RAVENSBRUCK “ Ravensbruck, […] è una delle

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RAVENSBRUCK “ Ravensbruck, […] è una delle
RAVENSBRUCK
“ Ravensbruck, […] è una delle città concentrazionarie più giovani della Germania nazista ed è l’unico Lager
esclusivamente femminile.
[…] E’ stata costruita all’inizio del ‘39 da un Kommando di deportati, cinquecento circa, provenienti dal
campo di Sachsenhausen, in una località a 4 chilometri dalla piccola cittadina di Furstenberg, nel
Meklenburg, 80 chilometri a nord di Berlino. Il terreno scelto per il Lager femminile è formato da dune
sabbiose, circondate da foreste di conifere e betulle, sulle rive del lago di Furstenberg.
In pochi mesi i deportati di Sachsenhausen, quasi tutti politici antinazisti obbligati a lavorare per
“rieducarsi”, costruiscono il muro di cinta, le torrette d’osservazione per le sentinelle, sedici baracche
dormitorio, i servizi essenziali, e montano i fili spinati con la corrente elettrica.
Le prime deportate, 867, arrivano a Ravensbruck il 13 maggio. Sono tutte tedesche, eccettuate sette
austriache, e per la maggior parte sono deportate per motivi politici. Alcune sono in carcere fin dal ’33. Sono
comuniste, socialdemocratiche, antinaziste in genere, o anche appartenenti alla setta dei Testimoni di Geova,
setta pacifica e quindi contraria al regime della violenza. Mescolate alle politiche vi sono anche prigioniere
condannate per reati comuni. A queste delinquenti comuni sono riservati la responsabilità
dell’organizzazione interna del campo e i posti di comando.
Lo scopo del campo, all’inizio, è quello di “rieducare” le antinaziste, di qualunque ideologia o partito esse
siano, e la “rieducazione” , secondo i nuovi pedagogisti del Terzo Reich, si ottiene attraverso un duro
allenamento all’ordine, alla pulizia, alla disciplina e al lavoro. Ordine, disciplina, pulizia, lavoro diventano
per le deportate i primi strumenti di tortura. Nei Block, baracche di legno tutte uguali destinate ad abitazione
per le prigioniere, anche i letti a castello sono tutti uguali, ricoperti con il medesimo lenzuolo a quadretti
bianchi e blu, ogni armadio è uguale all’altro, ogni asciugamano pende piegato allo stesso modo, la gamella
e il bicchiere di alluminio, che devono brillare come specchi, sono sistemati nello stesso posto. E’ obbligo
lavare il pettine ogni giorno e posarlo sempre nello stesso luogo, è obbligo mantenere la pulizia più rigorosa:
su nessun oggetto deve essere visibile l’impronta delle dita. Gli sgabelli devono essere allineati al centimetro,
il pavimento, lavato, in ginocchio, più volte al giorno, i letti rifatti con una precisione assoluta e ben
squadrati come tanti parallelepipedi.
[…] Il lavoro, essendo “rieducativo” è quasi sempre lavoro inutile […] Ogni infrazione al regolamento è
punita, anche una macchia sul tavolo […] Le punizioni vanno dagli schiaffi ai colpi di frustino, ai
venticinque colpi di bastone sulla schiena.
[…] Il 1941 è un anno importante per la guerra di espansione tedesca: il fronte si allarga, la manodopera
comincia a scarseggiare in Germania, mentre l’industria bellica, al contrario, ha bisogno di un maggior
numero di lavoratori per far fronte alle richieste. L’organizzazione delle SS, da cui dipendono i Lager, scopre
che il lavoro rieducativo può diventare allo stesso tempo lavoro produttivo. Un accordo economicocommerciale si stabilisce tra l’industria tedesca e l’amministrazione SS dei campi, che in questo modo si
assicura larghi profitti sfruttando opportunamente il lavoro dei prigionieri. Le deportate di Ravensbruck già
nel 1941 sono affittate alle industrie della guerra e alle fattorie dei dintorni…[…]
Ravensbruck è stato costruito per 6.000 persone, ma dall’ottobre del ’41, secondo la maggior parte delle
fonti, vi sono già 10.000 internate.
[…] La prima selezione avviene nell’inverno ’41-‘42: 1.600 donne invalide al lavoro o malate sono inviate a
Bernburg, […] e vengono gassate. E’ il primo “trasporto nero”; così verranno chiamati in seguito i trasporti
destinati al gas, allo sterminio.
