Il darwinismo di Chauncey Wright
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Il darwinismo di Chauncey Wright
Facoltà di Filosofia Corso di Laurea Triennale in Filosofia e Conoscenza Il darwinismo di Chauncey Wright Relatrice: Prof.ssa Elena Gagliasso Laureanda: Silvia De Cesare Anno accademico 2007/2008 Il darwinismo di Chauncey Wright 2 Introduzione 3 1. La diffusione del darwinismo in America 1.1 Idee pericolose approdano nel Nuovo Mondo 1.2 Asa Gray e Louis Agassiz 1.3 Evoluzione sia, ma che abbia una direzione! 1.4 Lo spencerismo in America 12 2. Chauncey Wright e il ”Metaphysical Club” 2.1 La nascita del pragmatismo 2.2 Il Socrate di Bow Street 2.3 Una scienza neutrale 21 3. Quali sono i limiti della selezione naturale? Wallace, Wright e Darwin 3.1 L’eresia di Wallace 3.2 Il filosofo e i naturalisti. L’origine del linguaggio 30 4. L’evoluzione dell’autocoscienza 4.1 Un nuovo uso di vecchie facoltà 4.2 La consapevolezza nell’uso dei segni 4.3 Un’analisi genetica della distinzione Io/non-Io 4.4 L’evoluzione del linguaggio e il problema della volontà 4.5 La metafisica che il linguaggio porta con sé 4.6 Pronti al decollo. Pesci volanti e autocoscienza umana 47 5. La balena e i suoi pidocchi: la polemica con Mivart 5.1 Un guardiano del tempio della concordia 5.2 L’accidentalità delle variazioni 5.3 A cosa serve il 5% di un’ala? La risposta di Darwin e di Wright 59 Conclusioni 60 Bibliografia 1 Introduzione Questo lavoro nasce da una scoperta serendipica. Iniziavo una ricerca per un altro progetto quando, incuriosita dal titolo del saggio The Evolution of Self-Consciousness, mi sono imbattuta, per la prima volta, nella figura di Chauncey Wright. Ho scoperto, così, la peculiarità del pensiero di questo filosofo statunitense, poco conosciuto perfino nel suo paese d’origine. Eppure, il movimento filosofico del pragmatismo americano deve molto a Chauncey Wright, leader riconosciuto di un ristretto cenacolo di amici e intellettuali che si riuniva a Cambridge intorno al 1870 e che annoverava tra i suoi partecipanti William James e Charles Sanders Peirce. E’ indubbio che le lunghe conversazioni intrattenute con Wright furono una vera palestra formativa per i suoi più giovani amici, per i quali rappresentava una sorta di “maestro di boxe” del pensiero filosofico. In questo lavoro non si è voluto, tuttavia, valutare in che misura e in che termini Wright influenzò il pensiero dei pragmatisti americani, per quanto questo sia un argomento di rilevante interesse. Obiettivo primario è stato, invece, quello di analizzare il contributo apportato da Chauncey Wright alla teoria darwiniana, che dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie (1859) suscitò le reazioni più disparate e controverse nel mondo culturale europeo e americano. I primi due capitoli sono stati scritti con la finalità di contestualizzare storicamente la figura di Chauncey Wright: il primo, inserendola nel più vasto panorama del dibattito sull’evoluzionismo nel Nuovo Mondo; il secondo, inquadrandola nel contesto della nascita del pragmatismo americano. Gli ultimi tre capitoli, nucleo del presente lavoro, ricostruiscono e analizzano più compiutamente il contributo di Wright alla teoria darwiniana, facendo riferimento agli articoli che rappresentano la sua “difesa e illustrazione” del darwinismo e alla corrispondenza intrattenuta con Charles Darwin. 2 1. La diffusione del darwinismo in America “Gray, we must stop all this.” Louis Agassiz 1.1 Idee pericolose approdano nel Nuovo Mondo Il contesto culturale americano, scientifico e non, intorno al 1860 fu fortemente influenzato da fermenti intellettuali provenienti dal Vecchio Continente, segnatamente dall’Inghilterra. Nel novembre del 1859, Charles Darwin pubblicava On the Origin of Species by Means of Natural Selection, frutto di anni di lavoro e di innumerevoli osservazioni accumulate con pazienza dal naturalista inglese. L’opera ebbe sin dal principio grande successo: “Le 1250 copie della prima edizione furono vendute tutte nel primo giorno della pubblicazione, e anche le 3000 copie della seconda edizione furono esaurite rapidamente.” 1 Presto il libro cominciò a circolare anche negli Stati Uniti, sollevando lo stesso interesse – e la stessa pletora di polemiche – che aveva suscitato in Inghilterra e in Europa. In realtà, già prima del 1859 erano presenti negli Stati Uniti idee evoluzionistiche pre-darwiniane.2 A inizio secolo, la teoria di Lamarck aveva contribuito ad animare la discussione relativa all’origine delle razze umane, discussione che si sarebbe fatta ancora più accesa durante gli anni della Guerra Civile, per poi continuare nel secolo successivo. All’interno del dibattito possiamo distinguere una concezione monogenista e una concezione poligenista. Secondo la prima, c’è stata un’origine unica della razza umana, che si sarebbe poi modificata a seconda delle condizioni climatiche, generando le attuali differenze tra gli uomini. Un appoggio significativo a questa teoria venne dalle considerazioni lamarckiane relative all’influenza dell’ambiente sugli organismi, che per questo motivo furono accolte con favore dai monogenisti. Secondo la concezione poligenista, invece, le varie razze debbono considerarsi originarie, costitutivamente diverse le une dalle altre. In America questa posizione, facilmente coniugabile con istanze razziste, fu sostenuta dall’etnologo S. G. Morton e appoggiata da Louis Agassiz, Professore di zoologia e geologia ad Harvard, che presto sarebbe diventato, 1 Darwin, 2006, p.104 Si veda Blau, 1957, p.177 e seguenti. Con il termine “evoluzionismo” intendiamo tutte le teorie che prevedono una trasformazione nel tempo delle specie organiche, sia precedenti alla formulazione della teoria darwiniana (come quella di Lamarck) sia quelle contemporanee o successive ad essa. Con “darwinismo”, più specificamente, si fa riferimento alla teoria, formulata da Charles Darwin, che individua nella selezione naturale il meccanismo primario dell’evoluzione. E’ bene ricordare questa distinzione concettuale poiché i due termini sono oggi pressoché sinonimici, a seguito del successo conseguito dalla teoria darwiniana nell’ambito della biologia evoluzionistica del XX secolo. 2 3 come vedremo, uno dei più fieri oppositori del darwinismo in America. E’ in questo contesto che apparve l’Origine delle specie. 3 Secondo quanto riporta lo studioso americano H. W. Schneider, inizialmente l’opera venne considerata, dalla maggior parte dei lettori, come un contributo alla controversia sulle razze: essa sembrava deporre a favore dei sostenitori dell’origine unica della specie umana e del suo successivo differenziarsi a causa dell’influenza dell’ambiente. Ma gli scienziati più avveduti avevano già compreso che non era questo il vero fulcro del problema e che la portata innovativa dell’opera darwiniana era ben altra, e ben superiore. Infatti, questa andava a intaccare la concezione secondo la quale le specie biologiche sono entità fisse, create indipendentemente le une dalle altre, inscritte nello scenario immutabile della creazione divina. Per Darwin, il termine “specie” non definisce più un tipo essenziale, bensì è applicato per ragioni di convenienza a gruppi di individui molto somiglianti tra loro. Egli osserva, infatti, che la distinzione tra specie e varietà è incerta e arbitraria, tanto che giudici competenti sono spesso in disaccordo su come classificare alcune forme. Non è possibile tracciare una separazione netta e assoluta tra differenze individuali e lievi varietà, varietà ben definite e sottospecie, tra sottospecie e specie. “Queste differenze si fondono l’una nell’altra per gradi insensibili; e l’osservazione di una serie suggerisce l’idea di una trasformazione reale”4. Ma in che modo, a partire da piccole differenze individuali, si arriva a specie ben definite? Riflettendo sulla congerie di fatti osservati durante il viaggio a bordo del Beagle, sulle considerazioni di Malthus 5 in merito alla lotta per la sopravvivenza e sulla selezione artificiale praticata dagli allevatori, Darwin giunse a formulare l’ipotesi della selezione naturale. Quest’ultima agisce sulle differenze individuali, conservando e accumulando le variazioni che risultano utili ai loro possessori: “In virtù di questa lotta [per la sopravvivenza], le variazioni, per lievi che esse siano e da qualunque causa provengano6, purché siano utili in qualche modo agli individui di una 3 Il nome di Darwin era già noto al pubblico colto del Nuovo Mondo, in quanto legato alla pubblicazione del Viaggio di un naturalista intorno al mondo (prima edizione 1839) 4 Darwin, 2006, p.129 5 Thomas Robert Malthus, economista inglese, autore del Saggio sul principio della popolazione (prima edizione 1798). Egli aveva sostenuto che se le risorse disponibili aumentano in progressione aritmetica, la popolazione cresce più rapidamente, secondo una progressione geometrica. Questo determina l’impossibilità di sopravvivere per tutti gli individui, che dovranno perciò sostenere una lotta per l’esistenza. Questo concetto, applicato al mondo animale e vegetale, fu molto importante per la formulazione dell’ipotesi darwiniana. 6 “La nostra ignoranza sulle leggi della variazione è profonda”, ammette Darwin. Tale ignoranza sarebbe stata colmata solo molto tempo dopo, dalla genetica e dalla scoperta della struttura del DNA. 4 specie nei loro rapporti infinitamente complessi con gli altri organismi e con le condizioni fisiche della vita, tendono alla conservazione di tali individui, e a trasmettersi ai loro discendenti. Anche questi ultimi avranno così maggiori probabilità di sopravvivere, perché, fra i molti individui che nascono periodicamente da ogni specie, soltanto un piccolo numero può sopravvivere. Questo principio per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato “selezione naturale” per indicare la sua analogia con la selezione operata dall’uomo.”7 In tal modo la selezione naturale, agendo con estrema lentezza, produrrà nuove specie, sempre più perfezionate in relazione alle loro condizioni di vita, mentre le specie più antiche e meno perfezionate, se subiranno la concorrenza con le nuove forme, saranno soggette all’estinzione. Queste specie estinte rappresentano, nella celebre metafora dell’albero, i rami morti e caduti che l’evoluzione lascia dietro di sé, soppiantati da sempre nuove e meravigliose ramificazioni. 1.2 Asa Gray e Louis Agassiz Tra gli scienziati americani, il primo ad accogliere la teoria darwiniana e a farsene portavoce fu Asa Gray, botanico, Professore di storia naturale all’Università di Harvard. Gray era da alcuni anni in rapporto epistolare con Darwin, con il quale era legato da grande stima e amicizia. Nel 1857, il naturalista inglese inviava al collega americano una lettera contenente un breve estratto della sua teoria sull’origine delle specie, che solo gli amici più intimi, il botanico Joseph D. Hooker e il geologo Charles Lyell, avevano potuto conoscere in anteprima. Quella lettera si sarebbe poi rivelata importante nel testimoniare la priorità delle tesi darwiniane rispetto alle conclusioni cui era indipendentemente pervenuto, nel 1858, il naturalista inglese Alfred Russel Wallace. Quest’ultimo, nel corso delle sue ricerche nell’arcipelago malese, aveva avanzato un’ipotesi sull’origine delle specie ritenuta dallo stesso Darwin “curiosamente coincidente, perfino nelle espressioni” con la sua formulazione. 8 Dopo la comunicazione congiunta dei lavori di Darwin e Wallace alla Lynnean Society, Asa Gray iniziò a presentare le idee dell’amico in incontri ufficiali a Cambridge e a Boston. Inoltre, lo stesso Gray, dopo la pubblicazione in Inghilterra dell’Origine delle Specie (di cui curerà la prima edizione americana) si accinse a scriverne una recensione, apparsa nel marzo del 1860 sull’American Journal of Science and 7 Darwin, 2007, p.138 Wallace inviò proprio a Darwin il manoscritto, ponendo quest’ultimo in grande imbarazzo sulla linea di condotta da adottare, poiché egli lavorava da vent’anni alla teoria che anche Wallace era giunto a formulare. Furono Hooker e Lyell a convincere Darwin a comunicare congiuntamente i rispettivi lavori alla Società Linneana. Tuttavia, inizialmente, tale comunicazione attirò scarsa attenzione nel mondo scientifico. 8 5 Arts. 9 Questa esponeva chiaramente i punti essenziali della teoria darwiniana, contrapponendola alle posizioni sostenute da Louis Agassiz, suo collega ad Harvard. Agassiz era un naturalista di origine svizzera, molto noto tra gli scienziati dell’epoca per i suoi importanti contributi nel campo dell’ittiologia, della paleontologia e della geologia glaciale. Egli era fermamente convinto che per l’origine delle specie, così come per la loro attuale distribuzione geografica, non ci fosse altra spiegazione se non quella soprannaturale: ogni specifica forma di pianta o animale rappresenta “un pensiero di Dio” al momento della creazione, e le affinità strutturali tra gli organismi viventi sono “associazioni di idee nella Mente Divina”.10 Pur ammettendo una variabilità individuale all’interno delle specie, egli sosteneva che queste permangono fisse e invariabili; di tanto in tanto il Creatore annienta delle specie, per crearne nuove. Asa Gray descriveva molto bene, nella succitata recensione, la divergenza tra Agassiz e Darwin: “The one naturalist, [Agassiz] perhaps too largely assuming the scientifically unexplained to be inexplicable, views the phenomena only in their supposed relation to the Divine mind. The other, [Darwin] naturally expecting many of these phenomena to be resolvable under investigation, views them in their relations to one another, and endeavours to explain them as far as he can (and perhaps farther) through natural causes.”11 L’adesione di Agassiz al fronte anti-darwiniano era stata immediata, ed egli iniziò a condurre una campagna militante contro ogni forma di evoluzionismo, sfruttando la sua abilità di divulgatore scientifico.12 “Agassiz mi manda un messaggio personale dai toni civili - scrive Darwin in una lettera nel 1860 – ma mi attacca incessantemente; ma Asa Gray combatte come un eroe in mia difesa.” 13 Una delle accuse che Agassiz muoveva al darwinismo era quella di ateismo. Asa Gray, tutt’altro che indifferente di fronte a tale problema, provò a stornare quest’accusa, addentrandosi così nella questione del rapporto 9 Successivamente, Gray pubblicò altri articoli sulla stessa rivista e sull’Atlantic Monthly, integrando, peraltro, la citata edizione americana dell’Origine con aggiunte concordate con lo stesso Darwin. Se nella prima edizione del Botanical Text-Book di Gray, troviamo citato in apertura “l’immortale Linneo”, nelle edizioni successive tale menzione, significativamente, scompare. L’ipotesi darwiniana sull’origine delle specie, alla quale Gray aveva aderito, aveva reso “mortale” Linneo, rappresentante principe della teoria essenzialista e fissista delle specie. (Wiener, 1949, p.258) 10 Boller, 1969, p. 13 11 Gray, 1877, p. 21 12 Agassiz divenne molto noto al pubblico americano grazie alle cosiddette “Lowell Lectures”, una serie di conferenze pubbliche che tenne a Boston nel 1846. L’avversione di Agassiz al darwinismo precede la pubblicazione dell’Origine delle specie: già nel maggio del 1858, al termine di una relazione di Gray sulla teoria darwiniana, egli prendeva da parte il collega ammonendolo gravemente: “Gray, we must stop all this.” (Boller, 1969, p.7) 13 Marchant, 1916, Vol.I, p.142. Scrive inoltre Darwin in una lettera a Gray: “Agassiz’s name, no doubt, is a heavy weight against us.” (F. Darwin, 1887, Vol. II, p.333) 6 tra scienza e religione. Lo scienziato, che si dichiarava fedele adepto della chiesa presbiteriana, tentò di dimostrare la compatibilità della teoria della selezione naturale con la religione cristiana. Sosteneva che si potesse inferire (ma non dimostrare) dall’osservazione della natura un disegno e che vi fosse una tendenza spontanea nella mente umana a concepire un Cosmos ordinato secondo un fine, e dunque a supporne un Ordinatore. Possiamo notare come questa idea, che richiama alla memoria le teorie odierne dell’Intelligent Design, fosse ben lontana da quella di Darwin. Infatti, i due scienziati ebbero una garbata discussione epistolare sull’argomento, dalla quale le loro opinioni risultarono decisamente divergenti: la presenza incontrovertibile del male nel mondo rendeva Darwin scettico riguardo alla posizione di Gray. Egli ammise, in una lettera all’amico, la sua perplessità e il suo sconcerto sull’argomento, che percepiva chiaramente “troppo profondo per l’intelletto umano.” Subito oltre aggiungeva: “A dog might as well speculate on the mind of Newton. Let each man hope and believe what he can. Certainly I agree with you that my views are not at all necessarily atheistical.”14 Tuttavia, Darwin fu sempre poco propenso a discutere di questi argomenti pubblicamente, professando un cauto agnosticismo15. 1.3 Evoluzione sia, ma che abbia una direzione! Come Asa Gray, molti scienziati americani, pur convertendosi gradualmente a forme di evoluzionismo, cercavano di conciliarlo con argomentazioni teleologiche o teologiche. L’aspetto inquietante del darwinismo era che le variazioni, materia prima del processo evolutivo, avvenissero senza alcuno scopo o progetto e che successivamente la selezione naturale agisse su di esse in modo puramente meccanico. Se intorno al 1875 l’idea che le specie fossero evolute nel tempo era quasi completamente accolta nel mondo scientifico, lo stesso non poteva dirsi del concetto di selezione naturale.16 A fine secolo era molto diffusa tra gli scienziati americani la corrente cosiddetta neo-lamarckista, il cui caposcuola fu il paleontologo Edward J. Cope. ”Il trasformismo direzionato, tipico della teoria, rende l’idea stessa di evoluzione più accettabile, addomesticando, per così dire, attraverso l’ideale di un progresso perfettibile e la ricerca delle sue cause deterministiche, la 14 F. Darwin, 1887, Vol. II, p.312. Sullo stesso argomento si veda Darwin, 2006, p.72 e seguenti. Il termine fu coniato da Thomas Henry Huxley, zoologo inglese e tenace sostenitore del darwinismo in Inghilterra. 16 Boller, 1969, p.20. Si veda Darwin nella sesta edizione dell’Origine del 1872 (Darwin, 2007, p. 547) 15 7 profonda inaccettabilità del caso.” 17 Secondo lo studioso americano Paul F. Boller, “il darwinismo puro – cioè la selezione naturale senza progetto o scopo – era inaccettabile per la maggior parte degli scienziati americani dell’età dell’oro.” 18 Del resto, ciò non appare strano se si considera la grande diffusione della teologia naturale all’epoca: essa era fermamente stabilita come framework appropriato delle scienze naturali. In Inghilterra così come in America, vi era una lettura praticamente obbligatoria nelle Accademie: la Teologia Naturale di William Paley, il cui titolo completo suonava Natural theology; or, evidences of the existence and attributes of the Deity collected from the appearences of nature.19 L’arcivescovo inglese, attingendo soprattutto dalla scienza anatomica, apportava numerosi esempi di adattamenti degli organismi all’ambiente, adattamenti talmente perfetti da indicare inequivocabilmente l’esistenza nella natura di un disegno divino. Se l’influenza di tale retroterra intriso di teleologia era ancora molto viva nelle menti di scienziati e naturalisti, lo era a maggior ragione in quelle dei teologi. In America, i protestanti più dogmatici ed ortodossi avevano ottimi motivi per lanciare strali contro il darwinismo: sostenitori di un’interpretazione letterale della Bibbia, non potevano non opporsi ad una teoria che, se veritiera, avrebbe mandato in frantumi la descrizione della creazione divina, nonché la cronologia biblica. Le loro reazioni erano sovente accompagnate da indignazione e rabbia e tendevano a ridicolizzare la teoria darwiniana. Nel biasimarla, amavano citare le autorità scientifiche che vi si opponevano, come Agassiz20 e St. George Mivart, scienziato cattolico che - come vedremo nel quinto capitolo - in Inghilterra non risparmiava critiche al darwinismo. Dopo la pubblicazione di The Descent of Man, nel 1871, gli attacchi furono ancora più violenti.21 Nell’Origine delle specie vi era soltanto un’allusione all’argomento più scottante, quello relativo all’origine dell’uomo. In realtà, chi aveva saputo leggere tra le righe (e in particolare tra quelle di pagina 488 della prima edizione!22) sospettava già che Darwin avrebbe finito per togliere all’uomo il suo posto all’apice della creazione, rivelandone la parentela con poco nobili antenati scimmieschi. Va però detto che tra i teologi americani ve ne furono molti, più liberali, che 17 Gagliasso, 2001, p.140. Boller, 1969, p.20. 