«Mia nipote mangiava cacca, per i servizi sociali stava bene. Sono

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«Mia nipote mangiava cacca, per i servizi sociali stava bene. Sono
Giovedì, 16 Marzo 2017
L’altra faccia della città/3
«Mia nipote mangiava cacca,
per i servizi sociali stava bene.
Sono arrivata da Cantelmo per
mio figlio»: le denunce di una
nonna disperata
E’ un fiume in piena la madre del quarantenne
avellinese con problemi di dipendenze,
allontanato dai figli per la sua condotta
violenta. Dopo l’episodio della macchina
distrutta, l’uomo è finito in carcere ma per il
futuro non c’è ancora alcuna risposta. La
donna non risparmia nessuno e denuncia un
sistema di negligenze e leggerezze, un
labirinto di indifferenza che ha spossato lei e
la sua famiglia: «Giustizia non ce n’è e chi ha
fatto del male deve pagare»
Autore: Giulia D’Argenio
Data di pubblicazione: Venerdì, 2 Settembre 2016
È un fiume in piena Maria, nome di fantasia per una donna anziana, una nonna che, oggi, dovrebbe poter godere,
come possono tante altre nonne, della pensione raggiunta dopo anni di lavoro, insieme alla gioia dei figli e dei
nipoti. Guardarla è difficile e ascoltarla ancor di più: non tanto per la complessità dei discorsi, per la difficoltà di
ricostruire e mettere in fila, uno dietro l’altro, una catena di ricordi che si perdono indietro nel tempo e si
sovrappongono fino a mescolarsi in un rosario che si sgrana lungo un filo unico di dolore ed esasperazione. È
difficile per il senso di impotenza che si prova standole davanti.
Questa volta a parlare è lei, la madre di Giuseppe – altro nome di fantasia – il quarantenne di Avellino con
problemi di dipendenze protagonista di una serie di episodi violenti fino al più recente che lo ha visto
distruggere, in un ennesimo impeto di rabbia, la macchina dei genitori. «Tutto è iniziato quando Giuseppe ha
finito la scuola ed è partito per il servizio militare. Si era diplomato in ragioneria ed era deciso, una volta finita la
leva, ad iscriversi all’università». Un disegno di vita come tanti, quello di un ventenne intenzionato a studiare per
trovare un buon lavoro. Ma le cose non vanno come previsto: qualcosa, qualcosa che i genitori non capiranno mai,
accade in quella caserma e da allora Giuseppe non sarà mai più lo stesso.
I problemi iniziano non appena torna a casa. «Io la droga è la sola cosa che non ho mai, mai tollerato perché è una
porcheria che rovina, rovina le persone, le distrugge come ha distrutto Giuseppe. Quando capimmo che le cose
non andavano cercammo subito di intervenire, mandando Giuseppe in una comunità terapeutica dove avrebbe
potuto continuare a studiare». Di quel luogo, Maria conserva ancora una cartolina che è ricordo di un tempo in cui
ancora viva era la speranza di salvare Giuseppe. «Da lì venne via e tornò a casa promettendo che si sarebbe
comportato bene. Ma così non fu: non studiava né lavorava. Stava tutto il giorno fuori casa e tornava solo per
mangiare e dormire. Cominciò un andirivieni da Napoli ma lui negava che avesse continuato a fare uso di droghe.
Fu per questo che iniziammo a fargli fare analisi periodiche per smentirlo, per avere la prova che mentisse eppure
lui riusciva sempre a cavarsela: gli esami, non abbiamo mai capito come facesse, risultavano puntualmente
negativi».
Nel 1996, la speranza per la signora Maria e per suo marito Antonio (nome anche questo ovviamente non vero) ad
un certo punto prende il nome di Milano. «Ci dissero di un trattamento di disintossicazione speciale che si
praticava in un struttura milanese e che avrebbe dovuto finalmente liberare Giuseppe». Ci mostra la cartella,
ingiallita dagli anni, e la ricevuta del trattamento effettuato: oltre 10milioni di lire per una terapia per la
disintossicazione da cannabis, uno stadio che allora, probabilmente, Giuseppe aveva superato da tempo. «Lo
portammo lì ma lui scappò: lo ritrovammo ad Avellino e fummo costretti, da un momento all’altro, a far ritorno a
casa». Da quel momento in poi Giuseppe, che nel frattempo aveva già compiuto i 25 anni e più, imboccò un tunnel
dal quale non è mai più uscito.
Ad un certo punto l’incontro con quella che sarebbe stata la madre dei suoi tre figli e che chiameremo Michela.