[… ] Lo scopo prevalente dei campi è, da questo momento, economico. […] In conseguenza di questo nuovo
indirizzo le ore lavorative nelle fabbriche di Ravensbruck superano le 12 ore al giorno, i ritmi aumentano, se
ancora è possibile, la razione di viveri diminuisce. […] Tutti questi Lager tendono a diventare campi di
sterminio per mezzo del lavoro.
[…] La Siemens, che produce materiale di alta precisione per l’industria bellica, costituisce fin dal ’42 una
filiale alla periferia del campo, subito fuori del muro di cinta, e si serve esclusivamente della manodopera
delle schiave di Ravensbruck.
Sempre nel ’42 si iniziano a Ravensbruck esperimenti chirurgici su cavie umane.
All’inizio del ’43 arrivano numerosi trasporti soprattutto della Russia. […] Nel ’43 nel campo ci sono circa
18.000 prigioniere. Le condizioni della vita quotidiana si aggravano: la razione di viveri diminuisce ancora,
mancano i posti letto.
Il ’44 si inizia con un “trasporto nero” di circa 1.000 donne…
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Arriva anche, il 30 giugno, il primo trasporto di italiane, quattordici in tutto, il nostro.
[…] Al momento dell’arrivo in campo nessuna di noi conosce la realtà concentrazionaria.
[…] Nessuna persona normale può immaginare l’aspetto di una città concentrazionaria, una città concepita,
studiata e strutturata apposta per violentare la persona, per umiliarla, per distruggerla, per renderla bestia.
[…] Il cerimoniale dell’arrivo in campo si ripete con monotona precisione, d’estate come d’inverno e per
tutti i trasporti. Incomincia con una sosta d’attesa che dura fino al mattino successivo.[…]
Il mattino le deportate devono spogliarsi nude, ammucchiare insieme gli effetti personali ed entrare con tutto
il bagaglio in un ufficio. Qui un’impiegata prigioniera elenca ogni oggetto, meticolosamente, su un foglio: il
denaro, i valori, i gioielli, le lettere, le fotografie sono chiusi in una busta, e subito la busta prende la strada
dell’ignoto; gli indumenti e gli altri oggetti sono messi in un sacco che scompare anch’esso. Così sparisce il
passato, spariscono i ricordi, insieme con tutto quello che lega al mondo esterno. Nude, senza più niente, le
deportate varcano una seconda porta, subiscono una seconda violenza sulla persona: sono frugate, rapate, a
volte, perquisite nelle parti più intime dove qualcosa può essere nascosto, poi avviate alle docce e quindi
spinte all’esterno, ad asciugarsi al sole o sulla neve, in attesa di ricevere la divisa che le fa cittadine del
campo.
[…] Anche nella città concentrazionaria “l’abito fa il monaco”, l’abito indica la condizione sociale, la classe
sociale a cui la deportata appartiene. Oltre all’abito (divisa a righe grigie e blu durante i primi anni di
funzionamento del campo; nel ’44 è già un lusso, per cui le prigioniere sono rivestite con stracci), la deportata
riceve come corredo una camicia, un paio di mutande, un paio di scarpe, di ciabatte o di zoccoli, un
tovagliolo a quadretti grigi e blu. Per l’abbigliamento non si fa questioni di numeri o taglie. Le scarpe
possono avere tacchi diversi, possono essere due destre o due sinistre, purché siano due.
[…] Il primo cibo che vediamo … è una brodaglia dolciastra, molto liquida e dobbiamo mangiarla senza
cucchiaio…Il leccare la minestra come i cani avvilisce, fa sentire bestie più di molte altre cose. E’ una
sofferenza soprattutto psichica.
[…] L’appello del mattino è una delle tante torture non torture del campo. […] Si svolge per tutta la durata in
posizione di attenti, sotto la pioggia, la neve o il vento. All’appello è proibito muoversi, parlare con le
compagne, accoccolarsi quando le gambe non reggono più, battere i piedi per scaldarsi, appoggiarsi schiena
contro schiena per sostenersi, avere il petto coperto con un pezzo di carta rubata per difendersi dal freddo.
