letteratura italiana contemporanea

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letteratura italiana contemporanea
INSEGNAMENTO DI
LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA
LEZIONE IV
“L’ITINERARIO POETICO DI EUGENIO MONTALE.
PARTE PRIMA: GLI OSSI DI SEPPIA ”
PROF. TOBIA TOSCANO
Letteratura Italiana Contemporanea
Lezione IV
Indice
1
Montale premio Nobel 1975 ---------------------------------------------------------------------------- 3
2
La biografia letteraria di un genovese amante dell’opera lirica -------------------------------- 4
3
Gli Ossi di seppia: fisionomia della raccolta -------------------------------------------------------- 7
4
La “poetica degli oggetti” e il correlativo-oggettivo ----------------------------------------------- 9
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Lezione IV
1 Montale premio Nobel 1975
Il 10 dicembre 1975 Montale ricevette il premio Nobel per la poesia e tenne per l’occasione
un discorso intitolato È ancora possibile la poesia?, che fu insieme il bilancio di una vita e la
rivendicazione della sua fedeltà a un’idea di poesia sottratta alla lusinga di ogni ipoteca politica
(allora la cosiddetta poesia “militante”, cioè al servizio di cause ideologiche e politiche si definiva
engagée, “ingaggiata”) e quindi al rischio della sua mercificazione. Il poeta disse di sé:
«Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici.
Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di
mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una
merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce
storicista idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della
poesia».
Sarà sempre difficile trovare in Montale definizioni della poesia. Al massimo egli si spinge a
descrivere l’habitat esistenziale in cui può nascere: «La poesia così detta lirica -egli dice- è opera,
frutto di solitudine e di accumulazione».
Questo richiamo alla solitudine richiamava un precedente intervento del 1952, intitolato La
solitudine dell’artista, in cui si legge che «l’artista raggiunge la comunicazione solo attraverso
l’isolamento e che un engagement di tipo polemico e propagandistico non può interessare in questa
sede». E più oltre: «Non penso, in sostanza, che il trionfo dei nuovi mezzi tecnici sia senza
importanza in un mondo che tende a un nuovo umanesimo positivo e scientifico e che si sforza di
rendere migliore la vita delle moltitudini; ma ritengo che anche domani le voci più importanti
saranno quelle degli artisti che faranno sentire, attraverso la loro voce isolata, un’eco del fatale
isolamento di ognuno di noi. In questo senso, solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano;
gli altri –gli uomini della comunicazione di massa- ripetono, fanno eco, volgarizzano le parole dei
poeti, che oggi non sono parole di fede ma potranno forse tornare ad esserlo un giorno».
Quindi la poesia vera si oppone radicalmente alla poesia di “consumo”, che «muore appena
è espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la
forza di farlo», perché per quella poesia (Montale sta parlando ovviamente della sua poesia) «che
rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra
imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, […] non c’è morte
possibile».
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
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Lezione IV
2 La biografia letteraria di un genovese amante
dell’opera lirica
Quando Montale ricevette il premio Nobel erano trascorsi giusto 50 anni dalla prima
edizione degli Ossi di seppia (pubblicati nelle edizioni di Piero Gobetti) nonché del saggio
Omaggio a Italo Svevo, apparso sulla rivista «L’esame». Nello stesso anno 1925 aveva esordito
contemporaneamente come poeta e come critico, facendo conoscere e rilanciando un romanziere,
Italo Svevo, allora letto più all’estero che in Italia. Non aveva ancora trent’anni, essendo nato a
Genova il 12 ottobre 1896 (giorno importante per i genovesi, perché anniversario dello sbarco del
genovese Colombo nelle Indie occidentali), ultimo di cinque figli di Domingo, che viveva di
commercio e possedeva un casa di villeggiatura a Monterosso, una delle Cinque Terre della riviera
ligure, rinomata per il suo paesaggio mediterraneo dai colori violenti, che costituirà uno dei poli
essenziali dell’ispirazione giovanile del poeta, e che avrebbe ricordato (1966): «Quella di
Monterosso è stata una stagione molto formativa; però ha anche costituito l’avvio
all’introversione, ha portato a un imprigionamento nel cosmo».
Frequentò le scuole tecniche dei padri Barnabiti, interrompendo gli studi per motivi di salute
e dedicandosi allo studio della musica e del canto: il poeta aveva una buona voce di baritono e si
preparava addirittura al debutto, quando la morte improvvisa del suo maestro, Ernesto Sivori, e la
chiamata alle armi per la guerra gli fece abbandonare il progetto. Tuttavia in Montale rimarrà
sempre un profondo interesse per la musica, e soprattutto per il melodramma (la cosiddetta opera
lirica), come mostrano le sue puntuali e costanti recensioni agli spettacoli che andavano in scena
alla Scala di Milano, e che confluiranno nel volume postumo intitolato Prime alla Scala
(Mondadori 1981).