«Nel corso degli anni, Giuseppe ne ha combinate sempre di peggio: prima i prestiti che si faceva fare, inventando
scuse con amici e conoscenti, e che dovevamo puntualmente ripianare noi. Poi iniziò con i furti. Non se ne poteva
già più quando incontrò Michela che è sempre stata una donna instabile. Quando era incinta dei due gemelli mi
chiamarono dall’Ospedale che rifiutava di farsi visitare». I bambini nascono e crescono, per i primi anni, in un
inferno che i documenti in precedenza non erano riusciti a rendere in tutta la loro bestiale drammaticità. «Noi gli
demmo la nostra casa in paese, vicino a quella di mia sorella che mi chiamava in continuazione per segnalarmi
quello che succedeva: le urla, i litigi, il cibo che Michela toglieva da bocca ai bambini. Io portavo loro qualcosa da
mangiare e lei lo nascondeva, in alto, dove loro non potevano prenderlo. La più piccola era terrorizzata: quando il
padre tornava a casa, la madre le urlava di andare a letto, anche se non voleva. Ma la bambina non dormiva a
causa dei litigi tra i genitori e per la fame». E qui la signora Maria ci dice qualcosa che non avremmo mai voluto
sentire: «La piccola ha portato il pannolino per anni. Dopo che è arrivata a casa mia, i terapisti e i medici mi hanno
sempre consigliato di farla parlare, di farla sfogare. Lei una volta mi disse: “nonna io ho pure mangiato la cacca…
non era male”. Io mi arrabbiai e le dissi di non dire bugie. Ma non era una bugia».
I soli a prendere a cuore la vicenda, furono i Carabinieri della locale Stazione che una sera, dopo l’ennesimo
intervento a casa della coppia, tolsero i gemelli ai genitori e li affidarono ai nonni. La più piccola, invece, rimase
ancora qualche anno in casa con Giuseppe e Michela. La bambina era malnutrita, d’inverno vestiva abiti estivi e
d’estate anche 8 paia di calzini e diverse di pantaloni: trattamenti che le hanno determinato danno al fisico e alla
pelle che durano ancora oggi. «All’asilo, la madre, non la portava mai: giusto i giorni necessari ad evitare il
certificato. Arrivò alle elementari che non sapeva fare niente». E qui comincia un altro calvario: quello della
negligente incompetenza dei servizi sociali. «La madre di Michela, una professionista del napoletano, è sempre
intervenuta mettendosi di traverso in questa vicenda per evitare che venisse tolta alla figlia la potestà dei bambini,
impedendo anche a lei di vederli» un paradosso visto il suo comportamento «ma lei di Michela non ne voleva
sapere nulla, nulla». L’assistente sociale del Comune dove all’epoca risiedevano Michela e Giuseppe disse che la
madre era assolutamente in grado di provvedere alla bambina, malgrado fosse praticamente analfabeta e
malnutrita, oltre che sottoposta a continui traumi. Fu solo con l’ennesimo intervento dei Carabinieri che si riuscì a
voltare, per certi versi pagina. «Dopo l’ennesimo litigio con la compagna, mio figlio cacciò di casa lei e la bambina.
I Carabinieri me le portarono a casa: io non volevo tenere anche Michela ma sua madre non volle sapere niente. Lì
altri due giorni di calvario, fin da subito». I militari portarono madre e figlia dai nonni ad Avellino. Le mandarono su
ma Michela bloccò l’ascensore per far credere che stesse salendo e scappò a piedi per tornare alla casa in paese.
Dopo due giorni a casa dei suoceri, Giuseppe arrivò che voleva vederle. «Due giorni, due giorni solo e poi ci
ritrovammo con ambulanza a poliziotti sotto casa che mi aveva riempita di botte».
I bambini a questo punto rimasero coi nonni, mentre il rapporto di Michela e Giuseppe peggiorava a vista d’occhio.
«Lui non voleva vederla mentre lei continuava a corrergli dietro, a cercarlo. Alla fine è stata rinchiusa ma Giuseppe,
da quel momento in poi, non è mai più tornato indietro». Da quel momento perché, per un poco, sembrava che
Giuseppe potesse essere restituito alla vita e il motivo erano i figli. «Lui quando tornava a casa cucinava ai
bambini. Lui voleva loro bene». Adesso, però, quel papà non c’è più, malgrado i figli continuino a cercarlo. E lo
fanno nonostante le violenze, nonostante i traumi. «Una sera il maschietto, il gemello, stava rientrando dagli scout
quando vide il papà sotto casa. Se ne vergognò e allontanò subito i ragazzi che erano con lui per scappare verso il
portone. Giuseppe, però, riuscì ad afferrarlo e iniziò strattonarlo, urlandogli: “vi elimino tutti. Te e quelle puttane
delle tue sorelle”. Salì a casa terrorizzato». I nonni hanno provato e provano a dare ai bambini che oggi sono, come
sapete, adolescenti, tutto quel che possono. Ma ferite così profonde non si cancellano come un errore di scrittura,
specie di una fase delicata come l’adolescenza tant’è che adesso anche lo studio comincia a risentirne: «I risultati
dello scorso anno non sono stati quelli degli altri anni. I due gemelli in classe erano assenti, pensierosi e abbiamo
dovuto trovare qualcuno per delle lezioni private».