19 La prima edizione apparve nel 1802. In italiano il titolo suona: Teologia naturale o prove dell’esistenza e degli attributi della Divinità raccolte dalle apparenze della natura. Si veda il commento di Darwin su Paley nell’autobiografia (Darwin, 2006, p. 40) 20 Nonostante la concezione poligenista sostenuta da Agassiz fosse contraria alla concezione cristiana. 21 Ricordiamo che prima di The Descent of Man Thomas H. Huxley aveva pubblicato, nel 1863, Evidence as to man’s place in Nature. 22 E’ lì che compare la famosa frase “Light will be thrown on the origin of man and his history”. 18 8 tentarono la via della conciliazione con l’evoluzionismo darwiniano, non senza rimodellamenti e limitazioni. James McCosh, teologo presbiteriano e preside all’Università di Princeton, fu tra i primi ad inaugurare questa strada, dando un’interpretazione calvinistica del darwinismo che avrebbe avuto una significativa influenza negli ambienti protestanti.23 1.4 Lo spencerismo in America Sarebbe impossibile ricordare qui tutte le reazioni, le critiche, le polemiche suscitate in America dalla teoria darwiniana, gli argomenti usati per confutarla, i fraintendimenti cui essa diede adito. Tuttavia, nell’intento di ricostruire un quadro del dibattito americano, non possiamo non parlare dei rapporti ambigui e problematici che il darwinismo intrattenne con l’evoluzionismo di Herbert Spencer. 24 Questi due tipi di “evoluzionismo”, concepiti indipendentemente l’uno dall’altro con metodi e presupposti assolutamente differenti, venivano spesso confusi e assimilati, dando luogo a numerosi e duraturi equivoci. Se quella di Darwin è un’elaborazione scientifica di dati accumulati con l’esperienza e l’osservazione, la cui applicazione è limitata al campo biologico, l’evoluzionismo spenceriano è una concezione generale della realtà, che trova applicazione nel mondo naturale, così come in quello storico e sociale. La legge del progresso, secondo il filosofo inglese, è la stessa nello sviluppo geologico così come negli ultimi risultati della civiltà: l’evoluzione dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo per successive differenziazioni. Per quanto riguarda la sociologia spenceriana, essa si basa su due principi: 1) Ciascun individuo è libero di fare ciò che vuole, purché non infranga la libertà altrui. 2) Lo Stato deve lasciare che ognuno riceva i benefici o patisca i danni che derivano dalla propria natura e dalla condotta che ne consegue. Questo secondo principio era essenzialmente un’applicazione della teoria della “sopravvivenza del più adatto” alla società. Secondo Spencer, ogni tentativo di regolare l’industria, proteggere il lavoro o favorire l’educazione rischia soltanto di interferire con la selezione del più adatto, favorendo coloro che dovrebbero inevitabilmente avere la peggio 23 Sorsero due tipi di teologia evoluzionistica in America. I presbiteriani, seguendo McCosh, interpretarono la variazioni che Darwin chiamava spontanee o casuali come scelte soprannaturali dovute all’intervento di Dio. Per McCosh il governo divino è una combinazione di legge e di “provvidenze speciali”: queste sono atti spontanei e imprevedibili di Dio, per cui alcuni uomini sono eletti ed altri respinti. La selezione naturale sarebbe dunque, in tale prospettiva, un’elezione divina. Gli unitariani, invece, trassero ispirazione soprattutto da Spencer e si fecero promotori di una versione diversa di evoluzionismo teologico: una dottrina ottimistica, che sosteneva la salvezza progressiva per mezzo di una finalità immanente che avrebbe condotto alla scomparsa del male. (Schneider, 1962, p.399 e seguenti.) 24 Spencer si era dichiarato evoluzionista già nel 1852. (Barsanti, 2005, p.299) 9 nella lotta per la sopravvivenza. L’evoluzione sociale è infatti meccanica e inevitabile e tende naturalmente verso il progresso; “le forze evolutive, lasciate al libero gioco, condurrebbero il genere umano lentamente ma sicuramente ad uno stato di perfetto adattamento.”25 Il fatto che tale dottrina sociologica iniziasse a circolare sotto il nome di “darwinismo sociale” contribuì non poco alla confusione tra spencerismo e darwinismo. In realtà, l’assimilazione dei due evoluzionismi è del tutto indebita, e lo stesso Darwin lo esprime molto chiaramente nell’Autobiografia. Pur ammirando il talento di Spencer, Darwin non ritiene che le sue opere abbiano avuto una qualche influenza sul suo lavoro scientifico: “Il metodo deduttivo con cui egli tratta ogni argomento, è assolutamente contrario alla mia mentalità. Le sue conclusioni non mi convincono mai: e ogni volta, dopo aver letto una sua discussione, mi vado ripetendo: Ecco un argomento che richiederebbe sei anni di lavoro. Le sue generalizzazioni fondamentali (che qualcuno ha ritenuto di importanza pari a quella delle leggi di Newton!) forse sono molto importanti filosoficamente, ma non sembrano utili da un punto di vista rigorosamente scientifico. Esse hanno il carattere di definizioni anziché di leggi naturali e non servono a prevedere che cosa accadrà nei casi particolari. Perlomeno non sono state utili a me.”26 A partire dal 1870, ma soprattutto dagli anni ’80 in poi, la fama di Spencer divenne sempre maggiore negli Stati Uniti, tanto da superare quella ottenuta in Inghilterra. Secondo Paul Boller, una delle ragioni principali di questo successo fu che l’esasperato individualismo sociologico, caratteristico del pensiero spenceriano, ben si sposava con l’ideologia liberale sostenuta dalla borghesia americana dopo la Guerra Civile. La sociologia di Spencer giustificava “scientificamente” il principio cardine del mondo dell’industria e del potere economico americano: che lo Stato non dovesse intervenire in alcun modo nel mercato. Quando Spencer compì un viaggio negli Stati Uniti, nel 1882, gli vennero tributati i massimi onori. Ad accoglierlo vi erano importanti personalità del mondo culturale, tra le quali uno dei maggiori sostenitori dello spencerismo in America, John Fiske. 27 Filosofo, storico e divulgatore scientifico, Fiske - come il suo mentore Spencer - considerava l’evoluzione una legge onnicomprensiva, capace di spiegare la storia umana come quella naturale. “Il grande scopo di Fiske fu quello di trovare una cosmologia che potesse 25 Boller, 1969, p. 52 Darwin, 2006, p. 89-90 27 Fiske, pur manifestando sconfinata ammirazione per Spencer, in molti punti si allontanò dal suo pensiero, ad esempio ripudiando le forme più rigide di applicazione della sopravvivenza del più adatto alla società. Grande sostenitore della sociologia spenceriana fu invece William Sumner. (Boller, 1969) 26 10 sussumere fenomeni fisici, biologici, psicologici e sociali sotto un unico sistema di leggi, e allo stesso tempo garantire il progresso umano.”28 Andando ben oltre Spencer, egli si proponeva di conciliare la religione cristiana con l’evoluzione. Nella sua opera Outlines of Cosmic Philosophy (1874) formulava un ambizioso progetto filosofico in cui giocava un ruolo centrale l’idea di un Dio immanente alla natura, “l’infinita ed eterna Potenza che si manifesta in ogni pulsazione dell’universo”.29 Fiske pensava che il processo di evoluzione cosmica avesse come scopo il raggiungimento della perfezione umana, e che il genere umano potesse sperare in una vicina età di felicità e di pace, retta da un ordine internazionale di cooperazione. Il filosofo americano ebbe una grande capacità di divulgare le teorie evoluzionistiche, sebbene attraverso la sua lettura cosmologica e orientata verso problemi di filosofia della storia.30 28 Wiener, 1949, p.137 Cit. in Schneider, 1962, p. 347. 30 Un contributo originale di Fiske al darwinismo è contenuto nel saggio “The Meaning of Infancy” (1883), dove il filosofo esplora il significato del prolungamento dell’infanzia nella specie umana, sottolineando l’importanza che esso ha avuto per lo sviluppo sociale e morale dell’uomo. 29 11 2. Chauncey Wright e il ”Metaphysical Club” “Never in a human head was contemplation more separated from desire” William James 2.1 La nascita del pragmatismo John Fiske fu un frequentatore occasionale di quello che Charles Sanders Peirce chiamò “Metaphysical Club”, un circolo di intellettuali ed amici che si riunivano informalmente a Cambridge, Massachusetts, intorno al 1870. Secondo Peirce, fu proprio in questi incontri di Cambridge che “il nome e la dottrina del pragmatismo videro la luce”.31 I partecipanti erano o sarebbero diventati di lì a poco Professori32 all’università di Harvard. Provenivano da formazioni disparate ma erano tutti accomunati dall’interesse per la filosofia e da un’attenta sensibilità a tematiche evoluzionistiche. E’ proprio questa sensibilità che vorremmo sottolineare, notando come la diffusione dell’evoluzionismo negli Stati Uniti sia andata ad intrecciarsi con la genesi della corrente filosofica del pragmatismo americano. Lo studioso americano Philip P. Wiener, nel suo libro Evolution and the Founders of Pragmatism, analizza le divergenti interpretazioni dell’evoluzionismo date dai fondatori del pragmatismo e di come queste influenzarono il loro pensiero filosofico.33 La tesi di Wiener è che nel circolo di Cambridge le “sementi” evoluzionistiche presero radici, dando luogo a frutti differenti a seconda del terreno di semina. Dalla colorazione che ciascuno dei partecipanti al circolo diede all’idea di evoluzione, nei rispettivi campi di indagine, emersero diverse varietà di pragmatismi. A noi interessa, in questo lavoro, la peculiare ed originale interpretazione che ne diede Chauncey Wright, matematico e filosofo che rappresentò per il gruppo una sorta di “corifeo”. Prima di passare ad occuparci di Wright e del suo contributo all’evoluzionismo darwiniano, ricostruiremo le testimonianze di Peirce sulle riunioni del Metaphysical Club e analizzeremo i motivi che indussero il filosofo americano a scegliere il nome di “pragmatismo”. L’origine e la composizione del gruppo sono così descritte da Peirce: “It was in the earliest seventies that a knot of us young men in Old Cambridge, calling ourselves, half-ironically, half defiantly, “The Metaphysical Club”, - for agnosticism was then riding his horse, and was frowning superbly upon all metaphysics – used to meet, sometimes in my study, sometimes in that of William James. (...) Mr. Justice Holmes, 31 Cit. in Wiener, 1949, p. 20 Lecturers, cioè professori a contratto. Darwin dichiarò che, intorno al 1860, la sola Harvard era così ricca di brillanti intelligenze tanto da poter rifornire tutte le università britanniche. (Sini, 1972, p.65) 33 In questa sede, tuttavia, non potremo soffermarci su tali interpretazioni. 32 12 however, will not, I believe, take it ill that we are proud to remember his membership; nor will Joseph Warner, Esq. Nicholas St. John Green was one of the most interested fellows, a skillful lawyer and a learned one, a disciple of Jeremy Bentham. (...) Chauncey Wright, something of a philosophical celebrity in those days, was never absent from our meetings. I was about to call him our corypheus; but he will better be described as our boxingmaster whom we – I particularly – used to face to be severely pummeled. (...) John Fiske and, more rarely, Francis Ellingwood Abbot, were sometimes present, lending their countenances to the spirit of our endeavours, while holding aloof from any assent to their success.”34 Emerge chiaramente, da questa testimonianza così come da altre, il ruolo di leader che nel club aveva Chauncey Wright. Matematico dai vasti interessi scientifici e filosofici, Wright è definito da Peirce in una lettera “una mente quasi allo stesso livello di J. S. Mill”. “He had a most penetrating intellect (...) He and I used to have long and very lively and close disputations lasting two or three hours daily for many years. In the sixties I started a little club called the Metaphysical Club. It seldom if ever had more than half a dozen present. Wright was the strongest member and probably I was next (...) It was there that the name and doctrine of pragmatism saw the light.”35 Come Wright, Peirce e William James provenivano da studi scientifici, il primo di logica e matematica, il secondo di medicina e psicologia. Avevano invece una formazione storica o giuridica Green, Holmes, Warner e Fiske e a parte quest’ultimo conosceranno una brillante carriera come uomini di legge. Abbott era pastore di confessione unitariana, anche se in seguito avrebbe rinunciato al pulpito e fondato la “Free Religious Association”. Nelle testimonianze di Peirce si possono, tuttavia, riscontrare alcune incongruenze. Scrivendo trent’anni dopo le vicende narrate, egli è piuttosto vago sulla cronologia degli incontri.36 Inoltre, non risulta in nessuno scritto degli altri partecipanti né che il gruppo si fosse autonominato “Club Metafisico”, né che il termine “pragmatismo” ricorresse spesso nelle discussioni. Addirittura Holmes dice di non averlo mai sentito prima del 1891, anno in cui gli incontri si erano già da tempo conclusi.37 In ogni caso, si può affermare che il termine non rimase particolarmente impresso nella mente dei membri del club, ad eccezione di William James. 34 Cit. in Wiener, 1949, p.19 Cit. in Wiener, 1949, p.20. 36 Nel primo brano qui riportato riferisce che le riunioni del club iniziarono “nei primi anni settanta”, nel secondo “in the sixties”, altrove si riferisce all’anno 1871. E’ probabile che gli incontri del club iniziarono tra la fine del ’71 e l’inizio del ’72. 37 Wiener, 1949, p.22. Scrive Holmes: “As to pragmatism I must quote something I said in 1891 before I ever heard of it”. Quanto al motivo che Peirce attribuisce alla scelta del nome del club, esso appare strano visto che proprio Chauncey Wright, leader del gruppo, faceva professione di agnosticismo. 35 13 Al di là dei dubbi sull’uso del termine, il fatto che Peirce individui nel Club il luogo di nascita del pragmatismo ci testimonia un’unità di indirizzo, una medesima atmosfera intellettuale condivisa dagli amici di Cambridge, di cui Peirce fu, tra tutti, il più consapevole.38 L’espressione “pragmatismo” è desunta dalla Critica della Ragion Pura di Kant, che Peirce conosceva quasi interamente a memoria e sulla quale passava ore a discutere insieme al suo “boxing-master” Wright. Nella “Dottrina trascendentale del metodo”, Kant contrapponeva il valore pratico (praktish) della legge morale al carattere pragmatico (pragmatish) degli imperativi ipotetici. Mentre la prima è valida a priori ed incondizionata, gli imperativi ipotetici poggiano su principi empirici e seguono “la regola di prudenza”, che suggerisce “che cosa si deve fare se vogliamo godere della felicità.”39 La legge morale, invece, prescinde da questo fine empirico, e ha come solo movente il rendersi degni della felicità. Kant caratterizza così la fede pragmatica, dove “fede” indica una credenza teoreticamente insufficiente, non valida oggettivamente (ovvero universalmente): “Quando un malato è in pericolo, il medico è pur costretto a fare qualcosa, anche se non conosce la malattia; prende allora in esame i sintomi e, non sapendo fare di meglio, formula, ad esempio, una diagnosi di tisi. Egli stesso è consapevole che la sua fede non è che contingente, e che un altro medico potrebbe forse emettere una diagnosi migliore. A una simile fede contingente, che funge tuttavia da fondamento all’uso reale dei mezzi per certe azioni, do il nome di fede prammatica.”40 Il termine “pragmatico”, per Peirce, denota una relazione mezzi-fini espressa nell’imperativo ipotetico, che non presenta la necessità e l’apriorismo di quello categorico. La scelta è significativa e rivelatrice di una concezione del conoscere e dell’agire ipotetico, operazionale, contingente e fallibile.41 Se furono soltanto Peirce e James a utilizzare il termine pragmatismo, per poi prendere due differenti strade interpretative, 42 tutti i 38 Wiener, 1949, p.25 Kant, Critica della Ragion Pura, UTET, Torino 2005, p. 608 40 Ibidem, p. 618 41 Peirce, nel motivare la sua scelta terminologica, si esprime così nell’articolo What Pragmatism is: “Ma per uno che aveva imparato la filosofia da Kant, come l’autore, e che ancora pensava senza difficoltà in termini kantiani, praktisch e pragmatisch erano separati quanto i due poli, appartenendo il primo a una regione del pensiero dove nessun sperimentalista potrebbe sentirsi sicuro d’avere un terreno solido sotto i piedi ed esprimendo il secondo una relazione con qualche preciso proposito umano.” (Santucci, 1970, p. 145) 42 Peirce formula così la massima pragmatica: il significato di un’idea o di una proposizione è costituito dalle sue conseguenze sperimentali concepibili, dagli effetti che possono avere portata pratica. Se per Peirce si tratta essenzialmente di una teoria del significato, quello di James si configura invece come pragmatismo metafisico. Infatti, egli interpretò la massima di Peirce in tal senso: una proposizione ha significato non solo se ha conseguenze sperimentali, ma anche se la credenza in essa ha conseguenze pratiche. Le credenze possono trascendere il campo del verificabile (ad esempio la credenza religiosa), esse tuttavia sono legittime 39 14 partecipanti al Metaphysical Club avrebbero probabilmente sottoscritto questa concezione della credenza e del sapere umano. Influenzati dall’etica utilitarista e dal modo di procedere della scienza sperimentale, essi si proposero di rimuovere le difficoltà esistenti nelle teorie della conoscenza e del significato. Alla ricerca di una verità assoluta sostituirono la ricerca di un metodo per chiarire i concetti delle scienze naturali e sociali, per verificare la fecondità delle idee alla luce delle loro conseguenze per la scienza e il benessere umano. Benché i fondatori del pragmatismo dessero interpretazioni disparate all’idea di evoluzione, essi condivisero una concezione dinamica dell’esperienza e della ragione, che intesero come strumento di adattamento dell’uomo all’ambiente. Condivisero, inoltre, un approccio genetico, storico, temporale alle idee e ai fenomeni43, guardando con sospetto i tentativi sistematici di spiegare tutto con un unico principio, consapevoli della complessa diversità dei fenomeni naturali e sociali. Può, a questo punto, apparire chiaro come il tentativo di John Fiske di operare una sintesi tra scienze fisiche e sociali rappresenti un’eccezione rispetto al pluralismo metodico degli altri membri del Club.44 Chauncey Wright criticò fortemente la filosofia cosmica di Fiske, così come ogni indebita estensione della teoria dell’evoluzione darwiniana al di là del campo biologico. 2.2. Il Socrate di Bow Street Dopo Asa Gray, Chauncey Wright fu uno dei primi, in America, a difendere la teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale. La sua figura, poco nota perfino negli Stati Uniti, merita senz’altro di essere tratteggiata. Egli nacque nel 1830 a Northampton, Massachusetts, e morì prematuramente a Cambridge all’età di quarantacinque anni. Ebbe una vita priva di eventi degni di rilievo, ad eccezione di un viaggio compiuto in Europa, dove conobbe Charles Darwin. Brillante studente in matematica e nelle scienze naturali, Wright si laureò ad Harvard all’età di ventidue anni. Fu allievo di Louis Agassiz e di Asa Gray, nonché di Benjamin Peirce 45 , padre di Charles Sanders. Terminata l’università, grazie alla sua abilità di matematico fu assunto dall’American Ephemeris and Nautical Almanac, pubblicazione finanziata dal governo federale. Il lavoro consisteva nel comporre se utili all’uomo. Questa interpretazione si discosta sostanzialmente da quella di Peirce, che infatti utilizzerà, in seguito, il nome di “Pragmaticismo” per la sua filosofia, per distinguerla da quella di James. 43 Scrive Blau: “Dal punto di vista metafisico, l’effetto più rilevante della teoria evoluzionistica sul pensiero filosofico fu di accrescere l’importanza del concetto di mutamento. Platone aveva suggerito l’idea, per secoli universalmente accettata dai filosofi, che solo il, il fisso, e l’immutabile fossero degni del titolo di Realtà (…) Con il diffondersi delle idee evoluzionistiche affiorò la convinzione che gli aspetti dinamici, e non quelli permanenti, fossero reali.” (Blau, 1957, p. 186) 44 Fiske infatti, come riporta Peirce, si mantenne distante dagli esiti di quelle riunioni. 