondamentale di queste tecniche è
che non vi sia una fissazione preliminare,
che è dato indispensabile affinché vi sia una
penetrazione del colorante attraverso la
membrana in modo che si determini la precipitazione delle ribonucleoproteine. Le tecniche per la conta al microscopio si basano
sulla incubazione a fresco del sangue anticoagulato con il colorante in soluzione salina
per alcuni minuti.
La proporzione dei reticolociti viene calcolata come percentuale dei globuli rossi g.r.
esaminati con la seguente formula:
n. reticolociti
Reticolociti%= ––––––––––––––– * 100
n. g.r. + ret.
Nella conta microscopica la precisione è
influenzata dal numero dei globuli rossi e
A. Baraldi: Reticolociti e sottopopolazioni reticolocitarie nella diagnostica ematologica
53
reticolociti che vengono contati. Sarebbe opportuno proseguire il conteggio fino a che
non si contano almeno 100 reticolociti. I
metodi manuali richiedono tempi lunghi e
sussiste una notevole variazione statistica
fra gli osservatori e poca riproducibilità del
metodo.
laser del citometro utilizzato.
Il migliore colorante utilizzando un laser
ad argon è risultato essere l’arancio di tiazolo.
La conta reticolocitaria con citofluorimetro è più rapida e molto più precisa
rispetto alla conta microscopica.
METODI CITOFLUORIMETRICI
FATTORI D’INTERFERENZA
L’analisi con la citometria a flusso è iniziata negli anni ’80 ed oggi gli apparecchi di
ultima generazione sono estremamente affidabili e precisi. Si utilizzano coloranti fluorescenti, detti anche fluorocromi, che si
legano agli acidi nucleici e penetrano attraverso la parete cellulare.
La lunghezza d’onda d’eccitazione dovrà
essere compatibile con quella della luce
Vi sono numerosi fattori che possono interferire con la conta reticolocitaria: le leucocitosi di alto grado possono produrre un
falso aumento dei reticolociti per interferenza nell’area di conta dei globuli bianchi fluorescenti; ed ancora le conte piastriniche elevate, la presenza di piastrine giganti.
Nello schema seguente sono state raggruppate le varie cause d’interferenza:
LEUCOCITI
Conte elevate
PIASTRINE
Conte elevate, piastrine giganti, aggregazione piastrinica
ERITROCITI
Eritroblasti periferici, Corpi di Howell Jolly, Corpi di Heinz,
Emoglobine atipiche, Agglutinazione eritrocitaria, Porfirie,
Parassita malarico, Babesiosi
FATTORI PLASMATICI
Paraproteinemie, Crioglobuline e Crioagglutinine, Emolisi,
Farmaci fluorescenti, Fluoresceina
INDICI
DI MATURAZIONE
La durata di vita del reticolocita è data
dall’intervallo di tempo fra la perdita del
nucleo da parte di un eritroblasto e la fase
in cui nel citoplasma non si riscontra più
presenza di RNA.
I reticolociti possono essere divisi in sottopopolazioni in base alla quantità di
sostanza reticolare in essi presente secondo
la classificazione di Heilmayer:
CLASSE 0
Eritroblasti contenenti ancora dei nuclei intatti
CLASSE 1
La sostanza reticolare forma un unico ammasso
CLASSE 2
La sostanza reticolare ha una minore densità ma occupa
ancora la maggior parte della cellula
CLASSE 3
È presente disgregazione della sostanza reticolare
CLASSE 4
La sostanza reticolare è ridotta a pochi granuli e/o corti
filamenti
54
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
La maggiore o minore intensità di fluorescenza porterà all’individuazione di tre
classi diverse di reticolociti: 1) quelli a bassa
fluorescenza ( LFR ) che rappresentano circa l’80% di tutti i reticolociti e corrispondono
alla classe 4 di Heilmayer; 2) quelli a media
fluorescenza ( MFR ) e 3) quelli ad alta fluorescenza ( HFR ), che corrispondono alle altre classi.
DIAGNOSI
EMATOLOGICA
La presenza di reticolociti nel sangue
periferico rappresenta un significativo indice della funzionalità midollare sotto il profilo della funzione eritropoietica.
Nella diagnosi differenziale delle anemie,
l’aumento di reticolociti è indice di eritropoiesi efficace.