Quando partì per la guerra (che mentre in Ungaretti ha suscitato un intero libro, in Montale
non ha lasciato che sporadiche e rarefatte tracce) aveva già scritto, appena ventenne, un frammento
che ancora oggi è presenza d’obbligo in ogni antologia scolastica e attraverso il quale generazioni di
studenti si sono per la prima volta incontrati con la poesia di Montale, vale a dire Meriggiare
pallido e assorto che nell’allucinata fissità del paesaggio ligure disfatto dalla calura estiva
trasferisce l’emblema di un disagio del vivere, che rimarrà tema ricorrente e approfondito:
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Lezione IV
9 Meriggiare pallido e assorto
9 presso un rovente muro d’orto,
10 ascoltare tra i pruni e gli sterpi
10 schiocchi di merli, frusci di serpi.
11 Nelle crepe del suolo o su la veccia
11 spiar le file di rosse formiche
11 ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
10 a sommo di minuscole biche.
11 Osservare tra frondi il palpitare
9 lontano di scaglie di mare
11 mentre si levano tremuli scricchi
9 di cicale da calvi picchi.
9 E andando nel sole che abbaglia
10 sentire con triste meraviglia
11 com’è tutta la vita e il suo travaglio
11 in questo seguitare una muraglia
11 che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Come abbiamo fatto per la poesia di Saba nella lezione precedente, indichiamo prima di
ogni verso il numero che ne indica la lunghezza. Quindi abbiamo novenari = 9, decasillabi = 10,
endecasillabi = 11. Il verso 7 (ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano) sembrerebbe in apparenza di
12 sillabe, ma dal punto di vista della prosodia si considera endecasillabo, perché finendo con
parola sdrucciola (accentata sulla terz’ultima sillaba: intrécciano) ha comunque l’accento tonico
sulla decima sillaba. Pur non corrispondendo a una forma metrica precisa, questo componimento
rivela nella sua struttura forti legami con la tradizione (divisione in strofe, uso di versi regolari dal
punto di vista prosodico, presenza costante di rime), ma del tutto nuovi sono i toni e il messaggio.
Il paesaggio delle Cinque Terre nella violenza della sua luce e nella fissità dell’ora
meridiana (meriggiare) non sembra offrire spiragli all’uomo, vive in se stesso, chiuso nella propria
realtà incomunicabile. Il poeta vi trasferisce il senso di frustrazione dell’uomo che si sente
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imprigionato dentro una inesorabile legge di necessità, espressa con straordinaria intensità nei due
versi conclusivi: la “muraglia”, che impedisce ogni fuga, rappresenta la chiusura nella prigione
esistenziale, oltre la quale, forse, può esistere la Verità che l’uomo cerca.
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3 Gli Ossi di seppia: fisionomia della raccolta
Tornato dalla guerra, Montale frequentò l’ambiente torinese, stringendo rapporti, tra gli altri,
con Piero Gobetti che fu l’editore degli Ossi di seppia nel 1925, che ebbero una seconda edizione
nel 1928, dando alla raccolta e alle sezioni che la costituiscono la fisionomia definitiva: Movimenti,
Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e
ombre, Riviere.
La seconda poesia della raccolta, I limoni, contiene la prima dichiarazione di tono poeticomorale, e attraverso l’imperativo iniziale, poi ripreso quasi a metà componimento (“Ascoltami, i
poeti laureati”; “Vedi, in questi silenzi in cui le cose”), viene chiamato in causa direttamente il
lettore, con la scelta di una modalità colloquiale, frequente nella poesia montaliana, che si rincorre
da una raccolta all’altra, con l’intenzione di costituire una sottile trama di allusioni, magari per
favorire una cordiale complicità. Qui il verbo ascoltare all’imperativo richiama subito l’uso che ne
aveva fatto D’Annunzio proprio all’inizio della Pioggia nel pineto (“Ascolta, su le soglie del
bosco…”): la differenza è però nel tono e nell’ideologia che differenzia Montale dal poeta-vate,
anche quando ne reimpiega brandelli di linguaggio ai limiti della citazione. Infatti, subito dopo la
movenza dannunziana dell’incipit viene espresso il tema fondamentale della lirica, che propone una
visione anti-aulica della poesia e del poeta, che programmaticamente rinuncia a ogni dimensione di
sublime eroicità. Nella parte centrale abbiamo i versi più meditati e che ci consentono di cogliere un
aspetto fondamentale della visione montaliana della realtà:
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
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Lo “sbaglio di Natura”, “l’anello che non tiene”, significano la possibile rottura della catena
delle cause e degli effetti, che potrebbe dar luogo alla scoperta di qualche verità liberante per
l’uomo. L’idea che la natura non dovesse essere necessariamente governata da una legge
deterministica derivava a Montale dal filosofo francese Emile-Etienne Boutroux (1845-1921),
considerato il fondatore del contingentismo (autore, tra l’altro, di un’opera dal titolo Sulla
contingenza delle leggi di natura pubblicata nel 1874) che, contro l’epistemologia positivista,
sottopose a esame critico la nozione di legge scientifica, per evidenziarne il carattere non
necessario, contingente, e rivendicare l’aspetto di novità e libertà insito in ogni fenomeno.