In questa notte profonda e senza fine calata sua famiglia, Maria non ha mai visto un bagliore di luce che venisse da
chi pensava dovesse aiutarla con i bambini e a neutralizzare un uomo fuori controllo come il figlio. «Le assistenti
sociali del Comune di Avellino insieme al competente Assessore (che, per correttezza di informazioni, non era
Marco Cillo)? Dei negligenti irresponsabili. Ero arrivata ad andare in Comune ogni giorno, una volta ho parlato
persino col Sindaco: chiedevo risposte su quello che avremmo dovuto fare, per chiedere aiuto per Giuseppe e
avere informazioni sui sostegni che ci spettano per i bambini, soprattutto visto che tra i furti e tutte le spese legate
alla condotta di nostro figlio quel che avevamo da parte, un poco alla volta, abbiamo dovuto praticamente
spenderlo tutto. Ma l’Assessore che si faceva sempre negare mentre l’assistente sociale aveva avviato una serie di
misure veramente inutili ed inconcludenti tra cui incontri con i genitori dei ragazzi: appuntamenti ai quali non si
sono presentati». Nel frattempo, al Tribunale dei Minori di Napoli, andava avanti la causa per l’affidamento dei
bambini e qui sarebbe rientrata in campo la mamma di Michela. «Non so quanto sia vero ma anche qui mi hanno
detto di contatti presi con gli assistenti sociali e gli psicologi per evitare che venisse tolta a Michela la potestà sui
bambini. Questo non so quanto sia vero, ripeto: sta di fatto che in Tribunale era stato detto che i gemellini e la loro
sorellina sarebbero potuti rimanere coi genitori. Fortunatamente, il Giudice ha ascoltato direttamente i bambini e,
sulla base dei loro racconti, li ha dati a noi».
E se Michela è stata resa innocua col ricovero a Villa dei Pini, Giuseppe è rimasto a piede libero, circondato da
compagnie sempre peggiori fino ad un tremendo fatto di cronaca rimbalzato su tutti i giornali locali. «E nemmeno
in quel caso il Magistrato titolare dei fascicoli a suo carico prese provvedimenti. Io so che gli Agenti della Questura
avessero chiesto che venisse trattenuto ma niente da fare». La via crucis di Maria, a questo punto, dagli uffici
comunali passa ai corridoi del Tribunale di Avellino dove il pm non faceva altro che ripetermi che non c’erano
abbastanza elementi a carico di mio figlio e che io dovessi continuare con le querele e le denunce». Un fascicolo di
carte che non si contano. «Ci sono state persone, poche per la verità, che in Procura hanno cercato di consigliarmi
ed aiutarmi. Alla fine, non sapendo più cosa fare, ho iniziato a stazionare davanti all’ufficio del Procuratore
Cantelmo col quale una volta riuscii a parlare: fu così cordiale con me, mi ascoltò mentre camminavamo verso il
suo ufficio e mi disse che avrebbe verificato cosa poter fare».
Qualche tempo dopo è arrivata la misura che imponeva a Giuseppe di stare lontano dalla famiglia ma nulla di più:
le carte hanno continuato a languire fino ai più recenti fatti che hanno visto la macchina di Maria e Antonio
distrutta. Adesso Giuseppe è in carcere a Bellizzi, ma non si sa ancora per quanto e i genitori hanno paura perché
«se in Tribunale cominciano di nuovo a prendere la cosa sottogamba magari Giuseppe può tornare più aggressivo
di prima e allora cosa potrebbe accadere? Io non dico neanche a me e a mio marito ma ai bambini. In tutto questo
mare di indifferenza e irresponsabilità, di gente che si è voltata e si volta dall’altra parte, mi sento di ringraziare
solo gli agenti della Polizia e i militari dei Carabinieri, in particolare un Capitano (del grado non siamo certi) che
ultimamente ha preso a cuore questa storia, neutralizzando nostro figlio. Ma per il resto, dagli assistenti sociali, del
paese come del Comune di Avellino, al magistrato che per tanto tempo ha avuto tra le mani il fascicolo delle
denunce senza mai prendere provvedimenti non posso provare che tanta rabbia. Giustizia? Giustizia non ce n’è ma
chi fa del male deve pagare. Ora Giuseppe è in carcere ed è in attesa della condanna ma senza delle misure adatte
ad aiutarlo potrebbe tornare e più pericoloso di prima. I figli, invece, continuano ad aspettare il ritorno del padre e
chi ha la facoltà di intervenire per imporgli un trattamento, una cura o non so cosa, se non lo farà sarà
responsabile, prima di tutto e soprattutto, verso di loro».
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