45 Insigne matematico ad Harvard. 15 effemeridi, tavole astronomiche destinate alla navigazione. Wright trovò presto una maniera di svolgere i relativi calcoli in tre mesi invece che in un anno; ciò gli permetteva di dedicarsi a quelle che divennero le sue vere passioni: lo studio della filosofia e il διαλέγεσθαι. La sua fu una formazione da autodidatta. Ancora ad Harvard, fu attratto dalla filosofia trascendentale di Ralph W. Emerson. Essa rappresentava un’alternativa all’ortodossia cristiana di confessione unitariana, a quell’epoca imperante nell’insegnamento della filosofia nelle università americane.46 Ma ben presto Wright non ritenne soddisfacente il ricorso all’intuizione intellettuale di Emerson. Si avvicinò poi al pensiero del filosofo scozzese William Hamilton47 - attraverso cui conobbe la filosofia kantiana - per approdare, definitivamente, all’empirismo inglese, leggendo Francis Bacon ma, soprattutto, John Stuart Mill. 48 Al suo sviluppo intellettuale corrispose la crescita personale e sociale. Dal 1856, iniziò a riunirsi intorno a lui un circolo letterario e scientifico - analogo a quello che sarebbe stato, qualche anno dopo, il Club Metafisico - chiamato i “Septem”. Le discussioni intellettuali erano spesso accompagnate da abbondanti libagioni; ciò contribuì a far acquisire a Chauncey abitudini irregolari che sarebbero rimaste una costante per il resto della sua vita.49 Nel 1860 va individuata una fondamentale svolta nel percorso filosofico di Wright: la lettura dell’Origine delle specie. In quel periodo, per arrotondare lo stipendio, insegnava presso la scuola femminile di Cambridge di Louis Agassiz. A differenza di quest’ultimo, Wright fu subito convinto dal metodo darwiniano e accettò l’ipotesi della selezione naturale come la più plausibile per spiegare l’origine delle specie. Scriveva, in una lettera nel febbraio 1860: “Agassiz comes out against its conclusions, of course, since they are directly opposed to his favourite doctrines on the subject; and, if true, they render his essay on Classification a useless and mistaken speculation. I believe that this development theory is a true account of nature, and no more atheistical than that approved theory of creation, which covers ignorance with a word pretending knowledge and feigning reverence.”50 46 Il padre di Wright, membro della chiesa unitariana di Northampton, diede al figlio un’educazione cristiana. Chauncey se ne allontanò gradualmente, pervenendo a posizioni agnostiche. 47 Hamilton, Professore di logica e metafisica all’università di Edimburgo, ebbe il merito di mettere in contatto la cultura anglosassone con la filosofia tedesca. 48 L’utilitarismo divenne la filosofia morale di Wright, e da allora il suo motto rimase “il maggior bene per il maggior numero.” 49 Periodicamente fu affetto da stati depressivi, da cui di volta in volta gli amici provvedevano a sollevarlo. 50 Wiener, 1949, p.33 16 Quella di Darwin fu “l’influenza che sarebbe stata più incisiva di ogni altra nel dare direzione e colore alla sua vita intellettuale.”51 In quello stesso anno, Wright fu eletto membro dell’American Academy of Arts and Sciences, di cui diverrà poi segretario. Nel 1870, Charles W. Eliot, che era stato un membro dei Septem, divenne Rettore di Harvard e iniziò gradualmente a introdurre riforme educative per allentare il giogo dell’ortodossia. Wright, pensatore decisamente eterodosso in quel contesto, fu invitato a ricoprire la cattedra di psicologia, e successivamente quella di fisica. Tuttavia, questi incarichi accademici non furono esattamente un successo. Essere professore universitario non era nelle corde di Wright. Il carattere timido lo portava a temere un pubblico di sconosciuti e la lezione accademica non lo metteva a suo agio. Risultato: parlava monotonamente guardando in basso, fissando la cattedra. Che differenza dev’esserci stata tra assistere a una sua lezione e ascoltarlo conversare fino a notte fonda con gli amici! Infatti, dalle loro testimonianze e da quelle di chi lo conobbe in contesti più confacenti alle sue attitudini socratiche, emerge una figura di grande fascino intellettuale. Vale la pena di riportare quello che scrisse William James nel necrologio dedicato all’amico e mentore: “If power of analytic intellect pure and simple could suffice, the name of Chauncey Wright would assuredly be as famous as it is now obscure, for he was not merely the great mind of a village -if Cambridge will pardon this expression- but either in London or in Berlin he would, with equal ease, have taken the place of master which he held with us. The reason why he is now gone without leaving any work which his friends can consider as a fair expression of his genius, is that his shyness, his want of ambition, and to a certain degree his indolence, were almost as exceptional as his power of thought (...) He preferred general criticism and contemplation, and became something resembling more a philosopher of the antique or Socratic type than a modern Gelehrter. His best work has been done in conversation; and in the acts and writings of the many friends he influenced his spirit will, in one way or another, as the years roll on, be more operative than it ever was in direct production.”52 Wright non ebbe mai attitudine verso la scrittura, che gli sembrava una forma di soliloquio. “A cold thesis, served in a book, does not incite the speculative appetite with me; and I confess to the heartiest sympathy with Plato’s preference for a man, who can question and answer, rather than for a book, which must say much at random, or demand an artist’s skill and imagination in the writer.” 53 51 Così scriveva il suo amico E. W. Gurney. Cit. in Madden, 1958, p.132 Madden, 1958, p. 143. Scrive Fiske: “An evening’s talk with him always seemed to me one of the richest intellectual entertainments, but there was no telling where or how it would end.” (Kennedy, 1918, p. 481) 53 Madden, 1958, p.46 52 17 Gli scritti di Wright sono spesso involuti e di difficile comprensione: le idee più significative – raramente accompagnate da esempi concreti - non sono esposte con il necessario rilievo e sono trattate alla stregua di digressioni.54 La produzione scritta di Wright si limita ad articoli e recensioni, pubblicate sulla North American Review e The Nation, due riviste americane culturalmente molto importanti nel diciannovesimo secolo.55 Dopo la sua morte, l’amico Charles E. Norton raccolse i saggi più significativi e li pubblicò con il titolo di Philosophical Discussions. Il periodo più fecondo fu quello tra il 1870 e il 1875, che corrisponde agli anni del “Metaphysical Club”. E’ in questo periodo che Wright scrisse tre importanti articoli che costituiscono la sua definizione e difesa del darwinismo: Limits of Natural Selection, The Genesis of Species e Evolution by Natural Selection. Negli ultimi anni di vita Wright aveva concepito un’opera che avrebbe preso il nome di “Psychozoology”.56 Questa copriva un campo di interessi comune a Wright e Darwin, ovvero riguardava una psicologia che tenesse in debito conto considerazioni evoluzionistiche. Di tale progetto troviamo un abbozzo nel saggio The Evolution of SelfConsciousness, che sarà oggetto della nostra attenzione nel quarto capitolo. 2.3 Una scienza neutrale Wright si trovò in polemica non solo contro gli anti-darwiniani, ma si schierò decisamente contro quasi tutte le filosofie dell’evoluzione in voga al suo tempo. Criticò instancabilmente la Filosofia Sintetica di Spencer, mentre questo veniva accolto in America come un nuovo Aristotele e un nuovo Newton. Per Wright nell’approccio spenceriano “l’evoluzione esprime più di ciò che l’evidenza garantisce”.57 Le generalizzazioni a cui Spencer perviene, come la legge dell’evoluzione dell’omogeneo all’eterogeneo, non sono altro che “compendi di verità”, mentre “niente giustifica lo sviluppo di principi astratti nella scienza se non la loro utilità nell’allargare la nostra concreta conoscenza della natura.” 58 Criticò ugualmente la filosofia cosmica di Fiske, analoga generalizzazione cosmologica sull’evoluzione. Tra i membri del Metaphysical Club, Wright fu il più cauto nell’interpretare il significato filosofico dell’evoluzionismo. Si occupò, piuttosto, di 54 “His most pregnant ideas are often expressed with casual abruptness as mere asides” Kennedy, 1918, p.480. Erano gli editori, tra cui Norton, amico di Wright, a richiedergli recensioni o articoli. Probabilmente, se fosse stato per la sua naturale indolenza, essi non sarebbero mai stati scritti. 56 Alcuni studiosi statunitensi (Schneider, Blau) ritengono che sarebbe stata un’opera significativa per la filosofia americana. Il progetto della “Psicozoologia” è esposto brevemente da Wright in una lettera ad un’amica (Wright, 1878, p. 248) 57 Cit. in Wiener, 1949, p.61 Si vedano il saggi The philosophy of Herbert Spencer e German Darwinism. (Wright, 1877) 58 Wright, 1877, p.56 55 18 chiarire la differenza tra selezione naturale come ipotesi scientifica e l’utilizzo dell’idea di evoluzione come principio metafisico. Per Wright, infatti, il metodo sperimentale e induttivo della scienza dev’essere neutrale nei confronti di problemi di tipo metafisico così come di tipo etico, religioso o estetico. Egli considerò i risultati delle ricerche di Darwin nello stesso spirito naturalistico in cui esse furono concepite ed effettuate e cercò di collocare la teoria darwiniana “nelle sue appropriate relazioni con le ricerche filosofiche in generale.”59 Questa doveva restare un’ipotesi scientifica ristretta al campo della biologia e della psicologia. Wright avversò ogni tentativo di convertire i risultati della scienza naturale in una teologia, come fece James McCosh con la teoria darwiniana. La necessità di appellarsi alla neutralità della scienza va messa in relazione all’ampia diffusione della teologia naturale negli ambienti accademici dell’epoca. 60 Wright, nel saggio Natural Theology as a Positive Science, 61 criticò con rigore gli argomenti dei teologi naturali. Che l’universo abbia uno scopo, può essere legittimamente creduto sul terreno della fede, ma in nessun modo rivelato o confermato dall’indagine scientifica della natura. La credenza nelle cause finali non può essere mascherata da conoscenza scientifica e induttiva. Wright fu, infatti, costantemente attento nell’evitare ogni forma di teleologia, che riteneva un veleno sottile, che si infiltra dove meno si sospetta, in special modo nelle cosmologie. Sotto la bandiera della neutralità della scienza condannò come futili gli sforzi di idealisti, materialisti, e spenceriani di appropriarsi della teoria darwiniana dell’evoluzione per i propri scopi. Perfino il materialismo, posizione di cui gli scienziati sono spesso accusati, è considerata una dottrina metafisica “fuori dal campo della scienza”.62 Esso appartiene alla sfera del sentimento, del senso morale e dei principi pratici. Infatti, secondo Wright, il modo di pensare metafisico e quello scientifico traggono origine e sono controllati da diversi moventi (in inglese “motive”). Wright chiama “movente soggettivo” quello che trae origine dagli interessi e dalle emozioni umane. Per “movente oggettivo” intende, invece, quello che nasce nel corso di una ricerca empirica e non è più associato alle nostre paure e aspirazioni, alla nostra natura emotiva. Il “movente oggettivo” è alla base del desiderio 59 Così scrisse Wright nella prima lettera che inviò a Darwin, il 21 Giugno 1871. (Wright, 1878, p.230) “His “nihilistic” neutrality is best understood in the historical context of the dogmas he opposed.” Wiener, 1945, p. 45. Come possiamo considerare oggi la posizione di Wright? La scienza può davvero essere neutrale? L’epistemologia odierna è consapevole dell’impossibilità di prescindere dalle metafisiche implicite, soprattutto in relazione alla biologia e alle scienze del vivente. In ogni caso, nel contesto dell’epoca, era certamente sensata l’aspirazione di Wright alla neutralità della scienza. 61 Wright, 1877, p.35 62 Wright, 1877,, p.324 60 19 disinteressato di conoscenza o anche del primitivo sentimento di curiosità.63 I moventi della speculazione teologica e metafisica esistono dall’inizio della civiltà e risiedono nella natura emotiva dell’uomo. “The question of philosophy proper are human desires and fears and aspirations – human emotions – taking an intellectual form. Science follows, but does not supersede, this philosophy.”64 Le tre fasi che i positivisti individuano nello sviluppo dello spirito umano – la fase teologica, quella metafisica e infine quella positiva o scientifica – non sono successive, bensì “coesistono in tutti i più alti gradi di sviluppo della civiltà e dell’attività mentale.”65 Le speculazioni metafisiche e teologiche appaiono inverificabili, idee vaghe, mere fantasie, se giudicate dal punto di vista della scienza empirica. Tuttavia, “They certainly are the products of activities which constitute more of human happiness and human worth than the narrow material standards of science have been able to measure. Philosophy proper should be classed with the Religions and with the Fine Arts, and estimated rather by the dignity of its motives, and the value it directs us to, than by the value of its own attainments. To condemn this pursuit because it fails to accomplish what science does, would be to condemn that which has formed in human nature habits, ideas, and associations on which all that is best in us depends.”66 Da queste parole sembrerebbe emergere che, rispetto alla metafisica, Wright non si schieri tout court con i positivisti.67 Ma certamente egli ritiene che la scienza empirica, a cui è stata attribuita piena dignità solo in età moderna, sia in grado di districare questioni rimaste a lungo nell’arena delle discussioni metafisiche e di investigarle sotto nuove forme e nuovi auspici. Sarà così, come vedremo, per il problema dell’autocoscienza. 63 La netta separazione tra motivi soggettivi e motivi oggettivi ci spiega perché James si espresse così parlando di Wright: “In una mente umana, mai la contemplazione fu più disgiunta dal desiderio (...) Se nella maggior parte degli uomini l’interesse per un pensiero è proporzionale alla sua possibile relazione con il destino umano, con lui accadeva praticamente l’opposto.” Madden, 1958, p.144. Anche Gurney riporta: “Chauncey’s intellect was very little fed through his emotions” Madden, 1958, p.136 64 Wright, 1877, p.50 65 Wright, 1877, p.50. Wright ritiene che soltanto nell’età moderna la scienza positiva è stata riconosciuta come indipendente, determinata esclusivamente da moventi oggettivi, oltre che da motivi legati all’utilità materiale. 66 Wright, 1877, p. 52 67 Madden ritiene che Wright sia allineato ai positivisti nel tentativo di eliminare la metafisica. Tuttavia il passo riportato nel testo sembrerebbe, a nostro avviso, indicare una posizione più nuancée, almeno nel 1865, anno in cui Wright scrive il saggio da cui è tratto questo passo. (The philosophy of Herbert Spencer) Va però detto che in una lettera del 1874 Wright scrive: “Sono piuttosto convinto che la maggior parte, se non tutti i problemi metafisici potrebbero essere ridotti ad inconsci giochi di parole, o ambiguità terminologiche che non vengono notate.” Anche in questa lettera, però, Wright sottolinea che le domande metafisiche hanno un importante valore sociale. Cfr. Madden 1958, p. 56 e seguenti. 20 3. Quali sono i limiti della selezione naturale? Wallace, Wright e Darwin “I hope you have not murdered too completely your and my own child.” Charles Darwin 3.1 L’eresia di Wallace Nell’ottobre del 1870, Wright pubblicò sulla North American Review l’articolo Limits of Natural Selection.68 Esso rappresenta la critica ad Alfred Russel Wallace, co-scopritore del meccanismo della selezione naturale, che nello stesso anno aveva pubblicato il libro Contributions to the Theory of Natural Selection. Quest’opera raccoglieva un insieme di saggi in cui il naturalista rispondeva a varie obiezioni mosse alla teoria e intendeva contribuirvi applicandola a casi particolari, come ad esempio il mimetismo. Ma, nel decimo e ultimo capitolo, Wallace si apprestava a fare un’importante restrizione all’azione della selezione naturale. “It will, therefore, probably excite some surprise among my readers, to find that I do not consider that all nature can be explained on the principles of which I am so ardent an advocate; and that I am now myself going to state objections, and place limits, to the power of “natural selection”.“ 69 L’azione della selezione naturale, secondo Wallace, non è in grado di spiegare l’origine dell’uomo, per la quale egli ritiene necessario l’intervento di una legge superiore, indipendente dalle leggi naturali di cui si può avere conoscenza. Wallace sostiene che le qualità mentali e morali dell’uomo, nonché alcune caratteristiche fisiche distintive della nostra specie, siano al di fuori della giurisdizione del principio di utilità. Wright fiutò immediatamente l’odore di speculazione metafisica: “In this essay Mr. Wallace seems to us to have laid aside his usual scientific caution and acuteness, and to have devoted his powers to the service of that superstitious reverence for human nature which, not content with prizing at their worth the actual qualities and acquisitions of humanity, desires to intrench them with a deep and metaphysical line of demarkation.”70 In primo luogo, il naturalista prende in esame le dimensioni cerebrali del selvaggio. Considerando il volume cranico come misura della facoltà mentale, egli sostiene che il selvaggio possieda un cervello di grandezza superiore rispetto ai suoi bisogni. Per l’uso 68 Prima del 1870, Wright aveva scritto altri due articoli, di carattere strettamente scientifico, in cui applicava la teoria della selezione naturale alla geometria degli alveari e alla fillotassi. 69 Wallace, 1870, p. 332 70 Wright, 1877, p. 107 21 limitato che il selvaggio ne fa (rispetto all’uomo civilizzato, beninteso), sarebbe bastato un volume cranico poco superiore a quello del gorilla. Non è possibile, secondo Wallace, che il cervello del selvaggio si sia sviluppato per selezione naturale, poiché questa porta ad un livello di organizzazione proporzionato ai bisogni di una specie, senza mai oltrepassarlo. Considerato che le facoltà intellettuali e morali sono latenti nei selvaggi - poiché si manifestano in casi eccezionali e possono essere sviluppate con l’educazione - sembra piuttosto che il loro cervello sia preparato in anticipo, in vista del progresso della civiltà. Inoltre, secondo Wallace, neanche le facoltà mentali dell’uomo civilizzato possono essere spiegate dall’azione della selezione naturale. Questa non avrebbe potuto favorire la capacità di formare concezioni ideali di spazio e di tempo, di eternità e infinità, di forma e di numero, etc. Infatti, come potrebbero essersi sviluppate in origine queste facoltà, se esse sono del tutto estranee alle necessità materiali dell’uomo nei primi stadi di barbarie? “The inference I would draw from this class of phenomena is, that a superior intelligence has guided the development of man in a definite direction, and for a special purpose, just as man guides the development of many animal and vegetable forms.”71 Secondo Chauncey Wright, tali argomentazioni sono dettate dall’ansia di stabilire, per la natura umana, la dignità dell’isolamento metafisico. Egli, innanzitutto, obietta a Wallace che misurare la facoltà intellettuale con il volume cerebrale è piuttosto artificiale e arbitrario. Ma soprattutto, eccepisce a Wallace di trascurare il significato della facoltà del linguaggio, caratteristica universale nella specie umana. Se analizzassimo questa facoltà, vedremmo che il più piccolo progresso nell’uso del linguaggio richiede maggior capacità intellettuale del più grande progresso in ogni altra direzione. Con l’acquisizione del linguaggio, la mente non è più costretta a seguire passivamente le impressioni e associazioni che le si presentano. La facoltà linguistica implica una completa inversione nell’ordine naturale delle associazioni mentali, implica l’uso e del controllo dei segni. Tale facoltà deve aver richiesto un significativo aumento di capacità cerebrale. Non vi è, dunque, nulla di strano nelle dimensioni cerebrali del selvaggio: esse sono dovute al possesso del linguaggio articolato, per quanto semplice e privo di termini astratti. Secondo Wright, i poteri mentali del selvaggio non differiscono sostanzialmente da quelli del filosofo. Questi ultimi non sono, è vero, risultato diretto della selezione naturale. Ma 71 Wallace, 1870, p. 359 22 non potrebbero risultare, in maniera accidentale72, da facoltà che sono utili e per questo conservate dalla selezione naturale? Il potere di concepire l’eternità e l’infinità e le nozioni astratte di forma, numero, armonia, etc. sono virtualmente acquisite e implicate nel potere di inventare e usare il linguaggio. 