Per Montale proprio la poesia, se rimane libera, può essere tramite che ci consente di varcare
la soglia del fenomeno e portarci “nel mezzo di una verità”, oltre la realtà, in una dimensione
metafisica. Il poeta stesso in una dichiarazione del 1951 avrebbe definito la sua poesia «non
realistica, non romantica, e nemmeno strettamente decadente, e che molto all’ingrosso si può
definire metafisica». Per metafisica, spiegava Montale, andava intesa quella poesia che, senza
rinunciare alla ragione, nasce «dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione».
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4 La “poetica degli oggetti” e il correlativooggettivo
La sezione che dà nome alla raccolta è di gran lunga la più rappresentativa delle intenzioni
del primo Montale. Le novità maggiori si realizzano sul piano del linguaggio, scartando il
vocabolario consumato della tradizione e puntando su una estrema precisazione dei termini, privati
del connotato ritenuto fondamentale per la poesia, la gradevolezza. Alla ricerca di una lingua nuova
e più corposa si accompagna sul piano stilistico una impostazione nettamente discorsiva, perché
Montale era convinto che «Il grande semenzaio di ogni trovata poetica è nel campo della prosa». Si
costituisce negli Ossi di seppia quella che è stata definita la “poetica degli oggetti” (Luciano
Anceschi) o, meglio, degli “oggetti drammatizzati”. Per Montale le cose, anche le più umili
espressioni di una realtà povera e comune che l’uomo può in ogni momento ritrovare intorno a sé,
diventano degli “emblemi”, in cui è trascritto in forme oscure e cifrate il destino dell’uomo. Esse
non vengono colte nelle loro implicazioni analogiche, ma conservando la loro corposità diventano
manifestazione di una verità che trova corrispondenza nell’esperienza dell’uomo. A questo
proposito si parla per Montale di correlativo-oggettivo, nel senso che anche i concetti e i sentimenti
più astratti trovano la loro definizione ed espressione in “oggetti” ben definiti e concreti.
In conclusione di questa prima lezione è utile leggere uno degli Ossi di seppia, che più di
ogni altra poesia di Montale si presta a esemplificare la sua “poetica degli oggetti” e il concetto di
“correlativo-oggettivo”:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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Lezione IV
Mentre i primi sette versi sono di identica lunghezza prosodica, l’ultimo verso è formato da
una coppia di settenari, di cui il primo sdrucciolo (del meriggio, e la nuvola, || e il falco alto levato).
Il primo verso sembra enunciare un concetto astratto (il male di vivere) catturato
dall’esperienza diretta (ho incontrato). I due punti alla fine del primo verso introducono alla
rivelazione degli oggetti, che costituiscono appunto il “correlativo-oggettivo” dell’enunciato e sono
tratti, con gradazione ascendente, dal regno minerale (il fiume), vegetale (la foglia) e animale (il
cavallo).
Questi tre oggetti non danno un’idea del male di vivere, sono essi stessi espressione
infinitesima ma tangibile dell’universale male di vivere. Il malessere esistenziale del poeta prende
corpo nella realtà, attraverso immagini di tormento affannoso, che sottolineano il dolore cosmico
anche attraverso il gioco delle allitterazioni e delle corrispondenze foniche (strozzato, stramazzato).
L’affollarsi del consonanti liquide r e l unite talvolta ad altra consonante o precedute da vocali
(incartocciarsi, riarsa) rendono più faticosa la pronuncia di immagini di dolore, da cui non esiste
altro scampo (“bene”) che un atteggiamento di stoico distacco e di “Indifferenza”, la cui iniziale
maiuscola sembra dire che può essere appannaggio solo della divinità. Ai tre correlativi-oggettivi
del “male” corrispondono altrettanti correlativi-oggettivi del “bene”: la statua, la nuvola, il falco.
Per cogliere appieno la contrapposizione tra le due terne di immagini, si osserverà che l’ultima
parola (levato) fa rima con stramazzato in fine della prima strofa: un movimento dal basso verso
l’alto, opposto allo stramazzare del cavallo che si accascia pesantemente al suolo.
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