[…] Il cervello si svuota, le gambe si gonfiano, i piedi fanno male, dolori atroci corrono per tutta la schiena,
per tutti i muscoli.
[…] Come italiane siamo isolate da tutti gli altri trasporti, e impariamo a nostre spese che cosa vuol dire
essere cittadine di uno stato fascista.
[…] Il pericolo maggiore all’inizio è accettare passivamente il mondo del disumano, lasciarsi andare,
rinunciare anche alla lotta per la sopravvivenza, e noi italiane siamo nelle condizioni ideali per cedere subito.
[…] Il campo al nostro arrivo, il 30 giugno del ’44, ha già una popolazione tre volte superiore alla sua
capacità di ricezione. […] Ravensbruck si trova con migliaia e migliaia di schiave in eccedenza, che non sa
dove collocare, né dove utilizzare.
Si forma così in campo una classe sociale che prima non esisteva, o che esisteva solo in modo irrilevante: il
sottoproletariato. Una classe miserabile, sporca, pidocchiosa, coperta di stracci; ammassata negli ultimi
blocchi, nutrita sempre peggio, se ancora è possibile, essa è destinata in brevissimo tempo a diventare
materiale da distruggere, da eliminare.
Le italiane in campo all’inizio fanno tutte parte del sottoproletariato.
Fanno parte a sé, non sono inquadrabili in una classe sociale precisa, i neonati e i bambini. A
Ravensbruck ci sono neonati e bambini. I primi nascono qui da donne che arrivano incinte, gli altri vi
giungono dai paesi d’origine con le madri. Al Revietr (ospedale) c’è una sala parto. Veramente, all’inizio,
quando il campo ospita solo tedesche da rieducare, la sala parto non c’è. Le deportate che arrivano incinte
lavorano fino all’ultimo giorno e al momento del parto sono accompagnate all’ospedale di Templin dove
mettono al mondo un figlio che non vedranno mai e quindi sono riportate in Lager. Il neonato è affidato ad
un’organizzazione nazista per l’infanzia, che si incarica di fare di lui un buon esemplare della Hitlerjugend.
[…] Quando, nel ’42, lo scopo del campo diventa il rendimento.[…] le donne incinte sono obbligate ad
abortire… L’aborto è applicato fino all’ottavo mese…
[…] Nel ’43, in seguito all’arrivo di un nuovo direttore sanitario SS, il dottor Treite, il regolamento che
riguarda le donne incinte viene ancora modificato. Le gestanti possono continuare la gravidanza e partorire,
ma i neonati appena vengono messi al mondo sono anneganti o strangolati davanti alla madre. Alla fine dello
stesso anno Triete cambia ancora disposizioni: i neonati possono vivere, ma nulla è predisposto per
permetterne la sopravvivenza. La morte di questi bambini sopraggiunge sempre dopo pochi giorni…
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Nel settembre ’44, in pieno caos, il destino dei neonati di Ravensbruck cambia per l’ennesima volta. Al
blocco 11, su ordine di Treite, viene allestita una piccola camera, la Kinderzimmer, con quattro letti, un
tavola, una stufa, e due ceste per i bambini più malati. […] Nonostante la dedizione delle infermiere per
strappare alla morte almeno qualcuno dei neonati, quasi tutti soccombono nel volgere di poche settimane, di
due mesi al massimo. […] Solo pochissimi, una quindicina in tutto, per uno di quegli strani casi inspiegabili
con le regole del sistema concentrazionario, riescono a salvarsi.
[…] Come mai il sistema, soprattutto negli ultimi mesi, abbia talora permesso ai neonati di vivere è uno dei
tanti punti interrogativi della vita concentrazionaria.
[…] Togliere di mezzo, far sparire dalla circolazione, distruggere gli inutili rientra nelle regole
concentrazionarie.
Quello che invece non rientra nell’ottica nazista è la deportazione, è la presenza in campo, come popolazione
stabile, di molti bambini.
[…] In realtà in campo non esiste la categoria bambini: sono numeri come noi e devono comportarsi come
noi, vivere nelle nostre condizioni, e, di solito, se appena grandicelli, produrre e morire di lavoro come noi.