Una soglia per distinguere le anemie con
risposta efficace può essere data da: 40*10 /l.
Una conta reticolocitaria inferiore a
10*10 l indica una eritropoiesi ridotta. Una
reticolocitosi si può osservare nelle anemie
acute post-emorragiche ed in tutte le anemie
emolitiche sia da causa extra che intracorpuscolare. I maggiori livelli si osservano durante le crisi da deglobulizzazione nelle anemie emolitiche costituzionali, in quelle autoimmuni e nella malaria. Un aumento dei
reticolociti si ha anche nelle leucemie acute,
mielodisplasie, policitemia vera; nell’aplasia
si ha, invece una netta riduzione del numero
dei reticolociti.
Un altro campo in cui ci si avvale della
conta reticolocitaria è quello del controllo
della risposta eritropoietica in terapia, per
esempio nella anemia megaloblastica e
sideropenica.
L’utilizzo della vit. B12 e/o dell’acido
folico in pazienti con anemia megaloblastica porta ad una trasformazione dell’eritropoiesi midollare che inizia entro 24-48
ore dal trattamento. I reticolociti dopo circa 2-4 giorni aumentano e si ha una intensa e rapida crisi reticolocitaria costituita in
prevalenza dalle classi 1 e 2 (fortemente
immaturi).
Nell’anemia da insufficienza renale sia la
conta reticolocitaria che la percentuale di
HFR sono lievemente ridotte e correlate con
la concentrazione di eritropoietina nel plasma. Nelle anemie emolitiche reticolociti e
HFR sono entrambi aumentati e inversamente correlati alla quantità di emoglobina.
Nella anemia aplastica si presenta una
grave reticolocitopenia con un eventuale incremento della frazione a più intensa fluorescenza.
Più in generale si può affermare che la
risposta eritropoietica ad una anemia sia
data da un aumento assoluto dei reticolociti
con un aumento delle frazioni più immature
di questi, ad alto contenuto di RNA. Quando, invece ci si trova di fronte ad una eritropoiesi inefficace o depressa l’azione della
eritropoietina continua a stimolare la produzione di giovani reticolociti con un aumento, in particolare, della frazione HFR,
ma non porta ad un aumento dei globuli
rossi e, in conseguenza, la conta reticolocitaria rimane bassa.
Il campo in cui si sono ottenuti risultati
di grande utilità nelle misurazioni reticolocitarie è quello del trapianto di midollo.
Lo studio di questi pazienti, dal momento
in cui si trovano nella fase di aplasia midollare indotta da chemioterapia e/o radioterapia sino al momento del trapianto e
quindi alla rigenerazione midollare cui fa
seguito l’attecchimento, è fondato sullo studio dei principali indici emocitometrici: è il
valore dei neutrofili uno dei più importanti
ma, insieme a questo, la conta reticolocitaria con metodi citofluorimetrici, si è dimostrata un indice affidabile e sensibile
quanto la conta dei neutrofili ed in più, il
calcolo della componente ad alto contenuto
di RNA, rappresenta l’indice più precoce di
rigenerazione eritropoietica e di attecchimento del trapianto.
Nell’uso terapeutico dell’eritropoietina ricombinante, come nell’anemia da insufficienza renale, si determina un aumento di
reticolociti soprattutto nella frazione a più
alta fluorescenza (HFR), ma una carenza
funzionale del ferro può determinare una
risposta ridotta all’eritropoietina.
In conclusione possiamo dire che la possibilità di determinare la quantità di reticolociti e le loro sottopopolazioni rappresentano indici importanti e di indubbia utilità
nella valutazione dell’eritropoiesi e, in generale, nella diagnostica ematologica.
A. Baraldi: Reticolociti e sottopopolazioni reticolocitarie nella diagnostica ematologica
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
Cline JM, Berlin NI: The reticulocyte count as
an indicator of the rate of erithropoiesis. Am. J.
