Le vostre tessere? – chiese, osservando stupefatta il

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Le vostre tessere? – chiese, osservando stupefatta il
«i classici in Dante, Dante e i Classici»
presentazione di Claudio Cazzola
Una coppia di strani personaggi si accampa su una via cittadina di Mosca. Un
sedicente maestro del coro, dotato di un paio di baffetti simili a penne di gallina
e roteante piccoli occhietti ironici e un po’ ebbri, con indosso dei calzoni a
scacchi corti che lasciano scoperti dei calzini bianchi alquanto sporchi; costui è
accompagnato da un gatto, grosso come un maiale e nero come la fuliggine o
come un corvo, con dei baffi spavaldi, da cavalleggero, in tutto e per tutto uguale
ad un essere umano quanto a possesso, e utilizzo, della parola.
Eccoli dunque, Korov’ev e Ippopotamo (questi i loro nomi), che si fermano
davanti all’ingresso della “Casa dello Scrittore”, sulla cui veranda vedono persone
intente a pranzare con gusto; il che stuzzica l’appetito di entrambi, intenzionati a
dotare se stessi, tormentati dalla fame, di un sostanzioso spuntino accompagnato
da un bel sorso di birra gelata. Baldanzosi dunque si apprestano a varcare la
soglia del ristorante, quando ne vengono impediti da una sorta di guardiana, che
registra il nome di tutti quanti: ebbene, ecco il dialogo paradossale che si
intreccia fra i nuovi arrivati ed il cerbero portiere:
- Le vostre tessere? – chiese, osservando stupefatta il ‘pince-nez’ di
Korov’ev e anche il fornello e il gomito squarciato d’Ippopotamo.
- Mille scuse; quali tessere? – domandò Korov’ev con espressione di
meraviglia.
- Siete scrittori? – ribatté la cittadina.
- Indubbiamente – asserì Korov’ev con dignità.
- Le vostre tessere?
- Bellezza mia…., - attaccò teneramente Korov’ev.
- Non sono una bellezza.
- Che peccato! - fece Korov’ev deluso. - Be’, se non vuol essere una
bellezza, cosa che sarebbe quanto mai piacevole, padronissima di non
esserlo. Dunque, per convincersi che Dostoevskij è realmente uno
scrittore, lei gli chiederebbe la tessera? Ma prenda cinque pagine
qualsiasi di un qualsiasi suo romanzo e si convincerà senza nessuna
tessera di aver a che fare con uno scrittore! Anzi, suppongo che
Dostoevskij non l’abbia mai avuta la tessera! Tu che ne dici
Ippopotamo?
- Scommetto che non l’aveva, - rispose il gatto posando il fornello sulla
tavola accanto al registro e asciugandosi il sudore sulla fronte nera di
fuliggine.
- Lei non è Dostoevskij – ribatté la cittadina, confusa dal discorso di
Korov’ev.
- Non si può mai sapere, non si può mai sapere.
- Dostoevskij è morto, - proseguì la donna senza troppa convinzione.
- Protesto! - esclamò Ippopotamo con fervore. - Dostoevskij è
immortale!
- Le vostre tessere, cittadini.
- Mi faccia il piacere, - ringhiò Korov’ev senza arrendersi; - la cosa è
ridicola, alla fin fine. Non son certo le tessere che fanno lo scrittore, ma
ciò che si scrive. Che ne sa lei dei pensieri che sciamano nella mia testa?
O nella sua? - e indicò quella di Ippopotamo, che si tolse il berretto,
come per dar agio alla cittadina di esaminarla meglio.
- Cittadini, non ingombrate il passaggio.
Il problema qui rappresentato con una dose robusta di ironia si direbbe classica,
perché venata da sotterranea tragicità, si presenta in sé semplice: qual è il
cassetto degli attrezzi che autorizza un individuo ad autoproclamarsi “scrittore”,
ricevendone relativo attestato da esibire sul biglietto da visita? Intanto
osserviamo con quale ‘habitus’ viaggia un membro di codesta consorteria, nel
prosieguo del testo sunnominato:
Korov’ev e Ippopotamo si fecero in disparte cedendo il passo a uno
scrittore vestito di grigio, con una estiva camicia bianca, senza
cravatta, col colletto aperto, e un giornale sottobraccio. Lo scrittore
salutò affabilmente la cittadina con un cenno del capo, scarabocchiò
qualcosa sul registro che la donna spinse verso di lui, e passò oltre.
Il nuovo arrivato, evidentemente un ‘habitué’ del luogo, si muove con la
disinvoltura di chi non ha nulla da dimostrare, essendo la sua stessa persona la
prova del proprio ‘status’ sociale - oltre al vestiario curato ma non
eccessivamente paludato, si noti il vezzo, tipico degli intellettuali, di recare
sempre con sé uno o più quotidiani (che non saranno naturalmente letti), specie
se si prevede la presenza, nei paraggi, di una telecamera. Sconfortati dal
disinvolto attraversamento del posto di guardia da parte dello sconosciuto, i due
non sanno più che fare, basiti come sono:
- Ahimè, non a noi, bensì a lui, toccherà quel sorso di birra gelata che
sognavamo tu e io, poveri pellegrini, - mormorò mesto Korov’ev. - La
nostra situazione è penosa e difficile, e non so che fare.