73 Questo è stato il passo davvero significativo nell’evoluzione della specie umana; i poteri che Wallace ascrive all’uomo civilizzato non sono stati che passi in avanti nella stessa direzione. L’acquisizione del linguaggio, scrive Wright in una nota74, ha comportato il vantaggio di rafforzare la natura sociale dell’uomo, che implica la reciproca assistenza e quindi maggiori possibilità di successo del gruppo nella lotta per la sopravvivenza. Nel suo saggio, Wallace sosteneva poi che il senso morale non può essere spiegato dall’azione della selezione naturale. C’è una “santità” legata ad azioni che una tribù considera giuste e morali che è differente da ciò che è considerato meramente utile. Ad esempio, la sincerità non sempre è utile sul piano pratico, a volte la menzogna lo è di più. Come potrebbero, dunque, considerazioni utilitarie aver investito la sincerità con “la misteriosa santità della più alta virtù”, come potrebbero aver indotto l’uomo a stimare la verità in se stessa, e praticarla senza curarsi delle conseguenze? Wallace segue una teoria dell’intuizione che suppone ci sia un sentimento nella nostra natura, il senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, che è antecedente e indipendente dall’esperienza dell’utilità (una sorta di senso morale kantiano). Questo sentimento così intenso e mistico, secondo Wallace, difficilmente può essersi sviluppato dalle ancestrali esperienze dell’utilità accumulate nel tempo. Ma Wright è del parere opposto. Egli ritiene che alcune teorie della psicologia associazionista ci vengono in aiuto per problemi di questo tipo, senza bisogno di invocare il miracolo come fa Wallace. Infatti, l’esistenza del senso del dovere e di sentimenti di approvazione e biasimo per certe azioni sono massimamente utili nel governo della società umana, anche tra i selvaggi. Questi sentimenti tendono ad essere associati a classi di azioni che sono realmente utili o realmente dannose. I sentimenti morali sono alle fondamenta della società umana e poggiano direttamente sull’utilità della natura politica dell’uomo. La loro esistenza, dunque, può essere legittimamente spiegata 72 Vedremo in seguito il significato preciso che Wright attribuisce a questo termine. “The fact that it does not require Natural Selection, but only the education of the individual savage, to develop in him these results, is to us a proof (...) that mind itself, or elementary mental natures, in the savage and throughout the whole sentient world, involve and imply such relations between actual and potential faculties.” Wright, 1877, p.112 74 Wright, 1877, p. 117 73 23 dalla teoria della selezione naturale. Wright sottolinea così l’importanza della selezione di gruppo: “It is a universal law of the organic world, and a necessary consequence of Natural Selection, that the individual comprises in its nature chiefly what is useful to the race, and only incidentally what is useful to itself; since it is the race, and not the individual, that endures or is preserved.”75 A proposito del senso morale, Darwin porterà argomentazioni analoghe nel quarto capitolo dell’Origine dell’uomo, che sarà pubblicato nel 1871, pochi mesi dopo l’articolo di Wright. Wallace considera, inoltre, alcune caratteristiche fisiche umane che, a suo avviso, non possono essere spiegate dalla selezione naturale. La più importante ritiene essere la nudità dell’uomo. Il pelo è un carattere presente in tutta la classe dei mammiferi; secondo Wallace esso non potrebbe essere stato perso nell’uomo per selezione naturale. Infatti, non sarebbe stato un carattere dannoso ma anzi utile ai selvaggi, e ciò è dimostrato dal fatto che essi devono sopperire all’assenza del pelo coprendosi il corpo, e in particolare la schiena, con pelli o altre protezioni. Qualche altro potere deve dunque essere intervenuto nell’origine dell’uomo. A questa obiezione Wright risponde facilmente ricordando l’importanza della selezione sessuale e della variazione correlata (l’assenza di pelo, benché dannosa, potrebbe essere correlata ad un carattere utile alla specie). Inoltre, l’uomo riesce, grazie all’arte e all’ingegno, a sopperire in mille maniere alle mancanze della sua natura. Se il selvaggio può coprirsi la schiena con protezioni artificiali, “perché la selezione naturale dovrebbe rimediare per qualcosa a cui ha già provveduto l’arte?”76 C’è un altro fenomeno, secondo Wallace, nel quale è possibile rintracciare l’azione di una “legge superiore”: l’origine della sensazione e della coscienza. Come possono la sensazione, la coscienza, il pensiero essere prodotti della materia? Thomas H. Huxley aveva sostenuto che i pensieri sono espressione dei cambiamenti molecolari della materia organica.77 Ma, secondo Wallace, la tesi di Huxley non è sostenuta da prove e non è in accordo con le concezioni della fisica moderna. Se elementi materiali non presentano traccia di coscienza, è impossibile pensare che essi, sommati ad altri elementi materiali, 75 Wright, 1877, p. 114 Wright, 1877, p. 107 77 Cit. in Wallace, 1870, p. 362 76 24 possano produrre un’esistenza auto-cosciente.78 Wallace sostiene che la materia non sia altro che forza, e vorrebbe dimostrare che la forza è un prodotto della mente: “It does not seem an improbable conclusion that all force may be will-force; and thus that the whole universe is not merely dependent on, but actually is, the WILL of higher intelligences or of one Supreme Intelligence.”79 In effetti, Wallace l’aveva preannunciato: la sua conclusione è sorprendente per il lettore. Egli appare consapevole che questo genere di speculazioni siano considerate al di là dei confini della scienza, tuttavia esse gli sembrano più legittime di quelle che riducono l’intero universo alla materia.80 La sua concezione, che vede un universo permeato di Intelligenza e di Volontà, gli sembra “più grande e sublime, nonché più semplice, di ogni altra.” 81 Nel commentare e criticare quest’ultima parte dell’articolo, Chauncey Wright riconosce che la sensazione come semplice natura appartiene ai fatti primordiali nella costituzione naturale. Si tratta di una capacità della materia vivente che deve essere considerata antecedente all’azione della selezione. Ma, prosegue Wright, se invece intendiamo per coscienza “quella totale e complessa struttura di sensibilità, pensieri ed emozioni nella mente animale, così intimamente connessa alla complessa organizzazione fisica dell’animale”82, allora questa è assolutamente spiegabile dall’azione della selezione naturale, ed anzi è uno dei campi più promettenti per le future ricerche, a cui Wright fa accenno in una lunga nota. Tuttavia, per quanto queste ricerche empiriche possano procedere, non potranno mai risolvere il problema metafisico dell’origine della sensazione o della coscienza, “il problema par excellence della verbosità pedantesca o della puerilità filosofica”83 . Quanto alla relazione tra fenomeni materiali e fenomeni mentali, Wright ritiene che empiricamente possiamo individuare se essi siano antecedenti, concomitanti o conseguenti. Tuttavia, tale spiegazione non ci condurrà mai a determinare quale dei due fenomeni sia causa dell’altro. Tutto ciò che possiamo dire è che la materia e la mente coesistono. 78 Wallace, 1870, p. 365 “You cannot have, in the whole, what does not exist in any of the parts” Si tratta di un principio esattamente opposto a quello delle teorie olistiche. 79 Wallace, 1870, p. 368 80 “Philosophy had long demonstrated our incapacity to prove the existence of matter, as usually conceived ; while it admitted the demonstration to each of us of our own self-conscious, ideal existence. Science has now worked its way up to the same result, and this agreement between them should give us some confidence in their combined teaching.” Wallace, 1870, p. 369 81 Wallace, 1870, p. 369 82 Wright, 1877, p. 115 83 Wright, 1877, p. 117 25 “But approaching in this way never one step nearer to an explanation of material conditions by mental laws, or of mental natures by the forces of matter. Matter and mind co-exist. There are no scientific principles by which either can be determined to be the cause of the other.”84 Per quanto riguarda i limiti della selezione naturale, Wright ammette senza esitazione che ve ne siano. Tuttavia, non sono quelli tracciati da Wallace al fine di scavare un abisso metafisico tra gli animali e l’uomo. Il principio di utilità 85 , infatti, presuppone necessariamente delle condizioni antecedenti: la costituzione naturale, i principi della fitness e le leggi di causa ed effetto. Tutto ciò prescinde dalla selezione naturale e non è certo il risultato della sua azione. La selezione naturale, inoltre, non si applica in alcun modo alla natura inorganica.86 “Strictly speaking, Natural Selection is not a cause at all, but is the mode of operation of a certain quite limited class of causes”87 Questa classe si individua per il fatto che le cause efficienti - sia che si tratti delle forze della crescita e della riproduzione, sia che si tratti dell’azione della volontà umana - sono di natura tale da agire attraverso i principi dell’utilità e della scelta. Tale classe include nel suo range gli sviluppi di semplici adattamenti organici e lo sviluppo del linguaggio e dei costumi umani. Wright conclude il suo articolo esprimendo la convinzione che le teorie che sostengono speciali provvidenze divine e l’isolamento metafisico della natura umana, come questa di Wallace, sono basate su concezioni barbariche della dignità umana, peraltro contraddette dai passi avanti della scienza. Il filosofo lamenta che la predisposizione del sentimento religioso a favore delle teorie metafisiche faccia sembrare il progresso della scienza un’indegnità agli occhi della religione. Ma la responsabilità di questo non appartiene né alla scienza né all’autentico sentimento religioso, bensì ad un irrazionale rispetto per le idee filosofiche, ad un falso conservatorismo, che fa delle assunzioni difficilmente conciliabili con i fatti dell’osservazione. Analoga conclusione è sostenuta da Wright nel già citato saggio Natural Theology as a Positive Science: 84 Wright, 1877, p. 117 Spesso Wright chiama così la selezione naturale. In proposito, si veda Madden, 1964, p.48 86 Scrive Wright: “It applies to no part of inorganic nature, and is very limited even in the phenomena of organic life.” (Wright, 1877, p.108) Wright non specifica, ma altrove ribadisce più volte, in piena sintonia con Darwin, che altri fattori intervengono nell’evoluzione, come la selezione sessuale e l’uso e il disuso. 87 Wright, 1877, p.108. 85 26 “Progress in science is really a progress in religious truth… because advancement in knowledge frees us from the errors both of ignorance and of superstition.” 88 3.2 Il filosofo e i naturalisti. L’origine del linguaggio Wallace riconobbe la forza della critica di Chauncey Wright in una lettera indirizzata a Darwin: “I hope you see the difference between such criticism as his [di Claparède, un altro critico di Wallace], and that in the last number of the North American Review where my last chapter is really criticised, point by point; and thought I think some of it very weak, I admit that some is very strong, and almost converts me from the error of my ways.”89 Darwin, come è noto, non poteva essere d’accordo sul fatto che la selezione naturale non funzionasse per spiegare l’origine dell’uomo e sul ricorso di Wallace ad un agente metafisico. Discusse estesamente dell’argomento in The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, che uscì in due volumi nel 1871. Nell’opera, fu molto attento ad essere il più cortese possibile nei confronti dell’amico Wallace, tanto che questi lo ringraziò “per la grande amabilità” con cui aveva trattato lui e le sue “eresie”! I rapporti tra i due naturalisti erano sempre stati ottimi, sin dal delicato episodio del 1858 e Darwin non aveva nessuna intenzione di rovinarli per una divergenza di vedute, per quanto sostanziale. Come Wallace, anche Darwin aveva letto il saggio di Chauncey Wright sulla North American Review e nella prima edizione dell’Origine dell’uomo vi fece riferimento due volte nel secondo volume, quello dedicato alla selezione sessuale.90 Quello che interessò Darwin nell’articolo - e su cui tornerà a interrogare il filosofo americano - fu la questione del linguaggio. Wallace aveva considerato, nel suo saggio, che i suoni musicali prodotti della laringe umana non potessero trovare spiegazione nella selezione naturale, e neppure nella selezione sessuale.91 Il naturalista sostiene che i suoni musicali non siano utilizzati dai selvaggi: “il canto dei selvaggi consiste in un mugolio più o meno monotono, e le femmine non cantano quasi mai.” 92 Se non ne hanno bisogno, perché i selvaggi possiederebbero tale organo? Anche stavolta, per Wallace tutto fa pensare che esso sia 88 Wright, 1877, p.40 Marchant, 1916, Vol.I, p.254 90 Un terzo riferimento al saggio di Wright sarà aggiunto da Darwin nella seconda edizione dell’opera, nel primo volume. (Darwin, 2003, p.56) 91 La selezione sessuale, sostiene Wallace, tenderà a far scegliere un partner per la forza e per la salute piuttosto che per la voce melodiosa. 92 Wallace, 1870, p. 350 89 27 stato preparato in vista del futuro progresso dell’uomo. Chauncey Wright, con acume, ribatte dicendo che la stessa osservazione può essere fatta – o meglio, è stata fatta dallo stesso Wallace! – a proposito di alcune specie di uccelli che possiedono poche varietà di canzoni, ma che poi ne apprendono di nuove da altre specie. Wright nota, inoltre, che le capacità musicali della voce umana non comportano qualità che non siano già implicate nelle cadenze del discorso, che sono utili – se non indispensabili – nel linguaggio. “There are many consequences of the ultimate laws or uniformities of nature, through which the acquisition of one useful power will bring with it many resulting advantages, as well as limiting disadvantages, actual or possible, which the principle of utility may not have comprehended in its action.”93 Secondo Wright, l’uomo ha acquisito il linguaggio, in quanto utile alla socialità, a sua volta vantaggiosa per la sopravvivenza del gruppo, e il linguaggio ha portato con sé altre acquisizioni, tra cui la capacità musicale. Queste acquisizioni correlate potrebbero non essere state previste dall’azione della selezione naturale. Proprio il passo qui riportato viene citato da Darwin nel diciannovesimo capitolo di The Descent of Man.94 Tuttavia, pur concordando sull’importanza del principio dell’acquisizione correlata, l’origine che Darwin traccia per il linguaggio articolato è differente da quella proposta da Wright in questo articolo. Il naturalista, infatti, ritiene probabile che qualche primo progenitore dell’uomo abbia inizialmente usato la voce per per cantare e produrre cadenze musicali e che questa facoltà sia stata particolarmente utilizzata nel corteggiamento fra i sessi. “Essa avrebbe espresso le varie emozioni, come l’amore, la gelosia, il trionfo; e sarebbe servita come sfida ai rivali. Perciò è probabile che l’imitazione dei suoni musicali con suoni articolati possa aver dato origine a parole esprimenti varie e complesse emozioni.”95 Secondo Darwin, è dalle capacità musicali – sviluppate per selezione sessuale - che sarebbe derivato il linguaggio articolato. Sono dunque i ritmi e le cadenze del discorso ad esser derivati da capacità musicali precedentemente sviluppate, e non viceversa. Wallace ha torto nell’affermare che tali capacità non siano presenti nei selvaggi: esse sono 93 Wright, 1877, p.107 Secondo Darwin, questo principio ha avuto un peso importante nell’acquisizione di alcuni caratteri mentali dell’uomo. Darwin riporta il passo di Wright in una nota, collegata a questa frase nel testo: “Si possono portare molti esempi di organi e istinti adattati originariamente per un solo scopo che poi sono stati utilizzati per vari scopi distinti.” Darwin, 2003, p. 429 95 Darwin, 2003, p.83 94 28 possedute da uomini di tutte le razze, “ma il gusto è diverso tanto che la nostra musica non piace ai selvaggi così come la loro è strana e incomprensibile per noi.” 96 Un altro riferimento a Chauncey Wright compare nell’ultimo capitolo di The Descent of man. L’autore si trova d’accordo con il filosofo americano nel considerare che la grandezza del cervello dell’uomo sia soprattutto da attribuirsi all’uso primitivo di qualche semplice forma di linguaggio. Una facoltà così complessa, che “suscita concatenazioni di pensiero che non sorgerebbero mai dalla semplice impressione dei sensi”97, deve aver richiesto un grande sviluppo delle facoltà mentali. Più precisamente, i poteri mentali dovevano già essere maggiori di quelli delle scimmie antropomorfe perché fosse possibile la più semplice forma di linguaggio, ma l’uso continuo e lo sviluppo della facoltà linguistica hanno sicuramente retroagito sui poteri mentali, accrescendoli notevolmente. “I poteri mentali in alcuni primi progenitori dell’uomo devono essere stati maggiormente sviluppati che nelle attuali scimmie antropomorfe, anche prima che la forma più imperfetta di discorso iniziasse ad essere usata. Ma possiamo con fiducia credere che l’uso continuato e lo sviluppo di questa facoltà abbiano reagito sulla mente, permettendole di formulare lunghe catene di pensieri. Una catena complessa di pensieri non può più essere formulata senza l’aiuto delle parole, sia dette che taciute, come un lungo calcolo non può essere formulato senza l’uso di formule algebriche.”98 Quando Wright, leggendo l’Origine dell’uomo, si vide citato da Darwin, fu incoraggiato ad inviargli una lettera, assieme ad un suo articolo. Tra il filosofo e il naturalista ebbe inizio una corrispondenza che sarebbe durata fino alla morte di Wright. 96 Darwin, 2003, p. 428 Darwin 2003, p. 456 98 Darwin, 2003, p.83-84 97 29 4. L’evoluzione dell’autocoscienza “…E a posteriori tutto comincia come una vecchia favola: c’era una volta.” Georg Büchner 4.1 Un nuovo uso di vecchie facoltà L’elaborazione concettuale più completa di Wright sul tema del linguaggio compare nel saggio The Evolution of Self-Consciousness, pubblicato sulla North American Review nel 1873. Il filosofo, come abbiamo appena visto, aveva trattato l’argomento nel saggio di risposta a Wallace. Ma la lettura dell’Origine dell’uomo, la corrispondenza e l’incontro con Darwin nel 1872 gli permisero di sviluppare e ampliare le sue riflessioni. 99 Nel saggio del 1873, la questione è messa esplicitamente in relazione con l’evoluzione dell’autocoscienza umana. Nell’Origine dell’uomo, Darwin faceva queste osservazioni a proposito dell’autocoscienza: “Si può liberamente ammettere che nessun animale è autocosciente, se con il termine si implica che riflette su questi punti: da dove viene e dove andrà, o che cosa è la vita e la morte, e così via. Ma come possiamo essere sicuri che un vecchio cane con una memoria eccellente e con qualche potere di immaginazione, come è mostrato dai suoi sogni, non rifletta mai sui suoi passati piaceri o dolori nella caccia? Questa sarebbe una forma di autocoscienza. D’altra parte, come osserva Büchner,100 assai poco può esercitare la propria autocoscienza o riflettere sulla natura della sua esistenza, l’indefessa lavoratrice, moglie del rozzo selvaggio australiano, che usa pochissime parole e non sa contare oltre il quattro. Si ammette generalmente che gli animali superiori siano dotati di memoria, attenzione, associazione e anche di una certa immaginazione e ragione. Se questi poteri, che differiscono molto nei diversi animali, sono passibili di miglioramento, non sembra improbabile che le facoltà più complesse, come le più alte forme di astrazione, autocoscienza, etc., si siano evolute attraverso lo sviluppo e la combinazione delle più semplici.”101 Pur ammettendo che vi sia un’autocoscienza distintamente umana, Darwin ritiene che si possa rintracciare una forma di riflessione anche negli animali superiori, da cui potrebbero essersi sviluppate le facoltà più complesse dell’uomo. Chauncey Wright individua questo nodo teorico e si propone di collocarlo in relazione alle ricerche 99 L’incontro avvenne in Inghilterra, in occasione di un viaggio di Wright in Europa: il filosofo fu invitato da Darwin a passare qualche giorno a Down House. Al suo ritorno in America, Wright scrisse il saggio sull’evoluzione dell’autocoscienza, ma decise di non inviarlo a Darwin, sulla base delle seguenti considerazioni: “La metafisica non è il suo forte e io ho temuto di annoiarlo o perlomeno ho preferito non strappargli un giudizio o una confessione. Avrei dovuto aspettare e ampliare lo studio di questo soggetto in un libro, come mi ha suggerito l’ultima volta che sono stato a Londra, invece di pubblicare l’estratto, ciò che quell’articolo è realmente. Ma il direttore della “Review” me lo domandava e io, debolmente, gliel’ho dato.” (Wright, 1990, p.171) 100 Ludwig Büchner, fisiologo e filosofo tedesco autore di Forza e materia (1855), importante esponente del materialismo in Germania. Uno dei suoi fratelli era il drammaturgo e naturalista Georg Büchner. 