Rassegna Stampa

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE INDUSTRIALI PRIVATI GAS E SERVIZI ENERGETICI
Rassegna stampa
6 Marzo 2015
Piazza Luigi di Savoia 22 – 20124 Milano – Tel. 027381079 – Fax 02733342 – [email protected] – www.assogas.it
Sommario
Sommario
IL SOLE 24 ORE .................................................................................................................................... 2
La diplomazia della visibilità............................................................................................................. 2
Pozzi in fiamme in Iraq e combattimenti in Libia non risollevano il petrolio .............................. 2
CORRIERE DELLA SERA ....................................................................................................................... 3
I timori dei nostri manager «Perso il lavoro di anni» ...................................................................... 3
LA REPUBBLICA ................................................................................................................................... 4
Il Made in Italy spera nella ripresa "Troppi danni se soffre Mosca" ............................................. 4
IL VENERDI’ DI REPUBBLICA................................................................................................................ 4
Elettricità e gas. Il mercato libero convince pochi, ma............................................................... 4
LA STAMPA .......................................................................................................................................... 5
Meno vendite e prezzi in discesa per lo Zar il gas è un'arma spuntata..................................... 5
MF......................................................................................................................................................... 6
Col petrolio basso i produttori investono meno. Per chi consuma la festa potrebbe finire
presto................................................................................................................................................... 6
AVVENIRE ............................................................................................................................................ 7
L'oro nero adesso vale poco. E l'Africa torna in sofferenza. ....................................................... 7
IL MATTINO .......................................................................................................................................... 8
Il premier: in Libia Putin sarà decisivo ............................................................................................. 8
INTERNAZIONALE ................................................................................................................................ 9
Gli algerini in piazza contro il fracking ............................................................................................ 9
STAFFETTA QUOTIDIANA .................................................................................................................. 10
La scelta di Berlino ........................................................................................................................... 10
QUOTIDIANO ENERGIA .................................................................................................................... 11
Entso-E: "Cambiare l'interfaccia tra Tso e Dso" ............................................................................ 11
Effetti sentenza Robin tax, si attendono informazioni in Senato ............................................... 12
La Commissione Ue conferma: "La Russia può usare il Tap"...................................................... 12
Hera, addio tetto 50% Comuni. “Ora nuove fusioni” ................................................................. 12
Digitalizzazione accise, convocato il tavolo tecnico ................................................................ 13
Goldman Sachs: Gnl seconda commodity dopo il greggio .................................................... 13
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Sommario
IL SOLE 24 ORE
Complessodi Crimea. I prezzi pagati dall'Italia per la tradizione di entrare in missioni senza
contropartite
La diplomazia della visibilità
Alberto Negri
Ci sono eredità pesanti e la Libia è una di queste. La nostra politica estera, come dimostrano le
dichiarazioni dei protagonisti, è confusa, da cappello in mano: ma cosa chiede l'Italia alla Russia?
In Libia Mosca sostiene l'Egitto cui vende armi a profusione, come del resto la Francia con i caccia
Rafale. Il presidente del Consiglio è andato al Cairo, seguito da altre delegazioni, per firmare
qualche contratto ma gli egiziani in Libia e Cirenaica fanno i loro interessi non i nostri,
appoggiandosi ai loro alleati interni (Khalifa Haftar) e internazionali in una lotta interna al mondo
sunnita contro i Fratelli Musulmani, a loro volta sostenuti da Turchia e Qatar e dal governo di Tripoli.
Per questo l'Isis è ancora lì e ne approfitta. I richiami del governo all'Onu e al multilateralismo
paiono piuttosto vani, una foglia di fico davanti a una guerra civile e per procura dove l'Italia non
ha uno schieramento e un obiettivo, se non quello di mantenere aperti i rifornimenti di gas dalla
Tripolitania. Paghiamo il 2011 e l'errore di avere dato supinamente le basi Nato partecipando alla
guerra contro Gheddafi senza contropartite di alcun genere: né energetiche né sulla sicurezza. Era
già accaduto con l'Afghanistan e l'Iraq: cosa abbiamo ricavato da quelle sanguinose e costose
missioni? Nulla. E ora rifacciamo lo stesso errore con l'Ucraina: che cosa ha in cambio l'Italia
nell'appoggiare l'invio dei parà americani a Kiev? Le sanzioni a Russia, Iran e il caos libico costano
alla nostra economia almeno 100 miliardi di dollari di mancati affari. Come nell'800 la politica
estera italiana ha mirato a una costante ricerca di visibilità internazionale entrando in spedizioni
multinazionali insensate. Allora veniva definito il "complesso di Crimea": memori dei successi
conseguiti con quelle iniziative militari i governi italiani mandarono le forze armate in missioni in cui
non avrebbero ricevuto benefici immediati ma vantaggi di ordine politico generale. Oltre
cent'anni dopo siamo qui a fare il bilancio di una "politica di prestigio" fallimentare. Non abbiamo
punti forza sui cui fare leva, se non chiedere all'Unione europea un maggiore impegno che i Paesi
del Nord Europa non vogliono sostenere. Ecco come in Libia abbiamo combattuto una guerra che
pure non volevamo, e in violazione dei trattati firmati con Gheddafi, di cui paghiamo adesso
salate conseguenze.
Energia. La libica Noc dichiara «forza maggiore» per 11 giacimenti
Pozzi in fiamme in Iraq e combattimenti in Libia non risollevano il petrolio
Il gas di Tripoli per ora arriva, problemi da Nord Europa
Sissi Bellomo
Pozzi di petrolio dati alle fiamme dai guerriglieri dell'Isis in Iraq e stato di forza maggiore per undici
giacimenti in Libia non sono bastati a far correre le quotazioni del greggio, che - con il dollaro
debole e gli Stati Uniti ben decisi a negoziare un accordo con l'Iran - hanno vissuto la solita
giornata volatile, ma con variazioni modeste. Alla fine il Brent ha chiuso stabile a 60,48 $/barile e il
Wti ha perso l'1,5% a 50,76 $. Sia le vicende irachene sia quelle libiche hanno in teoria un potenziale
rialzista. Finora lo Stato Islamico non aveva distrutto, ma solo sequestrato giacimenti petroliferi, al
fine di sfruttarli per autofinanziarsi. Gli impianti di Ajil, a 35 km da Tikrit, sarebbero stati incendiati per
oscurare col fumo la visuale alle truppe sciite che preparavano un attacco. I pozzi erano fuori dal
controllo di Baghdad dallo scorso giugno e probabilmente avevano rallentato la produzione
rispetto al potenziale di 25mila barili al giorno di greggio (più 150 milioni di metri cubi di gas). Anche
in Libia le milizie islamiche hanno seminato il caos nell'industria petrolifera, tanto da spingere la
National Oil Company (Noc) - essa stessa contesa tra i governi rivali di Tripoli e Tobruk - a dichiarare
lo stato di forza maggiore per 11 giacimenti nelle regioni centrali del paese. Tra questi figurano
Mabrouk e Bahi, da poco finiti in mano a guerriglieri vicini all'Isis. Il ricorso alla clausola di forza
maggiore è un passaggio tecnico, che libera Noc dagli obblighi di consegnare petrolio ai clienti,
perché impossibilitata da eventi fuori dal suo controllo: in questo caso, ha specificato la
compagnia, il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza dopo i ripetuti attacchi a giacimenti e porti.