Ippopotamo allargò le braccia e si rimise il berretto sulla testa rotonda,
coperta di folti capelli assai simili a pelo di gatto.
Ci troviamo, come la lettrice ed il lettore avranno già compreso da un pezzo, alle
battute finali del romanzo di Michail Bulgakov intitolato - in traduzione italiana,
s’intende, come i passi qui trascritti - “Il Maestro e Margherita”, laddove si tirano
le fila dell’incredibile avventura vissuta in una calda Mosca primaverile degli
anni Trenta del secolo scorso da diversi personaggi, alle prese con Cristo Pilato
Giuda Satana (come recita il sottotitolo del testo medesimo). La nostra coppia
dunque, Korov’ev e il gatto Ippopotamo, ricevono un categorico divieto di
passaggio, che nella narratologia rappresenta un momento compositivo del tutto
ineludibile, allorché l’eroe viene sfidato a superare una prova combattendo con
uno o più antagonisti. Se allora esiste chi si oppone al prosieguo dell’azione,
analogamente e simmetricamente occorrerà introdurre anche il personaggio
avente funzione di aiutante del protagonista stesso: e infatti
In quel momento risuonò una voce non alta ma imperiosa:
- Li lasci entrare, Sofia Pàvlovna.
La cittadina del registro rimase a bocca aperta. Tra il verde della
spalliera erano comparsi lo sparato bianco e la barbetta a punta del
filibustiere che osservava amabilmente i due loschi straccioni ed anzi li
invitava col gesto. L’autorità di Arcibàld Arcibàldovic era indiscussa nel
suo ristorante.
L’Autore distribuisce a piene mani petali di profumata ironia nel delineare la
scena - ma si potrebbe affermare ciò anche per l’intera sua opera, ironia come già
detto classicamente intesa. Qui colui che viene in soccorso dei bisognosi, non a
caso classificati “loschi straccioni” è a sua volta un “filibustiere”, il cui primo
segnale di epifania è, per così dire, l’armatura di cui è rivestito - uno “sparato
bianco” sulla cui sommità compare una “barbetta a punta”.
Ora, codesta articolazione narrativa accomuna l’intera letteratura del viaggio, a
cominciare, unanimemente, dall’itinerario dell’Odisseo omerico, il quale in tanto
esiste in quanto incontra, e si scontra con, un antagonista deciso a sbarragli il
passo: il che accade, per esempio, al pellegrino io narrante della “Commedia”
dantesca. Il cammino di risalita dalla “selva oscura” a “riveder le stelle” per poi
finalmente indiarsi è costellato di oppositori, a cominciare dalle tre fiere, e poi
Caronte, e Minosse, e Cerbero, e Pluto, e le tre Furie, e i diavoli di Malebolge, ed il
pertugio del passaggio sigillato dal corpo del Principe delle Tenebre; come, per
esempio, la triade femminile vuole fare “di smalto” il viaggiatore, così la
compagnia diabolica intende toccare “in sul groppone” il tremebondo allievo
virgiliano. E ancora, Catone, nel secondo regno, subito ad apertura di cantica
eleva una dura protesta per la presenza di abusivi (“Son le leggi d’abisso così
rotte? / o è mutato in ciel novo consiglio, / che, dannati venite alle mie grotte?”);
per non parlare poi di Beatrice … di Beatrice? Sì, di Beatrice (“Purgatorio”, 30, vv.
67-81):
Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continuò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui è l’uom felice?”.
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
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tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
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La regalità della Donna amata, amplificata da quel “proterva” che ne sottolinea il
ruolo di giudice indagatore integerrimo, si colora di una suggestiva ambiguità
semantica, relativa all’interpretazione del verbo “degnarsi” (v. 74), la cui lettura
corrente vale “ritenersi degno”, per cui il senso generale sarebbe il seguente:
“Come ti sei ritenuto degno di accedere alla montagna del Purgatorio? Non
sapevi forse che in questo luogo si trova l’uomo che gode di completa felicità, e
che quindi non è questo il posto per un peccatore come te?”. Viceversa esiste
anche una seconda, e più appagante, possibilità di lettura: “Finalmente sei qui!
Finalmente ti sei degnato di pentirti, intraprendendo il viaggio fino a me? E non
ti vergogni di aver dilazionato così a lungo codesta tua decisione?”: e infatti,
come conseguenza di tali amare parole cosparse di sotterranea ironia, ecco che la
vergogna si dipinge sul volto di Dante (sì, di Dante, così apostrofato nel
medesimo canto pochi versi prima, al n. 55), a tal punto che il coro degli angeli
intona il salmo “In te, Domine, speravi”, come a soccorso della crisi interiore di
lui (“ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre / lor compartire a me, par che se detto /
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’, / lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
/ spirito e acqua fessi, e con angoscia / de la bocca e de gli occhi uscì del petto.”
vv. 94-99). Come si vede, ci troviamo di fronte ad una prova, ad un esame, ad un
momento di difficoltà, rispetto ai quali l’eroe deve dimostrare di essere
all’altezza, di possedere le qualità sufficienti per andare oltre, e proseguire. Una
verifica, insomma, di “virtus”, il tratto distintivo del “vir”, l’uomo che davvero tale
voglia essere; ebbene, è il medesimo protagonista del testo a volersi sottoporre
ad inchiesta (“Inferno”, 2, 10-12):
Io cominciai: ‘Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
pria ch’a l’alto passo tu mi fidi’.