Clin. Pathol. 1963; 39: 121 –7;
55
D’Onofrio G., Zini G. Morfologia del sangue. Roma; Verduci Editore 1997
Nobes P.R., Carter A.B. Reticulocyte counting
using flow cytometry. J. Clin. Pathol. 1990, 43:
675 –8
____
Per richiesta estratti:
Dr. Baraldi Arduino, Laboratorio Biochimica Clinica Ospedale Forlanini
Viale Palmiro Togliatti, 93 - 00175 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Gestione e organizzazione sanitaria
PIANO DI INTERVENTO PSICOLOGICO IN OSPEDALE
IN CASO DI MAXIEMERGENZA
PLAN OF PSYCHOLOGICAL HOSPITAL INTERVENTION IN MAJOR
ACCIDENTS AND DISASTER
DANILA PENNACCHI*, ANNA VIOLA**
*Psicologo, Servizio Prevenzione Protezione, Membro Gruppo Operativo Interdisciplinare
Maxiemergenze, A.O. San Camillo-Forlanini Roma
** Direttore Sanitario di Presidio, Responsabile Aziendale per Maxiemergenze,
A.O. San Camillo-Forlanini Roma
Parole chiave: Supporto psicologico, maxiemergenza in ospedale.
Key words: Psycho-social support, majopr accidents and disaster in hospital
Negli ultimi anni l’organizzazione dei
Piani di Emergenza in caso di eventi catastrofici è diventata estremamente importante. Tali eventi, e soprattutto quelli non
dovuti a cause naturali, sono infatti aumentati a livello internazionale per numero ed intensità degli effetti. In questi casi
gli ospedali diventano strutture strategiche finali di riferimento per gestire il soccorso delle vittime.
Nella struttura ospedaliera la maggiore attenzione è rivolta all’assistenza
sanitaria immediata che risulta chiaramente necessaria e insostituibile , ma tali piani di azione non possono ignorare
l’importanza di un congiunto supporto
psicologico.
L’importanza di questo intervento è diventata però sempre più evidente, soprattutto in relazione a tre aspetti fondamentali. Il primo è di tipo pragmatico: mettere a disposizione delle vittime un supporto psicologico immediato può prevenire
episodi di panico collettivo. Il secondo è
quello di garantire all’équipe sanitaria
una maggiore efficienza nell’affrontare lo
stress relativo all’attività di soccorso. Il
terzo è di tipo sociale a lungo termine: la
vittima prontamente aiutata subito dopo
una catastrofe riduce notevolmente le probabilità di successiva insorgenza di Di-
sturbi Post Traumatici da Stress. Tale
evenienza infatti può essere arginata e
prevenuta con un intervento psicologico
immediato ed efficace.
Parlare di supporto psicologico in caso
di maxiemergenza vuol dire accompagnare il soggetto in tre fasi distinte: la prima
riguarda l’intervento sul territorio, ovvero
sul luogo dell’evento immediatamente dopo la catastrofe. La seconda è il primo soccorso all’interno degli ospedali nel momento in cui sopraggiungono un alto numero di vittime e familiari delle vittime.
L’intervento infine non può ignorare una
terza fase, quella successiva alla maxiemergenza vera e propria: il soggetto che
necessita di supporto psicologico ha bisogno a volte di essere preso in carico anche
successivamente, attraverso modalità
specifiche e appropriate, al fine di evitare
le possibili ripercussioni dell’evento. Le
tre le fasi di intervento permettono alla
vittima di avere un vero e proprio “contenitore psicologico” che aiuta loro ad affrontare e superare il trauma.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri con la Direttiva del 13 giugno 2006 si
è fatta carico di questo problema decretando i “Criteri di massima sugli Interventi Psicosociali da attuare nelle catastrofi”.
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D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza
L’INTERVENTO PSICOLOGICO
IN OSPEDALE
Per affrontare la seconda fase di sua
pertinenza, l’A.O. San Camillo-Forlanini
si occupa del problema delle Maxiemergenze dal 2003 attraverso la stesura del
Piano di Emergenza Intraospedaliera per
un Massiccio Afflusso di Feriti (PEIMAF)
, le sue revisioni continue, la sua divulgazione agli operatori coinvolti e le frequenti simulazioni per valutare la sua efficacia.
All’interno del Piano la U.O. di Psicologia ha portato il proprio contributo iniziando a pianificare il proprio intervento
in Pronto Soccorso. Questo ha comportato
numerosi incontri di confronto e condivisione, partecipazione a Corsi di Formazione sulla Medicina delle Catastrofi, studio
della letteratura ed ha prodotto l’attuale
Piano di Intervento Psicologico in caso di
Massiccio Afflusso di Feriti.