La decisione potrà essere materia di contese legali, ma non avrà probabilmente impatti rilevanti su
un mercato petrolifero tuttora afflitto da un eccesso di produzione e comunque abituato alla
scarsità e all'incertezza delle forniture libiche. Dai giacimenti in questione, nessuno dei quali è
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Sommario
partecipato da Eni, si estrae in prevalenza petrolio e il gas libico acquistato dall'Italia proviene dalle
regioni orientali del paese, dove la situazione è più tranquilla. Libia a parte, per gli
approvvigionamenti di gas non mancano comunque motivi di inquietudine. A pochi giorni
dall'accordo mediato dalla Commissione europea, Gazprom è già tornata a minacciare
un'interruzione delle forniture all'Ucraina, affermando che il prepagamento di 15 milioni di $
appena versato da Kiev basterà si e no per rifornirla fino a mercoledì mattina. Intanto i flussi dalla
Norvegia, decisamente ballerini quest'anno, si stanno di nuovo riducendo: un fermo imprevisto al
giacimento Gudrun e un guasto a una conduttura costringeranno a tagliare temporaneamente la
produzione di 14 milioni di metri cubi. L'Europa sta anche sopportando una riduzione di un quinto
delle forniture dall'Olanda, dove il governo ha imposto di frenare l'attività nel maxigiacimento di
Groningen, sospettato di provocare terremoti. E dall'Algeria - che una decina di anni fa era il primo
fornitore dell'Italia, con più di 25 milioni di mc/giorno - dal 2013 continuano ad arrivare nella
penisola non più di 7 milioni di mc al giorno.
CORRIERE DELLA SERA
I timori dei nostri manager «Perso il lavoro di anni»
Il capo del governo incontra i rappresentanti delle aziende italiane che chiedono «discontinuità»
rispetto alla nuova Guerra fredda. Gli ultimi mesi hanno visto una inversione di rotta decisa
dell'interscambio. Anche con la crisi, la Russia non cancella i programmi di investimenti
Fabrizio Dragosei
Rapporti economici quasi in caduta libera, con l'export italiano che è crollato nel mese di gennaio
del 37 per cento. L'analisi più stringata è di Antonio Fallico, esperto economico che si occupa di
queste cose da decenni: «Si è annullato in poco tempo il lavoro che le nostre imprese hanno fatto
in tanti anni». Nel giorno della visita del presidente del Consiglio Matteo Renzi, gli imprenditori e i
manager italiani che lavorano in Russia spiegano che la situazione è veramente seria, ma che non
tutto è perduto. Come dice ancora Fallico, «i margini per ripartire ci sono» . Certo, le sanzioni
europee e le contro-sanzioni russe che hanno colpito in buona parte settori nei quali l'Italia è molto
presente (come l'agro-alimentare) rimangono in vigore. E potrebbero anche essere inasprite se le
cose non andassero per il verso giusto; se l'accordo di Minsk continuasse a non essere applicato in
pieno. «Ma i colloqui moscoviti del capo del governo italiano sono già un segnale molto positivo»,
spiega Aimone di Savoia-Aosta, capo della Pirelli Russia che ha nel Paese due stabilimenti
produttivi. Prima di vedere Vladimir Putin, Renzi ha voluto incontrare i rappresentanti delle aziende
italiane per spiegare loro la strategia del governo, ma anche per capire come stiano realmente le
cose. Dopo anni di continua crescita dell'interscambio, gli ultimi mesi hanno visto una inversione di
rotta decisa. Anche gli investimenti di imprenditori in Russia, vale a dire aperture di fabbriche e
negozi, sono scesi sensibilmente, vista la situazione generale . I dati del 2014 indicano una caduta
dell'interscambio del 17 per cento. Sono scese le nostre importazioni di gas e petrolio russo, a
causa dell'inverno particolarmente mite e del calo dell'attività economica in Italia. E sono diminuite
le esportazioni italiane. Complessivamente, però, il quadro rimane assai sbilanciato, visto che per le
importazioni spendiamo quasi 36 miliardi di dollari e dal nostro export ne incassiamo 13. «È
assolutamente necessario dare al più presto segnali di discontinuità rispetto a questa nuova guerra
fredda», è ancora l'opinione di Fallico. Il banchiere italiano cita stime dell'Italian Trade Agency
(l'Ice), secondo i quali le esportazioni degli Stati Uniti verso la Russia sono salite del 23 per cento nei
primi nove mesi dell'anno scorso. Dati del ministero dello Sviluppo Economico russo parlano di una
crescita dell'interscambio con gli Stati Uniti del 6% per l'intero 2014. È' cresciuto particolarmente
l'import di prodotti americani: +12 per cento. Il presidente della Commissione esteri della Duma
Aleksej Pushkov è convinto che gli Usa con questa storia «ci stiano facendo i soldi». Parecchi
imprenditori italiani non la pensano diversamente, magari anche perché vivono in Russia da
decenni. Certamente per le nostre imprese è, in alcuni casi, un vero e proprio «bagno di sangue».
Secondo i dati di Intesa San Paolo, nei settori colpiti dalle sanzioni il crollo su base annua è stato del
38 per cento. «E le sanzioni sono partite solo a settembre», precisa Fallico. Di imprese italiane
impegnate direttamente in Russia ce ne sono molte e lavorano in quasi tutti i settori. Indesit e
Candy negli elettrodomestici; Cremonini e Ferrero nell'alimentare, poi Pirelli, Iveco, Marcegaglia e
tanti altri. Finmeccanica produce aerei ed elicotteri con partner russi, Enel ha le centrali elettriche.
L'Italia è il secondo partner commerciale in Europa e in Russia ci sono oltre 400 aziende
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Sommario
rappresentate direttamente, oltre a sette banche. Anche in piena crisi, la Russia non cancella i suoi
programmi di investimenti in grandi opere che per i prossimi anni ammontano a 400 miliardi di euro.
Le nostre imprese contavano di essere protagoniste di questi progetti che, tra l'altro, comprendono
anche tutte le infrastrutture necessarie per i campionati del mondo di calcio, per ora confermati
nel 2018. Il rischio concreto è che altri Paesi vadano a occupare tutte quelle posizioni lasciate
libere dall'Italia.
LA REPUBBLICA
Il Made in Italy spera nella ripresa "Troppi danni se soffre Mosca"
La svalutazione del rublo e crollo del prezzo del petrolio danneggiano le capacità di acquisto
Luca Pagni
Non sono preoccupate per le sanzioni, che toccano più che altro il settore agro-alimentare, il più
penalizzato dal blocco delle importazioni. Chiedono, ovviamente, una soluzione politica del
conflitto con l'Ucraina e la fine della nuova "guerra fredda" con l'Occidente: ma soprattutto si
augurano che la Russia inverta la tendenza e si riprenda il prima possibile dalla crisi economica. A
danneggiare le imprese italiane che lavorano con Mosca, così come i loro concorrenti in tutta
l'Eurozona, più che le sanzioni sono il crollo del prezzo del petrolio e la svalutazione del rublo. Le
vendite di greggio e di gas rappresentano oltre l'80 per cento dell'export russo, nonché della
capacità del Cremlino di fare cassa, visto che la quota principale delle esportazioni è coperta dai
contratti di Gazprom, il colosso a controllo statale. Così, la diminuzione degli investimenti pubblici è
destinata a provocare il crollo del Pil per il 2015, con una previsione di un meno 4 per cento. In
questo clima, le aziende italiane l'anno scorso hanno perso oltre 1,2 miliardi di valore nelle
esportazioni in Russia: avevano raggiunto i 10 miliardi nel 2013, sono scese a 8,8. Perdite pesanti
che però - come riferisce un rapporto del centro studi di Intesa Sanpaolo citato da Il Sole-24 Oresono imputabili alle sanzioni soltanto per il 5 per cento (un totale di 60 milioni di euro scarsi). E
toccano soprattutto il settore agro-alimentare, che infatti ha chiesto un aiuto economico a livello
europeo. I dati che riguardano il vino raccontano bene la situazione: l'Istituto per il commercio
estero (Ice) stima che tra il 2012 e il 2013, la Russia abbia aumentato le sue importazioni di vino
dell'11,88 per cento, per un valore di 911 milioni di euro. In questa partita, l'Italia ha avuto un ruolo
primario: suo è il primo posto per vendite con 260,4 milioni, seguito dai 206,2 milioni della Francia.