101 Darwin, 2003, p. 80 30 filosofiche in generale. Egli delinea una possibile evoluzione dell’autocoscienza inserendola all’interno della teoria darwiniana. L’autocoscienza umana non è separata dalla coscienza animale da un abisso metafisico, come vorrebbe una concezione piuttosto diffusa, che egli definisce “mistica”. Tale concezione vede nell’origine dell’autocoscienza qualcosa di soprannaturale e vuole ampliare ulteriormente la distinzione, effettivamente esistente, tra coscienza animale e coscienza umana. Questo genere di speculazione (in cui rientra anche la teoria metafisica di Wallace) scaturisce dalla volontà di attribuire valore e dignità assoluti all’autocoscienza umana. “The naturalist’s observations on the minds of man and animals are impertinences of the least possible interest to this sense of worth, very much as the geologist’s observations are generally to the speculator who seeks in the earth for hidden mineral treasures.”102 Per contrastare il misticismo, secondo Wright, c’è bisogno di una spiegazione razionale, scientifica, in accordo con i fatti raccolti induttivamente. “It is not in a strictly empirical way that this comparison can be clearly and effectively made, but rather by a critical re-examination of the phenomena of self-consciousness in themselves, with reference to their possible evolution from powers obviously common to all animal intelligences, or with reference to their potential, though not less natural, existence in mental causes...”103 L’apparire di una facoltà nuova in natura - l’autocoscienza umana, o anche la facoltà di volare dei primi uccelli - è implicata solo potenzialmente nei fenomeni precedenti. In questi ultimi, infatti, sono implicati nuovi usi, che “sono in relazione con le vecchie facoltà solo in quanto accidenti”104. Per comprendere questa affermazione, è necessario spiegare cosa Wright intende con il termine di “accidente”. Si tratta di un effetto che non esula dalla legge universale di causazione fisica, secondo la quale “ogni evento deve avere una causa o determinati antecedenti”.105 Questa legge è l’assunzione fondamentale della filosofia sperimentale. In molti casi, tuttavia, la finitezza della mente umana non è in grado di anticipare queste cause o antecedenti. E’ a questo tipo di fenomeno che lo scienziato sperimentale dà il nome di accidente. Esso non ha una diversa costituzione ontologica rispetto a ciò che si può riconoscere come causato: appartiene alla stessa catena causale, ma è come se si 102 Wright, 1877, p. 203 Wright, 1877, p. 204 (Corsivo nostro) 104 Wright, 1990, p.52 105 Wright, 1877, p. 141. L’analisi del concetto di accidente compare nel saggio The genesis of species, di cui parleremo nel prossimo capitolo. 103 31 trattasse di un anello inindagabile, per la complessità che lo contraddistingue. Wright prova a chiarire la sua concezione di accidentalità con un esempio. La scienza chimica scopre nuove proprietà che diciamo accidentali rispetto a condizioni antecedenti. Nella concezione di Wright, questo equivale a dire: l’uomo non poteva prevedere che tali proprietà fossero implicate da quelle condizioni antecedenti. Questi effetti diventano prevedibili solo in seguito, retrospettivamente, attraverso leggi empiriche stabilite dalla sperimentazione. “La ricerca scientifica implica la potenziale esistenza di nature, classi o tipi di effetti che l’esperimento porta alla luce.” 106 E’ l’esperimento che determina le condizioni – prima di esso sconosciute – dell’apparire di un effetto. A posteriori, possiamo dire che da quelle condizioni seguirebbero sempre degli effetti di un certo tipo. Questi fenomeni chimici “per quanto nuovi o privi di precedenti, sono ben lontani dall’avere il carattere di miracoli, nel senso di eventi soprannaturali.”107 Secondo Wright, la nascita dell’autocoscienza umana - considerata la novità par excellence nell’evoluzione organica – è esattamente analoga alla scoperta di una nuova proprietà chimica. L’uomo non avrebbe saputo prevedere che dalle facoltà della mente animale si sarebbe evoluta la nuova facoltà dell’autocoscienza umana. Ma, una volta che questa evoluzione è avvenuta, possiamo retrospettivamente individuare le condizioni antecedenti - ovvero le facoltà mentali già presenti nella mente animale - che hanno reso possibile la nascita dell’autocoscienza umana. Il fatto che tale facoltà sia nuova e peculiare all’uomo non vuol dire affatto che essa abbia avuto un origine soprannaturale. Vediamo come, secondo Wright, l’evoluzione dell’autocoscienza può essere avvenuta. 4.2 La consapevolezza nell’uso dei segni L’analisi di Wright prende avvio considerando le differenze che sussistono tra il ragionamento caratteristico della mente animale e quello peculiare alla mente umana. Il primo è un tipo di ragionamento entimematico. Esso comprende combinazioni di premesse minori che conducono a conclusioni attraverso premesse maggiori implicite. Tale ragionamento è comunemente impiegato in inferenze da segni e probabilità, come nei pronostici sul tempo meteorologico o nell’orientamento di molti animali. Esso non è assente nell’uomo: caratterizza, ad esempio, i giudizi del senso comune. Ma alla nostra specie è anche proprio un altro tipo di conoscenza, che definiamo “scientifica”. Essa è 106 107 Wright, 1990, p.55 Wright, 1990, p.54 32 determinata dal proposito consapevole di raggiungere fatti generali e di esplicitarli, esponendoli nel linguaggio. Nell’entimema, che non ha bisogno di essere espresso verbalmente, si passa da un segno come la natura umana di Socrate all’inferenza che egli morirà. Lo si fa attraverso i dati di esperienza che riguardano la morte di altri uomini; questi dati non sono esplicitamente generalizzati nella formula “tutti gli uomini sono mortali”. Nel ragionamento entimematico vi è una grande vaghezza e mancanza di precisione nell’uso dei segni, la capacità semantica del segno non è riconosciuta. “We are often led by being conscious of a sign of anything to believe in the existence of the thing itself either past, present or prospective, without having any distinct and general apprehension of the connection of the sign and the thing, or any recognition of the sign under the general character of a sign.”108 La precisione nell’uso dei segni viene invece garantita nella conoscenza scientifica, che ha bisogno di due elementi: il linguaggio, ovvero un insieme di segni usati intenzionalmente per comunicare; un secondo grado di generalizzazione attraverso la riflessione, tramite la quale l’uso del segno è reso esso stesso oggetto di attenzione ed è riconosciuto in relazione a ciò che significa, ha significato e significherà. E’ improbabile, secondo Wright, che tale “conoscenza di conoscenza” possa appartenere agli animali, o anche agli esseri umani che si rifanno soltanto ai giudizi del senso comune, senza mai giungere al grado di generalizzazione richiesto per formulare esplicitamente le premesse maggiori.109 “Only one degree of generality is, however, essential to inference from signs, or in enthymematic reasoning. Moreover, language in its relation to thought does not consist exclusively of spoken, or written, or imagined words, but of signs in general, and, essentially, of internal images or succession of images which are the representative imaginations of objects and their relations; imaginations which severally stand for each and all of the particular objects and relations of a kind.”110 Questi “segni interiori” svolgono un ruolo essenziale nell’analisi di Wright. Si tratta di immagini interne (o successioni di immagini), rappresentative degli oggetti e delle loro relazioni. Potremmo dire che esse rappresentano la “faccia interna” del segno, il 108 Wright, 1877, p.206 “This knowledge comes from reflecting on what we know in the common-sense, or semi-instinctive form, or making what we know a field of renewed research, observation and analysis in the generalization of major premises.” (Wright, 1877, p.207) Secondo Wright, è improbabile che la conoscenza riflessiva possa appartenere “alla razza umana inferiore”. Tale è il senso del riferimento di Darwin alla “moglie del rozzo selvaggio australiano” nel passo riportato. Tali considerazioni, naturalmente, vanno giudicate nel contesto culturale di fine Ottocento. 110 Wright, 1877, p.208 109 33 significato, usando la terminologia del linguista svizzero Ferdinand de Saussure. 111 Ognuna di queste immagini interne sta per tutti gli oggetti o le relazioni di un certo tipo: ad esempio le immagini visive richiamate da nomi concreti generali, come “cane” o “albero”. Tali immagini sono vaghe e di debole intensità, ma sono nondimeno efficaci come guide ed elementi direttivi del pensiero. Esse sono gli strumenti del pensiero sia per gli animali privi di parola sia per gli uomini. Nella sua analisi, Wright distingue tre elementi: 1) il segno esteriore in senso stretto112 (significante) 2) l’immagine interiore (significato) 3) il pensiero o immagine suggerito, o richiamato alla memoria. Questi elementi formano una successione, una “catena di pensiero”, che è presente in tutti i gradi di intelligenza, anche in quella animale. Tuttavia, negli animali privi di parola, le immagini interiori sono di debolissima intensità e sono oscurate dalla vividezza dei segni esteriori, come le stelle dalla luce del sole. Nella fase del ricordo, dal segno esteriore (significante) l’attenzione dell’animale passa direttamente oltre, al pensiero suggerito. Il termine medio, costituito dall’immagine rappresentativa, è dimenticato.113 Negli animali privi di parola, le immagini interiori che fungono da segni sono troppo deboli per essere rivissute in una serie ripetuta nella memoria. Nell’uomo, invece, le immagini rappresentative sono più vivide, più intense. Esse non scompaiono assorbite dalla vividezza dei segni esteriori, così come la luna può essere visibile alla luce del giorno. Una maggiore capacità di memoria rende più vivide tali immagini, in modo che l’attenzione si possa rivolgere ad esse. “As soon, then, as the progress of animal intelligence through an extension of the range in its powers of memory, or in revived impressions (...) has reached a certain point (...) it becomes possible for such an intelligence to fix its attention on a vivid outward sign, without losing sight of, or dropping out of distinct attention, an image or revived impression; which latter would only serve in case of its spontaneous revival in imagination, as a sign of the same thing, or the same event.”114 111 Per Saussure, il segno è un’entità psichica a due facce, risultante dalla combinazione di un concetto (significato) e di un’immagine acustica (significante), uniti da un legame arbitrario. La distinzione significante/significato di Saussure, benché posteriore a quella di Wright, ci sembra un utile sussidio per seguire l’analisi del filosofo americano. 112 Ciò che rende complicata l’analisi di Wright è che egli intende con segno esteriore: 1) l’oggetto reale o evento 2) il segno in senso stretto: un gesto, un suono vocale, un segno grafico. Spesso Wright non specifica a quale dei due si riferisca, il che accresce la difficoltà di comprensione già insita nella sua prosa. Commentando questo saggio di Wright, John Fiske si lamentò di non averlo capito fino in fondo neanche dopo averlo riletto più volte. (Madden, 1963, p.128) 113 Per Wright un caso analogo avviene, nell’uomo, nel ricordare volontariamente le “catene di pensiero” o associazioni interiori di idee. 114 Wright, 1877, p.210 (Corsivo nostro) 34 Nasce, a questo punto, un interesse per le immagini mentali in grado di ispirare e guidare un atto di distinta riflessione. “Un pensiero potrebbe così essere determinato come immagine mentale rappresentativa.” 115 Il seme dell’autocoscienza, che deriva dalla maggiore capacità di memoria, viene poi sviluppato grazie all’associazione dell’immagine a segni esterni: espressioni, gesti, suoni vocali o segni grafici. Infatti, in sé le immagini interne sono vaghe e non sono sottoposte al controllo della volontà. Ma, quando iniziano a farsi più vivide e intense, è possibile associarle a segni esteriori, generalmente vocali, che possono essere richiamati volontariamente. “A second degree of observation and generalization upon these images, as objects in reflective thought, cannot be readily realized independently of what would be the results of such observations, namely, their associations with outward signs.”116 Con l’associazione a segni esteriori l’attenzione potrà fissarsi più chiaramente alle immagini interne, che saranno intensificate ancora di più.117 Wright riconosce che la sua analisi è piuttosto astrusa e prova a chiarirla con un esempio (lo stesso considerato da Darwin nel passo citato ad inizio capitolo). Se per un cacciatore e per il suo cane ascoltare la parola “volpe” può evocare una comune esperienza di caccia, la condizione conoscitiva dell’uomo differisce da quella del cane nel momento in cui l’esperienza viene ripercorsa nella memoria. Nell’uomo, la catena di pensiero può essere rivissuta attivando la parola “volpe” e l’immagine della volpe apparirebbe assieme alle fasi successive della serie ripetuta. Ma il cane, probabilmente, non ha la parola “volpe” per rievocare l’immagine. Ammesso che tale suono sorga, l’immagine rappresentativa (visiva o olfattiva) della volpe non apparirà distintamente alla coscienza. Questo perché l’attenzione sarà condotta immediatamente alla parte più intensa e interessante della serie, cioè all’inseguimento e alla cattura della selvaggina. Nelle catene di pensiero rievocate dal cane – o nei suoi sogni - saranno omessi i gradini che all’inizio servirono soltanto come segni evocativi e connettivi. “Il pensiero suggerito eclissa nella sua luce il pensiero suggerente”118. Nel cane, la parola “volpe” innesca un’associazione per contiguità; il segno che funge da innesco, tuttavia, è immediatamente dimenticato e non è più riproducibile al comando della volontà. Nell’uomo, invece, la maggiore intensità delle immagini rappresentative 115 Wright, 1990, p. 70 Wright, 1877, p.209 117 La natura dei segni interni, secondo Wright, è stata mal compresa dai metafisici, che si sono divisi in due scuole: concettualisti e nominalisti. I concetti di cui si valgono i concettualisti sono composti, afferma Wright, da queste vaghe e deboli immagini notative. 118 Wright, 1990, p. 70 116 35 permette che queste siano associate a segni esteriori. Le immagini interiori formano, “per mezzo di quest’associazione, un piccolo mondo rappresentativo che sorge al pensiero al comando della volontà.” 119 . Nell’analisi di Wright, il linguaggio svolge l’importante funzione di accrescere il seme dell’autocoscienza.120 Come Wright aveva già scritto nel suo saggio in risposta a Wallace, il linguaggio scaturisce dalla natura sociale dell’uomo, per contribuire poi a rafforzare questa stessa natura sociale. “Motives more powerful than mere inquisitiveness about the feebler steps or mere thoughts of a revived train, and more efficient in concentrating attention upon them, and upon their functions as signs, or suggesting images, would spring from the social nature of the animal, from the uses of mental communication between the members of a community, and from the desire to communicate, which these uses would create.”121 Una volta gettato il seme dell’autocoscienza - e ancor più quando questo viene accresciuto dal linguaggio122 - il contrasto tra pensieri e cose potrebbe, per la prima volta, essere percepibile. L’interesse per le immagini mentali (che nasce da un movente sociale) guiderebbe l’attenzione riflessiva. L’immagine interna sarà consapevolmente riconosciuta come segno di qualcosa di esterno alla mente. A questo punto sarà presente il contrasto tra percezione e pensiero, tra ciò che è esterno alla mente e ciò che è interno. Avere a disposizione segni esteriori (il significante, ad esempio la parola “volpe”) per richiamare alla memoria immagini interne accrescerà la consapevolezza nell’uso dei segni. Questa consapevolezza è ciò che distingue l’uomo dagli animali privi di parola. In conclusione, la facoltà di riflessione non è una facoltà nuova e originaria nell’uomo, come vorrebbero i metafisici. Il seme dell’autocoscienza deriva dall’estensione della facoltà di memoria già propria degli animali superiori, “un progresso in se stesso utile”123, e quindi premiato dalla selezione naturale. La sottile differenza di memoria fu portatrice di immense conseguenze per la specie umana, aprendo la strada alla nascita dell’autocoscienza. La riflessione, dunque, è composta dalle stesse facoltà mentali animali 119 Wright, 1990, p.78 Senza l’iniziale intensificazione delle immagini interne non potrebbe esserci linguaggio. “Language, in its narrower sense, as the instrument of reflective thought, appears to depend directly on the intensity of significant, or representative images” (Wright, 1877, p.209) Successivamente, secondo Wright, il linguaggio avrà un effetto retroattivo: contribuirà ad intensificare ancora di più le immagini interne. 121 Wright, 1877, p.217 122 “La padronanza del linguaggio è un’importante condizione nella conoscenza del segno in quanto tale.” (Wright, 1990, p.78) Secondo Wright, il controllo del linguaggio equivale a un dominio del pensiero molto più efficiente rispetto alla più semplice forma di autocoscienza, poiché rende possibile richiamare volontariamente alla memoria i segni (Wright, 1990, p.116) 123 Wright, 1990, p.64 120 36 (memoria, attenzione, astrazione) rivolte però ad altri oggetti: le immagini interiori. La riflessione agisce sul materiale fornito dai sensi, ma indipendentemente da qualunque ordine di raggruppamento e successione che questi le forniscono. “To this extent, reflection is a distinct faculty, and though, perhaps, not peculiar to man, is in him so prominent and marked in its effects on the development of the individual mind, that it may be regarded as his most essential and elementary mental distinction in kind. For differences of degrees in causes may make differences of kinds in effects.”124 4.3 Un’analisi genetica della distinzione Io/non-Io Vi è, secondo Wright, una forma di autocoscienza che può essere ascritta anche agli animali superiori, più immediata e semplice di quella umana.125 Ad esempio, alcuni dei nostri animali domestici hanno consapevolezza della loro individualità.126 Distinguono il proprio essere dagli altri, lo distinguono come colui che vuole, desidera e sente. Il cane riconosce che il suono vocale “Charlie” si riferisce alla sua individualità, ma di certo non ha conoscenza del genere più ampio dell’”Io”. Allo stesso modo la parola “mondo” non riuscirebbe a suggerire al cane qualcosa di più dei termini concreti come ciò che è intorno, dentro, vicino o distante dalla coscienza animale. Le parole non riuscirebbero a suggerire ciò che i filosofi dividono in ego e non-ego, mondo interno e mondo esterno. Nella riflessione, infatti, è richiesto un grado di astrazione o generalizzazione maggiore di quello richiesto dall’entimema. La distinzione filosofica tra soggetto e oggetto, nonché la comprensione del significato del verbo “essere”, sono rese possibili soltanto dal più alto esercizio della facoltà di riflessione. “…A more extensive and persistent exercise of the faculty of reflection, aided by voluntary signs or by language, than any dumb animal attains to, would be needed to arrive at the cognition of cogito and sum. This is a late acquisition with children; and it would, indeed, be surprising if the mind of a dumb animal should attain to it.” Wright individua uno sviluppo di gradi successivi di astrazione e di generalizzazione. L’atto di riflessione potrebbe raccogliere le immagini interiori in un singolo gruppo, in connessione con un soggetto. Tali immagini saranno riconosciute come miei pensieri, o come fenomeni mentali. Volere, desiderare, sentire e pensare (già distinti dall’animale in una forma di autocoscienza) saranno raggruppati come appartenenti allo stesso soggetto e 124 Wright, 1877, p.217 “Non è tanto l’uso dei segni che differenzia l’uomo dall’animale, quanto il fatto che il primo riconosce il proprio impiego di essi.” (Blau, 1957, p.202). Il cane, infatti, può fare uso dei segni, come quando prende il guinzaglio per mostrare al padrone l’impazienza per la passeggiata. 