come funziona il COROBATE

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come funziona il COROBATE
Claudio Rossi
COME FUNZIONA
IL COROBATE
Estratto da:
IL IX DECUMANO
Un agrimensore in mezzo alle guerre civili
COME FUNZIONA IL COROBATE
Il corobate è uno strumento di probabile provenienza etrusca,
adottato dai romani insieme ad altri apparecchi e tecniche ingegneristiche e topografiche per realizzare opere di rilevante complessità ove era richiesta una perfetta conoscenza dell’orizzontalità e della pendenza, come nel caso degli acquedotti.
Sostanzialmente è una livella a liquido che serve a determinare l’orizzontalità di linee e superfici, consentendo quindi di
effettuare la misurazione di differenze di quota
Si basa sulla determinazione di una superficie orizzontale di
riferimento generata dai traguardi dello strumento.
La superficie orizzontale da utilizzare per le misure viene
derivata dalla ‘tavola d’acqua’ in stato di quiete che si forma in
una piccola vasca ricavata nel piano superiore dello strumento
stesso.
Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. circa – 15 a.C. circa) descrive questo strumento chiamandolo "chorobate", e considerandolo il più preciso strumento disponibile tra i livelli ad acqua1.
L’apparecchio è costituito da una tavola piana della lunghezza di circa 6 metri (“20 piedi romani”) dotata di gambe di
sostegno alle estremità e traversi e controventature in grado di
evitare le deformazioni.
La superficie del tavolo presenta un canale scavato nel legno
stesso destinato a contenere l’acqua.
1 Vitruvio (Vitruvius Pollio, Marcus). De Architectura, a cura di Pierre Gros,
Einaudi, Torino, 1997, 2 voll., Lib. VIII, cap. V (vol. II, p. 1137).
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La parte inferiore del tavolo ospita, nei pressi delle estremità,
quattro fili a piombo; segni di riferimento sono riportati sui traversi inferiori dello strumento, sistemati in modo tale da indicare la posizione orizzontale della tavola superiore.
In alcuni disegni esso appare dotato di differenti sistemi di
mira (cavallotti in ferro, mirini in legno, mirini con un foro centrale), idonei ad aiutare l’operatore mentre effettua la misura.
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L’IMPIEGO IN CAMPO DEL COROBATE
L’uso del corobate sul campo era cosa tutt’altro che semplice.
Anzitutto a causa dell’ingombro erano necessarie come minimo due persone solo per spostare lo strumento, operazione
che veniva agevolata dalla presenza di grossi anelli in ferro fissati al telaio nei quali venivano inserite lunghe aste in legno con
le quali era possibile spostare il tutto come fosse una barella.
Altre persone portavano i materiali necessari a fare il punto
di stazione e le misure: blocchi di legno, cunei, otri d’acqua,
metae (l’equivalente delle attuali paline), bandierine con le
quali trasmettere i segnali (in mancanza delle ricetrasmittenti
che usano i nostri topografi…).
Non dovevano mancare persone di manovalanza con falci,
scuri e seghe per tagliare ramaglia e spostare ostacoli dalla linea
di mira ottica, e nemmeno funi, mazze, ed altri arnesi da cantiere.
La messa in stazione avveniva inizialmente con la regolazione dei quattro fili a piombo: poiché è facilmente immaginabile che la superficie del terreno non fosse per nulla livellata,
erano necessarie tavolette di legno di vari spessori e sottili cunei
inseriti sotto i piedi dello strumento per consentire una buona
regolazione dell’orizzontalità.
Una volta completata la messa in stazione si poteva allagare
la vaschetta intagliata nella superficie della tavola piana, e procedere con ulteriori piccoli aggiustamenti dell’apparecchio, magari con leggere scosse ai cunei di legno posti sotto i piedi, fino
a che fosse accertato che il piano in legno risultava perfettamente allineato con la tavola d’acqua.
Lo strumento era da considerarsi pronto quando riempiendo
la vasca si osservava che la tracimazione avveniva uniformemente su tutti i bordi della stessa.
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A questo punto era possibile avviare le misure.
La procedura è sommariamente descritta in alcuni testi.