Nei primi otto mesi del 2014, la Russia ha ridotto quasi del 5% le importazioni di vino: creando
dunque un danno principalmente all'Italia. Diversa è la situazione delle imprese che lavorano
direttamente in Russia, avendo aperto stabilimenti o rilevato aziende locali. La svalutazione del
rublo pesa non poco sui loro fatturati. Fra di esse ci sono alcuni dei nomi più importanti tra le
società quotate in Borsa: a partire da Eni. La controllata Saipem - uno dei leader mondiali per la
realizzazione di impianti per l'estrazione e il trasporto di idrocarburi - ai primi di dicembre è crollata
in Borsa (-10 per cento in una sola seduta) quando Gazprom ha cancellato il progetto del
gasdotto sotto il Mar Nero, un contratto che da solo valeva 2 miliardi di dollari. Del resto, i rapporti
economici tra Italia e Russia sono sempre passati attraverso le imprese di Stato: l'ingresso di Enel
nel mercato delle centrali elettriche e la joint venture tra Finmeccanica e il gruppo Sukhoi
avvennero sotto il primo governo Prodi. Con Silvio Berlusconi premier ci furono le ricontrattazioni per
le forniture di gas per Eni, mentre fu Enrico Letta a firmare l'accordo per la costituzione di un fondo
paritetico da un miliardo di euro per investimenti comuni, mettendo a disposizione i soldi della
Cassa Depositi Prestiti. Accordo, non per nulla, citato da Vladimir Putin per sbandierare l'Italia
come uno dei «partner privilegiati della Russia nel mondo».
IL VENERDI’ DI REPUBBLICA
Moltissimi consumatori si affidano ai servizi di maggior tutela. Che da 2018 spariranno
Elettricità e gas. Il mercato libero convince pochi, ma...
Gianluca Baldini
C'era una volta un mercato, quello dell'energia, che era completamente controllato dallo Stato. Il
prezzo offerto era uno solo: quello deciso dal governo. Poi Bersani e Letta ci misero lo zampino con
due decreti ad hoc e il mercato venne liberalizzato (il primo gennaio 2003 per l'energia elettrica, il
primo luglio 2007 per il gas). In molti gridarono alla rivoluzione: la possibilità di scegliere il fornitore di
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Sommario
gas e luce avrebbe dovuto creare un clima di concorrenza tale da portare a prezzi molto ma
molto più bassi. Nel 2015 la situazione è questa. I clienti del mercato definito «a maggior tutela»,
quelli cioè le cui condizioni economiche e contrattuali sono regolate dall'Autorità per l'energia
elettrica e il gas (Aeeg) e non dal mercato libero, sono ancora la maggior parte. A sostenerlo è la
stessa Autorità nell'annuale monitoraggio relativo agli anni 2012- 2013. Secondo l'indagine, solo il 25
per cento dei clienti domestici ha scelto il passaggio al libero mercato nel settore elettrico e
ancora meno sono quelli che lo hanno scelto per il gas: solo il 22 per cento. La settimana scorsa,
con il ddl concorrenza, il governo Renzi ha introdotto nuove regole: per il gas e l'energia elettrica è
stata decisa l'eliminazione completa della tutela da parte dell'Aeeg, anche se solo a partire dal
2018. Nell'attesa vale la pena di fare due conti per capire quale sia la situazione odierna. Secondo
uno studio di Facile.it aggiornato a settembre 2014, i cittadini del nostro Paese pagano l'energia
elettrica circa il 9,3 per cento in meno rispetto ai prezzi praticati in Germania, Regno Unito, Francia
e Spagna. Meno bene ci va invece con i prezzi del gas, più alti della media europea: in questo
caso paghiamo circa il 15,3 per cento in più. Perché? In Italia si fanno sentire tasse e imposte, che
rappresentano il 37 per cento della spesa totale (contro, ad esempio, l'11 per cento del Regno
Unito). Tutto ciò pur essendo il costo della materia prima e della distribuzione piuttosto basso
rispetto ad altri Paesi europei, come dichiarato dalla stessa Autorità per l'energia. Ad ogni modo,
se si ha la pazienza di spulciare le varie offerte, spesso cambiare operatore conviene. Secondo le
stime di Facile.it si possono risparmiare fino 50 euro all'anno scegliendo il contratto di fornitura di
energia elettrica giusto e circa 100 euro facendo lo stesso con quello per il gas.
LA STAMPA
Il vertice italo-russo a Mosca
Meno vendite e prezzi in discesa per lo Zar il gas è un'arma spuntata
L'export verso l'Ue giù del 13,8% e si fanno avanti i concorrenti. La crisi dei consumi interni però
penalizza le aziende europee
Anna Zafesova
Vladimir Putin complimenta l'Italia come «partner privilegiato» e dice di non riuscire a ricordarsi un
settore dove russi e italiani non cooperino, e ovviamente il primo a venirgli in mente è l'energia. Ma
il gas, tormentone e terrore mediatico degli anni scorsi, sembra il grande assente della partita
diplomatica in corso con Mosca. La paura che il Cremlino chiuda il rubinetto è sparita non solo
perché è in arrivo la primavera, ma il consumo di metano russo in Europa è già diminuito
visibilmente. Nel 2014 Gazprom ha toccato il minimo degli ultimi 20 anni, riducendo le esportazioni
nei Paesi Ue del 13,8%. Per l'Italia il calo è ancora più significativo, 14,4% in meno. Per altri Paesi
ancora più dipendenti in passato dal gas russo i numeri sono più alti: un quarto in meno per
l'Austria, il 35% in meno per la Repubblica Ceca. Il metano di Putin all'improvviso non sembra più
cercato e desiderato da tutti. Gli unici ad aver aumentato, seppure di poco, gli acquisti di gas
russo sono gli olandesi e i danesi. Colpa di un inverno mite, che ha richiesto meno consumi
energetici. Ma soprattutto colpa della politica, della crisi ucraina. Mentre i partner europei di
Gazprom cercavano di diversificare le forniture, Mosca a sua volta limitava al massimo
l'erogazione di metano attraverso l'Ucraina (da dove lo riceve anche l'Italia). Per evitare che i Paesi
europei rigirassero le loro riserve di gas a Kiev, tutelandola così dal ricatto energetico russo,
Gazprom ha ridotto al minimo l'erogazione verso l'Austria, la Slovacchia, l'Ungheria e la Repubblica
Ceca, che riversavano il loro metano all'Ucraina. Nel quarto trimestre 2014 - i dati sono tutti del
monopolio del gas russo le forniture in questi Paesi sono crollate del 40-60% e in alcuni casi i russi
sono stati perfino costretti a pagare penali agli acquirenti. Trasformare il gas in arma della
diplomazia sembrava una mossa vincente ma ora rischia di diventare un boomerang. Erano anni
che la Russia cercava di disimpegnarsi dal transito ucraino, spostando il carico sui gasdotti nel Nord
Europa e, in prospettiva, sul South Stream, progetto definitivamente abbandonato l'anno scorso.
Ma il tentativo di lasciare a secco Kiev rischia di far perdere ai russi una quota di mercato
importante. Il calo dei prezzi del petrolio (che servono da base per i contratti del gas) spinge gli
acquirenti europei a ridurre al massimo i consumi in attesa di una revisione al ribasso del listino di
Gazprom, che secondo il ministero dello Sviluppo economico russo potrebbe arrivare al 35%,
riducendo le entrate del monopolio russo di 14 miliardi di dollari. E secondo il quotidiano
«Kommersant» molti esperti prevedono il ritorno in Europa dei produttori di gas liquido, negli ultimi
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Sommario
tempi attratti dal mercato asiatico dove i prezzi erano molto più alti. La paura che i russi per
ritorsione facciano congelare gli europei nelle loro case non pare più attuale. La «superpotenza
energetica», teorizzata a Mosca per anni, è in difficoltà, e a Putin ieri è stato presentato il bilancio
rivisto per il 2015 che prevede un prezzo del petrolio di 50 dollari al barile (invece di 96) e un
cambio del rublo verso il dollaro a 61, invece di 38. Il deficit previsto è aumentato dallo 0,6% al
3,8%, l'inflazione più che raddoppiata al 12%, e sono in cantiere nuovi tagli di spesa pubblica.