Il Piano è nato inizialmente dalla collaborazione con il Gruppo di Lavoro Aziendale per il PEIMAF e di conseguenza dalla condivisione del proprio lavoro con le
componenti sanitarie del primo soccorso
ospedaliero.
È stato costruito secondo le indicazioni
della Medicina delle
Catastrofi che prevede tre aspetti basilari per la organizzazione di un Piano di
Emergenza: la Strategia, la Tattica e la
Logistica. Obiettivo principale del Piano è
stato quello di accogliere i bisogni psicologici delle vittime e degli operatori coinvolti nella Maxiemergenza e di contenere le
“normali” reazioni emotive, al fine di prevenire i Disturbi Post Traumatici da
Stress che possono manifestarsi in seguito all’esposizione ad avvenimenti gravi e
luttuosi.
STRATEGIA
La prima fase dello studio ha identificato, quali fruitori dell’intervento psicologico, le Vittime ed i Familiari che pervengono al Pronto Soccorso e gli Operatori
Sanitari che offrono loro l’assistenza sanitaria.
In seguito sono state individuate le risorse umane necessarie secondo i tre livelli di attivazione del PEIMAF Aziendale
e che sono classificati sulla base del numero delle vittime in arrivo all’ospedale
(Tab.1)
La Tabella 2 -estratta dal Piano di Intervento Psicologico in caso di Massiccio
Afflusso di Feriti presentata alla Direzione Sanitaria dell’A.O. San Camillo Forlanini nel dicembre 2005- evidenzia come,
in caso di attivazione del PEIMAF, il Reperibile di turno venga allertato dal Centralino e diventi il Coordinatore dell’intervento psicologico. Questo avviene in particolare la mattina quando ha la possibilità
di convocare in Pronto Soccorso gli altri
colleghi presenti in ospedale. Sono stati
poi attivati una serie di Protocolli di Collaborazione che prevedono una sinergia
tra gli psicologi e:
1. Ufficio Relazioni con il Pubblico
(URP) per favorire l’aspetto comunicativo:
- tra i parenti delle vittime e le vittime
stesse, in quanto il PEIMAF Aziendale
prevede due aree di attesa separate e
questa lontananza potrebbe influire
negativamente sulle ansie, già presenti, in merito alle condizioni fisiche dei
sopravvissuti
- tra i parenti ed i medici del Pronto Soccorso, per le notizie sullo stato di salute delle vittime
- nei casi di necessità di identificazione
delle vittime attraverso l’immagine fotografica: quando non è possibile identificare direttamente i feriti gravi ed è necessario che i parenti scoprano se il loro
congiunto fa parte dell’elenco delle vittime attraverso lo scorrimento delle foto
- nei casi di gravi notizie o decessi, per
accogliere e contenere il dolore dei familiari
Tabella 1.
Livello
n. feriti
1
2
3
20 di cui 4 rossi
30 di cui 10 rossi
>30
58
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
Tabella 2. PIANO DI INTERVENTO PSICOLOGICO NELLE MAXI-EMERGENZE
Lo psicologo reperibile diventa il coordinatore dell’intervento
CHI
OBIETTIVI
Coordinare Psicologi
presenti
Psicologo
Coordinatore
Favorire la comunicazione
con HDM Coordinatore,
URP, Assistenti Sociali e
Ministri di Culto
Ridurre il rischio di
successiva
insorgenza di disturbi da
stress negli operatori
Gestire le proprie risorse
umane
Ridurre il rischio di
successiva insorgenza di
disturbi da stress
Psicologo
assistenza
Vittime
Prevenire le reazioni
emotive da “contagio
collettivo
COMPITI
Individua gli psicologi per
intervento su Vittime e
Familiari
Attiva le collaborazioni
tramite i Protocolli previsti
Previene, Monitorizza,
Supporta le reazioni acute
da stress
Valuta la necessità di
eventuale riposo dei
colleghi
Favorisce il canale
comunicativo
Facilita l’espressione delle
emozioni
Individua i bisogni
psicologici
Sostiene emotivamente
Contiene e gestisce l’ansia
Monitorizza e stabilizza:
reazioni emotive adeguate
inadeguate transitorie
inadeguate stabili
Favorisce il canale
comunicativo
Psicologo assistenza
Familiari
Ridurre il rischio di
successiva insorgenza di
disturbi da stress
Facilita l’espressione delle
emozioni
Prevenire le reazioni
emotive da “contagio
collettivo
Contiene e gestisce l’ansia
Sostenere psicologicamente
in caso di decessi
Sostiene emotivamente
Monitorizza e stabilizza:
reazioni emotive adeguate
inadeguate transitorie
inadeguate stabili
Comunica, insieme al
medico, eventuali notizie
luttuose
D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza
2. Ministri di Culto prevede l’attivazione di varie componenti religiose per dare
la possibilità alle vittime ed ai familiari di
usufruire anche di un eventuale conforto
in questo ambito:
- Cattolico, presente all’interno della
Azienda con l’Ordine dei Camilliani e
di conseguenza immediatamente attivabile
- Ebraico, attraverso accordi con il Rabbino Capo, con l’istituzione di una equipe di Rabbini reperibili, da attivare in
caso di Maxiemergenza
- Islamico, in attesa di definire le modalità di collaborazione.