Mentre un primo agrimensore rimaneva allo strumento, un
secondo si spostava con le metae lungo il tracciato oggetto delle
misurazioni sul quale si voleva impostare la linea orizzontale,
oppure ricavare un profilo altimetrico.
L’operatore con la meta prendeva quindi posizione ad esempio ad un centinaio di metri dal corobate, bene in vista.
L’operatore al corobate mediante segnali trasmessi con bandierine da un suo aiutante che gli stava alle spalle faceva spostare la meta fino a portarla esattamente sulla linea di mira, oppure si provvedeva a correggere il posizionamento del corobate
per inquadrare nei mirini l’operatore con la meta, che poteva
trovarsi alla massima distanza possibile, cioè a quella distanza
alla quale era ancora sufficientemente visibile la meta, vale a
dire al massimo cento o duecento metri.
A questo punto la meta che aveva trovato l’esatta posizione
veniva infissa solidamente sul terreno con una mazza e si effettuava la misura.
L’operatore al corobate osservando attentamente l’allineamento della superficie della tavola e la meta, mandando ripetuti
segnali, faceva spostare in alto o in basso una tabella indicatrice,
che riportava ad esempio un triangolo od una freccia, od una
figura geometrica ben visibile, fino a realizzare l’esatto allineamento. A questo punto sulla meta veniva incisa o segnata la
quota, che corrispondeva a quella del piano di riferimento del
corobate.
Naturalmente invece di una sola meta era possibile predisporne un certo numero che opportunamente distanziate offrissero una migliore individuazione del piano orizzontale. Anche
il punto di origine del rilievo, cioè il punto di stazione, veniva
materializzato con una meta lasciata sul posto riportante con un
segno la quota del piano del corobate.
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È intuitivo che si tratta di una procedura tutt’altro che semplice, e che richiedeva personale esercitato, ottima vista, condizioni ambientali perfette (ad esempio assenza di vento e buona
illuminazione), e soprattutto una grande abilità acquisita con
lunghe prove.
Ciascuna misurazione veniva ripetuta molte volte, nel tentativo di ridurre statisticamente il margine d’errore, procedura attuata ancora oggi da quei topografi che usano strumenti analogici.
Si dispone di prove di corobati costruiti per effettuare esperimenti di misure, e dei risultati confrontati con letture effettuate
con moderni livelli ottici.
In una di queste prove sperimentali si è osservato che il corobate ha misurato a 51.3 metri di distanza un dislivello in 340
centimetri, mentre un moderno livello ottico lo ha rilevato per
344 centimetri2.
Il margine d’errore dei modelli sperimentali risulta quindi
ancora abbastanza alto in rapporto al grado di precisione richiesto per le opere idrauliche, ma va ricordato che gli esperimenti
effettuati oggi non possono più disporre dell’abilità che gli agrimensori avevano sviluppato durante una vita di esercizio.
Inoltre non conosciamo né il numero di misure che venivano
ripetute, necessarie per abbattere statisticamente il margine
d’errore, né gli artifici che nella pratica quotidiana venivano impiegati per fare le misure, come ad esempio l’utilizzo di un velo
d’olio in galleggiamento sull’acqua della vasca per stabilizzare
lo specchio d’acqua, o l’immersione dei piombi dei quattro fili
a piombo in altrettanti orci d’olio per ‘ammortizzare’ scosse ed
effetto del vento.
2 Adam Jean-Pierre. Groma et Chorobate [Excercices de topographie antique].
In: Mélanges de l'Ecole française de Rome.Antiquité, tome 94, n°2. 1982. pp. 10031029;
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COME RICAVARE UN PROFILO ALTIMETRICO PER
IL PROGETTO DI UNA NUOVA STRADA
Effettuando un discreto numero di piazzamenti dell’apparecchio, ed ottenuto l’equivalente numero di letture, è possibile con
gli opportuni calcoli disegnare un profilo altimetrico quotato,
indispensabile nel caso dello studio di nuove strade specialmente in aree montane o con rilevanti dislivelli.