Marchi occidentali in fuga Dal settore bancario arrivano segnali di panico sull'indebitamento delle
famiglie russe, e le catene commerciali occidentali annunciano una dietro l'altra la chiusura dei
loro punti vendita russi. Mosca sta smettendo di essere il paradiso dei consumi, e questo spunta
anche l'altra arma di Putin, lo scontento degli esportatori europei per le sanzioni e le controsanzioni
grazie al quale sperava di rompere il fronte diplomatico dei 28.
MF
Col petrolio basso i produttori investono meno. Per chi consuma la festa potrebbe finire presto.
Alberto Marchi e Alessandro Agosta (partner, McKinsey)
Il mondo del petrolio, e il settore del gas a esso collegato, attraversano un periodo di crisi e di forte
incertezza. I prezzi del petrolio sono crollati (oggi oscillano tra 40-60 dollari al barile rispetto ai 100120 di un anno prima) e questo effetto si riflette già anche sui prezzi internazionali del gas. Un
recente studio di McKinsey evidenzia che i primi segnali del crollo dei prezzi del petrolio erano
emersi già a inizio 2014 e vanno ricercati nell'eccesso di offerta oltre che nella contrazione della
domanda. In particolare, la produzione di petrolio non convenzionale in Nord America ha superato
nel 2014 di oltre 1 milione di barili al giorno le previsioni della maggior parte degli analisti. Nel
momento in cui il divario tra domanda e offerta si è ampliato troppo e il gruppo dei Paesi
produttori dell'Opec non è più stato in grado di ribilanciarlo, il prezzo del petrolio, e quello del gas a
esso collegato, sono inevitabilmente crollati. Il cambiamento di scenario presenta sia aspetti
congiunturali che strutturali. Da un lato, l'analisi della volatilità dei mercati evidenzia che i
movimenti dei prezzi, sia al ribasso che al rialzo, possono essere estremamente rapidi. Dall'altro,
osserviamo una reazione strutturale delle grandi aziende petrolifere che si sono immediatamente
attivate con robuste riduzioni dei costi e un ripensamento degli investimenti nella prospettiva che la
situazione perduri per almeno tutto il 2015. Come spesso accade nei grandi momenti di
cambiamento, vincitori e vinti di ieri invertono i ruoli. Da un lato i consumatori (il prezzo medio della
benzina alla pompa a gennaio 2015 è calato del 15% rispetto al 2014, il Gpl per autotrasporto del
28%, il gasolio per riscaldamento residenziale del 16%) e i settori industriali energivori (come trasporti
e industria manifatturiera) beneficiano nel breve periodo di prezzi di petrolio e gas più favorevoli,
con stime che per l'Italia arrivano a ipotizzare un effetto pari allo 0,5% sul pil (studio Mediobanca).
Dall'altra parte, le aziende del comparto energetico, a partire dai produttori fino alla filiera
dell'indotto in cui l'Italia vanta molteplici eccellenze internazionali, soffrono per la frenata degli
investimenti e per la rapida perdita di redditività (il ritorno sul capitale investito per le major del
petrolio è sceso sotto il 10% rispetto a più del 15% nell'ultimo decennio). La conseguenze per la
filiera produttiva è che bisogna innovare per ridurre i costi. I primi effetti del crollo dei prezzi di
petrolio e gas sono il calo significativo degli utili e la frenata degli investimenti. Se prendiamo per
esempio il settore del gas, si stima che, ai livelli attuali di prezzo, oltre il 90% dei nuovi progetti sul gas
liquefatto renda poco o generi perdite. Ma c'è una via d'uscita, e questa passa per l'innovazione
del modo di sviluppare i grandi investimenti infrastrutturali in modo da ridurne i costi. Si stima che
una riduzione di almeno il 20-30% dei costi permetterebbe di tornare redditizi a molti investimenti
oggi non effettuabili. I player della filiera produttiva che saranno vincenti alla fine di questo
decennio saranno dunque quelli in grado di ottenere economie di scala e innovare per ridurre in
misura significativa i costi, tramite per esempio le piu recenti tecniche di modularizzazione degli
impianti, la semplificazione dei processi di lavoro, il ripensamento degli standard tecnici, la
collaborazione con i fornitori. È questa dunque la vera sfida per la filiera produttiva italiana, che
vanta numerose eccellenze nella tecnologia per il settore Oil & Gas (sono più di 100 le sole aziende
basate in Italia affiliate ad Assomineraria e fornitrici di beni e servizi al settore), ma spesso fatica a
espandersi all'estero e a essere competitiva su scala globale. Per parte loro i consumatori
dovranno prepararsi al futuro. La sfida per questi ultimi è duplice. L'obiettivo più a breve termine è
far sì che la riduzione dei prezzi di petrolio e gas contribuisca sia ad alleviare il costo sostenuto per
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Sommario
l'energia sia a stabilizzare o rilanciare le attività (dai trasporti alla produzione industriale). Allo stesso
tempo, però, un periodo di costi bassi, a maggior ragione se prolungato nel tempo, non deve
distogliere i settori di consumo dal perseguire con diligenza i propri obiettivi di efficienza
energetica. Il rallentamento degli investimenti in petrolio e gas da parte dei produttori nel medio
periodo non potrà infatti che condurre a un eccesso di domanda rispetto all'offerta, che è uno
degli ingredienti base per un nuovo e repentino rialzo dei prezzi.
AVVENIRE
Le conseguenze della svolta energetica
L'oro nero adesso vale poco. E l'Africa torna in sofferenza.
Meno crescita trainata dall'export in Nigeria e Angola
Alessandro Bonini
Con il petrolio a cinquanta dollari il mondo non è diventato un posto migliore. Il recente crollo delle
quotazioni ha innescato una competizione internazionale che spinge a interrogarsi su quali
potrebbero essere i futuri assetti strategici e geopolitici. Gli analisti si chiedono se a spuntarla
saranno gli Stati Uniti o la Russia, l'Arabia Saudita o l'Iran. Ma la partita più dura si gioca
probabilmente in Africa subsahariana. In un ipotetico nuovo ordine mondiale, infatti, le potenze
sopra citate vedrebbero profilarsi scenari più o meno favorevoli, ammesso che i prezzi rimangano
così bassi, ma il Continente Nero rischia di vedere sfumare innanzitutto un'occasione di riscatto. A
partire dall'inizio del secolo la scoperta di nuovi giacimenti e lo sviluppo di quelli esistenti hanno
favorito nella regione tassi di crescita secondi solo a quelli dell'Asia emergente. Molti governi
africani ne hanno approfittato per modernizzare le rispettive economie e tradurre i benefici di
questa espansione economica in un aumento dei redditi, di posti di lavoro e in migliori servizi
educativi e sanitari per i loro cittadini. econdo l'Agenzia internazionale per l'energia, il 30 per cento
dei giacimenti di petrolio e gas scoperti negli ultimi cinque anni si trova in Africa subsahariana,
regione che conta già alcuni tra i maggiori produttori mondiali, quali Nigeria e Angola. Non è un
caso che proprio questi ultimi Paesi siano quelli più colpiti dalla caduta dei prezzi del greggio. Nei
giorni scorsi il generale deprezzamento delle materie prime ha spinto il Fondo monetario
internazionale a tagliare le sue previsioni di crescita per la parte centromeridionale del Continente
africano, portandole al 4,9 per cento dal 5,8 per cento stimato a ottobre e rispetto al 5,2 per cento
nel 2016. Allo stesso tempo il Fondo ha rivisto drasticamente le previsioni sulla Nigeria, tagliandole al
4,8 per cento dal 7,3 per cento ipotizzato in precedenza. Già nel suo ultimo rapporto, il Fmi
avvertiva come Nigeria, Angola, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Sud Sudan e
Guinea Equatoriale siano fra i Paesi africani più esposti ai rischi di un rallentamento economico.