3. ARES 118 per una migliore gestione
delle vittime, dal punto di vista psicologico.
Il Servizio di Psicologia dell’ARES 118
è a conoscenza dell’ entità dell’evento ed è
il punto di raccolta delle comunicazioni e
di raccordo tra gli psicologi che operano
sul territorio dove è avvenuto l’evento
stesso e gli psicologi presenti negli ospedali dove verranno inviate le vittime.
Attraverso i numerosi incontri effettuati che hanno portato al censimento degli psicologi presenti negli ospedali e ad
un accordo per l’invio delle vittime in codice bianco, è in grado di indirizzare le
persone, bisognose di supporto psicologico, negli ospedali che possono accoglierle
con maggiore efficacia e permetterne, per
quanto possibile, una presa in carico più
adeguata possibile.
È nata in questo modo una Rete Comunicativa che permette di avere informazioni, in tempo reale, sugli sviluppi dell’evento, sul numero delle vittime inviate e
sulla possibilità di usufruire di eventuali
ulteriori supporti psicologici
4. Psicologi presenti negli altri Ospedali, è stato creato un Coordinamento degli
Psicologi degli Ospedali sedi di DEA di II
Livello per una migliore collaborazione e
comunicazione in fase operativa.
Allo stato attuale il gruppo di lavoro ha
presentato al Responsabile ARES 118 i
Criteri di massima per un Piano di Intervento Psicologico in caso di MAF, che ricalca quello in atto per il San Camillo-For-
59
lanini, applicabile in ogni realtà ospedaliera. Inoltre sta approfondendo le modalità di intervento psicologico da attuare
nei confronti delle vittime e dei familiari e
sta valutando l’applicazione della scheda
di Triage Psicologico proposta dal Dipartimento Protezione Civile per un eventuale
raccordo con gli psicologi presenti sul luogo dell’evento e per un suo migliore utilizzo nella fase operativa ospedaliera.
La collaborazione con il Servizio Sociale Aziendale è in via di attivazione in
quanto si attende la stesura del loro Piano
di Intervento
TATTICA
Sono state studiate le esperienze vissute in altre realtà nazionali ed
internazionali in occasione di eventi
naturali o attentati terroristici per identificare delle metodologie di intervento adeguate ad un primo soccorso psicologico.
Sulla base di quanto approfondito, la
Tabella 1 definisce gli obiettivi ed i compiti degli psicologi che si occupano delle vittime, dei familiari e degli operatori.
Per quanto riguarda le vittime ed i familiari è importante:
- prevenire le reazioni emotive da panico
individuale che possono condurre a un
“contagio collettivo” inarrestabile e
dannoso per le singole persone e per gli
operatori che assistono i feriti,
- ridurre il rischio di successiva insorgenza di Disturbi Post Traumatici da
Stress che possono pregiudicare la normale ripresa della vita quotidiana.
Per raggiungere queste priorità è necessario utilizzare tecniche di intervento
psicologico individuali e collettive, che allo stato attuale però non sono ancora state standardizzate per quanto riguarda l’
ambito ospedaliero.
Esistono infatti numerose indicazioni
da parte della Psicotraumatologia , ma poche rispetto all’intervento specifico in
Ospedale.
L’attenzione al rischio di successiva insorgenza di Disturbi Post Traumatici da
Stress va posta anche nei confronti degli
60
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 8, 4, 2006
operatori sanitari che assistono le vittime.
