CAROLA RICCI Sappiamo cosa mangiamo? Il diritto a un cibo
Transcript
CAROLA RICCI Sappiamo cosa mangiamo? Il diritto a un cibo
5 marzo 2015, ore 17.00 CAROLA RICCI Università degli Studi di Pavia Sappiamo cosa mangiamo? Il diritto a un cibo “adeguato” per le generazioni future La tutela effettiva del diritto ad un’alimentazione non solo quantitativamente sufficiente e accessibile ma anche sana e di qualità è un’esigenza che si è imposta con crescente urgenza negli ultimi decenni, parallelamente alla crescita della popolazione e a una contestuale accresciuta pressione sulle risorse disponibili alle quali si sono affiancate sempre più frequenti illecite pratiche di contraffazione registrate lungo l’intera filiera agro-alimentare (dalla produzione alla distribuzione al dettaglio) dannose alla salute umana e animale oltre che all’ambiente. Inoltre, la globalizzazione degli scambi internazionali ha reso drammaticamente chiaro quanto la produzione e l’immissione in commercio di alimenti non sicuri possano essere pregiudizievoli non solo per i diritti dei consumatori ma anche per lo sviluppo di una concorrenza leale tra imprese che competano sul mercato agroalimentare nel rispetto delle regole di diritto internazionale e dell’Unione europea. Particolarmente esemplificativo in tal senso è il caso (purtroppo non ultimo registrato in ordine di tempo) del latte in polvere contaminato dalla melammina posto in commercio nel 2008 da un’impresa cinese che, utilizzando il marchio della Sanlu, una multinazionale australiana, ha venduto il prodotto in Cina e in Africa per l’alimentazione neonatale (causando gravi lesioni, anche letali, a neonati), oltre che in Europa sotto forma di composto per il confezionamento di prodotti derivati (biscotti, torte e quant’altro). La sostituzione delle proteine nobili (ma costose) del latte con una sostanza chimica a basso costo difficilmente identificabile dalle analisi chimiche di routine svolte dalle autorità di controllo era finalizzata principalmente a produrre con la frode un profitto meramente economico causando diversi e ulteriori danni. Una stessa condotta fraudolenta ha causato dunque danni alla salute pubblica nazionale e internazionale; ha leso i diritti di informazione dei consumatori finali e delle loro famiglie; ha violato i diritti di proprietà industriale di una società multinazionale e arrecato danni alla sua immagine; ha posto in essere condotte anticoncorrenziali (concretatesi nell’offerta sul mercato internazionale di un prodotto presentato come qualitativamente identico a un prezzo inferiore); ha inciso negativamente sulle risorse finanziarie di tutti i soggetti pubblici e privati coinvolti. Il caso Sanlu rende chiaramente l’urgenza di trovare soluzioni integrate a diversi livelli (globale, regionale, nazionale) in ambiti apparentemente distinti (giuridico, economico, geopolitico) ma in realtà profondamente connessi l’uno all’altro. La complessità della materia si riflette nella difficoltà di coordinare i molteplici interventi di regolamentazione che caratterizzano il settore. Ciò è il portato tra l’altro di un accentuato grado di confusione nella ripartizione delle competenze e delle responsabilità degli organi coinvolti, a cominciare dalla attribuzione della funzione di determinazione dei livelli di sicurezza accettabili e dunque del rischio ammissibile. Troppo spesso non è chiaro chi decida effettivamente lo standard e il livello di rischio adeguato, se l’esperto, lo scienziato o chi detiene l’autorità politica. Il difficile rapporto tra scienza e diritto può inoltre essere gestito secondo diversi modelli in cui i soggetti pubblici non sono necessariamente i protagonisti esclusivi: prova ne è la notevole diffusione di standard di autoregolamentazione privata in questo settore. Sulla scorta di queste e altre simili constatazioni è sorta l’idea di organizzare una ricerca che affrontasse la questione della sicurezza alimentare sotto diverse angolazioni e a diversi livelli: così è stato ideato il Progetto denominato con l’acronimo di S.AL.TU.M. (Sicurezza Alimentare – Tutela Multilivello), più precisamente intitolato «La tutela multilivello del diritto alla sicurezza degli alimenti: strumenti nazionali e internazionali per contrastare le frodi alimentari e il loro impatto sul territorio (Multilevel protection of food safety rights. Domestic and transnational tools against food frauds and their territorial impact)». Esso ha riunito intorno al tema quattro unità principali dell’Università degli Studi di Pavia (in funzione di coordinatore), dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e dell’Università C. Cattaneo – LIUC. Il gruppo di ricerca ha inteso sviluppare con un approccio interdisciplinare le molteplici implicazioni giuridiche, economiche e statistiche della governance e del diritto alla sicurezza degli alimenti da realizzarsi nel rispetto di uno sviluppo effettivamente sostenibile. Sono stati analizzati, infatti, in modo trasversale, l’insieme degli strumenti forniti dal diritto internazionale pubblico e degli scambi internazionali, dal diritto europeo istituzionale e sostanziale e dal diritto nazionale, sia in un’ottica comparata sia come risultato dell’applicazione delle norme di diritto internazionale privato. Adottando un’impostazione innovativa, il Progetto ha inoltre misurato con strumenti quantitativi attinenti alle scienze statistiche ed economiche le dimensioni rilevanti sottostanti alla qualità dell’alimentazione, valutando i principali rischi connessi alle frodi alimentari ma anche le ricadute sulla reputazione di marchi e certificazioni di qualità agroalimentari agli occhi dei consumatori. Ne è risultato un concetto molto ampio di sicurezza alimentare intesa come «safety» da riferire non solo a ciò che non è nocivo alla salute fisica di persone e animali ma anche a quanto corrisponde ad altri importanti standard qualitativi (obbligatori e non); un concetto più vicino in effetti alla nozione di «qualità» che abbraccia una più ampia cerchia di valori ed esigenze, a volte difficilmente valutabili in termini monetari, quali la corrispondenza a dettami religiosi, a modelli sociali e culturali ancestrali, a esigenze di lealtà nei traffici e nei rapporti commerciali (business to consumer e business to business). Si tratta di requisiti di «adeguatezza» del cibo in senso lato, validi per il singolo individuo ma anche per generazioni intere, presenti e future. Tale impostazione si giustifica bene alla luce della concezione dei diritti umani (tra cui il diritto al cibo) come un fascio indistinguibile di prerogative riconducibili a tutti gli elementi costituivi di ogni individuo considerato nel suo complesso. La stessa divisione in generazioni dei diritti umani è per lo più una distinzione convenzionale, che certamente risulta utile nella ricostruzione storica dell’avvicendarsi delle fonti internazionali che li hanno riconosciuti ma altrettanto non deve inficiare in alcun modo il loro carattere universale, indivisibile e interdipendente. Ciò risulterà chiaro da una breve presentazione delle fonti giuridiche da cui si può trarre il diritto ad un cibo qualitativamente adeguato, la cui realizzazione sia sostenibile per tutti gli individui senza discriminazione di sesso, condizione sociale, religione e tradizioni culturali. L’analisi condurrà a individuare i soggetti obbligati a proteggere e rendere effettivo tale diritto: in primo luogo gli Stati a cui però vanno aggiunti, secondo un’interpretazione più recente, anche le multinazionali, spesso in grado di imporre metodi di produzione e di vendita dannosi per la salute e l’ambiente e non rispettosi di diversità culturali e religiose, come confermato in alcuni casi recenti decisi dalla Corte interamericana dei diritti umani.