Questo perché dipendono dalle oscillazioni del greggio più di altri "Stati petroliferi" mondiali, sia sul
lato delle entrate fiscali sia su quello delle esportazioni. E siccome nella regione i contrasti sociali
sono ancora fortissimi, i rimedi devono essere pensati in modo da evitare conseguenze peggiori. n
eccesso d'austerità potrebbe inasprire le disuguaglianze, minacciando la stabilità e
compromettendo il potenziale di sviluppo. In prima linea c'è proprio la Nigeria, la nazione più
popolosa del Continente, già vittima dell'offensiva sempre più implacabile degli islamisti di Boko
Haram. Il Paese Opec è il maggiore produttore dell'Africa subsahariana. Le sue riserve sono stimate
tra i 16 e i 22 miliardi di barili. Il governo di Abuja genera il 75 per cento delle proprie entrate fiscali
dal petrolio, ma queste sono crollate di pari passe con le quotazioni dell'oro nero. Il Fmi ha
auspicato che dopo le prossime elezioni il governo tagli i sussidi sulla benzina, approfittando anche
del prolungato calo del greggio, che andrebbe a riequilibrare il prezzo dei carburanti. Nelle scorse
settimane il prezzo della benzina è stato abbassato, ma per il momento i sussidi non sono stati
toccati. Il ministero del Petrolio ha precisato che la decisione è stata presa come «riflesso della
realtà economica globale» e non per fini elettorali. Fra le ragioni del mancato gettito c'è anche
l'aumento della produzione americana, che ha portato a una diminuzione della domanda da
parte degli Stati Uniti. onostante gli sforzi del governo resta inoltre irrisolto il problema dei furti di
petrolio. Come se non bastasse, i timori sulla tenuta dell'economia nigeriana, tanto dinamica
quanto fragile, hanno provocato una fuga di capitali e l'anno scorso la moneta locale è crollata.
Per difendere la Naira, la banca centrale ha dovuto impiegare il 15 per cento delle proprie riserve.
A novembre l'istituto ha alzato i tassi d'interesse al livello record del 13 per cento, ma ciò non è
bastato a tenere a freno la corsa dell'inflazione, che a causa del deprezzamento della moneta
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Sommario
potrebbe raggiungere quest'anno la doppia cifra. Il governo dell'Angola si è invece rassegnato a
varare una manovra correttiva sui conti pubblici, per compensare le pesanti ricadute sulle entrate
derivanti dal crollo dei prezzi del petrolio di cui è il secondo maggiore produttore dell'Africa
subsahariana. L'80 per cento del gettito fiscale del Paese deriva dall'oro nero e il bilancio 2015 era
stato varato prendendo a riferimento un barile a 81 dollari. Nella nuova bozza, basata su un prezzo
medio di 40 dollari al barile, il governo ha proposto un taglio pari a 17 miliardi di dollari. L'esecutivo
prevede ugualmente un deficit pari al 7 per cento del Pil, con una crescita stimata al 6,6% e un
tasso d'inflazione all'8 per cento. Non la pensano così alcuni economisti, che pronosticano invece
una crescita del tre per cento quest'anno, dopo il quattro per cento del 2014 e il picco del 12 per
cento registrato nel 2012. La legge dovrà essere ratificata dal Parlamento. Più di un angolano su
due, il 54 per cento della popolazione, vive con meno di due dollari al giorno e il miglioramento
delle condizioni di vita è uno dei punti chiave promessi dal presidente José Eduardo, che nel 2017
dovrà ripresentarsi alla prova del voto elettorale. Anche in Africa esiste però il rovescio della
medaglia: i Paesi importatori, fra cui soprattutto il Kenya e la Costa d'Avorio, potrebbero
beneficiare della nuova congiuntura grazie a un taglio significativo della bolletta energetica.
Infine, ci sono i Paesi protagonisti delle scoperte più recenti, in bilico fra la minore convenienza dei
propri giacimenti, a causa del dimezzamento dei prezzi del petrolio, e la volontà delle compagnie
di continuare a scommettere su di essi: fra questi Ghana, Ciad, Niger, Uganda e lo stesso Kenya,
oltre al Mozambico dove è presente in forze l'Eni. Il colosso petrolifero italiano è il primo operatore
internazionale del settore in Africa. La società ottiene nel continente oltre la metà della propria
produzione complessiva. Dal 2008 al 2013, Eni ha scoperto a livello mondiale 9,5 miliardi di barili di
nuove risorse, buona parte dei quali nel continente africano. Le scoperte più importanti sono state
effettuate in Angola, Congo, Gabon, Ghana e appunto in Mozambico, dove Eni ha effettuato la
più importante scoperta di gas della sua storia: circa 2.400 miliardi di metri cubi, corrispondenti a
oltre 30 volte la domanda annua italiana.
IL MATTINO
L'analisi
Il premier: in Libia Putin sarà decisivo
Angelantonio Rosato
L'Italia è il secondo partner commerciale della Federazione Russa, malgrado il recente calo
dell'interscambio pari al 10%. Solo la Germania ha un volume d'affari superiore. In Russia sono attive
circa 500 aziende italiane. I prodotti più rilevanti del nostro export sono macchine e apparecchi
meccanici, tessili, articoli in cuoio e arredamento. Dall'Europa partono merci, mentre dalla Russia
arriva soprattutto energia. Nel complesso 163 miliardi di euro: 160 milioni di tonnellate di petrolio e
125 miliardi di metri cubi di gas naturale. Il 30% del gas consumato nei Paesi europei (non solo quelli
Ue) è russo e l'Italia, dopo la Germania, è la maggior acquirente. Da Mosca acquistiamo infatti
petrolio per circa il 15% delle nostre importazioni e gas per il 30%. Tra Italia e Russia esiste
un'oggettiva interdipendenza energetica, utile ad entrambi, ma soprattutto a Roma. Se nel breve
periodo una riduzione delle forniture russe avrebbe poche conseguenze, nel medio/lungo i prezzi
potrebbero rialzarsi e l'Italia diventerebbe molto più vulnerabile e dipendente dalle forniture di
Paesi instabili come la Libia. ENI, ENEL e Saipem sono molto attive in Russia. ENI ha un'intesa
strategica pluridecennale con Mosca, sin dai tempi della guerra fredda. Un'intesa che continua e
si rafforza. L'energia è la voce più rilevante, ma anche la cooperazione industriale si fa più intensa
tra i due Paesi. Tra le partnership più prestigiose l'accordo siglato nel 2012 tra Fiat e Kamaz per la
realizzazione di macchine agricole e veicoli industriali nello stabilimento di Naberezhnye Chelny,
l'intesa tra Norislskij Nickel e il gruppo Techint per un valore di oltre 1 miliardo di dollari, la
costruzione dell'elicottero Aw-139 da parte di AgustaWestland a Tomilino e gli stabilimenti del
gruppo agroalimentare Cremonini che nel 2010 ha investito 100 milioni di dollari in un complesso
industriale vicino a Mosca, dedicato alla distribuzione del Made in Italy e alla produzione di
hamburger. Da non dimenticare poi gli investimenti diretti del gruppo alimentare De Cecco.