È per raggiungere questo obiettivo che
nel Piano è stato previsto un monitoraggio
costante del livello di stress degli operatori durante la fase dell’assistenza in Pronto Soccorso, attraverso l’osservazione degli eventuali sintomi di disagio psicologico, da parte dello psicologo, e la sensibilizzazione degli operatori stessi (Buddy Care) nei confronti di comportamenti inusuali.
Con tali obiettivi l’Azienda Ospedaliera
si è fatta promotore ed è uno dei Partner
Principali del Progetto Europeo IPPHEC
(Improve the Preparedness to give Psychological Help in Event of Crisis”) -presentato dal Ministero della Salute in collaborazione con il Dipartimento della Protezione Civile, l’Agenzia di Sanità Pubblica, la Regione Lazio e numerosi Partners
Europei- che ha come obiettivo quello di
individuare delle Buone Pratiche di Intervento Psicologico da attuare in Ospedale
in caso di Massiccio Afflusso di Feriti per
fornire delle Linee Guida in questo campo, a livello Europeo.
LOGISTICA
È prevista una suddivisione degli psicologi nelle aree di intervento individuate,
quando possono esserne attivati almeno
tre:
- lo psicologo preposto all’intervento sulle vittime svolge la sua funzione nella
sala adibita ad attesa dei codici bianco/verdi all’interno del Pronto Soccorso
- lo psicologo che gestisce le problematiche legate ai familiari si colloca nell’Atrio della Piastra dove viene allestito
un ambiente confortevole di accoglienza e dove è stato individuato un ambiente idoneo per i colloqui.
- lo psicologo che ha il compito di monitorare lo stato psicologico degli operatori sanitari che affrontano l’emergenza sanitaria è all’interno dei locali del
Pronto Soccorso e collabora con i Responsabili Medici e Infermieristici -Hospital Disaster Management (HDM)
Coordinatore, Hospital Disaster Management (HDM) P.S.- per valutare la ne-
cessità di interventi anche immediati,
come quello di allontanare momentaneamente dalla scena l’operatore.
FORMAZIONE
La conoscenza di quanto avviene in
una Maxiemergenza, delle reazioni emotive che si devono affrontare nella situazione di emergenza e delle modalità di intervento più adeguate aiuta gli operatori a
fronteggiare in modo più efficace l’emergenza stessa.
Non bisogna dimenticare infatti che
mentre il personale del Pronto Soccorso
gestisce quotidianamente situazioni di
estrema gravità, lo psicologo che svolge il
proprio lavoro nei reparti dell’ospedale
difficilmente si trova a fronteggiare gravi
situazioni di emergenza.
È per questo motivo che la Formazione
nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza assume un carattere prioritario per gli
psicologi dell’A.O. che si dovranno occupare dell’intervento psicologico in questo
campo.
Allo stato attuale è stata svolta una
prima giornata di formazione sul PEIMAF Aziendale per far conoscere a tutta
l’equipe di Psicologi l’ assetto organizzativo dell’Azienda in caso di Maxiemergenza:
il cambiamento dei ruoli, dei flussi e delle
aree e sono previsti ulteriori Progetti Formativi di approfondimento.
CONCLUSIONI
L’efficacia del Piano di Intervento Psicologico presentato, già messo alla prova
attraverso la simulazione svoltasi a Roma
il 5 ottobre 2005, è stata sperimentata durante la Maxiemergenza scattata il 17 ottobre 2006 in occasione dello scontro delle
due Metropolitane.
In tale occasione infatti, oltre ad essere
attivato il Piano stesso, sono diventati
operativi i Protocolli di collaborazione descritti producendo una Rete di collaborazione che ha permesso di seguire le vittime ed i familiari in un percorso che si è
snodato dal luogo dell’evento all’ospedale
fino alla presa in carico successiva effet-
D. Pennacchi et al.: Piano di intervento psicologico in ospedale in caso di emergenza
tuata a livello territoriale dall’Ordine degli Psicologi del Lazio. I Debriefing che si
sono svolti successivamente, anche con
l’ARES 118 e con il Coordinamento degli
Psicologi, hanno evidenziato molti punti
di forza e sicuramente alcune criticità da
affrontare.