Ecco la doppia identità di Virgilio, guida ed esaminatore insieme, a guisa di
professore universitario relatore di tesi di laurea rispetto al proprio allievo: il
suo ruolo è appunto bifronte, come ogni guida che si rispetti (la Circe odissiaca è
esemplare sotto questo riguardo: prima è antagonista dell’eroe nel metterlo alla
prova con il tentativo di sottoporlo a metamorfosi animalesca, poi consegna a lui
la mappa del ‘nostos’, del ritorno). Ed il contraltare della “virtù” sarà, al v. 45,
“viltade”, in piena semantica di filiazione classica: che sia un problema di tessera,
come nell’esilarante dialogo bulgakoviano di cui sopra? Sicuramente non pochi
pretendono da Dante, nel corso del “poema sacro”, l’esibizione del
lasciapassare; quanto al distintivo di scrittore (casomai, egli avrebbe potuto
mostrare il patentino rilasciato dalla Corporazione dei Medici e degli Speziali,
casomai…), glielo ha già rilasciato una commissione di cinque professori, e che
professori! (“Inferno”, 4, 85-102):
Lo buon maestro cominciò a dire:
‘Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene’.
Così vid’ i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra gli altri com’ aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
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Ecco dunque la presentazione della lista dei classici, quegli autori che per Dante
Alighieri costituiscono imprescindibile bagaglio culturale e per sé e per il lettore:
Omero (conosciuto nel Medioevo quasi esclusivamente in traduzione latina),
Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, che vengono ritratti in tre tempi. Dapprima,
mentre conversano a bassa voce fra di loro, esattamente come i membri di un
consesso che è chiamato ad esprimere una sentenza, in primo luogo;
successivamente, trovato l’accordo all’unanimità, esprimono al laureando ultimo
arrivato il loro gradimento, suscitando un sorriso di compiacimento nel
presentatore-mallevadore; infine la proclamazione dell’aspirante a poeta a tutti
gli effetti, “sesto” della fila, consapevole della propria autorità e valore, che
poggiano saldamente sulle spalle dei cinque.
Ora, sia concesso anche a chi scrive queste note uno spazio personale, partendo
proprio da Virgilio. La scena della prima “Bucolica” è occupata da due pastori, il
primo dei quali, Melibeo, è in partenza per l’esilio essendogli state confiscate le
terre dai Triumviri, mentre Titiro, il secondo, può mantenere beato il proprio
stile di vita, perché esentato dal funesto provvedimento del 42-41 a.C., grazie alla
protezione di cui gode in alto loco. Bene: Titiro, nel rispondere alla domanda
dell’ormai ex-compagno circa l’identità di codesto “deus” preservatore della
proprietà privata, risponde che la città in cui Egli abita lui non la sapeva così
tanto grande, perché abituato a ragionare con capretti simili alle madri, e con
agnelli simili alle pecore, per cui (v. 23):
… sic parvis componere magnis solebam
“così era mia abitudine paragonare il piccolo al grande”.
Ebbene, chiedendo pure io venia perché desidero accedere al medesimo
strumento, mi auguro che non venga chiesta pure a me la tessera - nel mio caso
non quella di scrittore, bensì di storico della letteratura italiana, ovvero, ancora
peggio per me, di dantista (al massimo potrebbe essere mostrata la patente di
guida, alle scadenze di legge regolarmente rinnovata…). Se dovessi fornire una
possibile autodefinizione, mi considererei semplicemente un lettore: e dunque
in qualche modo autorizzato dall’Autore stesso ad accostarmi alle sue pagine
immortali con l’esperienza maturata in non pochi anni di consultazione dei
classici. Un lettore, quale quello apostrofato dal pellegrino Dante medesimo in
numerose occorrenze, tre nella grafia estesa, e, con quella tronca, tredici; e,
infine, come accostarsi alla sua scrittura lo insegna lui stesso (“Paradiso”, 10, 2127):
Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’io son fatto scriba.
-------------Le citazioni in apertura provengono da Michail Bulgakov, Il maestro e
Margherita, traduzione dal russo di Maria Olsoufieva, Garzanti, Milano, 1973, pp.
368-9.
I rinvii alla “Commedia” sono tratti dalla seguente edizione, che riproduce il testo
critico stabilito da Giorgio Petrocchi per l’edizione della Società Dantesca
Italiana: “La Divina Commedia di Dante Alighieri” a cura di Tommaso Di Salvo,
Zanichelli, Bologna, 1987.