Parallelamente è cresciuta anche la cooperazione nei settori finanziario, bancario e degli
investimenti. Nel luglio 2012 Cassa depositi e prestiti, Intesa Sanpaolo, Sace, Société Générale, Kfw
Ipex- Bank e Vtb Bank Russia hanno stretto un'intesa per finanziare con 500 milioni di euro il gruppo
italiano De Eccher per la costruzione del Vtb Arena Park: un complesso di alberghi, appartamenti,
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Sommario
uffici e relative infrastrutture inseriti nel progetto di riqualificazione dell'area attorno allo stadio della
Dynamo Mosca, in vista del Mondiale di calcio che la Russia ospiterà nel 2018. Unicredit Banca è
l'ottavo istituto di credito del Paese in termini di asset e prima banca straniera. Banca intesa risulta
tra i primi cinque istituti per credito alle piccole e medie imprese in Russia. Intesa Sanpaolo ha
impegni importanti a Mosca che riguardano vari settori dell'economia. In particolare gli interventi
diretti che sono stati realizzati in grandi progetti infrastrutturali e industriali. Intensa è pure l'attività
degli investitori russi in Italia, in particolare nel settore energetico (Gazprom, LuKoil e Renova),
siderurgico (Severstal, RusAl, Evraz), e in altri comparti, come testimoniato, ad esempio, dalla
recente acquisizione da parte di Russkij Standard della casa vinicola Gancia e della Wind da parte
della Vimpelcom. È dell'anno scorso l'ingresso di Roneft in Pirelli con una quota del 13% rilevata da
banche e fondi d'investimento (Unicredit, Intesa Sanpaolo e Clessidra). La Russia è anche un punto
di riferimento per l'offerta turistica italiana con grandi possibilità di sviluppo. Secondo un rapporto
diffuso dal ministero degli Esteri italiano e redatto in collaborazione con l'Agenzia nazionale del
turismo, nel 2012 più di 15,3 milioni di turisti russi si sono recati all'estero, 6% in più rispetto al 2011. I
flussi turistici in uscita sono i primi, come entità, nell'ambito dei Paesi BRICS: i Russi fanno 1,3 volte più
viaggi all'estero dei Cinesi, 3,4 rispetto agli Indiani e 4,6 in più dei Brasiliani. Il numero dei viaggiatori
aumentato negli ultimi cinque anni del 50%, (rispetto al 41% dei Cinesi), anche se l'attuale crisi
economica ed il deprezzamento del rublo stanno riducendo i flussi. Il margine di crescita del
mercato rimane tuttavia ancora ampio, poiché attualmente solo il 15% dei 141 milioni di abitanti
della Russia viaggia all'estero. Secondo i dati di Banca d'Italia, la spesa turistica russa in Italia nel
2012 è stata pari a 1,191 miliardi di euro (nel 2011 era di 925 milioni). Il secondo dossier riguarda l'IS
(Islamic State), la Libia ed il Mediterraneo, temi sensibilissimi per Roma. Ma pure Mosca ha rilevanti
interessi in questo scacchiere: la Siria di Assad è un alleato storico di Mosca, e la questione dell'Isis
non può non impensierire Putin. Il Cremlino, isolato internazionalmente a causa della Crimea e del
Donbass, cerca un ruolo da protagonista nel Mediterraneo. Renzi può lavorare su queste leve al
fine di ottenere l'avallo russo (membro permanente del Consiglio di Sicurezza) ad una risoluzione
ONU per sbloccare l'embargo di armi ai libici nostri amici, e magari imporre il blocco navale. Si
potrebbe persino arrivare in futuro ad una missione di peace enforcing nel Paese nordafricano, ma
i tempi non sono ancora maturi. In ogni caso, l'appoggio russo in sede ONU, e non solo, è
fondamentale. Il terzo dossier si chiama Ucraina. Il premier italiano cerca l'appeasement con
Mosca, senza però rompere l'unità del fronte europeo rappresentato recentemente a Minsk da
Germania e Francia. Infatti, Renzi sta ripercorrendo gli stessi passi di Merkel ed Hollande: prima di
incontrare Putin, è stato a Kiev per vedere il presidente Poroshenko. Una visita di cortesia quella a
Kiev, ma il vero interesse dell'Italia è a Mosca: è importante far riavvicinare la Russia all'Europa, che
non vengano inflitte nuove sanzioni e, se possibile, che vengano tolte quelle in vigore. Infatti queste
colpiscono indirettamente (a causa delle contro-sanzioni russe) ma pesantemente anche le
aziende italiane, soprattutto nell'export agro-alimentare verso il Paese slavo, contribuendo a
ritardare la nostra ripresa economica. In conclusione, a Mosca è riuscito il presidente del Consiglio
a salvare capra (interesse nazionale italiano) e cavoli europei? Forse sì, ma non basta una
missione. I tempi della diplomazia sono lunghi, i problemi sono complessi ed il solco tra Mosca e
Occidente si è fatto profondo. Siamo solo all'inizio di un percorso. I russi sono molto suscettibili e
sospettosi, per natura e per quanto è accaduto dal crollo dell'Unione Sovietica. Con Mosca
occorre avere pugno d'acciaio in guanto di velluto, qualità che Renzi ha dimostrato di avere in
patria. Speriamo che le abbia anche all'estero.
INTERNAZIONALE
Gli algerini in piazza contro il fracking
Gli abitanti di In Salah, in Algeria, protestano da due mesi contro le esplorazioni delle riserve di gas
di scisto. Il 28 febbraio ci sono stati i primi scontri con le forze dell'ordine
Yazid Alilat, Le Quotidien d'Oran, Algeria
Dopo due mesi di proteste, gli attivisti che nel centro dell'Algeria si battono contro i progetti per
l'estrazione del gas di scisto potrebbero aver ottenuto il loro primo successo. Secondo alcune
testimonianze, il 27 febbraio l'azienda statunitense Halliburton e le francesi Schlumberger e Total
hanno tolto le loro attrezzature per la trivellazione e la fratturazione idraulica ( frack ing ) dal
bacino di Ahnet, uno dei siti per l'esplorazione del gas di scisto individuati dall'azienda energetica
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Sommario
di stato algerina Sonatrach. Non è chiaro, però, se le aziende siano state costrette a lasciare il sito
a causa delle proteste degli abitanti o semplicemente perché le squadre incaricate di valutare il
potenziale del bacino hanno concluso la loro missione. Nel frattempo a In Salah, la città diventata
l'epicentro delle proteste contro il frack ing , la tensione resta alta. Il 28 febbraio e il 1 marzo sono
scoppiati dei violenti scontri tra migliaia di manifestanti e gli agenti della gendarmerie . Il 28
febbraio gli attivisti per la difesa dell'ambiente a In Salah hanno circondato l'edificio
dell'amministrazione locale ( daïra ) e forzato il cordone di sicurezza formato dalle forze
antisommossa. Gli agenti hanno usato i gas lacrimogeni, ferendo alcune persone. Molte altre sono
state arrestate. La Lega algerina per la difesa dei diritti umani ha condannato l'intervento della
gendarmerie e ha chiesto la liberazione delle persone fermate. Richiamo internazionale Il livello di
mobilitazione nell'Algeria centrale è molto alto. Il movimento contro il frac king si sta espandendo
dopo l'arrivo di ecologisti stranieri che hanno risposto all'appello dei cittadini di In Salah. In un
comunicato pubblicato il 28 febbraio il collettivo degli abitanti ha condannato "la linea dura della
Sonatrach e le manovre delle multinazionali". Per "rispettare i contratti firmati con le aziende
straniere", si legge nel comunicato, "la Sonatrach ha deciso di procedere con il fracking e di
afidare le operazioni, accompagnate da un raforzamento straordinario dei dispositivi di sicurezza,
all'azienda statunitense Halliburton. La Sonatrach non si fermerà davanti a niente: né di fronte ai
rischi per la salute della popolazione né di fronte al pericolo di contaminazione dell'acqua e
dell'ambiente né di fronte alle foto e ai video del sito di trivellazione che mostrano fino a che punto
i lavori siano svolti all'insegna dell'incompetenza, del lassismo e dello sperpero". Di fronte
all'aumento delle proteste contro l'estrazione del gas di scisto, l'amministratore delegato della
Sonatrach ha dichiarato che non è stata ancora presa una decisione definitiva sullo sfruttamento
del gas di scisto e che "la fattibilità tecnica e commerciale del progetto non è ancora stata
accertata". Ha aggiunto che i due pozzi trivellati nel bacino di Ahnet avevano unicamente lo
scopo di valutarne il potenziale e che la Sonatrach "non risparmierà sulle misure di protezione
dell'ambiente, soprattutto delle falde acquifere". Sarà vero? Il dibattito è appena cominciato,
anche se per il momento non si registra una grande mobilitazione tra il resto della società civile
algerina.