Tutti noi siamo a conoscenza della non
perfettibilità dei Piani di intervento soprattutto nei casi di Maxiemergenza ed è
con questa consapevolezza che ci accingia-
61
mo ad apportare variazioni al Piano di Intervento Psicologico che permettano una
ancor più efficace gestione delle problematiche psicologiche che fanno parte delle situazioni di emergenza.
Si ringrazia per la collaborazione la
D.ssa Claudia Pajewski, tirocinante psicologo presso l’A.O. San Camillo Forlanini,
Servizio Prevenzione Protezione.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Abbrugiati C. et altri, “L'intervento psichiatrico e
psicologico negli eventi catastrofici”, Protezione Civile Regione Piemonte, Torino, 2003;
Bruce H. Young et altri L’Assistenza Psicologica
nelle Emergenze, Erikson, 2002
“Criteri di Massima per l’Organizzazione dei Soccorsi Sanitari nelle Catastrofi”. (Decreto pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale– serie generale – n. 81 del
6 aprile 2001)
“Criteri di massima sugli Interventi Psicosociali da
attuare nelle catastrofi”. Presidenza del Consiglio
dei Ministri – Dipartimento Protezione Civile Direttiva del 13 giugno 2006
Ehrenreich John H., Copyng with Disaster, A Guidebook to Psychosocial Intervention, october 2001
____
Per richiesta estratti:
Dott.ssa Danila Pennacchi
Via Luigi Biolchini 21, 00146 Roma
Tel 065573815, cell. 3398686776
e-mail: [email protected]
Guía de autoayuda tras los atentados del 11 de
marzo 2004, Unidad de Psicología Clínica y de la
Salud Facultad de Psicología Universidad Complutense de Madrid, Madrid, 2005
Gunnar J. Kuepper, CEO, Emergency and Disaster
Management, Inc., Los Angeles, California The NFPA 1600 Standard on Emergency/Disaster Management: New Edition Expected in 2004, IAEM Bullettin, july 2003
Morra A., Odetto L., Bozza C., Bozzetto P., “Disaster Management”, Protezione Civile Regione Piemonte, Torino, giugno 2002
Report to the General Assembly, Task Force on Disaster and Crisis, European Federation of Psychologists Association (EFPA), Vienna, 2003
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Recensione
PRONTUARIO DI PNEUMOLOGIA CLINICA
Curato da Franco Salvati Primario Pneumologo emerito dell’Azienda Ospedaliera S.
Camillo-Forlanini di Roma e da Giovanni
Schmid Direttore della II Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università La Sapienza di Roma
e recentemente pubblicato grazie all’iniziativa editoriale della Società Editrice Universo (1ª edizione 2006, pagg. 257, p.n.i.) il
“Prontuario di Pneumologia Clinica” si snoda – attraverso 45 capitoli – nel vasto e multidisciplinare campo della Specialità e senza
peraltro trascurare gli aspetti più consolidati e classici della materia esso si richiama
alle acquisizioni più recenti tenendo conto
che negli ultimi anni lo spettro delle nostre
conoscenze si è notevolmente dilatato e che
sono stati chiariti molti meccanismi funzionali precedentemente ancora in ombra e
che sono stati realizzati, sia nell’ambito diagnostico che in quello terapeutico, rilevanti progressi. Al riguardo vengono sottolineati dai due Coordinatori alcuni esempi:
l’asma come “malattia infiammatoria”, il
grande rilievo dell’abitudine al fumo nella
patologia delle vie aeree (essendo ormai
classificato il tabagismo come vera e propria
malattia), l’impiego della TC spirale nell’i-
dentificazione tempestivamente precoce dei
noduli polmonari e la sua importanza nella
diagnosi della embolia polmonare, la consacrazione della PET, specie se associata alla TC nell’ambito delle neoplasie polmonari,
l’impiego del Quantiferon per la diagnosi
dell’infezione tubercolare latente (LTI), le
nuove sostanze, targeted drugs delle quali si
è arricchito l’armamentario terapeutico del
carcinoma broncogeno, i nuovi farmaci antiIge per il controllo dell’asma allergico, ecc.