126 Cfr. Darwin, 2003, p.81 125 37 riceveranno un nome comune: la mia mente, Io, i miei stati mentali. La parola “Io” esprime una delle idee più astratte che la mente umana possa raggiungere. “The word “I” is discovered by philosophers to be a word without meaning or determination, or to be as meaningless as the words “thing”, “being”, “existence”, which are subjects stripped of all attributes. “I” is the bare subject of mental phenomena. The word points them out, but does not declare anything of their nature by its meaning, essence, or implied attribution, which is, in fact, no meaning at all.”127 I filosofi hanno poi contrapposto il termine “Io” a tutte le altre esistenze, raggruppando queste ultime sotto le denominazione di “non ego”, “al fine di delimitare reciprocamente queste due somme categorie, o summa genera”. 128 Secondo Wright, la distinzione tra soggetto e oggetto è una classificazione attraverso osservazione e analisi; non può dirsi una distinzione “intuitiva”, se con questo termine i metafisici intendono che la distinzione sia assoluta o che abbia una certezza aprioristica. La classificazione degli eventi in interni e esterni non è “scoperta” ogni volta da ciascun uomo: a guidare l’individuo ci sono le attitudine ereditate e le forme del linguaggio, assieme a ciò che indirettamente viene insegnato con esse. Tale classificazione diviene ereditaria nella forma dell’istinto. L’analisi proposta da Wright è differente da quella delle scuole filosofiche dell’”idealismo” e del “realismo naturalistico”. Per gli idealisti, il soggetto conscio è immediatamente conosciuto, mentre l’esistenza di ciò che è esterno è un’inferenza dai fenomeni del sé. Secondo il realismo naturalistico, invece, soggetto e oggetto sono immediatamente conosciuti nella percezione. Wright ritiene che la distinzione soggetto/oggetto sia istintiva e spiegabile all’interno della teoria darwiniana. Secondo la sua analisi, i progenitori dell’uomo capaci di operare questa distinzione risultano premiati dalla selezione naturale: “All states of consciousness are, it is true, referred to one or the other, or partly to each of the two worlds; and this attribution is, in part at least, instinctive, yet not independent of all experience, since it comes either from the direct observation of our progenitors, or, possibly, through the natural selection of them; that is, possibly through the survival of those who rightly divided the worlds, and did not often mistake a real danger from a dream or for an imagined peril, nor often mistake a dream of security for real safety.”129 127 Wright, 1877, p.227-228 Poco oltre, scrive Wright: “Metaphysicians should consider that ego and non-ego, as real existences, are not individual phenomena, but groups with demonstrative names the least possible determined in meaning, or are the most abstract subjects of the phenomena of experience, though determined, doubtless, in their applications partly by spontaneous, instinctive, or natural and inherited tendencies to their formation.” (Wright, 1877, p.230) 128 Wright, 1990, p.84 129 Wright, 1877, p.231 38 La distinzione ego/non ego, dunque, avrebbe avuto valore di sopravvivenza per i progenitori dell’uomo, poiché avrebbe permesso di non scambiare pericoli reali per sogni, né sogni di sicurezza per una salvezza reale. Secondo Wright, prima dell’attribuzione dei fenomeni al mondo interno o al mondo esterno, “soggetto e oggetto sono indistinguibili nella coscienza” 130 . La prima condizione non attribuita dei fenomeni sarebbe una condizione di neutralità tra i due mondi131: “Thus, the sensations of sound and color and taste and pleasure and pain, and the emotions of hope and fear and love and hate, if not referred to their causes, or even classified as sensations and emotions, belong to neither world exclusively. But so far as any man can remember, no such unattributed or unclassified states of consciousness are experienced.”132 4.4 L’evoluzione del linguaggio e il problema della volontà Abbiamo visto che il linguaggio, secondo Wright, nasce per esigenze sociali ed è essenziale per sviluppare il seme dell’autocoscienza, tramite l’associazione delle immagini interne a gesti o a suoni vocali. Wright ritiene che il linguaggio dei gesti possa essere stato sufficiente per realizzare la facoltà di autocoscienza. Attraverso il continuo esercizio di tale facoltà, si è evoluto il linguaggio verbale. Secondo Wright, possiamo affermare che la maggiore distinzione qualitativa della specie umana deve essere cercata nell’invenzione e nell’uso del linguaggio verbale. Ma possiamo parlare dell’invenzione del linguaggio come di un’invenzione cosciente? E ancora, possono i cambiamenti che tuttora subiscono i nostri linguaggi essere ascritti ad un’intenzione volontaria dell’uomo? Queste domande erano state poste a Wright proprio da Darwin, nel corso della loro corrispondenza: “As your mind is so clear and as you consider so carefully the meaning of words, I wish you would take some incidental occasion to consider when a thing may properly be said to be effected by the will of man. I have been led to the wish by reading an article by your Professor Withney versus Schleicher. He argues that, because each step of a change in language is made by the will of man, the whole language so changes; but I do not think that this is so: a man has no intention or wish to change the language. It is a parallel case with what I have called “unconscious selection”, which depends on men consciously preserving the best individuals, and thus unconsciously altering the breed.”133 William D. Whitney, filologo americano, sosteneva che il processo di sviluppo dei linguaggi fosse sotto il controllo della volontà dell’uomo. Darwin non ne era affatto 130 Wright, 1990, p. 88 Secondo E.H. Madden, il più importante critico di Wright, tale concezione ha influenzato la nozione di “esperienza pura” di William James. Si veda Madden, 1963, p.133 e seguenti 132 Wright, 1877, p.231 133 Wright, 1878, p.240 131 39 convinto, ritenendo piuttosto che tale processo fosse il risultato di una “selezione inconsapevole”. Wright si trova sostanzialmente d’accordo con Darwin e nell’ultima parte del saggio The Evolution of Self-Consciousness ricostruisce l’evoluzione del linguaggio a partire dalla sua origine, per valutare in quali fasi si possa rintracciare un intervento volontario dell’uomo.134 Nei suoi primi sviluppi, il linguaggio fu “inventato” per uno scopo sociale, ma sarebbe difficile dire che i suoi creatori abbiano agito per uno scopo riconosciuto. L’invenzione divenne un atto conscio in una seconda fase, quando nacque il bisogno e il desiderio di rendere i nostri pensieri chiari a noi stessi, e non solo di comunicarli agli altri. In queste due fasi del linguaggio – quella sociale e quella meditativa – il carattere di invenzione è sicuramente maggiore di quanto poi non diventi in seguito. Infatti, Wright individua una terza fase nell’evoluzione del linguaggio, che definisce “tradizionale”. Si creano convenzioni linguistiche stabili, che iniziano a prescrivere regole e delimitare il campo dell’invenzione e dell’adozione arbitraria. In questa fase, suoni e significati apparirebbero all’uomo primitivo come naturalmente uniti insieme. Le volontà individuali perdono il potere di decretare le variazioni del linguaggio. “From this point in the development of language, its separations into the varieties of dialects, the divergences of these into species, or distinct languages, and the affinities of them as grouped by the glossologist into genera of languages, present precise parallels to the developments and relations in the organic world which the theory of natural selection supposes.”135 E’ a questo parallelismo tra evoluzione biologica ed evoluzione linguistica che Whitney muove la sua obiezione, sostenendo che ancora oggi lo sviluppo dei linguaggi è controllato dalla volontà degli uomini. Secondo il filologo, l’assenso generale ad un cambiamento nel linguaggio è il risultato di un insieme di azioni volontarie da parte della comunità di parlanti. Wright riconosce che l’assenso delle menti che adottano una parola è essenziale nello stabilire o alterare un linguaggio. Ma, obietta il filosofo, il consenso generale a un cambiamento linguistico non costituisce davvero un atto volontario, poiché non implica alcuna intenzione, da parte dei più, di cambiare il linguaggio. Le cause reali della scelta degli usi delle parole sono le ragioni e i motivi che determinano l’assenso dei più a cambiare il linguaggio, che in genere non sono consciamente percepiti. Queste 134 Gli elementi principali dell’analisi di Wright sono già presenti nella lettera di risposta a Darwin, del 29 agosto 1872. (Wright, 1878, p.240 e seguenti) 135 Wright, 1877, p. 257 40 ragioni possono essere la facilità di enunciazione, l’autorità di uno scrittore o oratore influente, la distinzione del termine da altri già aventi un altro significato o l’influenza di vaghe analogie nelle relazioni tra suono e significato (es: parole onomatopeiche). Sono queste le ragioni di quella che potremmo definire “fitness linguistica”. Esse spesso non sono riconosciute dai più, e agiscono istintivamente. 136 Quindi, non si può dire che ci sia intenzione – né individualmente né collettivamente – di cambiare il linguaggio. L’intenzione dei parlanti semmai è quella contraria, cioè di di mantenere il linguaggio inalterato, conformandosi all’uso stabilito, considerato corretto dalla comunità linguistica. La scelta intenzionale, dunque, sarà quella di conservare il linguaggio o di ripristinare un uso considerato giusto. Tuttavia, secondo Wright, a lungo andare il linguaggio cambierà nella direzione di preferenze non-intenzionali, seguite istintivamente. In conclusione, per rintracciare un momento nell’evoluzione del linguaggio in cui hanno avuto influenza gli interventi volontari dell’uomo, non dobbiamo rivolgerci ai cambiamenti tuttora operanti, ma piuttosto alla prima fase della nascita del linguaggio. In questa fase, secondo Wright, scegliere arbitrariamente un suono da associare ad un significato può essere attribuito alla volontà, ma - specifica Wright - alla volontà in senso stretto, “che non include tutto ciò che è comunemente inteso con il concetto di azione volizionale”137. Con questo, il filosofo intende dire che nella prima fase dell’evoluzione linguistica alcuni uomini, più ostinati degli altri, avranno “imposto la propria volontà” nella scelta di una parola. Tale scelta fu arbitraria nel senso che qualcuno, tra i nostri progenitori selvaggi, impose il proprio arbitrio ai suoi simili, proprio come un bambino impone il proprio capriccio. “It becomes an interesting question, therefore, when in general anything can be properly said to be effected by the will of man.”138 A questo punto, Wright risponde alla domanda a cui Darwin era pervenuto riflettendo sulle obiezioni relative al linguaggio di Whitney. Quando, in generale, si può dire che un effetto sia determinato dalla volontà, dall’azione intenzionale umana? Wright si addentra in questo problema filosofico di grande rilievo, affrontandolo, come di consueto, in una prospettiva evoluzionistica. 136 Le cause per cui un cambiamento viene proposto nel linguaggio, secondo Wright, possono essere cause qualunque (atti di libera volontà, capricci, ispirazioni); ma le vere cause dell’adozione di una parola devono essere rintracciate nelle ragioni della “fitness linguistica”. Analogamente, le variazioni nelle specie organiche possono avere cause qualunque, ma la vera causa dell’evoluzione è la selezione naturale. 137 Wright, 1990, p.127 138 Wright, 1877, p. 259 41 L’uomo, considera Wright, è un agente nel produrre molti effetti, sia nella natura che in se stesso, che non sembrano differire sostanzialmente dagli effetti prodotti dagli altri animali, piante e sostanze inorganiche. L’azione umana nel trasportare e depositare materiali non è diversa dall’azione dei lombrichi nel formare il terriccio o da quella degli agenti atmosferici. L’uomo è un agente geologico: la sua azione non differisce, quanto agli effetti geologici, da quella degli esseri inconsapevoli. Secondo Wright, in relazione a questi effetti, l’azione umana può dirsi inconscia o inintenzionale. Inoltre, quando influenze esterne modificano la mente e il carattere di un uomo, o quando suscitano in lui un’emozione, questo non avviene certo secondo una precisa intenzione umana. Mescolati a questi effetti, prosegue Wright, vi sono degli effetti che diciamo intenzionali. Per esempio, se qualcuno decide di vestirsi seguendo una moda, o addirittura decide di lanciare una moda, agisce con intenzione, seguendo una propria scelta. Tuttavia in questo caso, osserva Wright, la volizione del singolo agisce attraverso l’influenza di altri esempi, che guidano il suo gusto. Oltre alle influenze degli esempi, vi sono poi i gusti istintivi e i gusti che sono frutto dell’educazione: i metafisici non li accetterebbero mai come elementi dell’azione volontaria! Ma allora qual è e come si riconosce, nell’uomo, l’azione volontaria? Una risposta potrebbe essere: attraverso il contrassegno della responsabilità, che è giustamente considerato il marchio della libera azione umana. Wright, però, osserva che i limiti posti da questo marchio sono collocati più in là di ciò che è effettivamente intenzionale nelle nostre azioni. Vale a dire, siamo spesso considerati responsabili per più di quanto noi intendessimo, o per quello che avremmo dovuto intendere. L’assenza di premeditazione non può essere considerata fondata su un’intenzione, eppure essa in molte circostanze è biasimevole e punibile. Questo perché la disciplina morale presuppone o presume un’intenzione, oppure cerca, per mezzo della punizione, di volgere l’attenzione ai principi morali. Wright ritiene che questa estensione della sfera dell’azione personale, necessaria legalmente, non abbia nulla a che vedere con le indagini scientifiche o teoretiche sulla volontà.139 Seguiamo dunque l’analisi teoretica di Wright. Secondo il filosofo, le distinzioni come quelle tra involontario e volontario, o tra istinto e intelligenza, sono divisioni 139 La definizione della volontà è, come è noto, un problema che attraversa tutta la storia del pensiero filosofico. Una fonte classica è rappresentata dal libro terzo dell’Etica nicomachea. Per Aristotele, la distinzione teoretica tra volontario e involontario è necessaria nell’etica e nella politica, sia per chi indaga il campo delle virtù sia per i legislatori, che devono stabilire le sanzioni giuridiche. 42 approssimative di serie “abbastanza chiaramente caratterizzate alle loro estremità, ma mal definite nei punti in cui avviene la transizione dall’una all’altra.”140 Ad un’estremità della serie involontario/volontario troviamo l’azione strettamente istintiva. Passando attraverso le disposizioni ereditarie e le abitudini dell’individuo, troviamo all’estremità opposta della serie le volizioni in senso proprio. Nell’azione volontaria, i mezzi dell’azione sono collegati alla produzione dell’azione stessa attraverso il motivo del fine previsto dall’immaginazione e non attraverso le emozioni o altri vincoli istintivi.141 La volizione, quando è razionale e libera, è accompagnata dal riconoscimento del motivo, della causa prossima dell’azione, delle ragioni che la muovono. Tuttavia, prosegue Wright, generalmente non si riesce ad analizzare introspettivamente le volizione nei suoi antecedenti sempre più remoti: le nostre storie, le disposizioni ereditate, i nostri caratteri e le circostanze presenti. “Those causes which are even too feeble to be introspectively recognized are not, of course, the source whence the force or energy of will is derived; but independently of their directive agency, this force is indistinguishable from that of pure spontaneity or vital energy.”142 Wright spiega, laconicamente, la sua concezione della volontà con una metafora. La forza dell’acqua in un sistema di fiumi non è determinata dai suoi alvei o dalle sue sponde, tuttavia è guidata da essi. La forza idrica di tanto in tanto altera il corso del fiume, ma normalmente scorre al suo interno. Analogamente, la volontà di un uomo agisce abitualmente entro gli argini del carattere individuale e delle circostanze. Questi argini sono tuttavia alterabili e la volontà può, occasionalmente, infrangerli. 4.5 La metafisica che il linguaggio porta con sé Nel suo saggio The Evolution of Self-Consciousness, Chauncey Wright sviluppa ulteriori riflessioni relative al linguaggio che testimoniano un’attenzione a questo tema dal sapore decisamente moderno. Esse, per certi versi, sembrano antesignane di alcune istanze che saranno caratteristiche della filosofia del Novecento dopo la “svolta linguistica”. La tesi di Wright è che vi sia un retaggio metafisico insito nelle forme linguistiche che ereditiamo dai “barbari inventori del linguaggio”. “The languages employed by philosophers are themselves lessons in ontology, and have, in their grammatical structure, implied conceptions and beliefs common to the 140 Wright, 1990, p.74-75 Il fine cesserà di essere un legame reale quando una serie ripetuta di volizioni avrà stabilito un’abitudine. 142 Wright, 1877, p. 265 141 43 philosopher and to the barbarian inventors of language, as well as other implications which the former takes pains to avoid.”143 Secondo Wright, il linguaggio ereditato dai nostri progenitori barbari porta con sé, nelle sue forme grammaticali, una tendenza realistica. Questa tendenza si può riscontrare nel fatto che il soggetto di una proposizione venga “personificato”, “antropomorfizzato”: le cose sono assimilate a un’autocoscienza o personalità attiva. Il soggetto fu pensato compiere un’azione su un oggetto (“la giustizia ispira le leggi”), oppure subire l’azione (“la giustizia è perseguita dal governo”). I nomi astratti come “giustizia” o “verità” furono pensati, dall’uomo primitivo, come poteri o esseri attivi. Secondo la concezione nominalista di Wright, il fatto che ci sia una parola per un termine astratto, non vuol dire che esista un’entità indicata da quel termine. Ad esempio, “soggetto” e “oggetto” sono solo nomi di classi generali e non designano substrati reali dei fenomeni. I metafisici, tuttavia, continuano a utilizzare parole come sostanza, causa, materia, mente. Queste parole, secondo Wright, rimangono designazioni di poteri sconosciuti e imperscrutabili.144 La credenza in questi poteri è spiegata dalla teoria dell’evoluzione come derivante da menti barbare, senza che per questo venga attribuita autorità o forza a tali credenze. “The traces of this way of regarding names and things, surviving in the grammatical inventions and forms of speech, which the barbarian has trasmitted to us, include even the sexes of things. The metaphysical meaning of the terms “substance”, “matter”, “mind”, “spirit” and “cause” are other traces. The metaphysical realism of abstract terms appears, in like manner, to be a trace of an original analysis of motives in the powers of things to produce their phenomena, analogous to the barbarian’s analysis of motives in his own will or those of his fellows.”145 E’ interessante notare che, secondo Wright, questa tendenza alla “personificazione”, riscontrabile ancora nei nostri linguaggi, è derivata da un istinto dei nostri progenitori: quello di connettere le espressioni esteriori dei nostri simili all’esistenza di una causa interna, una volontà simile alla nostra. Di tali cause interne non si può avere esperienza diretta. 