Da sapere Nel maggio del 2014 l'Algeria ha approvato le esplorazioni delle riserve di gas di scisto,
che secondo alcune stime sarebbero le terze più grandi del mondo. Da allora sono stati trivellati
quattro pozzi nei bacini di Ahnet e Illizi, in una regione arida. Il progetto è stato criticato sia per le
conseguenze ambientali sia per quelle economiche. L'Algeria è il primo produttore di gas e il terzo
di petrolio in Africa. Ma la sua economia non è diversificata e ha subìto un duro colpo dopo il calo
del prezzo del petrolio.
STAFFETTA QUOTIDIANA
La scelta di Berlino
Consultazione pubblica per riforma del mercato elettrico
G.B. Zorzoli
Neanche a me, con la sua petulante richiesta di fare (bene) i compiti a casa, il governo di Berlino
è particolarmente simpatico. Tuttavia, il Libro Verde sulla riforma del mercato elettrico tedesco
nella fase di transizione verso il 2050 (quando almeno l'80% del power mix dovrà essere coperto da
rinnovabili) mi obbliga, almeno parzialmente, a ricredermi. È un documento di consultazione del
governo tedesco (v. Staffetta 05/03), dove vengono sostanzialmente poste due alternative. La
prima, denominata “Electricity market 2.0”, si limita a introdurre una serie di modifiche agli attuali
meccanismi di mercato. All'intermittenza della produzione eolica e fotovoltaica si risponde
massimizzando la flessibilità della produzione tradizionale e della domanda, avvalendosi
dell'apporto degli accumuli e sfruttando la capacità virtuale, resa disponibile dallo sviluppo del
market coupling. Altri contributi potranno venire da una maggiore integrazione con la
produzione/consumo di calore e con il trasporto. La stessa volatilità dei prezzi rappresenta il
principale incentivo allo sviluppo della flessibilità in tutte le articolazioni del sistema elettrico.
Insomma, per rispondere ai problemi aperti dalla transizione energetica in modo non solo
ambientalmente adeguato, ma anche cost effective e sicuro, è sufficiente sfruttare le potenzialità
del mercato della flessibilità, che è in grado di fornire i segnali di prezzo richiesti per garantire la
capacità necessaria a soddisfare la domanda dei consumatori. L'alternativa proposta nel Libro
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Sommario
Verde è il mercato della capacità, presentato in tre versioni diverse, di cui una coincide
sostanzialmente con quella adottata in Italia. Esso si basa sull'ipotesi che l'attuale mercato elettrico,
anche se ottimizzato, non riuscirà a garantire la capacità necessaria. Una struttura centrale (in
Italia è Terna) stabilisce quindi qual è la capacità minima che deve rimanere disponibile e la
remunera (in Italia sulla base di un'asta competitiva con un floor price). Il Libro Verde afferma
esplicitamente che questo onere aggiuntivo sarà a carico dei consumatori, il decreto attuativo
italiano afferma invece che sarà “senza aumento dei prezzi e delle tariffe dell'energia elettrica per
i clienti finali” (come, non viene però chiarito). Il Libro Verde non nasconde la sua preferenza per
l'“Electricity market 2.0”, anche sulla base del parere di un team di esperti che, rifacendosi in
particolare alle esperienze americane, sottolineano: a) le difficoltà di organizzare il capacity
market in modo corretto; b) l'elevata probabilità di interventi, per diversi anni, volti a modificarne gli
aspetti critici; c) i maggiori costi per il sistema (9 miliardi/anno); d) i rischi considerevoli in termini di
complessità gestionali, di inefficienze, di irreversibilità e di minori stimoli allo sviluppo della flessibilità.
Il confronto tra le due opzioni (che occupa 15 dense pagine) è preceduto da circa 35 pagine,
dedicate a un accurata analisi dell'attuale funzionamento del sistema e del mercato elettrico e ad
una serie di misure – tecniche, economiche, politiche, ambientali - che vanno comunque prese
per garantire il buon funzionamento dell'insieme, indipendentemente dall'opzione scelta.
Qualunque sia il giudizio sul documento e sulle strategie che propone, alcune conclusioni sono
indiscutibili. Prima di scegliere, il governo tedesco ha deciso di indire una consultazione pubblica,
dando spazio e ascolto a tutti coloro che sono “coinvolti” nel futuro del mercato elettrico tedesco.
E lo fa fornendo informazioni adeguate a chi intende avanzare osservazioni, critiche, proposte,
senza nascondere quelle che per qualcuno possono risultare sgradevoli. Anche da noi si elogia la
ricerca di maggiore efficienza, ma non ho ricordo di un documento ufficiale dove, come nel Libro
Verde tedesco, si affermi esplicitamente che in tal modo si riduce la necessità di produrre energia
elettrica, per cui, dato il crescente apporto delle fonti rinnovabili, è inevitabile una significativa
dismissione di centrali alimentate da combustibili fossili. Inoltre, a differenza di quanto è accaduto
in Italia, malgrado consideri più appropriato il mercato della flessibilità, il governo tedesco ha
ritenuto la scelta così importante per il futuro energetico del paese da rendere necessaria una
consultazione aperta a tutti gli stakeholder. Sì, i tedeschi si comportano spesso in modo antipatico,
ma qualche giustificazione gliela dobbiamo concedere.
QUOTIDIANO ENERGIA
Entso-E: "Cambiare l'interfaccia tra Tso e Dso"
Le proposte per la transizione e per l'Unione energetica
"C'è bisogno di cambiare l'interfaccia tra i Tso e i Dso per sbloccare il potenziale dei consumatori,
dei produttori elettrici e degli attori del bilanciamento". E' la motivazione che ha spinto
l'associazione degli operatori dei sistemi di trasporto dell'elettricità (Entso-E) a mettere a punto
il position paper "Towards smarter grids: developing Tso and Dso roles and interactions for the
benefit of consumers", che affronta le questioni dell'assetto del mercato, delle operazioni del
sistema, della pianificazione delle reti e della gestione dei dati. In particolare, Entso-E ritiene che i
consumatori devono poter partecipare a tutti i mercati e che, di conseguenza, i Tso e i Dso hanno
il compito di fornire un appropriato quadro di mercato. Inoltre, Tso e Dso dovrebbero lavorare con
le autorità di regolazione al fine di determinare i requisiti per la "osservabilità" e la "gestione attiva"
della generazione distribuita e della risposta sul lato della domanda. Secondo il position paper, i Tso
e i Dso "devono avere un quadro di governance chiaro e coerente", anche se, considerate le
diversità esistenti a livello nazionale, non vi è una soluzione univoca per tutti i Paesi europei. Entso-E
ha pubblicato anche un documento contenente le raccomandazioni dell'associazione per
definire e applicare l'Unione energetica, per la quale è innanzitutto necessario attuare pienamente
tutte le legislazioni esistenti (a cominciare dai 10 codici di rete per l'elettricità). Occorrerà inoltre
facilitare gli investimenti nelle infrastrutture di trasporto attraverso un piano paneuropeo e
coordinare maggiormente le azioni degli Stati membri Ue in materia di mix energetico e politiche
per la sicurezza degli approvvigionamenti, nonché aggiornare l'attuale assetto del mercato per
integrare le rinnovabili. Infine, dovrà essere accresciuto il potere dei consumatori finali e favorita
l'innovazione e le nuove tecnologie.