[…] Ho conosciuto un bambino, al blocco 24, biondo, con la testa rapata e con un vestito che gli cadeva
addosso. Aveva forse quattro anni, non parlava e non capiva nessuna lingua. Era un bambino che non aveva
nome, e come noi portava un numero e un triangolo rosso – politico- sul petto. Non l’ho mai visto piangere e
non l’ho mai sentito lamentarsi. Veniva all’appello e poi correva a nascondersi nel blocco. Di notte si
accucciava nel letto e cercava posto fra le braccia di qualcuna di noi. L’ho visto per una quindicina di giorni,
poi è scomparso.
Ho visto un bambino al Revier, uno zingaro. Aveva forse tre anni e l’avevano ricoverato insieme con un
trasporto intero di zingare per una rara forma di tifo. Le forme rare di qualsiasi malattia erano studiate e
prese in considerazione. Durante la convalescenza veniva al centro della camera, tutto nudo, con una collana
di medagliette al collo e cantava e ballava per noi, poi stendeva la manina nuda e chiedeva qualcosa: aveva
fame. Aveva il viso dolce e gli occhi spenti. Stava perdendola vista, come tutte le donne del suo trasporto.
[…] Con l’estate del ’44 la situazione dei campi dell’Ovest subisce un cambiamento improvviso.
La rapida avanzata dell’armata sovietica in territorio polacco costringe i nazisti a trasferire i deportati dai
campi dell’Est per non correre il rischio di doverli abbandonare nelle mani dei russi che avanzano.
[…] L’esodo dei deportati dai campi dell’Est a quelli dell’Ovest segue a breve distanza le sconfitte che
mettono in crisi l’esercito nazista: lo sbarco in Normandia, la liberazione di Roma, l’avanzata sovietica in
Polonia, la caduta di Varsavia, e coincide con azioni di rappresaglia, con arresti e deportazioni in massa di
resistenti in tutta Europa.
A Ravensbruck arrivano nuovi trasporti dall’Italia, dalla Francia, dalla Grecia, dalla Jugoslavia.
[…] Arrivano fra il 2 e il 30 agosto 14.000 polacche da Auschwitz e subito dopo alcune migliaia di donne
evacuate da Varsavia che, ingannate dalla propaganda nazista, per sfuggire all’armata sovietica seguono
volontariamente l’esercito tedesco con tutti i loro beni trasportabili – denaro, gioielli, oggetti d’arte, pellicce
– e sono portate –dai loro amici – a Ravensbruck, spogliate di tutti gli averi e cacciate come bestie sotto
un’enorme tenda militare, perché nei blocchi non c’è più spazio.
La tenda, eretta come riparo di emergenza all’interno del campo, fra il blocco 24 e il blocco 26, su uno
spiazzo che in teoria avrebbe dovuto essere occupato dal blocco 25 e che in realtà non è mai stato usato per
tale scopo perché umido, paludoso e inadatto a qualsiasi tipo di costruzione, diventa il secondo mezzo di
sterminio usato a Ravensbruck. In questo periodo infatti si interrompono i trasporti neri, perché quasi tutte le
camere a gas dell’Est non funzionano più. La tenda eretta in fretta e furia, senza letti nè senza servizi
igienici, inghiotte una marea di donne – le polacche e le altre – sfinite dal viaggio, sporche, pidocchiose,
assetate e affamate. Scoppiano le epidemie, e la dissenteria, malattia endemica del campo, miete più vittime
della camera a gas; il forno crematorio viene potenziato con una terza bocca. La tenda – strumento di
sterminio per morte naturale – funziona per tutto l’autunno. C’è ancora quando, il 4 dicembre, sono trasferita
al sottocampo della Simens.
[…] Per mesi ho visto le deportate sparire sotto quell’immensa cupola, ho visto i cani da guardia, le
Aufseherein (sorveglianti femminili SS) e le Lagerpolizei che impedivano a tutte noi di avvicinarci, neanche
per portare un po’ d’acqua, ho sentito le urla e i lamenti delle rinchiuse. […] Nessuno è in grado di dire
quante vittime abbia fatto la tenda, mille volte più tragica, mille volte più micidiale dei trasporti neri.
[…] Il 26 aprile il primo gruppo di deportate, fra cui molte italiane, inizia l’evacuazione attraverso le strade
della Germania sconvolta e distrutta. […] Il 30 aprile le truppe sovietiche liberano il campo…”
Da “Le donne di Ravensbruck” di Lidia Beccarla Rolfi e Anna Maria Buzzone – Einaudi editore
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