Poter disporre della quota espressa in piedi (29,65 cm), e
della distanza esatta in passi (passo romano = 1,48 m) tra i vari
punti di stazione, distanza che si ottiene con un calcolo geometrico noto già agli Etruschi, consente di scegliere e modificare
il tracciato stradale mantenendo la pendenza più idonea per i
veicoli dell’epoca.
Per i veicoli militari la pendenza non doveva mai superare in
alcun caso il 10%, e solo per brevissimi tratti poteva rimanere
prossima al 10%, limite del trasporto animale stabilito per le
Legioni.
Con numerosi piazzamenti era possibile ottenere il profilo altimetrico di un versante.
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COME PROGETTARE UN ACQUEDOTTO
Il grande problema connesso alla costruzione degli acquedotti era la progettazione e la realizzazione della corretta pendenza del canale dell’acqua.
In epoca romana e fino al secolo scorso, prima dell’avvento
del trasporto idrico in condotta forzata, le difficoltà costruttive
di un acquedotto erano enormi, perché si doveva mantenere per
forza la pendenza costante lungo l’intero manufatto, anche al
passaggio di valli che era necessario sorvolare con un viadotto,
o di aree montuose che bisognava aggirare o perforare, sempre
mantenendo la pendenza di progetto.
È infatti la pendenza il motore attraverso il quale l’acqua si
muove, per peso proprio, e può raggiungere città lontane o cisterne di raccolta poste anche a molti chilometri di distanza.
I problemi legati allo scorrimento delle acque sono a loro
volta molto complessi: se lo scorrimento è troppo veloce e impetuoso, si creano fenomeni erosivi che mettono in pericolo la
stabilità della struttura e, cosa ancor più importante, non consentono il raggiungimento di lunghe distanze. L’approvvigionamento idrico delle grandi città ha sempre dovuto fare i conti
con il problema che le più vicine sorgenti si trovavano di solito
in aree montane o collinari, in genere non vicinissime quindi.
Vitruvio nel I secolo a.C. consigliava una pendenza non inferiore allo 0,5%. Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) indicava il
valore di 1,5%.
Il valore indicato da Vitruvio è significativamente presente
in molti acquedotti in muratura sopravvissuti fino ad oggi.
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Il viadotto del Pont du Gard che si trova nel sud della Francia a
Vers-Pont-du-Gard, vicino Remoulins, nel dipartimento del Gard
Ad esempio il gradiente del Ponte du Gard ha una pendenza
costante di soli 34 cm per km (3,4:10.000, ovvero 0,34%): la
condotta perde soltanto 17 m di quota lungo un percorso di 50
km.
Un risultato di tutto rispetto considerando che questo acquedotto era in grado di trasportare fino a 20.000 metri cubi di acqua al giorno (oltre 200 lt/sec).
Di fatto la pendenza media degli acquedotti romani che ci
sono rimasti è di circa lo 0,2%.
Il mantenimento della pendenza costante costringeva a scegliere percorsi anche molto lunghi e tortuosi, quasi mai in linea
retta.
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Ad esempio se la sorgente era ad una quota abbastanza elevata rispetto all’utenza, era necessario ricorrere ad un allungamento del percorso per ottenere la pendenza di progetto.
Nell’Urbe e nelle altre città romane l’acqua doveva essere in
grado di mantenere una quota sufficientemente elevata per poter servire i quartieri della città, compresi quelli che si trovavano sui colli.
L’acquedotto romano della città spagnola di Segovia (fine del I sec. d.C.)
per mantenere la pendenza costante del canale e garantire la sufficiente prevalenza necessaria a far giungere l’acqua in tutta la città i genieri dovettero
imporgli impegnativi attraversamenti su viadotto.
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Una volta stabilito il percorso più adatto per assicurare la
pendenza ottimale voluta, si tracciava il profilo del terreno, seguendo avvallamenti, colline, pianure e corsi d’acqua.
Questo veniva fatto col corobate.
Si procedeva per tratte tracciando dapprima il livello orizzontale, e su questo venivano distribuiti gli incrementi o i decrementi di quota stabiliti, ad esempio i 30-50 centimetri per
chilometro, ovvero da 3 a 5 centimetri ogni 100 metri, una distanza quest’ultima ragionevolmente adatta ad una battuta di
misura del corobate.