146 L’uomo primitivo avrebbe dunque attribuito la volontà ai suoi simili per analogia o per istinto e di conseguenza l’avrebbe attribuita agli oggetti inanimati e ai termini astratti. Tutto ciò è rimasto iscritto, in maniera sotterranea, nei nostri linguaggi e 143 Wright, 1877, p. 235 Wright fu sempre critico del concetto di sostanza, che implica la coesistenza reale di tutti gli attributi in un’esistenza a noi sconosciuta, o conosciuta in maniera non fenomenica (Wright, 1877, p.235) 145 Wright, 1877, p. 240 146 Secondo Wright, l’attenzione verso un’autocoscienza esterna potrebbe essere sorta dalle rivalità tra gli individui nella competizione sessuale. (Wright, 1877, p.252) 144 44 in particolare emerge nel linguaggio dei metafisici. Tuttavia, la scienza e gli studi scientifici hanno permesso di riconoscere ed evitare le “trappole metafisiche” del linguaggio. 4.6 Pronti al decollo. Pesci volanti e autocoscienza umana In conclusione, il saggio The Evolution of Self-Consciousness offre interessanti e numerosi spunti di riflessione, elaborati da Wright all’interno del framework darwiniano. Il filosofo precisa, però, che la sua teoria sull’origine dell’autocoscienza non è necessariamente implicata dall’azione della selezione naturale. Questa, infatti, non riguarda la prima produzione di forme, strutture e abitudini. Nella teoria darwiniana la selezione agisce sulle variazioni, quale che sia la loro origine. Wright ritiene, tuttavia, che la sua ipotesi sull’origine dell’autocoscienza sia più verosimile e più scientifica rispetto a quella della “concezione mistica”. Il filosofo riconosce, comunque, che tale analisi non possa essere effettuata in maniera strettamente empirica. Nella sua ipotesi, l’autocoscienza si è evoluta da facoltà pre-esistenti che, sviluppate gradualmente, hanno reso possibili funzioni o effetti di un nuovo tipo. Secondo Wright, non vi è continuità bensì discontinuità nella transizione di funzioni negli esseri viventi: “...According to the theory of evolution new uses of old powers arise discontinuously both in the bodily and mental natures of the animal, and in its individual developments, as well as in the development of its race, although, at their rise, these uses are small and of the smallest importance to life.”147 Le vecchie facoltà rintracciabili nella mente animale sono le facoltà di memoria e attenzione: il loro uso si fa prevalente sotto la spinta delle pressioni selettive. L’uomo potrà ricordare le immagini interne grazie all’estensione della memoria e renderle così oggetto di attenzione riflessiva. Per fare un paragone, potremmo dire che avviene come per le pinne dei cosiddetti “pesci volanti”.148 Ad esempio, i pesci appartenenti alla famiglia degli Exocetidi, avvalendosi della spinta propulsiva della pinna caudale, escono dall’acqua e planano sopra la superficie del mare per diversi metri, sfruttando le pinne pettorali come “ali”. Queste ultime, sviluppate inizialmente soltanto per l’uso natatorio, vengono cooptate per un nuovo uso, che risulta vantaggioso poiché, in tal modo, questi pesci riescono a sfuggire ai 147 Wright, 1877, p.199-200 Il paragone è suggerito da Wright en passant. Lo approfondiamo in questa sede perchè particolarmente calzante. 148 45 predatori. Successivamente, secondo Wright, si avrà un effetto retroattivo: il valore per la vita e l’uso prolungato renderanno le pinne pettorali del pesce sempre più adatte a planare sull’acqua. Il nuovo uso sarà, così, sempre più affinato. “...The new use increases the old power by its exercise and serviceableness (as flying and its values to life make the fins of the fish still longer), or as the exercise and the importance to life of reflective thought make the revivals of memory still more vivid, and enlarge its organ, the brain.”149 Lo stesso avviene per l’autocoscienza umana. L’esercizio del pensiero riflessivo e il suo valore adattativo accresceranno ulteriormente i poteri di memoria e attenzione. Il pensiero riflessivo ingrandirà, poi, l’organo da cui dipende: il cervello.150 I pensieri, riconosciuti come segni, verranno associati a suoni e poi ai loro oggetti. Questo potere fu poi sviluppato (perché utile alla natura sociale dell’uomo) fino a fissare e trasmettere le associazioni suono/pensiero in un linguaggio o sistema di segni. Esso acquistò un uso che porta con sé incommensurabili conseguenze e valori, poichè è all’origine delle tradizioni linguistiche e quindi di tutte le “conoscenze, storie, arti e scienze implicate e incarnate in esse” 151 . Nell’evoluzione dei pesci volanti, non c’è bisogno di chiamare in causa un intervento soprannaturale, per quanto possa sembrare strano che alcune specie di pesci escano dall’elemento in cui generalmente vivono. Allo stesso modo, per arrivare alle capacità della mente umana non c’è stato bisogno di un intervento soprannaturale, per quanto possa sembrare strano che una specie dell’ordine dei primati abbia preso il volo nell’ “elemento del pensiero”. 149 Wright, 1877, p.263 Cfr. Darwin, 2003, p.83-84. Anche in questo caso, Wright considera fattori lamarckiani. 151 Wright, 1990, p.124. 150 46 5. La balena e i suoi pidocchi: la polemica con Mivart “Se la balena ha i suoi pidocchi, anch’io debbo sopportare i miei.” Johann Wolfgang Goethe 5.1 Un guardiano del tempio della concordia La corrispondenza tra Darwin e Wright aveva preso avvio, come abbiamo detto, su iniziativa del filosofo americano. Quando questi si vide citato da Darwin nell’Origine dell’uomo, prese coraggio e nel giugno del 1871 inviò al naturalista un suo articolo, dal titolo The Genesis of Species, che sarebbe stato pubblicato il mese successivo sulla North American Review. Darwin apprezzò molto l’articolo di Wright, tanto da chiedergli il permesso di ripubblicarlo come pamphlet, per farlo circolare in Inghilterra. Di che si trattava e perché a Darwin stavano tanto a cuore i contenuti dell’articolo? Il contributo di Wright era sostanzialmente una recensione critica di un libro dal titolo On the Genesis of Species, pubblicato in Inghilterra all’inizio del 1871. L’autore era Saint George Jackson Mivart, zoologo inglese di fede cattolica. Mivart aveva studiato con Thomas Henry Huxley ed era stato un sostenitore del darwinismo prima di divenirne un critico. La pubblicazione di On the Genesis of Species segnò la rottura definitiva con gli scienziati darwiniani: il libro ebbe vasta diffusione e produsse un grande effetto a danno dell’ipotesi della selezione naturale. Mivart rimase un evoluzionista, ma giunse alla conclusione che il meccanismo della selezione naturale non bastasse a spiegare l’origine delle specie, pur concedendo che avesse un ruolo subordinato. Nel suo libro, muoveva numerose obiezioni al darwinismo e proponeva un’altra teoria per spiegare i cambiamenti che avvengono nelle specie organiche. Secondo questa teoria, che chiamò della “genesi specifica”, l’evoluzione delle specie è diretta da una “forza o tendenza interna”. Un organismo appartiene, in ciascuna fase temporale, ad una specie fissa e determinata, adatta approssimativamente alle condizioni esterne. Ma esso è potenzialmente adatto a molte altre condizioni di esistenza; quando queste cambiano, l’organismo passa da una manifestazione latente ad un’altra in maniera improvvisa e discontinua. Come uno sferoide rotola da una faccia all’altra, le specie passano bruscamente da un equilibrio stabile ad un altro. Mivart dichiara che i suoi obiettivi sono due: 1) mostrare che la selezione naturale non è l’origine delle specie; 2) conciliare l’evoluzionismo con 47 l’ortodossia cristiana. 152 Lo scienziato sperava, infatti, di giungere ad una teoria sulla genesi delle specie che armonizzasse gli insegnamenti di scienza, filosofia e religione. Il suo scopo dichiarato fu quello di “provare ad aggiungere una pietra a questo tempio della concordia”153. Oltre al libro On the Genesis of Species, Mivart scrisse un articolo che apparve anonimo sulla rivista Quarterly Review nel 1871. Si trattava di una recensione dell’Origine dell’uomo. Qui, a nostro avviso, emergono le motivazioni profonde che spinsero Mivart a criticare la teoria darwiniana. “Mr. Darwin’s errors are mainly due to a radically false metaphysical system in which he seems (like so many other physicists) to have become entangled. Without a sound philosophical basis, however, no satisfactory scientific superstructure can ever be reared; and if Mr. Darwin’s failure should lead to an increase of philosophic culture on the part of physicists, we may therein find some consolation for the injurious effects which his work is likely to produce on too many of our half-educated class. We sincerely trust Mr. Darwin may yet live to furnish us with another work, which, while enriching physical science, shall not, with needless opposition, set at naught the first principles of both philosophy and religion.”154 Mivart ritiene, dunque, che la teoria di Darwin si basi su una falsa metafisica. In questo articolo, egli sostiene che le differenze tra l’uomo e gli animali siano di genere e non di grado. Solo l’uomo, accanto alla sensazione, possiede il pensiero, la ragione, l’autocoscienza, il linguaggio articolato, la libera volontà. 155 Nessuno nega che l’uomo sia un animale, ma Mivart non può proprio accettare che l’uomo non sia che un animale. L’uomo è l’unico animale razionale e questo aggettivo lo rende degno di essere classificato in un regno diverso da quello animale. Considerando l’uomo un libero agente morale, possiamo dire, afferma Mivart, che egli differisce da un gorilla più di quanto un gorilla differisce dalla polvere che calpesta.156 152 Nel 1876, Pio IX conferì a Mivart il titolo di Dottore in filosofia, ma successivamente il naturalista fu scomunicato dalla Chiesa cattolica, in seguito alla pubblicazione di alcuni articoli considerati eterodossi e al suo giudizio del ruolo della Chiesa nella vicenda di Alfred Dreyfus in Francia. Così, quando Mivart morì nel 1900, fu seppellito in un terreno sconsacrato. Altrettanto severamente Mivart era stato “scomunicato” dagli scienziati che sostenevano la teoria darwiniana. 153 Mivart, 1871, p.15 154 Cit. in Hull, 1973, p.384 155 “The confusion of intellect with sensation, of reason with the association of sensible images is, I am persuaded, the fundamental speculative vice of the day.” Così scriveva Mivart rispondendo a Wright sulla North American Review (Mivart, 1872, p.467) 156 Hull, 1973, p.383. Quando Wright si riferisce alla “concezione mistica” sull’origine dell’autocoscienza, nel suo saggio del 1873, ha senz’altro in mente le affermazioni di Mivart nella sua recensione dell’Origine dell’uomo. 48 5.2 L’accidentalità delle variazioni Un sostenitore della neutralità della scienza come Chauncey Wright non poteva certo restare indifferente di fronte all’affermazione che voleva la teoria darwiniana basata su una falsa metafisica. Wright scagliò la sua vis destruens contro le argomentazioni di Mivart nel suo articolo The Genesis of Species e in un altro dal titolo Evolution by Natural Selection, che apparve a luglio del 1872, sempre sulla North American Review.157 In questi scritti, Wright difende e allo stesso tempo definisce la teoria darwiniana, considerando che “forse il modo migliore di rendere chiara una teoria difficile è quello “negativo” di correggere gli equivoci che da essa scaturiscono.”158 Secondo Wright, Mivart ha delle idee sbagliate a proposito della teoria darwiniana, che in massima parte scaturiscono dalla sua forma mentis teologica. Tra queste, secondo Wright, vi è un’incomprensione fondamentale: quella del concetto di “accidente”. Scrive Mivart: “The theory of Natural Selection may (though it need not) be taken in such a way as to lead men to regard the present organic world as formed, so to speak, accidentally, beautiful and wonderful as is confessedly the hap-hazard result.”159 Secondo Wright, a Mivart fa orrore il “cieco caso”, il “concorso fortuito degli atomi”, il fatto che nella teoria darwiniana le variazioni, materia prima su cui lavora la selezione naturale, siano casuali. Ma gli scienziati, ribatte Wright, quando parlano di “accidente” non pensano a qualcosa di incausato, a una classe assoluta e distinta che non obbedisce alla legge di causazione, assunzione fondamentale della scienza sperimentale. Come abbiamo già visto, secondo la concezione di Wright, definiamo “accidentale” un fenomeno che non avremmo saputo prevedere: l’accidentalità è relativa alla nostra conoscenza delle cause, alla conoscenza di una mente che non è onnisciente. Ad esempio, un’eclissi è prevista dall’astronomo, mentre è accidentale per il selvaggio. Analogamente, le variazioni su cui agisce la selezione naturale hanno certamente delle cause, ma noi non le conosciamo. In biologia, secondo Wright, c’è un elemento di non prevedibilità che è presente allo stesso modo in scienze come la meteorologia, la geologia o la politica economica. Queste scienze hanno dei principi, che però non permettono la previsione di tutti gli eventi. Gli accidenti, dunque, sono cause nel corso degli eventi – nel clima, nella 157 Anche questo fu scritto da Wright in seguito ad un pungolo polemico. Mivart, infatti, indispettito dalla diffusione del pamphlet in Inghilterra, aveva scritto al direttore della rivista americana una risposta a Wright. 158 Wright, 1877, p.179 159 Mivart, 1871, p.33 49 storia, nella politica, nel mercato – e nessuna teoria di questi eventi può lasciarli fuori.160 In biologia, le variazioni su cui opera la selezione e le condizioni esterne dell’ambiente sono dette “accidentali” perché non sono prevedibili dallo scienziato prima che si verifichino. Può essere interessante confrontare la concezione di Wright a proposito dell’accidentalità delle variazioni con un passaggio significativo che compare nell’opera di Darwin Variation of Animals and Plants under Domestication, del 1868. “Throughout this chapter and elsewhere I have spoken of selection as the paramount power, yet its action absolutely depends on what we in our ignorance call spontaneous or accidental variability. Let an architect be compelled to build an edifice with uncut stones, fallen from a precipice. The shape of each fragment may be called accidental; yet the shape of each has been determined by the force of gravity, the nature of the rock, and the slope of the precipice,— events and circumstances, all of which depend on natural laws; but there is no relation between these laws and the purpose for which each fragment is used by the builder. In the same manner the variations of each creature are determined by fixed and immutable laws; but these bear no relation to the living structure which is slowly built up through the power of selection, whether this be natural or artificial selection.”161 Noi, “nella nostra ignoranza”, chiamiamo accidentali le variazioni su cui la selezione agisce. Questo non vuol dire che le variazioni non abbiano delle leggi, che a noi possono essere sconosciute. Più propriamente, secondo Darwin, diciamo accidentale la relazione tra la forma delle pietre e l’uso che l’architetto ne fa. Fuor di metafora, diciamo accidentale la relazione tra una variazione e l’uso che l’allevatore ne fa e - nel caso della selezione naturale - la relazione tra una variazione e il vantaggio che essa procura all’organismo in cui si verifica. Questo equivale a dire che le variazioni non sono intenzionalmente guidate e non sono finalizzate agli adattamenti. “The shape of the fragments of stone at the base of our precipice may be called accidental, but this is not strictly correct; for the shape of each depends on a long sequence of events, all obeying natural laws (...) But in regard to the use to which the fragments may be put, their shape may be strictly said to be accidental. And here we are led to face a great difficulty, in alluding to which I am aware that I am travelling beyond my proper province.”162 160 In particolare, Wright sviluppa la comparazione tra il mondo organico e i fenomeni meteorologici. Tale comparazione può a prima vista stupire, poiché i fenomeni meteorologici presentano indeterminazione e caso, mentre l’osservazione di un organismo con i suoi adattamenti suggerisce l’idea che il mondo organico sia il regno della perfezione e del progetto. Ma, prosegue Wright, studiando il mondo organico da una prospettiva globale, considerando i grandi gruppi (le popolazioni), ci si accorge che anch’esso è privo di un ordine definito o di un piano intelligibile. 161 Darwin., 1868, Vol. II, p.248-249 (Corsivo nostro) 162 Darwin, 1868, Vol. II, p.431 50 Qui, infatti, Darwin entra nel terreno della religione, e questo è esattamente ciò che preoccupa Mivart. Se supponiamo un Creatore onnisciente, che ha previsto tutte le conseguenze delle leggi da lui imposte, dovremmo dire che ha ordinato ciascuna delle variazioni che compaiono allo stato domestico appositamente per l’uso dell’allevatore. Ma è possibile dire questo, quando osserviamo che molte variazioni non sono utili o addirittura sono dannose alle creature stesse? “Did He cause the frame and mental qualities of the dog to vary in order that a breed might be formed of indomitable ferocity, with jaws fitted to pin down the bull for man's brutal sport? But if we give up the principle in one case (...) no shadow of reason can be assigned for the belief that variations, alike in nature and the result of the same general laws, which have been the groundwork through natural selection of the formation of the most perfectly adapted animals in the world, man included, were intentionally and specially guided. However much we may wish it, we can hardly follow Professor Asa Gray in his belief "that variation has been led along certain beneficial lines," like a stream "along definite and useful lines of irrigation." (...) On the other hand, an omnipotent and omniscient Creator ordains everything and foresees everything. Thus we are brought face to face with a difficulty as insoluble as is that of free will and predestination.”163 Come Darwin, anche Chauncey Wright sottolinea che la variazione prescinde dall’adattamento, e lo fa con una metafora. La variazione è come un viticcio, un tentacolo o una mano che cerca nel buio un oggetto: “This class of variations, that is, “individual differences” (...) may be regarded as in no proper sense accidentally related to the advantages that come from them; or in no other sense than a tendril, or a tentacle, or a hand searching in the dark, is accidentally related to the objects it succeeds in finding. (...) The search was, and continues to be, normal and general; it is the particular success that is accidental; and this only in the sense that lines of causation, stretching backwards infinitely, and unrelated except in a first cause, or in the total order of nature, come together and by their concurrence produce it [the particular success].”164 Una mano che cerca nel buio può trovare l’oggetto che cerca, ma potrebbe anche non trovarlo o urtare un oggetto contundente e ferirsi. 165 Infatti, per un “movimento di variazione” che ha avuto successo, migliaia non avranno avuto la stessa fortuna, causando l’estinzione delle forme organiche in cui le variazioni svantaggiose si sono 163 Darwin, 1868, Vol. II, p.431-432. Inoltre, considera Darwin, se ogni variazione fosse predeterminata dall’inizio dei tempi, l’azione della selezione naturale sarebbe inutile e superflua. 164 Wright, 1877, p.143-144 165 La metafora di Wright, tuttavia, potrebbe essere fuorviante perchè il movimento della mano è intenzionale, cerca attivamente, mentre nelle variazioni contemplate dalla teoria darwiniana non è presente nulla di simile. 