Opera di 29 Autori di provata, grande
esperienza nel settore della patologia dell’apparato respiratorio il “Prontuario di
Pneumologia Clinica” s’inserisce nella pubblicistica del settore toracico con le caratteristiche della utilità che deriva da uno strumento di rapida consultazione e di agevole
aggiornamento, su alcuni dei più comuni
quadri morbosi delle vie respiratorie e sui
meccanismi etiopatogenetici e fisiopatologici
che ne sono alla base, avvalendosi, oltre che
di Autori che esplicano la loro attività nell’Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini,
anche della preziosa collaborazione di esperti di altre Istituzioni italiane.
Elio Quarantotto
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 8, Numero 4, Ottobre-Dicembre 2006
Notiziario
X CONGRESSO NAZIONALE FONICAP
Si è tenuto a Roma il 6 e 7 dicembre 2006
il X Congresso Nazionale della Forza Operativa Nazionale Interdisciplinare contro il
Cancro del Polmone (FONICAP), presieduto
dal Prof. L. Portalone: i principali topic sono
stati “La Diagnostica”, “L’Anziano e PS2”,
“La Terapia degli stadi iniziali”, “Il Microcitoma”, “La Terapia delle forme avanzate
NSCLC”, “Il Mesotelioma” ed “Il Paziente e
la sua famiglia”.
A latere del Congresso si è svolto nelle
due giornate un Corso per Infermieri Professionali incentrato sulle cure, gli aspetti
etici, il percorso assistenziale e psico-sociale,
la gestione del paziente e gli strumenti operativi, il dolore oncologico, le cure palliative,
ecc..
Ben 96 sono stati i relatori e moderatori:
tra gli Oncologi O. Alabiso (Novara), M. Antimi (Roma), E. Baldini (Pisa), C. Barone
(Roma), G. Cetto (Napoli), C. Boni (Reggio
Emilia), G. Gasparini (Roma), C. Gridelli
(Benevento), L. Repetto (Roma), A. Santo
(Verona), C. Sternberg (Roma), V. Zagonel
(Roma), ecc.; tra i Pneumo-oncologi S. Barbera (Cosenza), C. Crispino (Napoli), M.
Donghi (Monza), L. Frigieri (Foligno), F.
Grossi (Genova), V. Lorusso (Bari), M.R.
Migliorino (Roma), V.G. Scagliotti (Torino);
tra i Chirurghi Toracici M. Boaron
(Bologna), P. Borasio (Torino), G. Cardillo
(Roma), F. Coloni (Roma), G. Daddi (Roma),
G. Ferrante (Napoli), M. Martelli (Roma),
M. Mezzetti (Milano), A. Mussi (Pisa), M.
Loizzi (Bari), U. Pastorino (Milano), F. Sartori (Padova), L. Spaggiari (Milano), ecc.; tra
i Radioterapisti V. Donato (roma), G. Silvano (Taranto), L. Trodella (Roma), ecc. e
numerosi altri cultori delle specialità connese con la patologia toracica.
Le relazioni hanno suscitato grande interesse ed hanno stimolato approfondite discussioni da parte dei numerosi partecipanti alle varie Sessioni. In particolare l’ultima
Sessione su “Il Paziente e la sua famiglia”
Presidente F. Salvati e Chairman L. Onder
si è svolta “aperta al pubblico” e l’importante tema (che ha avuto come “testimonial”
l’attore e regista C. Verdone) rimarrà obiettivo principale della Forza Operativa per i
prossimi anni e con esso la Prevenzione primaria del carcinoma broncogeno, in particolare a livello dei giovanissimi nell’ambito
della popolazione scolastica soprattutto nei
confronti del tabagismo ed in sempre più
stretta collaborazione sia con la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori sia con le
altre Società scientifiche pneumologiche.
Nell’ambito del Congresso si sono svolte
le elezioni per il rinnovo del Consiglio Direttivo Nazionale della FONICAP per il triennio 2007-2009 e che risulta così costituito:
Presidente M. Mezzetti, Past Presidente L.
Portalone, Vice Presidente S. Barbera, Segretario-Tesoriere G. Cardillo, Consiglieri O.
Alabiso, M. Loizzi, G. Silvano, G. Sunseri, G.
Genovese, L. Frigieri, P. Macrì, U. Morandi,
A. Mussi. Presidenti onorari i Professori C.
Ricci e F. Salvati, Soci fondatori della Forza
Operativa.
Gli “Annali degli Ospedali San Camillo e
Forlanini” pubblicheranno, sotto forma di
Focus, le principali relazioni tenute al Congresso.
Roberto Canova