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I LIMITI OPERATIVI DEL COROBATE
Come si rileva da prove di archeologia sperimentale l’uso
del corobate per dare buoni risultati richiede un’abilità notevole, se non straordinaria.
Lo strumento infatti presenta numerosi difetti intrinseci, ed
è compito dell’operatore far sì che essi influiscano in minima
misura sulle letture.
Tra i difetti costruttivi è da notare l’influenza negativa esercitata dalla grande lunghezza della tavola superiore, circa sei
metri, esposta a facili flessioni e svergolamenti.
Tale lunghezza è necessaria per ridurre l’errore angolare
sulla linea di mira ed ottenere una certa accuratezza della lettura, ma rende estremamente facili le deformazioni dovute
all’umidità stagionale o alla pioggia, o alla rugiada, o ai frequenti sversamenti d’acqua nella vasca che non possono essere
del tutto eliminati.
Per non parlare della torsione del legno che rende impossibile l’impiego delle conifere e di numerosi tipi di legno, e
dell’impossibilità di operare con venti anche deboli che fanno
oscillare i fili a piombo o increspano la superficie dell’acqua
nella vasca. Anche l’insolazione ed il forte riscaldamento della
faccia esposta della tavola provocano sensibili inarcamenti
della stessa.
Si può immaginare che miglioramenti nelle prestazioni
dell’apparecchio potessero essere ottenuti impiegando legni
stagionati o vecchissimi, divenuti ormai inerti e poco sensibili
alle variazioni climatiche, e con l’impermeabilizzazione con la
pece. Ma anche la solidità del telaio e la presenza dei controventi era fondamentale per ridurre al minimo le deformazioni.
L’uso di mirini, insieme alle ripartizioni delle letture, consentiva di ridurre il margine d’errore.
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Questa funzione nei livelli ottici moderni è ottenuta con sottili fili o linee tracciate su vetri disposti all’interno del complesso ottico. In epoca romana, non essendo disponibili le lenti
ottiche, la collimazione della meta poteva essere facilitata
dall’uso di un oculare costituito da una piastrina metallica con
un foro piccolissimo, ad esempio di un millimetro, a fungere da
diaframma, e di un mirino, posto a sei metri di distanza, sull’altro capo del corobate, dotato di una freccia o di un cuneo di
riferimento orientato orizzontalmente.
Come chiunque può sperimentare, a sei metri di distanza un
errore di un millimetro non è facilmente percepibile dall’occhio
umano, essendo in un occhio normale l'acutezza di risoluzione
circa 35-50 secondi d'arco.
Un errore millimetrico sul secondo mirino corrisponde ad
una differenza angolare di 0,095 gradi, che tradotta in termini
di precisione di quota alla lettura finale produce un errore di 17
centimetri per chilometro.
Questo tipo di errore non poté essere eliminato completamente fino all’introduzione delle lenti ottiche, ma è certo che
fosse minimizzato dalla grande abilità manuale degli operatori.
A causa della difficoltà d’utilizzo, appena fu possibile la costruzione di strumenti con traguardi in vetro il corobate fu sostituito dalla livella ad acqua; in questo strumento il piano orizzontale è ricavato dall’osservazione del livello dell’acqua raggiunto in due ampolle di vetro collegate tra di loro (principio
dei vasi comunicanti).
Attualmente nei rilievi topografici si usa la livella autolivellante, un dispositivo che mediante un gruppo ottico consente di
tracciare il piano orizzontale e collimare i segni riportati su una
stadia. Il sistema di prismi che genera il livello orizzontale è
sospeso in un liquido viscoso ed assume la corretta posizione
per la forza di gravità, senza alcun aggiustamento manuale.
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Dello stesso Autore, della Serie
“Quintilio nella tarda Repubblica”:
1.
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Il IX Decumano
Iader
Missione in Attica
Ombre a oriente
I papiri di Alexandria
Il valico per la Rezia
La Via del Ferro
Il Secondo Tempio
Tadmor
Il sito dell’Autore con le ultime novità:
http://www.quintilius.net/
Disegni ed impaginazione copertine: Valentina Rossi.
Settembre 2016
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