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Effetti sentenza Robin tax, si attendono informazioni in Senato
All'indomani della Consulta D'Alì (FI) aveva chiesto al Governo di riferire sulle conseguenze dello
stop alla maggiorazione Ires
Si attendono informazioni del Governo in commissione Bilancio del Senato sugli effetti finanziari
della sentenza della Corte Costituzionale sulla Robin tax. Il presidente della V commissione, Antonio
Azzollini, ha annunciato martedì che verrà a breve elaborato un calendario dei lavori che tenga
conto di tutte le richieste di approfondimenti avanzate dai senatori su temi di particolare rilievo, tra
cui appunto le conseguenze della cancellazione dell'addizionale Ires sul settore energetico. A
chiedere all'esecutivo di riferire sulle conseguenze dello stop della Consulta alla maggiorazione Ires
era stato il senatore di Forza Italia Antonio D'Alì, il giorno dopo la sentenza. Il viceministro
dell'Economia, Enrico Morando,- presente alla seduta della V commissione- aveva subito
confermato la disponibilità del Governo a discuterne sottolineando "la rilevanza della decisione
(della Corte, ndr), al di là dell'obiettiva difficoltà creata dal venir meno di un gettito cospicuo, la
quale per la prima volta applica espressamente il principio di equilibrio di bilancio introdotto
nell'articolo 81 della Costituzione".
La Commissione Ue conferma: "La Russia può usare il Tap"
Avviati intanto i rilievi topografici per il gasdotto nell'area di San Foca
Gazprom può usare il gasdotto Tap per trasportare il suo gas verso l'Europa. Lo ha confermato
l'advisor della DG Energia della Commissione Ue, Brendan Devlin, spiegando che se Mosca intende
realizzare la condotta Turkish Stream dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero sarà libera di
commercializzare poi il suo gas attraverso tutte le infrastrutture di trasporto dell'Unione europea,
come prevede il terzo pacchetto energia. Per il momento, ha detto Devlin intervenendo ieri a
Bruxelles alla conferenza "Refuelling Europe: The Single Energy Market and Energy Union in a postSouth Stream Environment", è improbabile che un altro grande gasdotto oltre al Corridoio Sud
possa essere realizzato nell'Europa sud-orientale, giacche "i mercati sono troppo piccoli". Ma in
futuro, ha aggiunto, la capacità di Tap potrà essere raddoppiata a 20 miliardi di mc l'anno. Tap, ha
precisato Devlin al portale "EurActiv", ha la possibilità di espandersi del 50% nel caso in cui vi sia uno
shipper diverso dall'Azerbaijan. "Non importa chi sia lo shipper e per noi non fa alcuna differenza se
si tratta di gas russo, libico o azero, perché è così che funziona il mercato interno", ha sottolineato
l'advisor. Tap, intanto, ha precisato che nella giornata di mercoledì sono stati effettuati a San Foca
(Lecce) rilievi topografici in aree pubbliche e demaniali lungo il futuro tracciato a terra del
gasdotto. Questa attività, sottolinea una nota, "non necessita di alcun genere di autorizzazione" e
"non è in alcun modo connessa con i quattro sondaggi geotecnici in aree sottoposte a vincolo
paesaggistico in prossimità della costa, che saranno effettuati non appena saranno rilasciate le
autorizzazioni necessarie".
Hera, addio tetto 50% Comuni. “Ora nuove fusioni”
Il presidente del Patto di sindacato, Manca, a QE: “Scendiamo dal 51% al 38% ma ogni socio è
libero di decidere se vendere. Si parte non prima di luglio”
di Carlo Maciocco
La discesa del controllo pubblico nelle utility sotto la fatidica soglia del 50% comincia a divenire
realtà. A fare da apripista a un processo stimolato dalle norme della legge di Stabilità è Hera. Ieri il
Patto di sindacato della società bolognese ha infatti deciso di ridurre dal 51% al 38% la quota
vincolata, lasciando però libertà ai singoli Comuni se vendere o meno il 20% svincolato (comprese
le quote fuori dagli accordi parasociali). "Si poneva l'esigenza di rinnovare per il prossimo triennio il
Patto, che è in scadenza al 30 giugno 2015 - dice a QE il presidente del Patto nonché sindaco di
Imola, Daniele Manca - e l'obiettivo primario è quello di consolidare il controllo pubblico sulla
società, non di vendere. La quota del 38% assicura comunque un ruolo decisivo ai Comuni nella
governance, pur lasciando maggiore libertà di movimento sulle quote residue. Ciò principalmente
al fine di sostenere ulteriormente la crescita di Hera, proseguendo nella strategia di aggregazioni
fin qui portata avanti: piccoli passi e con società contigue territorialmente". Manca tiene però a
precisare che la decisione presa ieri apre solo un percorso, che non avrà tempi brevi e che dovrà
essere monitorato da ciascun Consiglio comunale. Fermo restando che non tutti i Comuni
necessariamente decideranno di vendere. "L'orientamento del Con.Ami (il Consorzio azienda
multiservizi intercomunale capitanato da Imola, che detiene il 7% circa dell'utility, ndr) non è certo
per la cessione di quote - rimarca il sindaco - anche perché per noi Hera è un valore, non solo in
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Sommario
termini di dividendi ma anche di servizi sul territorio. L'eventuale collocamento sul mercato di azioni
verrà vagliato nei tempi tecnici da ciascun Comune, anche con l'obiettivo di non impattare sulle
quotazioni del titolo. Credo comunque che prima di luglio non si muoverà nulla". Per capire chi
sarà a muoversi per primo bisognerà quindi aspettare qualche mese. Anche se il sindaco di
Bologna, Virginio Merola, sembra già intenzionato a cedere almeno parte delle quote di quello
che è il principale azionista di Hera con il 10% (Consiglio comunale permettendo). Fermo restando
che, se i collocamenti sul mercato dovranno essere funzionali a nuove partnership o aggregazioni,
dovranno ovviamente essere coordinati e rispettare le tempistiche di tali eventuali operazioni.
Digitalizzazione accise, convocato il tavolo tecnico
L'11 e 12 marzo nella sede centrale di Roma delle Dogane
L'Agenzia delle Dogane ha convocato con la nota n. 24630/RU del 3 marzo il tavolo tecnico
"Digitalizzazione delle Accise" per una nuova sessione di lavori l'11 e 12 marzo a Roma, nella sede
centrale dell'agenzia. Nel corso della riunione, in particolare, verranno condivisi "gli esiti della
sperimentazione della Fase 2 del Progetto RE.TE. condotta dagli operatori e dagli uffici delle
Dogane", "le attività in corso per la gestione automatizzata dei conti garanzia", "le attività in corso
per l'integrazione nella banca dati Taric delle informazioni del settore accise" e "la determinazione
direttoriale per la tenuta informatica dei registri".
Goldman Sachs: Gnl seconda commodity dopo il greggio
Nel 2015 il gas liquefatto supererà il ferro. BG: Trading +5,1% l'anno di qui al 2025
Nel 2015 il valore del commercio internazionale di Gnl supererà i 120 miliardi di dollari, scavalcando
così il ferro e divenendo la seconda commodity mondiale dopo il petrolio. Lo afferma un rapporto
di Goldman Sachs, secondo cui la crescente concorrenza sul mercato del gas porterà gli
acquirenti ad affidarsi sempre meno ai contratti di lungo-termine e sempre più al mercato spot.
Goldman Sachs rileva che "con il separarsi dei prezzi dei contratti da quelli spot l'indicizzazione al
petrolio continuerà a perdere attrattività e il Gnl crescerà divenendo una normale commodity
valutata in base ai suoi fondamentali specifici piuttosto che a quelli di un'altra commodity,
sebbene correlata". Secondo le proiezioni di BG Group, pubblicate ieri, il trading di Gnl crescerà a
una media annua del 5,1% di qui al 2025, a seguito dell'avvio di impianti produttivi negli Usa e in
Australia e dell'emergere di nuovi mercati in Asia, Medio Oriente e regione del Baltico.
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