51 verificate.166 In entrambi i casi, la relazione tra la variazione ed il vantaggio adattativo (o lo svantaggio adattativo) è accidentale, ma è comunque determinata dalla convergenza - per noi non prevedibile - di linee di causazione. Dopo aver chiarito il significato dei fenomeni accidentali e dopo aver considerato che anche scienze come la meteorologia e la politica economica hanno a che fare con essi, Wright si domanda perché Mivart se la prenda soltanto con la teoria della selezione naturale. Il problema, naturalmente, risiede nel fatto che questa teoria riguarda l’origine dell’uomo. Nella sua risposta a Wright, Mivart afferma di sapere benissimo che l’accidente non implica assenza di causazione fisica. Ciò che lo preoccupa è che “la teoria di Darwin potrebbe essere interpretata come opposta alla concezione del disegno”167, che l’accidentalità delle variazioni potrebbe implicare l’assenza di un progetto. Ma nella prospettiva di Wright, la fede in una sovrintendenza divina non può dipendere dalla nostra capacità di comprendere il disegno: “To believe events to be designed or not, according as they are or are not predictable by us, is to assume for ourselves a complete and absolute knowledge of nature which we do not possess. Hence faith in a designing intelligence, supreme in nature, is not the result of any capacity in our own intelligence to comprehend the design, and is quite independent of any distinctions we may make, relative to our own powers of prediction, between orderly and accidental events.”168 5.3 A cosa serve il 5% di un’ala? La risposta di Darwin e di Wright Dopo aver ricevuto l’articolo The Genesis of Species, Darwin aveva risposto a Chauncey Wright in toni lusinghieri: “I have hardly ever in my life received an article which has given me so much satisfaction as the review which you have been so kind as to send me. I agree to almost every thing you say. Your memory must be wonderfully accurate, for you know my works as well as I do myself, and your power of grasping other man’s thoughts is something quite surprising; and this, as far as my experience goes, is a very rare quality. As I read on, I perceived how you have acquired this power; viz., by thoroughly analyzing each word.”169 Darwin aveva notato l’attenzione analitica riservata da Wright al linguaggio e all’uso delle parole. Aveva riconosciuto, però, che l’articolo non era ben scritto e che Wright, non 166 Si veda Wright, 1877, p.161-162 Mivart, 1872, p.458 168 Wright, 1877, p.196 Cfr. il saggio di Wright Natural theology as a positive science. 169 Cit. in Hull, 1973, p.352 167 52 essendo un naturalista di mestiere, non aveva conoscenze sufficienti per scendere nel dettaglio della critica di Mivart. Scrive infatti a Wallace: “The article, though not very clearly written, and poor in parts from want of knowledge, seems to me admirable. Mivart’s book is producing a great effect against Natural Selection, and more especially against me. (...) I am now at work at a new and cheap edition of the ‘Origin’, and shall answer several points in Mivart’s book; but I treat the subject so much more concretely, and I dare say less philosophically, than Wright, that we shall not interfere with each other. “170 La forza della risposta di Wright a Mivart risiede in una critica “metodologica”. Il filosofo americano evidenzia, infatti, come molte incomprensioni e giudizi di Mivart relativi alla teoria darwiniana derivino dalla sua impostazione teologica. Nella critica mivartiana la valutazione della teoria darwiniana tende pericolosamente a confondersi con la validazione della teoria stessa. In sostanza, secondo Wright, le preoccupazioni teologiche non possono entrare in un terreno che deve restare rigorosamente neutrale, quello della scienza. A dare una risposta “più concreta” alle obiezioni di Mivart avrebbe pensato Darwin stesso. Nella sesta edizione dell’ Origine delle specie (1872), egli aggiunse un nuovo capitolo, il settimo, quasi interamente dedicato a replicare alle critiche mivartiane.171 “Così presentate, esse costituiscono un insieme formidabile; e poiché non fa parte del piano di Mivart l’addurre i vari fatti e considerazioni contrari alle sue conclusioni, nessun lieve sforzo di ragionamento e di memoria è richiesto al lettore che voglia pesare le prove dei fatti d’entrambe le parti.”172 Le critiche raccolte da Mivart furono disparate, ma una in particolare avrebbe colpito i lettori e arrecato danno alla “causa darwiniana”, sia al tempo di Darwin che in seguito. Secondo Mivart, la selezione naturale può spiegare la conservazione e l’estensione di strutture utili, ma è insufficiente a spiegare la loro origine. 170 Cit. in Hull, p.352 Scrive Darwin in una lettera: “God knows whether my strength and spirit will last out to write a chapter versus Mivart; I do so hate controversy and feel I shall do it so badly.” (Cit. in Hull p.352) Darwin fu molto ferito dal comportamento di Mivart nei suoi confronti, che giudicò sleale. “He makes me the most arrogant, odious beast that ever lived. I cannot understand him; I suppose that accursed religious bigotry is at the root of it.” (Cit. in Hull, p.353). Le opinioni di Darwin nei confronti di Mivart emergono chiaramente nell’Autobiografia: “Le mie opinioni sono state spesso riferite con grossolana inesattezza, aspramente criticate e derise; ma ho l’impressione che tutto ciò sia stato fatto generalmente in buona fede. Devo fare un’eccezione per il signor Mivart, la cui condotta verso di me fu qualificata da un americano, in una lettera, come quella di un “azzeccagarbugli” e da Huxley come quella di “un avvocato dell’Old Bailey”.” (Darwin, 2006, p.108) 172 Darwin, 2007, p.277 171 53 “Natural Selection utterly fails to account for the conservation and development of the minute and rudimentary beginnings, the slight and infinitesimal commencements of structures, however useful those structures may afterward become.”173 Darwin ribadisce, in più occasioni, che ogni grado di struttura deve essere utile al suo possessore perché la selezione naturale possa favorirlo. Ma, obietta Mivart, quale può essere l’utilità dello stadio incipiente di un occhio, ancora insufficiente per vedere? Nel caso del mimetismo, di che utilità sarebbe, per un insetto, un’iniziale vaga somiglianza con una pianta, non sufficiente a nasconderlo alla vista dei predatori? Gli enormi fanoni della balena di Groenlandia sono utili per filtrare l’acqua e trattenere le prede, ma quale può essere stata l’utilità di un loro “infinitesimo inizio”? La selezione naturale, secondo Mivart, non riesce a spiegare gli “infinitesimi inizi di strutture che sono utili solo quando sono considerevolmente sviluppate”174. Che l’ala di un uccello sia attualmente utile alla funzione del volo è indiscutibile, ma quale può esser stata l’utilità dello stadio incipiente di questa struttura? Di certo non si può volare con il 5% di un’ala.175 Mivart crede, dunque, che l’ala di un uccello debba essersi sviluppata per una modificazione evidente e importante e relativamente improvvisa. 176 Ma a Darwin tale ipotesi sembra altamente improbabile. L’obiezione mivartiana, secondo Darwin, può essere superata se si tiene presente che strutture originariamente costruite per una funzione possono successivamente essere riadattate per funzioni differenti. Già nella prima edizione dell’Origine delle specie Darwin notava: “L’esempio della vescica natatoria nei pesci è particolarmente appropriato, perché dimostra chiaramente un fatto molto importante: che un organo originariamente costruito per uno scopo, cioè la funzione idrostatica, può trasformarsi in un organo capace di una funzione completamente diversa, cioè la respirazione.”177 Alla luce di questo, è possibile rispondere a Mivart dicendo che una struttura incipiente è stata conservata dalla selezione naturale perché aveva un’utilità, che però non coincide necessariamente con l’utilità attuale. A quello stadio dell’evoluzione, la struttura potrebbe aver svolto un’altra funzione, per poi essere cooptata per l’uso attuale. Non vi è 173 Mivart, 1871, p.35 Mivart, 1871, p.60 175 L’esempio dell’origine dell’ala non compare nel capitolo di On the genesis of species dedicato alle strutture incipienti. Esso è invece citato da Mivart nel quarto capitolo (pag. 120) e nei capitoli relativi all’analogia (cap.3, p.77) e all’assenza di evidenze paleontologiche degli stadi di transizione tra una forma e l’altra (cap.6, p.143). L’esempio è stato poi considerato il più efficace per illustrare l’obiezione mivartiana. 176 Mivart, 1871, p,121 177 Darwin, 2007, p.247. L’esempio è presente già nella prima edizione dell’Origine, nel quinto capitolo. (Si veda anche Darwin, 2008, p.252) 174 54 corrispondenza indissolubile e biunivoca tra struttura e funzione; Darwin sottolinea che è molto importante “tenere presente la probabilità di conversione da una funzione a un’altra.”178 Nel sesto capitolo dell’Origine delle specie, Darwin porta ad esempio numerosi casi: un organo può svolgere, allo stesso tempo, funzioni distinte oppure organi distinti possono adempiere contemporaneamente alla stessa funzione nello stesso individuo.179 Scrive Darwin nella sesta edizione dell’Origine: “Mi si è offerta così una buona occasione per dilungarmi un poco sulle gradazioni di struttura che sono spesso associate a cambiamenti di funzioni, argomento importante che non avevo trattato con ampiezza sufficiente nelle precedenti edizioni di quest’opera.”180 In genere ci si riferisce a questo principio con il termine di “pre-adattamento”. Circa un secolo dopo Darwin, Stephen J. Gould e Elisabeth Vrba avrebbero ripreso questo importante concetto. Nel saggio del 1982 (Exaptation, a Missing Term in the Science of Form) i due paleontologi proposero l’utilizzo del neologismo “ex-aptation”. Infatti, il termine “pre-adattamento” portava con sé un’equivoca teleologia: sembrava implicare che “la protoala, pur svolgendo nei suoi stadi incipienti qualche altra funzione, sapesse di stare andando in un’altra direzione, ossia di essere predestinata a una posteriore conversione al volo.”181 Secondo Gould e Vrba, l’ipotesi più probabile è che la protoala ricoperta di penne abbia svolto inizialmente una funzione di termoregolazione, per poi essere cooptata e utilizzata nella dinamica del volo.182 Scrive Gould: “In altri termini, il problema degli stadi incipienti viene meno quando si considera l’ipotesi che quei primi passi non fossero ali inadeguate bensì qualcos’altro ben adattato. Questo principio del mutamento di funzione nella continuità strutturale rappresenta l’elegante soluzione di Darwin alla difficoltà degli stadi incipienti”183 Alla luce di questo, può essere interessante tornare brevemente all’articolo di Chauncey Wright in risposta a Mivart, The genesis of species. Il punto di forza del saggio risiede nella critica metodologica, ma Wright risponde anche ad obiezioni più specifiche, tra cui quella 178 Darwin, 2007, p.248 Si veda Darwin, 2007, p.246-247. 180 Darwin, 2007, p.301 181 Gould, 2006, p.256 182 Si veda l’ipotesi di Kingsolver e Koehl in Gould, 2006, 150-1 183 Gould, 2006, p.144 “L’intuizione darwiniana, passata poi in secondo piano nelle ricerche neo-darwiniste, fu che alla continuità di una trasformazione morfologica per selezione (l’organo si trasforma comunque sotto l’effetto delle pressioni selettive) non necessariamente corrispondesse una continuità progressiva della funzione, che a un certo punto può cambiare, anche in modo rapido e discontinuo, permettendo così differenti modi di transizione funzionale.” Pievani, 2006, p.72 179 55 delle strutture incipienti. Il filosofo americano sostiene che nel muovere quest’obiezione Mivart ha trascurato due punti: “The one, which is so conspicuous in the principles of comparative anatomy, how few the fundamental structures are, which have been turned to such numerous uses; that is, how meagre have been the resources of Natural Selection, so far as it has depended on the occurrence of structures which were of no previous use, or were not already partially useful in directions in which they have been modified by the selection and inheritance of “individual differences”; the other, how important to Natural Selection have been the principles of indirect utility and “correlated acquisition”, dependent as they are on ultimate physical laws.”184 Wright, ancor prima di leggere la risposta che avrebbe dato Darwin all’obiezione mivartiana nella sesta edizione dell’Origine, 185 aveva capito che la chiave per superarla risiedeva nel principio della “pluralità degli usi”. La selezione naturale, secondo Wright, ha “scarse risorse” e volge a nuovi usi strutture già esistenti, che precedentemente erano inutili o avevano un altro tipo di utilità. 186 L’esistenza di queste strutture potrebbe dipendere dal principio dell’acquisizione correlata, secondo il quale “l’acquisizione di una facoltà utile porterà con sè molti vantaggi conseguenti, così come svantaggi limitanti, reali o possibili, che il principio di utilità potrebbe non aver compreso nella sua azione.”187 La selezione naturale non mancherà di agire sulle strutture figlie dell’acquisizione correlata. L’importanza del principio della pluralità degli usi e quello dell’acquisizione correlata, secondo Wright, è stata trascurata da Mivart, e ciò indebolisce e rende inefficace la sua critica. Nel saggio Evolution by Natural Selection, Wright nota che l’obiezione di Mivart sulle strutture incipienti è pertinente soltanto se si parte dal presupposto che ad una struttura organica corrisponde un singolo uso. “The use which may be presumed in general to govern selection is a combination, with various degrees of importance, of all the actual uses in a structure.”188 Molto spesso, nota Wright, a risultare vantaggioso non è un unico uso, bensì una combinazione di usi di una struttura. Ad esempio, il collo della giraffa è un’ottima torre di 184 Wright, 1877, p.148 (Corsivo nostro) Ricordiamo che l’articolo di Wright è del 1871, mentre la sesta edizione dell’Origine sarà pubblicata l’anno successivo. Il concetto di transizione funzionale era già presente nella prima edizione dell’opera darwiniana, ma nella sesta edizione, come abbiamo detto, è posto da Darwin in maggior rilievo proprio a seguito della critica mivartiana. 186 Almeno ci sembra essere questo il senso della frase : “not already partially useful in directions in which they have been modified by the selection and inheritance of “individual differences” “ 187 Wright, 1877, p. 107 188 Wright, 1877, p. 191 Mivart “has overlooked many uses in the structures of animals, to which his special objections do not apply”. (p.194) 185 56 avvistamento dei predatori, oltre ad essere utile per brucare le foglie più alte. Nella sesta edizione dell’Origine delle specie, Darwin citerà proprio quest’esempio di Wright, aggiungendo subito oltre: “La conservazione di ciascuna specie raramente è determinata da un unico vantaggio, ma piuttosto dall’unione di tutti i vantaggi, grandi e piccoli.”189 Secondo il filosofo americano gli usi del collo della giraffa - oppure quelli dei sonagli del serpente a sonagli, che possono essere usati per intimorire i nemici o come richiamo sessuale – non sono usi tra loro contrastanti.190 Individuare quale uso sia quello primario non sembra a Wright così rilevante. Due diversi usi di una struttura possono coesistere ed essere co-selezionati, se risultano entrambi vantaggiosi. “Furthermore, it seems to me presumable that in a long course of development, even in cases of highly specialized faculties, existing uses have risen in succession or alternately to the place of first importance, as in the various uses of the hand. This principle of a plurality of existing uses involves a very important influence in secondary uses, whether these are incidental or correlative acquisitions, or are the more or less surpassed and superseded ones.”191 Secondo Wright, nel corso dell’evoluzione di una struttura i vari usi hanno giocato, successivamente o alternativamente, un ruolo di primaria importanza. L’uso attualmente primario (ad esempio il volo) non è necessariamente quello per cui la struttura (l’ala) ha avuto origine. Essa può essere stata conservata dalla selezione naturale perché un altro uso (la termoregolazione) è risultato vantaggioso. Quest’ultimo, successivamente, può aver assunto un’importanza secondaria. Wright riconosce che il principio della pluralità degli usi coesistenti è presente nell’opera di Darwin, ma pensa che sia necessario enfatizzarne l’importanza. Scriveva nell’ultima lettera inviata a Darwin, nel febbraio del 1875: “There is nothing in this principle which is really new or different from what you have set forth in your works, except the emphasis or prominence I am inclined to give it. The value of a plurality of coexisting uses in making the principles of natural selection and that of the inherited effect of habit co-operate (...) ought to raise the principle from the rank of a scholium to that of a main theorem in the development doctrine.”192 189 Darwin, 2007, p.280 Scrive Wright: “I do not conceive the question whether, in a given case, the coloring of an animal is protective or sexually attractive, is a question of alternatives, of which only one can be true. Sexual selection may in one case take up what natural selection has laid down...” (Wright, 1878, p.336) 191 Wright, 1878, p.335 192 Wright, 1878, p.336. Wright, anche qui, fa riferimento a fattori lamarckiani, considerando che gli usi secondari possono essere sviluppati con l’esercizio e poi essere ereditati. 190 57 Questo principio - essenziale nel rispondere all’obiezione mivartiana - dovrebbe essere considerato, secondo Wright, un teorema fondamentale nella teoria del’evoluzione. Darwin incoraggiò Wright, nella risposta a questa lettera, ad approfondire l’argomento dei diversi usi co-selezionati: “I quite agree with what you say about advantages of various degrees of importance being co-selected and aided by the effects of use, &c. The subject seems to me well worth further development.”193 Sfortunatamente, Chauncey Wright sarebbe morto pochi mesi dopo, e non avrebbe avuto modo di sviluppare l’argomento come Darwin gli suggeriva di fare. 193 Wright, 1878, p.338. Darwin ringraziò Wright per la lunga e interessante lettera e si scusò per la brevità della risposta. 58 Conclusioni Gli apprezzamenti più volte manifestati da Darwin nei confronti degli articoli di Wright testimoniano l’originalità del contributo del filosofo americano al darwinismo. Si tratta di un contributo poco sistematico, emerso in occasione di spunti polemici, come nel caso degli articoli in risposta a Wallace e a Mivart. Del resto, come osserva Wright, “forse il modo migliore di rendere chiara una teoria difficile è quello “negativo” di correggere gli equivoci che da essa scaturiscono”. Tuttavia, gli articoli di Wright hanno sicuramente una valenza maggiore di mere risposte polemiche. Obiettivo primario, come dichiarò allo stesso Darwin, fu quello di collocare la teoria darwiniana “nelle sue appropriate relazioni con le ricerche filosofiche in generale”. Tra i saggi scritti da Wright, The Evolution of SelfConsciousness rappresenta senz’altro l’opera più organica. Paradossalmente, fu proprio l’elaborato che Wright decise di non inviare a Darwin, nella considerazione che “la metafisica non è il suo forte” e nel timore di annoiarlo o di strappargli a forza un giudizio. Forse, se Wright avesse potuto leggere i taccuini di Darwin sulla metafisica, non avrebbe temuto di farlo sbadigliare! Il saggio The Evolution of Self-Consciousness, infatti, contiene spunti filosofici di grande interesse, purtroppo di difficile accesso a causa dello stile involuto di Wright. In particolare, ci sembra che l’autocoscienza umana, nelle sue relazioni con il linguaggio, sia un nodo teorico fondamentale, sviluppato da Wright in piena sintonia con il framework darwiniano. Se si pensa che lo stesso Wallace rifiutò di estendere l’azione della selezione naturale all’origine della mente umana, ci si rende conto di quanto Wright sia stato coerente nell’accettare fino in fondo le implicazioni della teoria darwiniana. Anche rispetto ad Asa Gray, che aveva sentito l’esigenza di “dare una direzione” all’evoluzione, Wright mostra di aver recepito il darwinismo senza compromessi, fedele al principio di non far entrare, nel terreno neutrale della scienza, istanze dettate dalle emozioni e dai sentimenti umani. Pertanto, il contributo di Chauncey Wright al darwinismo, per quanto poco sistematico, presenta elementi e intuizioni di grande originalità e, come tale, richiede a nostro avviso una più attenta riflessione su questa figura intellettuale, generalmente trascurata dalla storia del pensiero filosofico. 59 Bibliografia Barsanti, G. (2005), Una lunga pazienza cieca, Einaudi, Torino. Blau, J. L. (1957) Movimenti e figure della filosofia americana, La Nuova Italia, Firenze (ed. or. 1952, Men and Movements in American Philosophy) Boller, P. F. (1969) American Thought in Transition: The Impact of Evolutionary Naturalism, 1865-1900, Rand MacNally and Co., Chicago. Darwin, C. R. 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